martedì 30 settembre 2008

MATRIMONI MORGANATICI


E’ strano, ma se dici a qualcuno quali sono i fatti veri di una mitica frottola, non s’indigna con chi l’ha raccontata, ma con te. Gli altri non vogliono che si buttino per aria le loro idee. Provano un vago senso di disagio e te ne serbano rancore. Così respingono la verità e rifiutano di pensarci.
(Da “La figlia del tempo” di Jospehine Tay, 1951
)

Dicesi matrimonio morganatico quello contratto da persona di basso rango con un sovrano, un nobile o persona di alto rango, in cui la moglie e i figli sono esclusi dai diritti di successione dinastica. Trattasi cioè di scalzacani che fanno i sudditi anziché gli uguali.

Premessa
In un precedente post avevo indicato la complementarietà, a partire dalla strage di immigrati a Castel Volturno e dalla successiva parata in quel luogo di 400 soldati-majorettes, tra l’azione eversiva mafiosa e la sceneggiata della repressione di Stato. Nel senso che se nella parte A del piano di fascistizzazione attraverso il tiro a due “paura-sicurezza” si muovono le pedine criminali ( o terroristiche: Al Qaida e 11 settembre), nella sezione B si utilizza tale pretesto per stringere i controlli polizieschi su tutta una popolazione o, rispettivamente, per radere al suolo un altro paese appropriandosi delle sue risorse. Ma come, per decenni la coalizione partiti-amministrazioni locali-industrie del Nord ha sgovernato la Campania cavando dal territoricidio profitti inenarrabili, equamente spartiti, e ora ci si vorrebbe turlupinare con il cabaret della guerra Stato-camorra. Quando poi entrambi campano di quelle discariche e di quegli inceneritori che ne hanno alimentato guadagni e potere, eliminando al contempo popolazioni di troppo. E i condottieri del primo fattore del binomio sarebbero i Berlusconi, i Cicchitto, i Dell’Utri, i Cuffaro, gli Schifani, i Bassolino! Per me, che mi occupo più volentieri di Iraq che di qualsiasi cosa, il parallelo è abbagliante: criminalità organizzata mafiosa e criminalità politico-industriale in Italia nello stesso intreccio collisione-collusione che vede l’Iran e gli Usa spartirsi le spoglie del paese più martire e più indomabile di tutti.

Ora Roberto Saviano, autore del denudamento del re chiamato “Gomorra”, su “Repubblica” (22/9/8) scrive. “I responsabili hanno de nomi. Hanno dei volti… Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo… Michele Zagaria, Antonio Iovine… i boss che comandano e che continuano a comandare e a essere liberi. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a S. Cipriano di Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? E storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo… e sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone
Come Osama Bin Laden. Sono contento di trovarmi d’accordo con colui che, in materia, la sa più lunga di tutti.

I love Obama
“Il manifesto” titola a urlo: “Obama contro l’impero”, quasi fossero Davide e Golia in scontro mortale. Eppure l’articolo, del celebre sessantottino Tom Hayden, dice tutt’altro. Semmai, contro Obama e oltre Obama, sostiene il movimento anti-Bush innescato dall’illusione dello Zio Tom afroamericano. Del resto, il “quotidiano comunista” era già transitato da una scuffia per Hillary Clinton che “sfondava il tetto di vetro del potere patriarcale” (e poco è mancato che le ginocrate del femminismo non inneggiassero anche alla fucilatrice Sarah Palin) allo scodinzolio della solita Giuliana Sgrena per la “pacificazione” ottenuta dal generale Petraeus nell’Iraq degli ininterrotti massacri bombaroli degli occupanti e della carneficine sui civili ad opera delle milizie-fantoccio filo-iraniane. Son gusti. A fronte di queste malsane passioni, gli si può anche perdonare un’intera prima pagina con il bel faccione dell’umanitario defunto Paul Newman promosso a “uno dei più grandi testimonial della sinistra americana” e salutato con lo smanceroso titolo “Lassù qualcuno lo ama” e con un editoriale introdotto dalle parole “Era il sogno americano”. Chissà cosa ne pensano coloro per i quali il sogno americano erano Sacco e Vanzetti, o Malcolm X. Tutto questo oscilla tra lo squallido e il patetico, ma va dato, con tanto di digrignar di denti, per acquisito. Questi dirittoumanisti chic riescono, pur di raggiungere l’altare innalzato dalla Cia al Dalai Lama, ansioso di riconquista e rischiavizzazione del Tibet, o quello ai tagliagole della ribellione secessionista e filo-Usa nel Darfur, a superare indenni (seppure con continua diserzione di lettori) la corda sul baratro di un'epistemologia ossimorica. Ma la doppiezza diventa addirittura schizofrenia allorchè pezzi di sinistra che si vorrebbero integri s’infilano entusiasti nei panni, tossici come quelli al colera rifilati agli indiani, cuciti dal nemico. Basta l’esempio di un circolo di Italia-Cuba che aderisce a una manifestazione per i monaci del Tibet. Dalla rivoluzionedi Fidel alla tirannia clericale feudale e schiavista.

Ma c’è qualcosa di più sconcertante in questa infatuazione per “il volto umano”, perlopiù nero, dell’establishment statunitense. Ho sottomano una delirante “lettera aperta al senatore Barak (si sono persi la c) Obama. E quanto poco ne conoscono il nome, tanto poco hanno percepito da una pur facilissima lettura della biografia e delle posizioni attuali del candidato che quell’establishment ha messo sul palcoscenico del teatrino per far credere che ci sia un’alternativa al cattivone: Pulcinella e il diavolo. E’ una costante dell’imbroglio di massa. Da noi Confindustria, vaticano, massoneria e mafia hanno fatto fare il diavolo a Berlusconi e Pulcinella al bombarolo D’Alema, prima, poi al finto tonto Prodi, poi al pongo in liquefazione Veltroni. Carta vince, carta vince, carta vince. Che prevalga il diavolo, Pulcinella, o si chiuda baracca e burattini e arrivi il castigamatti.
La lettera è stata scritta da due che si firmano Miriam Pellegrini, partigiana di Giustizia e Libertà, e Spartaco Ferri, partigiano della Divisione Garibaldi. Bravissime persone. Che, non solo hanno trascurato di dare un’occhiata attenta al soggetto della loro perorazione, ma sembrano anche aver scordato quanto altri “americani buoni” fecero a partigiani al tempo della guerra di liberazione. Guerra di liberazione fatta solo dai partigiani. Gli altri facevano la “guerra di colonizzazione”, sostituendosi pari pari ai tedeschi. Ci vuole a sinistra un personaggio lucido come Sandro Curzi – mi ricordo – a esternare rimpianto per gli “americani tanto bravi quando ci liberarono” e riprovazione per “come si sono evoluti adesso”. Di lucido, dopo una carriera di cechiobottista, gli è rimasto il cranio. Non c’è soluzione di continuità, neanche etica, nell’imperialismo yankee.

Scrivono i due: Caro senatore, speriamo fortemente che Ella (!) arriverà a coprire il ruolo di Presidente degli Stati Uniti per portare alla casa bianca un vento innovatore che guardi agli uomini di tutto il pianeta con lo stesso rispetto e operando affinchè godano tutti degli stessi diritti umani, civili e sociali. I due autori, benintenzionati quanto sprovveduti, incauti e quindi pericolosi ai compagni male informati, arrivano al diapason dell’apprezzamento quando proseguono: Sappiamo che Ella (!) è contrario alla guerra, che Ella crede nei risultati di un dialogo rispettoso e soprattutto che Ella (!), da buon patriota, vuol dare agli Stati Uniti un’immagine “democratica”. Mescolando una causa buona con una fiducia assolutamente malposta, i due anziani ex-partigiani assicurano a Obama imperitura amicizia qualora decidesse di scarcerare i cinque cubani detenuti negli Usa per aver denunciato le trame terroristiche della mafia di Miami. La lettera si chiude così: “Con la certezza di poterla salutare come il portatore di un positivo vento innovatore negli Usa che ne ha (sic) tanto bisogno, La salutiamo cordialmente”.

Questa lettera è un vero disastro e addolora che un simile delirio vanti le firme, dunque, l’autorevolezza, di due vecchi combattenti contro dittature, nazifascismo, imperialismo.
L’ingenuo o sconoscente potrebbe anche dargli retta, con ulteriore varchi nel fronte della resistenza anticapitalista ed antimperialista. Perché qui si accredita delle migliori qualità e intenzioni uno che non è che un gaglioffo perfettamente allineato con la delinquenza politica, economica, sociale, militare, che governa il suo paese e si mangia gli altri. Ma non hanno, Miriam e Spartaco, ascoltato le dichiarazioni di ripugnante servilismo con le quali Barack Obama si è voluto identificare con il nazisionismo genocida israeliano? Non lo hanno sentito promettere più guerra, bombe e distruzione ai riottosi Afghanistan e Pachistan, piangere con i poveri georgiani del brigante Saakashvili, cui è andato male lo sterminio degli osseti, e con i lama nostalgici del signoraggio su vita e morte dei tibetani, condividere con il nazista McCain quasi tutto nell’ultimo confronto televisivo, compreso il furto di 700 miliardi ai cittadini statunitensi per salvare i predatori delle banche fallite? Non hanno capito che questo regalino all’elite saprofita di Wall Street significa che la metastasi economico-finanziaria che infesta gli Usa e il mondo avrà da Obama il solito trattamento: privatizzare i profitti e socializzare le perdite? Quando il boia vicepresidente Dick Cheney è uscito dal ristorante trasteverino - e a protestare contro la presenza del serial killer numero uno non c’erano stati che dieci statunitensi e tre “comunisti uniti” – la gente gli ha gridato “Viva Obama”. Ma quelli non erano compagni, non erano partigiani, non erano tenuti a sapere quanto sa un compagno, erano frequentatori fighetti e tranquilli passeggiatori del rione turistico. Gli si può perdonare. Anche perché quel Viva Obama era in sostanza un “Abbasso Bush” un “Yankee go home”. Insieme all’imbecille nazista McCain e alla sua pitbull da combattimento dell’Alaska, Barack Obama vuole che l’imperialismo nordamericano abbia il diritto di spedire le sue forze militari in tutto il mondo, di attaccare, invadere, occupare polverizzare qualsiasi paese che il “comandante in capo” ritenga meritevole di tali attenzioni, con preferenze maccainiane per l’Iraq (cui Barack pure assegna la paternità dell’11/9 e del terrorismo) e dell’altro per l’Asia centrale e meridionale. Nulla poi divide i due gangster circa lo sterminio dei somali e la disintegrazione del Sudan. Con una sola voce entrambi hanno minacciato di apocalissi l’Iran e la Russia.

Concludendo, Obama dichiarava che lui e McCain condividono il quadro generale della difesa degli interessi di una classe dirigente di delinquenti, sia a casa che fuori. Niente di più e niente di meno di quanto è stato il tratto di fondo del Partito Democratico da Kennedy a oggi, di un partito imperialista del grande business cui spetta il ruolo di illudere e attirare i lavoratori , le minoranze, l’intellighentsia e gli oppressi in generale. Non per nulla, dietro la faccia nera di Obama spunta quella bianchissima del suo vice, Joe Biden, un senatore che per tutta la sua vita è stato fomentatore di guerre, di misure di rapina sociale, famiglio di Israele e sostenitore del genocidio Iran-Usa-Contras in Nicaragua.

Ma questa dimenticanza sul retroterra nazisionista, sulla totale identificazione con i genocidi israeliani e sulla completa adesione alla strategia di squartamento dei paesi e popoli arabi, non è privilegio solo dei due obnubilati ex-partigiani. Ne è pesantissimamente responsabile anche la stampa di “sinistra”, con in testa “il manifesto”, con il maestro di occultamento Marco d’Eramo (Remo d’Arcamo) che, dopo aver taciuto sui quattro giorni di rivolta anti-repubblicana davanti alla Convention, fa lo spiritoso firmando con nome e nome anagrammato due articoli titolati “La buona notizia” (per McCain si mette male) e “La cattiva notizia” (per l’amato Obama si mette male). Mettere, come fanno questi oggettivi collateralisti, imperdonabili per l’abuso della fiducia popolare, del rossetto sul maiale non cambia il fatto che di maiale si tratti. Così, mettere un afroamericano candidato alla presidenza non cambia di un centimetro la pelle di porco di chiunque Wall Street, il complesso militarindustriale, i petrolieri, i farmaceutici, l’agrobusiness, mandino nella sala ovale. Dove, del resto, nel sistema capitalista, il copione scritto da questa criminalità organizzata sta già sulla scrivania ed è inderogabile.

I love Tzipi
Senz’altro la tara più gravida di certa pseudo sinistra è la coltivazione di illusioni e di fiducie malriposte. Nel “manifesto”, campione di questi “scivolamenti”, si arriva a parlare della sionista Tzipi Livni, già membro del più feroce servizio segreto del mondo e figlia di due terroristi dell'Irgun serial killer di civili palestinesi, finta dialogante con l’amerikano Abu Mazen ed effettiva sostenitrice dell’occupazione, del muro, delle efferatezze di coloni e militari, nonché della guerra all’Iran, una volta polverizzata del tutto l’unità della nazione e degli Stati arabi, come di una soluzione accettabile per la successione al farabutto Olmert. Anche lì si casca nella sciarada della giunta militare israeliana che presenta un McCain con artigli e zanne nella persona dell’ex-ministro della difesa Shaul Mofaz, a fronte di una Obama-Livni da dialogo e perlopiù donna. Quest’ultima qualità continua a essere considerata una garanzia, a dispetto dei brandelli umani che pendono dalle fauci di tante colleghe di una ministra degli esteri che ha governato il macello libanese. C’è chi, in un demenziale articolo sul citato quotidiano, l’ha chiamata “angelo”.

I love Cgil
Parrebbe meno grave lo sbandamento strutturale del “manifesto” per la CGIL A volte raggiunge livelli di parossistico umorismo. Come quando, celebrata su spazi immensi, a scapito dei meglio meritevoli, l’eroica resistenza del sindacato adorato ai ricatti dei briganti di passo all’assalto di Alitalia, il giorno dopo, quando Epifani doverosamente aveva firmato il regalo alla cordata di avvoltoi, doveva prendere atto di aver pestato una monumentale cacca, da rimanerci fino al collo. Cosa diranno quando dalla coda dell'accordo Alitalia uscirà un contratto nazionale ridotta all'ammiccare tra confederali e padroni? Ma quello sbandamento meno grave non è. Al fattore illusione paralizzante si aggiunge quello dell’occultamento delle forze che per davvero si impegnano nella difesa dei diritti de lavoratori, nella lotta di classe Cobas, Cub, RDB… Lotta di classe in cui bisogna essere ciechi, opportunisti o amici del giaguaro per non vedere che da un lato stanno Confindustria, classe politica e confederali e, dall’altro, i sindacati di base. Vaneggia, il “manifesto” di grandi manifestazioni e scioperi CGIL “in vista” e simultaneamente minimizza o occulta lo sciopero generale vero dei sindacati di base del 17 ottobre, unica risposta di classe, insieme alla manifestazione nazionale dell’11/10 contro il governo (che i sinistri organizzati residui vorranno edulcorare), al cannibalismo fascistizzante della cricca bipartisan al potere. C’è di peggio? Sì, c’è di peggio. C’è un puntiglioso e argomentato I love Fini, nel momento in cui il numero due della vandea totalitaria rinnega il suo quarantennale fascismo in camicia nera, con l’evidente scopo di mascherare la dittatura fascista moderna che, frustata dalla coppia di postiglioni Berlusconi-Fini, va avanzando in questo disarmato paese. Ne parleremo una delle prossime volte.

giovedì 25 settembre 2008

DA CASERTA A ISLAMABAD, SEMPRE LORO

Da Caserta a Islamabad: sempre loro


Se non vuoi piedi sul collo
non t’inchinare
(anonimo)


Avendo mandato mercenari, pardon professionisti (qualcuno, come Sionetti, li chiama “nostri ragazzi”, dimenticandosi che “l’esercito del popolo” non c’è più, grazie a D’Alema), per anni a uccidere all’estero civili e patrioti e a devastarne i paesi, non c’era bisogno di una fattucchiera di Teleambiente per pronosticare che presto o tardi quei soldati di ventura sarebbero stati mandati tra i piedi e sul groppone anche a noi. La nostre vicende della prima metà del secolo scorso, l’era Reagan-Bush, la UE natoizzata, l’italiota trio
guitto mannaro-guitto coniglio-guitto baffino insegnano che spedizioni coloniali e stato liberticida all’interno procedono appaiati come binari. E così a spezzare le reni alla gente
vanno fucilatori e Tornado (€13 milioni per tre mesi) in Afghanistan, Carabinieri in Iraq (ad addestrare soldati fantocci a sprangarsi i coglioni distruggendo il proprio popolo), come “i nostri ragazzi” in Italia. Dopo quelli che devono sparare a chi si difende da una necrodiscarica o da un necroinceneritore, sono arrivati i 3mila per strade un tempo guardate da platani, i 400 con fanfara di Castel Volturno, i 500 contro “l’emergenza criminalità”. L’accoppiamento Maroni-La Russa (quest’ultimo Ministro dell’Offesa) gli produce orgasmi manco fossero macachi mentre, sghignazzando, fanno il gioco di chi s’inventa più “emergenze criminali” là dove tocca rastrellare o terrorizzare un po’ di diversi etnici, religiosi o politici.

Non si poteva non farlo. Con l’eccidio di africani a Castel Volturno, proprio come con l’11 settembre e seguenti, viene attivata quella parte dell’organismo leviatano che, provocando, facendo grandi casini, costruisce la ragione motivante e giustificante per un’ulteriore strettina leviatan-mafiosa sul territorio, sui suoi traffici e su chi li intralcia. Provocazione-repressione. Come Ciccio e Franco. Veronesi e il cancro. Nel casertano la sezione A del piano, con la sua strage camorrista, ha convinto tutti che esiste un’emergenza criminalità (che dovrebbe essere perseguita con investigatori e non con le majorettes in mimetica), una “guerra civile” dicono in Val Brembana. Nella sezione B, un po’ per volta, in un intreccio di orgasmi con accompagnamento di “Faccetta Nera”, Maroni-La Russa schiaffano quell’abilitante definizione addosso a migranti, bulli scolastici, tifoserie, magistrati, i tre o quattro giornalisti residui, centri sociali, chi lecca il gelato dal fondo del cono, le coppie di fatto, i laici, i comunisti. Le legioni impiegate contro le plebi sono pronte da tempo, soprattutto culturalmente. S’è capito fin da Napoli e da Genova del G8. Se ne ha conferma quotidiana: nella caserma di Bussolengo vengono massacrati di botte e torturati un po’ di cittadini italiani con ascendenza rom, si crepa in carcere, come sulla strada per una partita, come soffocati da robocop sul marciapiede, sempre per improvviso malore, per un colpo partito accidentalmente (e che poi magari incontra calcinacci e devia in mezzo a una fronte). E quei lividi, qui denti mancanti, quelle ossa rotte? Che c’entra: “io so’ io e voi nun siete ‘n cazzo!”

A Islamabad obiettivi e attori sono un po’ più intricati, ma il metodo è quello. Sempre quello delle Torri Gemelle e di Al Qaida, due pilastri delle fede di Giuliana Sgrena, Calchi Novati e quasi tutto il “manifesto” Quotidiano comunista sempre in coda, con in mano lo strascico, alla coppia Provocazione-Repressione celebrata l’11 settembre nella Chiesa dell’Unico Impero. Il 20 settembre un camion finisce contro il superhotel Marriott a Islamabad e il palazzone viene giù con un centinaio di persone e, stranamente, solo due piani in fiamme, il quarto e il quinto. Pare il remake del Pentagono: quell’11/9 del Boeing invisibile che rasoterra sbatte i suoi 39 metri alari e i suoi motori da 2 tonnellate contro le mura del Pentagono e lascia un buco di… 6,5 metri e neanche un rottame lungo tre centimetri sul prato antistante. “Evaporato per il calore” dicono, quasi ripetessero la fandonia delle Torri Gemelle, fusesi per quattro litri di kerosene. Però poi si voltano e ridono a crepapelle. Con la coazione a ripetere che ne delimita la creatività, manco fossimo all’11/9 sera, subito coloro che si danno voce in capitolo decretano: è stata Al Qaida. Con il sovraprezzo di una manina taliban. I taliban, che ovviamente sempre rivendicano le proprie azioni, smentiscono. Ecchè, si mettono ad ammazzare la loro gente manco fossero Rumsfeld e Cheney? E anche qualche diplomatico neutrale? Rivendicano invece gli sconosciuti e improvvisati “Fedayin al Islam”, nome banale, generico, confusionale e improbabile quanto mai. E subito il coro a ululare: e già, sono affiliati di Al Qaida! Peccato che quello che viene indicato come il loro capo, Baitullah Mahsud, ex-detenuto a Guantanamo e scampato, è riuscito a svignarsela. Tempo addietro l’intelligence pachistana aveva segnalato a Nato e Usa tempi e presenza di Baitullah. E’ naturale che gli interlocutori abbiano sempre fatto orecchio di mercante ed evitato accuratamente di acchiapparlo. Esattamente come con il lungamente defunto Osama Bin Laden. E uno.

E due. A seguito di innumerevoli e crescenti incursioni di forze Usa, per aria e per terra, in territorio pachistano nelle quali, con la scusa della guerra al terrorismo, hanno disintegrato un po’ di civili contadini e, quindi, suscitato la collera nazionale contro gli Usa e chi ne fa da burattino in Pachistan, il neopresidente Asif Ali Zardari, vedovo-ladrone della ladrona Benazir Bhutto, ha fatto la voce grossa no del, ma al padrone. “Non permetteremo mai che forze straniere violino l’integrità territoriale del Pachistan!”, ha proclamato tra rulli di tamburi, ricevendo poi l’eco sonante dei suoi generali. E questo al burattinaio non è piaciuto, tanto più che riflette un forte sentire di tutto il popolo e minaccia di legittimarlo. Quella sera Zardari e notabili vari dovevano cenare al “Marriott”. Ma due sere prima avevano disdetto. Doveva essere un avvertimento, non un’esecuzione. Per ora.
Il quarantotto è successo poche ore dopo che Zardari aveva manifestato la sua temeraria insubordinazione. Perché, i mafiosi non mettono forse una testa di maiale sul portone dell’avvisando? E non vogliamo ricordare che Cheney aveva promesso al predecessore Musharraf di “ridurlo allo stato della pietra” qualora non tenesse in scacco i centrifughi rispetto al dominio imperiale e non facesse quanto ordinatogli? Il tutto inserito nel quadro di una strategia, confortata da documenti e analisti, che, con il conforto dell’India, tenta di frantumare la regione per linee etniche, in modo da costituire quel ponte dell’Occidente verso i depositi dell’Asia Centrale che unisce la regione tribale nord-occidentale ai territori pashtun afghani e al Beluchistan in oriente. Balcanizzazione. Mettere al muro i governanti di un Pachistan riottoso e nucleare è mossa del gioco.

Ma c’è anche un tre. In spregio allo psicoterrorismo diffamatorio di tutte le resistenze al cannibalismo imperialista (Iraq in testa, dove la pia islamofoba Giuliana Sgrena del “manifesto” ripete a macchinetta la trasformazione della Resistenza nazionale in Al Qaida, come formulata dal generale Petraeus), i combattenti della liberazione non sono farlocchi al punto da giocarsi l’acqua in cui nuotano attentando contro la propria popolazione. Queste cose le fanno uomini mascherati che sotto il passamontagna nascondono distintivi nodi scorsoi Cia e Mossad, insieme a indigeni prezzolati o decerebrati. La procedura risulta manifesta dai tempi in cui Hitler spediva a sparare sui suoi soldati tedeschi travestiti da poliziotti polacchi. Dai tempi in cui due killer delle forze speciali britanniche, SAS, furono scoperti a Basra mentre, travestiti da arabi (di Al Qaida, ovviamente), guidavano verso una gran folla un SUV stracolmo di esplosivo pronto al tele innesco. Qui, quella parte sembrano averla fatta i marines che tre giorni prima del botto sono arrivati con blindati al Marriott Hotel, hanno fatto chiudere cancelli e portoni d’ingresso e d’uscita, hanno cacciato via tutti e, sotto l’occhio indiscreto di un nascosto funzionario di polizia, hanno spostato dai blindati ai piani 4° e 5° misteriosissime casse d’acciaio, quelle per armi ed esplosivi, sottraendoli anche al metal detector dell’albergo. Li guidava nientemeno che il capo di stato maggiore, ammiraglio Mullen. Erano passate tre giorni da quando Zardari s’era impennato contro gli Usa. La notte dell’attentato, poi, molto molto stranamente, si sono verificati incendi solo al 4° e 5° piano. Pareva la replica della Torre n.7 a Manhattan, venuta giù dritta come un fuso senza nemmeno essere stata colpita da un aereo. Si dirà: ma sono morti anche due statunitensi! Ebbene, l’11 settembre non ne sono morti quasi tremila? Quale copertura migliore, anche se un po’ cinica? Ma questi non sono lupi che curano il proprio branco. Questi sono macchine-killer da “silenzio degli innocenti”. C’è un’altra analogia. Subito dopo l’esplosione, alti funzionari dell’intelligence e della sicurezza dell’ambasciata Usa sono stati visti aggirarsi sulla scena. Naturale. Solo che, dopo il buco nel Pentagono, sul prato antistante si sono visti aggirarsi analoghi omini in cravatta usciti dal Pentagono per vedere cose ne era stato dell’”aereo”. Si portarono via alcuni frammenti mai più rivisti.

Amman: kamikaze sui soffitti
Conosco bene un’analoga, istruttiva vicenda. Strariportata in Medio Oriente e nel Web, ma da noi meticolosamente occultata, anche dalla nota Sgrena, troppo impegnata a fare un esercizio di alto stile etico-giornalistico paragonando con toni commossi il martirio del cobra Ingrid Betancourt prigioniera al proprio. Succede che nella data, rovesciata e significativa, del 9 novembre (9/11) 2006, ad Amman, capitale giordana, si sbriciola un grande albergo. Subito Al Qaida, Al Zarkawi (anche lui defunto nel 2003), kamikaze. Quattro kamikaze con cintura esplosiva, pure una donna. Viene rivendicata l’azione dal virtuale Zarkawi, era destinata a colpire “crociati” (cristiani), “eretici” (sciti) e giudei”. Non morì neanche un crociato, neanche un eretico, neanche un giudeo. Anzi, alcuni di questi ultimi, in vacanza nell’albergo, erano stati evacuati la sera prima e rispediti a casa dalla polizia giordana su segnalazione del Mossad (fatto enorme, confermato dal quotidiano israeliano “Haaretz” e, con toni soddisfatti, da dirigenti dell’intelligence). Morirono però 54 arabi sunniti, tutti giordano-palestinesi impegnati in una festa nuziale. Effetto collaterale. L’effetto-obiettivo erano sei persone riunite in una sala dell’albergo: tre palestinesi, alti esponenti dei servizi e della finanza e tre dirigenti del Ministero della Difesa cinese. Un bocconcino. Divorato.

Incidentalmente: quei quattro kamikaze iracheni dovevano essere mosche travestite. Camminavano sul soffitto. Infatti tutta la documentazione foto e video mostra voragini in alto, provocate da ordigni esplosi sopra il soffitto con evidente innesco elettrico. Scoppiarono quando partì un black-out.. Da allora Abu Mazen a vedere un cinese cambia marciapiede.

Sono tutte eruzioni di quella foruncolosi con cui qualcuno ha contaminato il mondo a partire dall’11/9/2001 (da noi, affini con scopi analoghi avevano cominciato prima: il 12 dicembre a Piazza Fontana). Ed è da lì che tocca partire. Sennò non si arriva da nessuna parte. Tocca rompere i sette sigilli e scoprire il mostro. Per esempio tornare nella stanza dove c’era Calabresi e Pinelli precipitò inconscio, ma per un “malore attivo”, come, solinga, ricorda Licia Pinelli. Perché sull’11/9 non spariamo a tappeto le mille domande possibili, ineluttabili, a chi di sicuro ci ha raccontato un sacco di frottole e, di sicuro, ha tratto da quell’evento le ragioni per uscire dal baratro della crisi politico-economica, rilanciarsi alla rapina delle ricchezze del mondo e al tempo stesso normalizzare una società occidentale, sopprimendo ogni dissenso allo Stato di polizia nel nome della difesa dal terrorismo. Com’è che pochi litri di kerosene in fiamme per pochi minuti e all’esterno delle torri hanno potuto fondere centinaia di colonne di acciaio e neanche asimmetricamente? Com’è che uno bocciato all’esame di pilotaggio di un piccolo Chessna possa manovrare un pesante Boeing 757 come non sarebbe riuscito neanche al più bravo pilota di caccia? Quale coincidenza che nello stesso giorno e nelle stesse ore le FFAA Usa avessero in corso esercitazioni aeree nella stessa area e con gli stessi obiettivi? Proprio come poi a Londra nella metropolitana. Come fu possibile che il munitissimo Pentagono venisse colpito ben un’ora e venti minuti dopo il primo attacco, senza essere intercettato? Com’è che Bush, per quanto minorato, dopo aver saputo dell’attacco se ne rimanesse tranquillo in una scuola e non venisse subito sbattuto nel più profondo dei bunker? Volete che vada avanti?
Di solito argomentano che un complotto tanto complesso e grande doveva coinvolgere tantissime persone. Qualcuna alla fine avrebbe cantato. Mica vero. Il terrorismo di Stato è ben compartimentato, nessuna unità sa niente di quello che vuole e fa l’altra. Il quadro completo è chiaro solo ai pochissimi in altissimo. Quasi tutti hanno scheletri nell’armadio.
Ma poi basta pensare a Gladio, alla nostra strategia della tensione, alla massoneria, alla mafia, alla P2, al Vaticano… Migliaia di complici e nessun canarino per decenni.

Perché “il manifesto” non (si) pone queste domande per un’epistemologia esauriente sul terrorismo, fenomeno dell’epoca? Non sarebbe dovere deontologico, prima ancora che politico? Di “Liberazione”, finche Sionetti s’affaccia dal taschino di Bertendola, manco a parlarne. Sull’irrinunciabile e sempre più irritante “manifesto” (quanto ti rimpiangiamo, Stefano Chiarini!) ricompare la geremiade: soldi o sennò restate soli. Un po’ come Berlusconi ai piloti dell’Alitalia. Siamo cattivi: il regime padrone e ladrone toglie al “manifesto” e ai giornali indipendenti, di editori veri e perciò castigati dalla pubblicità, quella sovvenzione che, destinata alla difesa delle voci dei non potenti, garantiva libertà d’espressione e pluralismo. Un aiuto impensabile nel dopo 11/9. Ora il governo darà molto meno, forse niente, a suo insindacabile arbitrio. E sotto Veltrusconi si sa bene cosa possa interessare a quell’arbitrio. Ma forse “il manifesto”, oggi goduto da pieddini in patema di coscienza e dai passeggeri sinistrodemocratici di una macchina che tira a destra (sono quattro gatti per quattro copie), se quelle domande (se) le ponesse farebbe opera pedagogica verso destra e di proselitismo verso sinistra. Diciamo 60mila copie di lettori rinfrancati, quelli che fanno almeno centomila nei cortei, l’autosufficienza alimentare. Se non odiasse i sindacati di base, ultimi protagonisti della combattività operaia, e non affogasse la manchette dei Cobas per lo sciopero generale del 17 ottobre in un articolone che inneggia alla CGIL per una mobilitazione che la CGIL non si era sognata di concepire, tantomeno indire.. Se non desse sempre retta a quel rettile di Human Rights Watch, la Ong dirittumanista di George Soros e della lobby ebraica, che stila un rapporto di calunnie sul Venezuela di Chavez per neutralizzare l’effetto devastante del rapporto ONU sui massacri israeliani a Gaza. Se non vedesse rosso(sangue) ogni qualvolta si deve occupare di Russia, esibendo il frutto irrazionale di un anticomunismo d’antan, se non s’innamorasse della virago Hillary Clinton “che spezza il tetto di vetro del potere maschile”, se non arrivasse a titolare “Obama contro l’impero”, se, se, se

sabato 20 settembre 2008

GLI USA GIOCANO A MONOPOLI, I RUSSI GIOCANO A SCACCHI, LA SINISTRA GIOCA A NASCONDINO.



Questo è un articolo di Mondocane fuorilinea di qualche tempo fa. Ma credo che mantenga una certa validità a fronte dell'imperversare dei media e delle Condoleezze bugiardi.



CARTA D’IDENTITA’

Scrivi!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è il numero cinquantamila.
Ho otto figli
E il nono arriva dopo l’estate.
Ti arrabbierai?


Scrivi!
Sono un arabo. Ho un nome senza titolo.
Paziente in un paese
dove la gente è furibonda.
Le mie radici
sono affondate prima della nascita del tempo
prima dell’aprirsi delle ere
prima dei pini e degli ulivi
prima che crescesse l’erba



Scrivi!
Sono un Arabo.
Avete rubato i frutteti dei miei avi
e la terra che ho coltivato
insieme ai miei figli.
Ci avete lasciato niente
tranne questi sassi.
Lo Stato vorrà anche questi
come ci è stato detto?

Perciò!
Scrivi in cima alla prima pagina: ricordo che è
Non odio la gente,
né la invado. il
Ma se mi affamano “L’ASSE DEL
la carne dell’usurpatore sarà il mio cibo. Cuba, Venezuela,
Guardati…
Guardati !
Dalla mia fame (
E dalla mia ira.

(Mahmud Darwish, 1941-2008)

Il silenzio che uccide chi lo pratica
Prima di parlare del suicidio collettivo operato dall’intera brigata di puttane
che lavora al servizio dei poteri criminali nel lupanare bipartisan sinistra-destra dell’informazione occidentale, ho voluto citare alcuni versi, allora da me così tradotti, di un componimento del 1964 del poeta nazionalpopolare (nel senso più eletto del termine, come Gramsci, come il Che) palestinese, scomparso pochi giorni fa. Nessuna delle diverse, attente e generose, associazioni di solidarietà con la Palestina ha dato vita a qualche pubblica manifestazione di ricordo e cordoglio, alla lettura delle sue meravigliose e laceranti poesie. Nessuna ha diffuso la notizia, ha raccontato l’uomo, la sua opera, ha allestito una cerimonia. Figuriamoci gli antimperialisti che si erano spesi – e bruciati - per l’orrido Sion-Veltroni nelle amministrative, i partiti… La stessa assenza di fronte alla più grande operazione di solidarietà militante e di sfida ai carcerieri nazisionisti mai compiuta: lo sbarco ad agosto dei 44 attivisti internazionali del Free Gaza Movement, con le loro due imbarcazioni Free Gaza e Liberty, sulle coste del campo di concentramento da un milione e mezzo di detenuti chiamato Gaza; la loro temeraria e e diciamo pure eroica navigazione con i pescatori palestinesi, decimati a fucilate per aver tentato di contribuire alla sopravvivenza della loro gente, oltre i limiti abusivi imposti dal boia israeliano perché donne, uomini e bambini di Gaza o sentano la ragione della schiavitù, o crepino. Nessuno – neanche le associazioni palestinesi, forse perché Gaza è governata da Hamas? - ha accompagnato la storica spedizione di rottura del più feroce blocco mai imposto dopo l’embargo iracheno, almeno con informazioni e manifestazioni d’appoggio, nei ben due anni di preparativi in collegamento con il notissimo International Solidarity Movement, nella sua rischiosa navigazione, nelle sue traversie in mare (il sabotaggio elettronico, le minacce di morte). E i partiti che si dicono comunisti, dov’erano quando si è trattato di sostenere la più pericolosa, coraggiosa, giusta e vincente azione di lotta contro la fucina mondiale del razzismo e del genocidio? E, rimanendo nello stesso ambito dei temerari leoni della sinistra, avete sentito, da parte delle associazioni serbe e filo-jugoslave, un solo guaito di solidarietà, una sola riga di rettificazione dell’inganno mediatico, una sola obiezione alle complicità del “manifesto” e di “Liberazione” con la canea antiserba, a proposito della cattura di Radovan Karadzic e della sua consegna ai boia dello pseudo-tribunale Usa dell’Aja? Una sacrosanta difesa di quest’uomo satanizzato (non solo con la truffa di Sebrenica) al pari di Milosevic e vittima di un’inversione della colpa che basterebbe un minimo di memoria storica per sputtanare?
La regola è la prudenza. Don Abbondio è sempre incinto.

Kalachnikov, pallottole e poesia
Si chiamava Mehdi – e non sopravvisse al Settembre Nero del terrorista al servizio
dei colonialisti, Hussein di Giordania - colui che mi lesse per la prima volta le poesie di un Mahmud Darwish appena spuntato alla notorietà e, subito, portabandiera spirituale della Resistenza. Era informato Mehdi, conosceva e amava Lenin e i poeti. Era il capo della nostra base. Rileggemmo poi a turno tutti noi, palestinesi, italiani, inglesi, egiziani, francesi, “Io sono un arabo”, tante volte, superate le ore dell’addestramento, del confronto politico, dell’aggiornamento informativo, nell’attesa notturna delle incursioni, in quelle
caverne-avamposto dei monti sopra Ajeloun. In fondo alla valle luccicava un Giordano ancora puro, quasi biblico, non depredato e immerdato dagli abusi dell’occupante.Tra le nostre grotte di creta e il fiume, banani, ulivi, orti e contadini curvi su povere ricchezze. Ricchezze desertificate dalle bombe ogni qualvolta i fedajin violavano il falso confine del Giordano, muro di contenimento, allora d’acqua, inciso dal predatore-invasore nel corpo arabo vivo. E sapeste quanta motivazione, quanta ragione davano ai Kalachnikov dei fedajin i versi di Darwish! Kalachnikov e poesia: rabbia, giustizia, coraggio. E amore.
Versi di Darwish inanellati nella collana di saggezza, ricordi di soprusi, lezioni di storia e di lotta, visioni del futuro che Mehdi, comandante nel Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, ci appendeva alle orecchie, all’ora in cui l’orizzonte a est, oltre il fiume, si faceva violetto come di sangue rappreso, nei mesi dei nostri avamposti di grotta. Kalachnikov e poesia dall’inverno all’estate 1970, prima del Settembre Nero: Marx, Fanon, Lenin, il Che, Fidel, Brecht, Majakovsky…

Prima arabi, poi palestinesi
Perdonate l’excursus personale, sono i ricordi più belli della mia camminata. Quelli che hanno rischiarato tutti i sentieri, da allora a sempre. Scriveva il poeta: “ Sono un arabo”, non “sono un palestinese”. Perché il primo conteneva il secondo e lo faceva più grande. Oggi questo fondamento e orizzonte della liberazione lo si è spento.Si è separato, isolato. Solo di Palestina è accettabile parlare. Appena accettabile. La Palestina, ricordava George Habash, massima voce strategica della Resistenza, è una costola del movimento di liberazione e rinascita nazionale arabo. Solo in questo contesto vivrà e vincerà. Oggi qualcuno grida “Palestina libera”, nessuno grida “Iraq libero!”, “Arabi liberi”! E’ più facile. Ma non fa bene ai palestinesi. All’imperialismo-sionismo sta molto meglio così..

La fetida carogna
L’apocalisse mediatica non ha risparmiato nessuno, dal Mar Nero fino al tramonto estremo. Hanno tuffato la guerra del Caucaso nell’inchiostro che l’abominio occidentale secerne come un pus che tutto contamina, e ne hanno tratto un mostriciattolo deforme, capovolgimento e parodia della realtà. Tutti. Chi con maggiore accanimento, chi funambulando penosamente in equilibrio sulla corda tesa tra complicità e acquiescenza. Con l’ex-rivoluzionario, ex-pannelliano, ex-bombarolo neocon, Adriano-Fregoli-Sofri, che da “Repubblica” e dalla fetecchia Cia “Il Foglio”, espelle il solito merdoso sciocchezzaio da pseudointellettuale di regime che lo mantiene in bilico tra i picchi paralleli della futilità e dell’abominio (ci vuole un suo compare di iperegotismo e masturbatorie elucubrazioni, come l’ex-canterino Ivan della Mea sul “manifesto”, per esaltare questo miserabile plaudente alle bombe sui serbi, palestinesi, iracheni, afghani…). Si sono tutti, da “Libero” al “manifesto”, fatti trombettieri davanti e valletti dietro il rullo compressore della cosiddetta “comunità internazionale”. Hanno raccattato le deiezioni della propaganda e l’hanno sparata contro gli indifesi cervelli del mondo, realizzando una lobotomizzazione generale. “Comunità internazionale” costituita da una minoranza infima non solo dell’umanità, di cui pretende di rappresentare un sesto, ma dei propri popoli. E’ il solito nocciolo perverso, bianco, cristiano, che da duemila anni s’avventa su paesi e popoli per succhiarne il sangue e sbranarli. Cinque miliardi di latinoamericani, africani, asiatici, ma anche bianchi cristiani scampati a roba come la CNN o il “manifesto”, non sono “comunità internazionale”. Non contano un cazzo. E’ per questo che vecchie carogne come il barboso fondatore di un grosso giornale, girando con il lumicino non del nudo Diogene, ma di palazzo De Benedetti, non trovano più l’ opinione pubblica?

Compatto, il sistema mediatico della “comunità internazionale”, cioè della criminalità politico-economica organizzata, ha presentato il conflitto tra Georgia, Ossezia del Sud e Russia come rovesciato allo specchio. Un farabutto, golpista grazie alla solita “rivoluzione colorata”, Saakashvili, della serie di delinquenti messi dall’imperialismo a capo delle nuove colonie per destatalizzarle e mafizzarle, scatena un’armata di sgherri armati e addestrati da USraele (non c’è regime fascista o fascistoide al mondo che non goda dell’assistenza dei nazisionisti) contro un paese, un popolo, un’etnia che non hanno voluto farsi imporre la secessione golpista dalla Russia dei primi anni ’90. Nel giro di 24 ore compie una strage spaventosa, rade al suolo la capitale e costringe alla fuga 30mila ossetini (cui non verrà mai dedicata una parola o una pagnotta della solidarietà internazionale). La Russia reagisce in difesa di cittadini della sua nazionalità e, come tutte le mosse di Putin da quando ha rimesso in piedi lo Stato e la società russa dopo lo sfacelo Eltsiniano, si attiene rigorosamente al diritto internazionale, rispetta la popolazione civile nelle terre georgiane dove ha ricacciato in quattro e quattrotto l’armata Brancaleone che, al pari di quella che due anni fa invase il Libano, era messa su e guidata dagli israeliani e, al pari di quella, vide castigata la sua protervia con beneficio della pace. Stop, almeno momentaneo, al cannibalismo territoriale e alle pulizie etniche dell’imperialismo occidentale, con giusta soddisfazione dello schieramento antimperialista, con indiscutibile consenso a Putin-Medveded, mercatisti quanto vuoi, diffamati universalmente al di là di ogni realtà, ma barriera salvifica contro il Gozilla euro-israelo-statunitense. Primo, lungamente atteso altolà, dopo lo tsunami genocida su Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Granada, Panama, Nicaragua, Libano.

Il riflesso antisovietico, anticomunista, antirusso.
E la sinistra, e il “manifesto”? Imbarazzo in soffitta della prima, ansimante equilibrismo tra una tradizione visceralmente antisovietica e antirussa (figlia diretta e oggi del tutto incongrua di uno storico anticomunismo) e l’abbagliante evidenza del gangsterismo dell’aggressore e dei suoi mandanti. L’inviato se ne rimane per tutta la guerra rintanato all’ombra di Saakashvili, piagnucolando alla Sgrena sulle traversie della popolazione di Gori e Tblisi. Il commentatore, Astrit Dakli, costretto dall’enormità della sproporzione tra attacco criminale e legittima ed equilibrata difesa ad accantonare la sua proverbiale slavofobia, che però rimedia deprecando monotonamente i guai che alla povera Europa verrebbero da una Russia non più scendiletto occidentale dei predatori occidentali, facendo nuovamente pendere la bilancia delle minacce a noialtri verso l’orso sovietico, condotto al guinzaglio da chi in ogni esternazione del giornale viene definito velenosamente “zar”. Lasciamo da parte farloccate pseudosinistre come quelle del Campo Antimperialista, l’ormai agonizzante congrega di strani e ambiguoni che ha per condottiero ideologico il trapanatore di teste sunnite Moqtada al Sadr, o il criptosocio USA Ahmadi Nejad e che inaugura le sue kermesse con il guru Costanzo Preve, uno transitato dalla rivoluzione marxista alle merende con la più schifosa pubblicistica neonazista. Il campetto conclude la sua “analisi” mettendo in guardia dal “nuovo imperialismo russo”. Cerchiobottismo mimesi del collateralismo. Contano assai di più i lancianebbie del “manifesto”, che parecchia credibilità vanta tra le schiere disperse e confuse della sinistra vera. Ci si chiede se non avvampino di rossore, quelli del “manifesto”, quando sentono fanatici nazisionisti, tutti consiglieri dello psicopatico John McCain, come Lieberman, Kagan, Rubin, paragonare per gravità di minaccia all’ordine mondiale la Russia di Putin ai “demoni del nazionalismo etnico di Slobodan Milosevic”, o quando sbattono il muso sul fatto che il mafioso Saakashvili venne installato da una “rivoluzione delle rose” identica a quella collaudata tre anni prima a Belgrado, con le stesse marionette locali e gli stessi burattinai: Soros, Israele, UsAid, National Endowment for Democracy, Istituto Internazionale Repubblicano e altre articolazioni in borghese della Cia. E poi ripetuta in Ucraina, tentata e fallita in Libano, Venezuela e Uzbekistan. Ma come, non ha sempre parlato “il manifesto” di “ultranazionalisti serbi”, quando si trattava di chi difendeva un residuo di sovranità e dignità dallo sbranamento euro-statunitense. Ma come, non urlò “il manifesto” dalla prima pagina “La primavera di Belgrado”, quando il golpe “non violento” dei sopra citati rovesciò Milosevic e la Serbia e li consegnò alla celle della morte di Carla del Ponte, stipendiata dal Dipartimento di Stato? Insiste ancora, l’uomo d’onore Tommaso De Francesco, balcanista a iniezione di stereotipi imperialisti, nel parallelo Kosovo-Ossezia, caro a tanti: quelli hanno voluto l’indipendenza del Kosovo, ne consegue che questi rivendichino l’indipendenza di Sud-Ossezia e Abkhazia.

Ossezia del Sud come Kosovo?
Manco per niente, caro TDF. Meni il can per l’aia e lo mandi diritto sul gancio dell’accalappiacani. Il Kosovo era parte storica della Serbia, il suo luogo di nascita. Ne fu espulsa metà della popolazione non allineata con i trafficanti di droga ed esseri umani investiti dall’Albright del dominio sui traffici sporchi (ma redditizi per le banche Usa) tra Oriente e Europa e dell’ospitalità alla più grande base d’aggressione statunitense d’Europa. I due popoli del Caucaso, invece, li devi paragonare alla Krajina, o all’enclave di Mitrovica, o, perché no, al Sud Tirolo, mai stato Italia, ma strappato al mondo germanico con una criminale guerra imperialista del tutto innecessaria (Vienna ci aveva offerto Trento e Trieste se non fossimo entrati in guerra). Popolazioni che colpi di mano illegali e complotti imperialistici, hanno voluto strappare al loro contesto, sminuzzare, inserire in contesti statali non solo estranei, ma ostili e razzisti. Lo squartamento della Jugoslavia e poi della Serbia era un crimine contro l’umanità e contro il Diritto Internazionale. La liberazione di Ossezia del Sud, in cui nel referendum del 2006 il 99% della popolazione aveva votato per il distacco dalla Georgia, e Abkhazia di quella e di questo è la difesa.

La tempestiva scoperta di chi fa le “rivoluzioni colorate”. Sette anni dopo.
Curioso questo “manifesto” che nell’agosto del 2008, con Ennio Remondino (quel giornalista vezzeggiato dalla sinistra che non mancava di inserire in ognuno dei suoi mille servizi il riferimento al “despota” Milosevic) si accorge che la “rivoluzione delle rose” in Georgia, come quella arancione in Ucraina, erano il doppione della “primavera di Belgrado” esaltata dagli inebriati della “Primavera di Praga”, di Budapest, di Berlino, di Tirana, di Danzica. Bastava la parola e quelli si eccitavano. In un giornale che tutte queste rivoluzioni le aveva viste attraverso gli occhiali rifilatigli dalla Cia e dagli associati
dirittiumanisti e vi aveva inneggiato. E oggi ecco che in un colonnino in ritardo di sette anni scopre che quelli di Otpor (e della Radio B-92, cara ai Disobbedienti, benché fosse del circuito Cia di Radio Liberty) erano pagati dagli Usa, addestrati da generali del Pentagono a Budapest e zelanti esportatori dell’operazione Otpor in paesi da destabilizzare per l’Occidente, verso Est, sempre più verso Est. Era il settembre 2001. Autunno, altro che primavera, per la Serbia. Otpor, diretta dalla créme borghese e rampante di Belgrado, aveva rastrellato un po’ di fascisti, un po’ di sottoproletari, un po’ di canaglia e parecchi ingenui, e li aveva lanciati – armati! – contro il parlamento. Si trattava di urlare “democrazia” e. al tempo stesso, bruciare le schede che avevano dato la vittoria ai partiti di sinistra. Ma che bravo “il manifesto”! Solo sette anni dopo! Scusate l’autoriferimento, ma è doveroso. Io quelle cose le avevo scritte negli stessi giorni in cui accadevano, da Belgrado, quando stavo in mezzo alla truppe di Otpor, ne vedevo le facce, ne sentivo le espressioni , ne intervistai gli stessi dirigenti visti da Remondino, per sentirli dire che era “un onore essere aiutati dal servizio segreto di una grande democrazia come gli Usa”. Quelle cose finirono solo in rete, nella rivista ”l’Ernesto” e nei microfoni di Radio Città Aperta, prima che io ne fossi cacciato e Veltroni votato. Erano le corrispondenze da Belgrado per il mio giornale d’allora, “Liberazione”, con un caporedattore esteri di nome Salvatore Cannavò, oggi capo della “Sinistra Critica”. Cannavò presi i miei servizi, li buttò nel cestino e definì Otpor “costola del movimento no global”, da invitare alla prossima adunata a Nizza. Quanto a me, che denunciavo i rettili Cia di Otpor, ero ovviamente pagato da Milosevic… Casarini, che a Belgrado da radio B-92 aveva inveito contro Milosevic, se ne è rimasto in silenzio.

Biden l’attraente
C’è di tutto e di più nel “giornale comunista”. Si accompagnano le olimpiadi cinesi, nel livore per la loro perfetta riuscita (a parte il baraccone di sponsor, doping e boss trafficoni che qui tralasciamo), in perfetta sintonia con la canea colonialista e citando atleti rincoglioniti, con lacrime sui tibetani e inni bertinottiani al Dalai Lama, foruncolo Cia del pianeta ed erede della più spietata e oscurantista dittatura feudale vista nel millennio trascorso. Questo Dalai Lama, autentico figlio di brava donna, che all’inizio dei Giochi fa il generoso, invitando a rispettarli e poi spara al centro dell’attenzione mondiale per il fulmine Bolt la strabufala di centinaia di tibetani ammazzati (inevitabilmente smentita, ma le smentite, si sa, sono acqua calda su pietre roventi). Ci si innamora e poi disamora prima di Hillary, poi, meno, un po’ meno – è solo nero, neanche donna - di Obama. Si riesce – Marco d’Eramo, nota colonna filoisraeliana e quella dama da Quinta Strada, Giulia d’Agnolo Vallan, che si erge sulla plebe dei lettori inserendo una parola inglese ogni tre italiane – a raccontare la nomina a candidato vicepresidente del senatore Joseph Biden, senza esporre, neanche tra le righe, la sua natura di sudicio neocon guerrafondaio, sostenitore della tripartizione dell’Iraq, dichiaratosi “sionista pur non essendo ebreo”, prosecutore della dottrina sionista, formulata da Oded Jinon nel 1982, dello spezzettamento etnico-confessionale di tutta la nazione araba, determinato a far sparire Palestina, Libano, Siria, Russia e chiunque intralci il rullo compressore dei mostri di guerra occidentali. Una garanzia di continuità bushista per la cleptomane necrocrazia occidentale. La baronessa Vallan lo dice dotato di “esperienza di governo e affari esteri, di appeal (attrattiva) verace, spontaneo con impiegati e operai, di humour (spirito) pungente e ottime battute”. Punto. D’Eramo la batte: “”Biden è stimato e considerato il miglior partner possibile”. Punto. Solo a un imbecille o complice può sfuggire che questo vecchio arnese di 36 anni di parlamentarismo reazionario non sa un piffero di politica estera se non che bisogna spaccare la testa a tutti gli altri. E il campione analista del “manifesto” non ha scoperto che fu proprio Biden a essere spedito da Obama presso il bandito Shaakasvili in piena aggressione georgiana per garantirgli la continuità del flusso di armi dei profittatori di guerra Usa. Questo Biden che, se l’accoppiata della frode nuovista vince, dista solo un battito di cuore dalla presidenza degli Usa, ha onorato la sua carriera con il voto a favore della distruzione di quattro paesi, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Somalia. Ha sulla coscienza qualche milione di morti. Ha votato per il famigerato “Patriot Act” , con cui i criminali di Washington hanno disintegrato le libertà civili. Ha superato le più efferate richieste dei suoi ufficiali pagatori dell’aggregato delle carte di credito, capeggiato dal capofila MBNA, quando fabbricò quella bomba atomica della guerra di classe che fu la “Legge della bancarotta”, cappio al collo dei cittadini più deboli, poveri, malati, sfigati, fregati del suo paese. D’Eramo annuncia che si trasferirà su un altro pianeta in caso di mancata vittoria del ticket Obama-Biden. Che, invece, lo tratterebbero felice su questo.

La manovalanza di Giuliana Sgrena
Ma della tecnica di costruire falsità sulle falsità, fino alle vertiginose altezze delle Torri Gemelle, “il manifesto” e il fratello scemo “Liberazione” sono architetti provetti. A gettare malta nelle crepe che la realtà apre nell’alzheimer mediaticamente indotto nella gente ci pensa anche Giuliana Sgrena, il santino del “manifesto” che aspettò due anni e le rivelazione del bravissimi Sigfrido Ranucci (RaiNews24) prima di raccontarci cosa le avevano detto le donne di Falluja fosforizzata. E dalla quale ancora ci attendiamo che ci riveli chi fosse quel quarto uomo, nella vettura con Calipari, di cui si affermò ufficialmente la presenza per tre giorni e che poi svaporò nel nulla per sempre. Forse il caposequestratore sottratto a forza di milioni al controllo dei mandanti Usa? Scheletri nell’armadio? Non ce lo dirà mai.
Invece, cosa ci dice la teodem del “manifesto” in preda a estasi antislamica peggio diella vivandiera dell’UCK, Santa Teresa? Imperversano guerre e macelli, scoppiano bombe e attentati dalle Filippine all’Algeria, passando per Pakistan, Turchia, Iraq, Russia. Il segno chiarissimo è di occultare ogni barlume di orrore davanti agli oceani di sangue di guerra sotto la bandiera della “lotta al terrorismo” innescata l’11 settembre e vivificata dalla terroristizzazione di chiunque esca da questo seminato geneticamente modificato, barboni compresi. Anzi, poveri scontenti dell’intero mondo compresi. In tutta questo ambaradan apocalittico, la celebrata inviata di guerra ci distrae inveendo contro gli islamici e i veli con cui imprigionano le donne, tanto da mandare ai giochi olimpici povere atlete avvolte nei burka, o quasi. Noi, per la verità, avevamo visto atlete musulmane, maghrebine e altre, con nientemeno che calzoncini alla coscia. Certo, per la teodem dai bollori antislamici sono molto più emancipate e dignitose le velociste, saltatrici, mezzofondiste bianche e cristiane con slippini e perizoma. Chi non ne converrebbe? Sempre nel contesto delle deflagrazioni a 360 gradi, che s’inventa Sgrena? Una specie di riflusso da sue passate libagioni: una gragnuola di invettive contro l’Algeria araba alle cui nefandezze avrebbero risposto gli attentati “naturalmente di Al Qaida”, contro lo Stato. Attentati tutti compiuti in Cabilia, la terra dei berberi tanto cari a Sgrena quanto all’Eliseo e agli Usa, da tempo quinta colonna secessionista e filo-francese. Il presidente algerino Bouteflika era appena tornato da una visita a Tehran! Intrattiene anche buoni rapporti con Hugo Chavez. Non svende alle petrolifere tutte le riserve, fornisce tanto gas a un’Europa che, tra Algeri e Mosca, rischia la tentazione di rendersi energeticamente indipendente da USA – GB. Naturalmente Al Qaida s’incazza. Mica la Cia, o il Mossad, sia mai. Ecco un altro tocco di malta sgreniana a sostegno dell’edificio della “guerra infinita al terrorismo”. Del resto, è una litania, in quel giornale, la ripetizione, da parte proprio di tutti, delle guerra al terrorismo come “vendetta”, “reazione”, “risposta” degli Usa agli attentati di Al Qaida. Attentati di Al Qaida, alla faccia di tutte le contestazioni documentate della grottesca versione ufficiale sull’11/9 da parte un’armata internazionale di esperti, studiosi, tecnici, testimoni, pentiti. E una “reazione”, “risposta”, “vendetta” a tanta nefandezza islamica sarà magari eccessiva, ma dai, ci può pure stare.


Al Qaida come l’araba fenice (che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa)
Tanta malta Giuliana Sgrena la butta nei baratri che continuano ad aprirsi nella megagalattica frode con cui si manda avanti la “guerra al terrorismo”. Gli occupanti e i loro schiavetti a mezzo servizio con l’Iran di punto in bianco, alla fine del 2006, smettono di parlare di “insorti”, “saddamisti”, “resistenza”, “rivoltosi”, “ribelli”. Li chiamano tutti “Al Qaida”. Al Qaida non c’è mai stata in Iraq. Quando qualche nugolo di infiltrati e scemotti, sollecitati dall’occupante, presero a firmare comunicati con “Al Qaida”, o “Emirato islamico dell’Iraq”, hai voglia a far circolare comunicati della già conclamata Resistenza, in tutte le sue articolazioni, dell’autorevolissimo Consiglio degli Ulema, degli stessi capitribù e capicomunità, che Al Qaida è roba da provetta Usa-Sion e che, ove spuntasse, verrebbe presa a fucilate. Ma tant’è. La sempre più evidente e irriducibile lotta di liberazione di un popolo poteva suscitare perplessità, se non simpatie, se non solidarietà, se non effetto contagio. Meglio vestirla dei panni lordi di sangue di coloro cui si attribuiscono le carneficine in giro per il mondo, dalle Torri a Madrid, da Londra a ovunque. Siti “islamici” della Cia ce n’è a strafottere per spararci in testa comunicati e rivendicazioni. Sono anche stati scoperti, ma che fa. Basta non dirlo. Prendendo spunto dall’immagine di una ragazzina di 13 anni, in condizione di semincoscienza, scoperta con una cintura esplosiva, ecco che la crociata teodem inalbera la picca e va a fondo. Chi gliel’ha messa la cintura? Forse gente del tipo di quei militari israeliani che presero un adolescente disabile mentale, gli misero il giubbetto delle bombe, lo trascinarono davanti ai fotografi? E qui è tutto un seguito di fonti e conferme autorevoli: “Si dice che la famiglia sostenesse Al Qaida… si dice che l’abbiano reclutata parenti… Si ritiene che a organizzare l’attacco sia stato Al Qaida…”. Poi la mitica inviata di guerra si avventura in un’analisi del confronto sul terreno che è pari pari un briefing del comandante in capo Petraeus.

La stampella Sgrena al raggiro terrorista
Parlerò in altra occasione dei Consigli del Risveglio sunniti, strutture inventate dagli Usa per usarle contro la Resistenza a forza di 300 dollari al mese a combattente, e per contenere l’invasività degli sciti, apostoli e quinta colonna dell’Iran khomeinista. Aderirono disperati con famiglia, parte di quel 50% di iracheni che non ha lavoro ed è alla fame; boss locali ansiosi avidi di essere corrotti, ma anche molti militanti della liberazione che, dalla strage di Samarra in poi (2004), avevano dovuto subire un vero e proprio genocidio da parte degli sciti: sui cento ammazzati al giorno, sempre dopo tortura, quasi sempre con gli occhi e i genitali trapanati. Il nemico immediato, il più robusto grazie alla sponsorizzazione iraniana erano i briganti sciti di Moqtada, di Dawa, dello SCIRI, e la stessa marmaglia inquadrata in polizia ed esercito. In effetti l’idea funzionò, nel senso che pose un freno all’eccidio dei sunniti e riequilibrò un po’ a favore dell’occupante il rapporto di forze con il socio-rivale persiano. Cosa a quest’ultimo non gradita, per cui tornò a riattivare i propri viceconsoli a Baghdad. Iniziò il ripulisti dei Consigli del Risveglio da parte dell’esercito del premier Al Maliki, rimozioni, arresti, eliminazioni (che si accompagnavano a quelle con cui la Resistenza vera colpiva rinnegati e collaborazionisti). Gli Usa a guardare imbambolati, come un pugile suonato. E’ persiana la mano che tiene il coltello per il manico in Iraq. E “l’antiamericanismo” di Moqtada serve a confondere le acque e catturare il consenso di un popolo che mille volte preferirebbe gli Usa in quel cappio che Moqtada strinse al collo di Saddam.
Ebbene di questo, che pure appare nelle analisi dei migliori e più documentati commentatori in rete, in Sgrena non c’è traccia. Ci sono i kamikaze di Al Qaida, le bombe di Al Qaida, i Consigli del Risveglio contro Al Qaida. Non conta che le stragi tra civili non sono mai stati, mai avrebbero potuto essere, di una Resistenza che senza l’approvazione delle masse non è. Non conta che le vere azioni di resistenza oggi, con gli statunitensi asserragliati nei loro presidi, fanno strame di poliziotti e militari delle forze fantoccio, man mano che ci provano a sostituirsi alla presenza dell’occupante. Non conta soprattutto, che decine di testimoni, riportati in centinaia di cronache, hanno illustrato la tecnica della macchina sequestrata a un cittadino qualunque e portata a un posto di controllo, dell’autista che deve venirla a prendere domani, che quando la ricupera gli si ordina di portare un messaggio in un certo punto, meglio dove c’è tanta folla, e da lì telefonare. Al chè scoppia tutto. E quei due soldati inglesi travestiti da arabi, scoperti a Basra con una vettura zeppa di esplosivo pronto all’innesco, mentre stavano dirigendosi verso la moschea? E quei numerosi conducenti che la loro macchina, riavuta dagli occupanti, l’hanno esaminata e trovata foderata di tritolo che la telefonata avrebbe fatto saltare? Niente, per Sgrena non c’è niente. C’è solo, sette volte nel pezzetto, Al Qaida (anzi Al Qaeda, lo scrive all’inglese). Gli inventori di Al Qaida e autori del terrorismo imperialista, dall’11/9 in poi, ringraziano commossi.

Caucaso: un megapacco mediatico
Ma vediamo cosa è davvero successo nel Caucaso e cosa ne viene alla geopolitica mondiale. La vulgata dei gazzettieri, mercenari e falsari per interesse o vocazione, che si è abbattuta compatta come la colata di fango di Sarno sull’opinione pubblica, ci ha dipinto questo quadretto: L’uomo più o meno d’onore Saakashvili, con un colpo di testa che doveva forzare la mano agli “alleati” occidentali, ha voluto riprendersi la provincia riottosa del Sud Ossezia, contando sull’immediato soccorso militare e politico dei suddetti. I mille militari Usa che dalle sue parti avevano appena concluso esercitazioni che adombravano proprio una simile operazione, il concorso annoso di armi, istruttori e intelligence statunitensi e israeliani, lo avrebbero illuso, poveretto, sull’arrivo dei rinforzi USraeliani ai quei quattro briganti di strada che, mutuati dal modello del terrorismo ceceno, aveva spedito a radere al suolo Tskhinvali, la capitaletta osseta, e sterminare il maggior numero possibile di vite della maggioranza russofona di quel paese. Una pulizia etnica all’UCK in Kosovo, alla kurda a Kirkuk, all’israeliana in Palestina. Le “democrazie occidentali”, però, prese in contropiede dall’avventatezza del “rivoluzionario delle rose”, avevano esitato, tergiversato, temuto, animati da spirito di pace e dialogo, Israele aveva occultato, se non rallentato, il proprio contributo al revanchismo georgiano, paurosa di ritorsioni russe in Iran e Siria, gli Usa erano paralizzati dal trambusto elettorale e dal timore della banda Bush di concludere l’amministrazione in una nuova palude tipo Iraq e Afghanistan e gli europei se ne restavano rintanati, sbigottiti dal rischio alla sicurezza dei rifornimenti energetici russi che sarebbe stato determinato da un loro intervento a fianco dello sconsiderato georgiano.
Di questo impasse avrebbe dunque approfittato il “neoimperialista” Putin, non solo per riprendere il controllo su Ossezia e Abkhazia, promuovendone l’indipendenza, ma per calcare con i suoi stivali fette del territorio georgiano e uccidere così quella “giovane democrazia”, minacciando al tempo stesso tutto ciò che in direzione Nato si agitava alle sue frontiere occidentali. Si era così potuto salutare, con soddisfazione, il ritorno a quella contrapposizione, un tempo anche ideologica, oggi geostrategica, tra Occidente democratico e i nuovi “zar totalitari ed espansionisti”. Quella guerra fredda, in prospettiva calda, per cui l’industria militare, l’apparato economico e l’intera struttura propagandistica della cristianità bianca aveva tanta nostalgia e che pro tempore aveva sostituito con il “terrorismo” (comunque ancora buono per le strategie colonialiste verso il Sud del mondo e per la marcia verso i propri stati di polizia).

Chi vince, chi perde?
L’unica cosa vera del megapacco era questa conclusione: la nuova guerra fredda, propedeutica al possibile conflitto mondiale tra Occidente e i barbari asiatici, russi e cinesi.
Tanto che, scaduta l’ennesima data per l’attacco alle centrali nucleari di Tehran, la guerra USraele-Iran, data per certa da quattro anni, cavalcata rumorosamente da arnesi dei servizi Usa come Scott Ritter e Seymour Hersh, creduta certa perfino dalla minuscola pattuglia di analisti seri, è passata in secondo, terzo, quarto piano. Dalla sceneggiata, recitata con pari impegno dai due soci-briganti dell’appropriazione indebita dell’Iraq, persiani e USraeliani, proficua per il controllo dell’area e della nazione araba per entrambi i collisi-collusi, si è passati allo scontro reale. I russi, osservanti rigorosi delle regole di cui l’imperialismo se ne impippa, giocano a scacchi, posizionano le loro pedine a difesa del re, Russia-Cina, e della regina, l’equilibrio multilaterale, unica garanzia di convivenza.
Pedine collocate all’interno delle repubbliche asiatiche, in buona misura recuperate dall’accerchiamento Usa di inizio millennio, nei paesi non colonizzati del Medio Oriente (Siria, Sudan) e dell’Africa, in America Latina e nella parte di opinione pubblica ormai insofferente all’avventurismo dei criminali di guerra euro-israelo-statunitensi..
Gli Usa, superato l’iniziale balbettio terzaforzista di alcuni europei intrecciati economicamente ed energeticamente con la Russia (Germania, Francia, Italia), come successo con l’Iraq, incalzano con il gioco di monopoli piantando la pedina Nato, grazie all’allineamento europeo, su fabbriche, palazzi, mercati, basi, terreni, lungo tutta la frontiera occidentale della Russia, nel Mar Nero, dove ormai scorrazzano liberamente le testate atomiche della Sesta Flotta. Come plusvalore, si mangiano anche il più dell’Unione Europea inserendo nel suo seno, in aggiunta alla marca est-europea già acquisita, le serpi velenose, in quanto più amerikane che europee, degli Stati criptonazisti del Baltico, l’Ucraina, la Moldova, e, più di tutti, la Georgia della rete di oleo- e gasdotti che, a suo tempo, non si era riusciti a sottrarre al transito russo mobilitando i terroristi ceceni rinforzati dagli ascari Al Qaida afghani. Nel monopoli statunitense bocconi decisivi erano anche e soprattutto giornali e televisioni. Non gli avrebbe potuto andare meglio. Se li sono pappati tutti. Con il risultato che le fratture aperte nel conformismo dell’opinione pubblica verso il sadismo degli psicopatici di Washington, Londra e Tel Aviv, a forza di non più occultabili barbarie , genocidi, tortura, abusi, stermini bombaroli, sono state almeno in buona parte saldate dall’incombere della rinnovata minaccia russa, parasovietica, parahitleriana. Risultato non da poco. E’ da vedere chi a questo punto tiene in mano i dadi.

L’Occidente doveva oscurare il dato che alla Georgia non spettava il benché minimo diritto internazionale per rivendicare sovranità su Abkhazia e Ossezia del Sud. Nel 1991, quando la Georgia si dichiarò indipendente, simultaneamente si dichiararono tali anche Ossezia del Sud e Abkhazia. Gli è andata meglio che alle Krajine serbe grazie al fatto che alle spalle avevano una Russia non più materasso eltsiniano. A garanzia di questa decisione, corrispondente alla volontà popolare, i peacekeepers russi stanno lì in virtù anche di un accordo politico firmato dalla Georgia, universalmente riconosciuto fino a quando i militari georgiani, presenti nelle forze di interposizione, non hanno preso a sparare sui colleghi russi e poi, subito, a uccidere migliaia di osseti, costringendone il resto alla fuga, distruggendone la capitale e molti villaggi. I russi non hanno fatto che ristabilire lo stato sancito dagli accordi. Avventura improvvida del gangster Saakashvili? Si pensi alle manovre alleate congiunte condotte giorni prima a 100 km dal confine russo, alla presenza a Tblisi, nei giorni precedenti l’assalto al Sud Ossezia, di Joseph R. Wood, assistente per la sicurezza nazionale del vicepresidente Usa e dio della guerra e del terrorismo Dick Cheney, alla visita a Saakashvili della signora Cheney subito dopo il ritiro russo e poi anche dal sanguinario consorte, all’imperversare in Georgia di ben mille contractors israeliani sotto i generali Israel Ziv e Gal Hirsh (pur reduci dalla debacle in Libano), nel plauso di ministri israeliani del governo georgiano, come Yakobashvili (Relazioni con il Sud Ossezia) e Kezerashvili (Difesa). Si pensi a quei sei “Hummer”, i blindatoni Usa, catturati in Georgia dai russi e trovati zeppi di quel sofisticato armamentario per la guerra elettronica che ha guidato passo passo le provocazioni di Saakasahvili in cielo, terra e mare. Si pensi con quale prontezza la Sesta Flotta Usa ha invaso, con missili a testata atomica, il Mar Nero, fornendo, tra dentifrici e carta igienica, ai bastonati georgiani quanto gli occorre per il prossimo giro di guerra e strusciandosi accanto alle navi da guerra russe con il rischio di una scintilla che i dementi di Washington si augurano da tempo. Ma a ridicolizzare l’idea di un’ iniziativa tutta del burattino georgiano, di per sé grottesca per l’assoluta mancanza di autonomia nei confronti di chi lo ha messo e lo tiene in sella, ci sono altri elementi.

Torna con Obama Brzezinski, tornano gli assassini dei Balcani, torna l’Eurasia
I consiglieri per la politica estera del autoproclamato reggicoda dei nazisionisti Barack Obama sono Madeleine Albright, Segretaria di Stato di Clinton e fidanzata a Rambouillet del tagliagole e narcotrafficante kosovaro Hashim Taqi, Richard Holbrooke, il truffaldino disfacitore della Jugoslavia e Zbigniew Brzezinski, già consigliere di Jimmy Carter e da quattro decenni massima personificazione dell’etica di guerra dell’elite Usa. Brzezinski aveva già indicato nel suo saggio “La grande scacchiera: Primato americano e imperativi geostrategici ” come, dopo la conquista delle Americhe, il centro per il dominio mondiale fosse diventato l’Eurasia. Adesso, con un futuro presidente meno inibito di Carter, è venuto il tempo per l’attuazione delle sue teorie. In un articolo sul “Time” chiede alla “comunità internazionale” se non sia disposta “a dimostrare al Cremlino che vi sono “costi fatali per lo scandaloso uso della forza al servizio di anacronistici fini imperiali”. “Le olimpiadi invernali a Sochi, in Russia, vanno boicottate”, comanda Brzezinski e “all’invasione della Georgia va risposto come rispondemmo all’invasione dell’Afghanistan e a Hitler”. Fu nel giugno 2008 che questo “venerato maestro” della geostrategia imperialista sottopose all’amministrazione il copione da seguire per rimettere nell’angolo la Russia (vedi il sito kavkazcenter). Profetizzato che la Russia avrebbe destabilizzato la Georgia per impossessarsi dell’oleodotto Baku-Ceyhan, giugulare delle petrolifere Usa-Gb per prendersi gli idrocarburi del Caspio, isolando così l’Asia Centrale dall’economia mondiale e provocando una crisi apocalittica all’ Occidente, ha suggerito il rimedio: controllare i paesi dell’Asia centrale come chiave per controllare l’intera Eurasia e mantenere la supremazia planetaria degli Usa. La motivazione per la “guerra infinita al terrore” sta tutta lì. Accusando la Russia di ambizioni imperiali, paragonando Putin a Stalin e Hitler e facendo il parallelo tra quanto Stalin ha fatto alla Finlandia e “l’invasione russa della Georgia”. Messo in chiaro, da parte della Squadra A dell’imperialismo obamiano Brzezinski-Albright-Holbrooke, che i russi stavano tagliando il cordone ombelicale dei rifornimenti energetici al lattante occidentale, ripetuto goebbelsianamente che Putin “è una minaccia”, “un autocrate”, un “restauratore sovietico”, “un imperialista”, si passa al piano d’azione: ostracizzare la Russia, isolarla, infliggerle sanzioni politiche ed economiche e soprattutto ricorrere al vecchio trucco di Brzezinski quando attirò l’URSS nella palude afghana: fallita la destabilizzazione della Cecenia: creare altri focolai di logorante guerriglia e di sanguinario terrorismo metropolitano. Per cui: vai, Saakashvili, vai, fai casino in Ossezia, noi arriviamo dopo, una volta convinta l’opinione pubblica mondiale che la minaccia mortale, il Mordor del fiancheggiatore letterario Tolkien, nuovamente sta a Oriente. Una trappola? Sì, se si considera che, per motivi sia etici che demografici, la Russia, in drammatico calo delle nascite dal tempo dello sfacelo eltsiniano, non può abbandonare né i 22 milioni di russi rimasti fuori dai confini dopo il crollo dell’Urss, né le tante minoranze etniche russofone (osseti, abkhazi, centroasiatici) che devono scegliere tra la sudditanza a pseudostati malavitosi sotto il tacco statunitense, e il ritorno all’interno di una grande potenza che ne garantisca difesa, dignità, progresso e immunità dai predatori occidentali.

Cosa c’è dietro e cosa viene dopo ll conflitto in Caucaso
Cosa ha prodotto nell’immediato la provocazione georgiana, al di là dell’attesa riemersione di un valido antagonista e freno alle tirannie guerrafondaie occidentali, al di là anche della deviazione dell’attenzione mondiale dall’abbagliante mattinata olimpica cinese alla notte del ritorno dei morti viventi asiatici in Tibet e in Georgia. Dello tsunami di un’informazione senza più remore nella propria identificazione con la cupola mafiosa mondiale s’è detto. Polonia e Usa hanno utilizzato l’occasione per sancire l’arrivo dello scudo missilistico d’attacco, insieme a un flusso poderoso di armamenti, contro l’opposizione del ben 70% dei polacchi. L’Ucraina non ha perso l’attimo e si è dichiarata disposta a ospitare anche lei qualche bella batteria di missili nucleari antirussi: non potrebbe essere minacciata da Tehran anche lei? Cechia, Ungheria, l’Italia che ha contrabbandato con Prodi lo scudo d’attacco di nascosto anche dal parlamento, non sono più soli. L’accerchiamento Usa della Russia e dell’avamposto antimperialista Bielorussia e l’avanzata verso la Cina si rafforzano. D’un tratto dal Baltico al Mar Nero non c’è stato Stato o pseudostato che non strepiti per l’immediato ingresso nella Nato e, quindi, ovviamente in un’ Unione Europea sempre più alla mercé di infiltrati Usa, degli Al Maliki e Karzai polacchi, lettoni, ucraini, georgiani, bulgari, ungheresi, cechi e tutti gli altri? La maggioranza dei 27 ! Altro che ruolo autonomo dell’Europa, specie se, con il concorso di tutta questa bella gente e l’apporto decisivo del Pentagono, gli Usa riusciranno a mettere le mani anche sui rubinetti energetici dell’Asia, dopo quelli mesopotamici (e domani sudanesi e africani). E sul mandato Usa a Saakashvili di assalire l’Ossezia del Sud non dice nulla un dato dirimente come quello che non ha visto, al momento della deflagrazione, aumentare il prezzo del greggio di neanche un centesimo, anzi continuare la discesa, quando prima bastavano una sparata di Ahmadi Nejad, uno starnuto di Olmert, un voto per Chavez a farlo schizzare in alto? I petrolieri Usa, vampiri della speculazione, sapevano bene cosa era in gioco.


Equidistanti?
L’Europa, dopo qualche borborigmo dissonante, è rientrata nel coro e si è fatta mettere in rotta di collisione con il suo principale partner economico di lungo termine e, con il voto dei nuovi entranti, ha dovuto mettere il silenziatore a qualunque divergenza tra UE e Usa. Come nel caso dei Balcani e del Medio Oriente, anche questa guerra è condotta contro l’Europa. La Nato, compatta, ha promesso sfracelli e immediate inclusioni delle mafioclientele orientali. Con la sollevazione dei terroristi ceceni manovrati dalla Cia e dal Mossad, sconfessati dalla stragrande maggioranza della popolazione in successive votazioni, con il Silk Road Strategy Act (Documento strategico Via della Seta), con il GUUAM (Accordo Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan, Moldova) e con l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, gli Usa hanno scatenato operazioni belliche e accordi economici tesi ad escludere la Russia dal sistema di rifornimenti energetici dall’Asia all’Europa. La provocazione georgiana e l’inevitabile risposta russa hanno fornito la ciccia ideologica – “le giovani democrazie orientali assalite dall’imperialismo russo” – per un consenso pubblico logorato dal sempre più ridicolo fantasma Osama bin Laden e dalla sempre più manifesta ipocrisia delle motivazioni per la guerra al “terrorismo islamico”. Forse è tempo che dalle nostre parti si riattivi Gladio. E pensare che, su questo sfondo, dove le ragioni stanno tutte da una parte e i torti tutti dall’altra, la “Reticella dei comunisti”, un gruppetto postautonomia romano, intima ai comunisti di “denunciare le conseguenze sociali devastanti della competizione fra le diverse potenze, nessuna esclusa” e impedire ogni complicità con ognuna di esse. E “il manifesto” titola: “Chi tocca un russo muore: Medvedev all’attacco della Nato”. Già, chi sta alla finestra e chi canta con il pifferaio di Hamelin. Sempre nel “manifesto” tocca tributare onore alla resistenza del sempre eccellentemente informato Manlio Dinucci che, al pari di Giulietto Chiesa clon la solita competenza schierato accanto agli aggrediti, scompagina tutte le ambiguità e superficialità del suo giornale: “E’ dal 1997 che la Georgia riceve aiuti militari statunitensi. E’ nel 2002, con il ‘Georgia Train and Equip Program’, che Washington ha di fatto posto l’esercito georgiano sotto il proprio comando….La prova generale è stata effettuata con la ‘Immediate response 2008’, l’esercitazione cui hanno partecipato truppe di Stati Uniti, Georgia, Ucraina, Azebaijan e Armenia, poco prima dell’attacco al’Ossezia del Sud. Non è quindi credibile che l’attacco sia avvenuto all’insaputa e contro la volontà di Washington. E’ stata un’azione chiaramente orchestrata per mettere ancora una volta la Russia di fronte al fatto compiuto o, in caso di forte reazione russa, per aprire una crisi che permetta a Usa e Nato di conquistare posizioni ancora più a est nella corsa all’oro nero del Caspio”. Inconfutabile. E c’è chi predica equidistanze. Utili idioti.

Imprescindibile: fuori la Nato dall’Italia, fuori l’Italia dalla Nato
L’assalto e le carneficine del corrotto autocrate-fantoccio Saakashvili, brutale, gratuito, indiscriminato, criminale, con 2000 uccisi e 34.000 su 73mila abitanti cacciati di casa, con il plauso mediatico mondiale e la contemporanea satanizzazione della Russia di Putin, ci danno ancora una volta la misura dell’alleanza in cui governanti felloni, svendendo la sovranità conquistata dalla Resistenza, ci hanno rinserrato dal 1945 e di cui Massimo D’Alema, copia fallimentare di Andreotti, nel 1999 ha firmato con entusiasmo la trasformazione in mattatoio universale, in contemporanea con i suoi allegri bombardamenti sui civili serbi. Questa ininterrotta e sempre più feroce proiezione di potere, di distruzione, di pulizie etniche e genocidi non può non preludere all’ olocausto nucleare globale, accidentale, o, come hanno programmato i più autorevoli boss dell’establishment Usa, volontario. Sempre che, prima, le devastazioni che il capitalismo di pace e di guerra va infliggendo al pianeta non rendano superfluo il fungo. E’ bastato molto meno, nel 1914 a Sarajevo, per far iniziare ai necrocrati occidentali il ciclo delle guerre capitaliste mondiali. La migliore rappresentazione filmica dell’ horror Nato è un banda di zombie che gira il pianeta con in una mano una tanica di benzina e nell’altra una scatola di fiammiferi, pretendendo di vendere assicurazioni antincendi. Meglio la Nato, per gli incendiari USraeliani e i loro arlecchini europei, che l’ONU: è il surrogato ideale, controllabile, compatto, per fornire una cornice legale ai crimini di guerra e sostituire un’organizzazione dove ogni volta tocca subire paralizzanti compromessi a causa di uno qualsiasi dei cinque veti nel Consiglio di Sicurezza

Forse il collante di una sinistra atterrata, ma che ancora non ha subito l’ultimo knock out,
dovrebbe essere uno slogan antico, messo in soffitta e coperto di polvere, con particolare zelo dai “nonviolenti”. Mai c’è stata un’emergenza libertà, povertà, sovranità, pace più acuta di oggi per riunirsi tutti sotto il vessillo “fuori la Nato dall’Italia, fuori l’Italia dalla Nato”, che comporta fuori Berlusconi, fuori Veltroni, fuori Bertinotti, fuori il privatizzatore dell’ acqua, vindice di brogli accertati e quaquaraquà del papa, Vendola, fuori la mafia ufficiale e ufficiosa. Fuori tutti i complici governisti, disposti a stare in una classe dirigente che si identifica e si fa proteggere da questi serial killer di massa. Di tutte le emergenze, nell’attualità, Vicenza è il punto cardinale. Combattere quella battaglia, vincerla, significa incidere un bubbone emblematico del vaiolo imperialista. Due anni fa Vladimir Putin pronunciò un discorso a Monaco che, per gli Usa, lo pose in fila con Fidel, Chavez, Morales, Correa, Mugabe, Al Bashir e al quale si può far risalire la decisione Usa di dare il via ai progetti elaborati da Brzezinski.

“Il mondo unipolare fa riferimento a un mondo in cui c’è un solo padrone, un solo sovrano…un solo centro di autorità, di forza, di decisione. Alla resa dei conti ciò è pernicioso non solo per tutti coloro all’interno del sistema, ma per lo stesso sovrano, perché distrugge il sistema dall’interno. Alla base di esso non ci possono i fondamenti di una moderna civiltà. Azioni unilaterali e illegittime non hanno mai risolto alcun problema. Anzi, hanno provocato nuove tragedie umane e creato nuovi centri di tensione. Guardate: le guerre e i conflitti locali e regionali non sono diminuiti. Si muore molto di più di prima. Molto, molto di più! Vediamo un crescente disprezzo per i principi di base del diritto internazionale…Uno Stato, ovviamente gli Stati Uniti, ha superato in ogni modo i propri confini nazionali, ha imposto le proprie direttive economiche, politiche, culturali ed educative ad altre nazioni. Chi ne può essere felice?... Sono convinto che abbiamo raggiunto il momento decisivo per pensare seriamente a una nuova architettura per la sicurezza globale.

Chi può dargli torto?

P.S.
Assistenti sociali e magistrati di Catania, dall’etica e legalità dettatigli da Don Rodrigo, hanno punito una madre e suo figlio perché Giovane Comunista del PRC, hanno affidato quest’ultimo al padre fascista e a un centro di recupero. M’era venuto l’impulso a rispondere invitando eserciti di compagni a iscriversi a Rifondazione e a dichiararsi malfattori estremisti da parimenti rinchiudere in centri di accoglienza (campi di rieducazione?). Poi ho visto la foto di Vladimir Luxuria in partenza per “L’isola dei famosi” e ci ho ripensato.

PP.SS.
In India hanno chiuso 25mila scuole cattoliche in seguito alle violenze scatenate dagli indù. Standoci i fuori testa indù tanto sulle palle come i chierici nostrani, cosa ci si potrebbe inventare qui per ottenere lo stesso beneficio?

martedì 16 settembre 2008

SEKURITY !


Lerner: rom sì, palestinesi no
Torniamo alle recenti assemblee della sinistra extraparlamentare, torniamo alla trasmissione “L’infedele” (rispetto a Lotta Continua?) di Gad Lerner, torniamo all’11 settembre.
Lunedì sera riprende la trasmissione di Gad Lerner, punta di diamante della lobby ebraica veltronista, un ossimoro ambulante che si indigna fino al rossore per i pogrom anti-Rom in Italia e, capovoltosi come un fante di fiori, nega perfino un’alzata di ciglio al genocidio dei palestinesi. Sarà infedele ai principi che coltivava nei suoi vent’anni della sovversione internazionalista, Gad, ma perbacco se non è rimasto fedele alla sua immagine di carta da gioco bifronte. Eravamo insieme a Lotta Continua, io direttore responsabile del quotidiano e inviato nei paesi dove c’era aria di conflitto contro i padroni, lui enfant prodige della rivoluzione, collocato nel taschino sinistro di Adriano Sofri (oggi al “Foglio” e al comando di bombardieri USraeliani). Con Gad e con Luca Zevi (nientemeno, oggi capo della Comunità ebraica) ne abbiamo organizzati di cortei per la Palestina. Io, che ero reduce dalle guerre di quel paese e Gad e Luca che erano consanguinei pentiti degli invasori, marciavamo nelle prime file, reggevamo striscioni con “Israele boia” , sventolavamo vessilli palestinesi, gridavamo “Fe-fe-fedayin” e “Palestina vince perché spara”. Poi, una volta, capitai a casa di Gad a Milano. Entrando toccava scartare per evitare una sporgenza: un abbagliante salvadanaio a strisce bianche e azzurre attaccato alla parete. La scritta al centro imponeva: “Offerte per far vivere Israele”. Da poco, con la guerra dei sei giorni, avevo visto gli espansionisti della “Grande Israele” divorare quel che restava della Palestina mutilata. Da poco il burattino di USraele, Hussein di Giordania, aveva fatto terra bruciata dei campi palestinesi in Giordania, con l’effetto collaterale di 20mila ammazzati. Da lì a qualche mese Israele sarebbe ripiombato addosso a tutti i paesi arabi confinanti: “Israele dal Nilo all’Eufrate”. Insomma, uno che passa da Lotta Continua al PD può fare queste acrobazie e peggio.

Un mondo tavalorizzato
“L’infedele” di lunedì scorso aveva un titolo trendy: “Security”, per noi trogloditi “Sicurezza”. Quella che un tempo significava sicuri del lavoro, sicuri della casa, sicuri della salute, sicuri del futuro, della vecchiaia, dell’acqua, della pace, di un’istruzione non gelminocastrante (avete sentito la consorella delle sette spade, Carfagna, proclamarsi "inorridita dalla vendita del proprio corpo di donna”? In successione sono comparsi sullo schermo Berlusconi con “mi fa orrore chi dice bugie e si tinge i capelli”, Cuffaro con “combatterò la mafia fino al’ultimo dei miei giorni”, D’Alema con “Mai conosciuto Colannino” e Veltroni con “Tra noi e Forza Italia c’è la differenza del giorno dalla notte”).
Si parlava dello scandalo intercettazioni Telecom-Sismi-investigator privati. Uno strafottente Giuliano Tavaroli (quello sotto inchiesta per aver spiato e dosseriato, insieme al capoccia Sismi Marco Mancini e alcuni spioni privati, mezza Italia) non rispondeva neanche a una delle domande dei suoi interlocutori e delle sue vittime: segreto istruttorio! Ma questo era un punto classicamente italiota, craxista, berlusconista. Il punto importante era che questa banda di cialtroni e ricattatori era la diramazione italiana di un sistema di “sicurezza” globale, partorito e padrinato dagli Usa e che non significa più casa o lavoro, ma videoriprese di ogni tuo respiro ovunque, teleascolto di ogni tuo borbottio con estrazione delle parole “eversive”, più polizia per cittadino di qualsiasi altro paese europeo, carcere ed espulsioni per chi differisce, militari sotto casa, fucilieri senza sicura agli impianti dei rifiuti, vigilantes che ti tagliano l’acqua se non paghi il vampiro privato e poi Diaz, Bolzaneto, Napoli, Chiaiano, identificazioni e perquisizioni come se piovesse e Al Qaida dappertutto. Abbiamo anche appreso che la “sicurezza” si è privatizzata a tal punto che Benetton, uno che nelle sue autostrade strangola gli automobilisti, dai suoi campi argentini elimina gli indigeni mapuche, nei sottoscala del Veneto faceva schiattare donne su telai per magliette cretine, può vantare un’armata privata di 7mila bravi. Lotito, nero padrone della Lazio, armeggia più sotto: 1.500 scherani armati. E’ la sicurezza, bellezza. A parlare corretto si chiama “sorveglianza”, “controllo sociale”, Stato di polizia. Se l’Europa, l’Occidente sono una fortezza contro quelli là fuori, anche i valvassori e valvassini devono avere fortini ed eserciti. I “contractor” Blackwater della Halliburton di Cheney e i duemila gorilla attorno ai quattro tromboni dei nostri poteri insegnano

Security o morte
La discussione all’”Infedele” rischiava di finire su binari sbagliati. Stava emergendo dalla tavarolizzazione del mondo occidentale, democratico, la realtà agghiacciante di una cittadinanza di sudditi spappolata in tutte le sue parti negli schedari di mille polizie culturalmente pronte alla delazione, al ricatto, al sospetto, a repressione, sevizie e alalà, come si vede dietro a ogni manganello. Ma provvidamente è balzata sul proscenio la parola-miracolo: 11 settembre. Ovviamente quello di 7 anni fa. Mica quello dell’esecuzione di Allende e del Cile, mica quello attuale del massacro di osseti da parte del farabutto Bushkashvili, o quello dei 90 civili (60 donne e il resto bambini) inceneriti dagli Usa in Afghanistan (da dove, sul “manifesto”, l’onesto Emanuele Giordana della dirittumanista “Lettera 22”, rimpicciolisce a 120 le centinaia di civili assassinati dall’occupante in una settimana), e neanche quello delle due bambine palestinesi arrestate e sbattute davanti a un tribunale militare, o dei pescatori palestinesi morti di fame, fatti bersaglio ai tiri della marina più democratica del mondo. Sono solo 11 settembre di effetti collaterali. Invece l’11 settembre delle Torri Gemelle, quello sì, quello del Pentagono, dell’ “America under attack”, dell’innesco alla “guerra infinita”, della lotta mortale al “terrorismo islamico” piano piano fatto epitome di sei miliardi di potenziali terroristi nel mondo. Trionfo di Tavaroli e dei parrucconi accademici che gli facevano da ghirlanda. E generale muggito di consenso da tutta la compagnia. E sì, come si fa a negare che con le Torri Gemelle e Osama ancora in giro e che sparge cloni fin tra i palestinesi, la “Sikurezza”, quella sikurezza, non è proprio evitabile. Pazienza per la privacy, la libertà. Meglio uno sgherro in casa, che un terrorista alla porta.

Qui casca l’asino. Come è facile constatare tutto, alla fin fine, è costruito sulle macerie e sulle vittime di Torri Gemelle, Pentagono e varie carneficine successive: le catene che ci mettono lavoro, nonlavoro e paralavoro, le manette virtuali e poi reali che ci trasciniamo ai polsi e alle sinapsi da quando entriamo in un’elementare di Berlinguer-Moratti-Gelmini, da quando veniamo nazificati dai videogiochi del “più morti ammazzati-più punti” ("capolavori" per il delirante "manifsto"), fino a quando sperimentiamo l’ebbrezza della tortura in qualche caserma, o veniamo presi di peso, perché sospetti, o islamici, sbattuti su un aereo Cia e infilati in un qualche divertimentificio carcerario in Egitto o a Guantanamo, o ancora finiamo nel mirino del mercenario armato che difende una discarica, il pozzo della morte sotto casa. E Amato, Rutelli, D’Alema, Veltroni, Maroni, Prodi, Berlusconi, sarebbero dove sono se non fosse per la scala mobile “sikurezza”? E non è la “sikurezza” il carburante che fa avanzare il rullo compressore del totalitarismo (per adesso bipartitico)?

O ne parliamo o ci zittiscono su tutto
Bene, di tutto questo non c’era gran traccia nei convegni della sinistra postcataclismatica, salvo qualche accenno a una democrazia “limitata”, “minacciata” . Non essendoci granchè di mondo al di là del campanile o della ciminiera, l’11 settembre non lo si vede proprio. Anzi, alzandosi sulle punte lo si potrebbe scorgere, ma si evita di guardare. Il “manifesto” riempie due paginoni di “rievocazioni”, senza riservare neanche una cacchetta di spazio tra le righe al grande movimento di contestazione della versione ufficiale sugli attentati, sfornata da coloro che obbedivano alla bacchetta del direttore d’orchestra. Del resto l’amerikanologo filoisraeliano Marco D’Eramo è uno provetto: strafatto della sua adorata Coca Cola, ha raccontato quattro giorni di “convention” repubblicana, senza mettere fuori il naso neanche un secondo a vedere le migliaia che manifestavano contro i tagliagole Bush, McCain, Palin e le botte che prendevano, botte condivise con suoi colleghi più lucidi, come Amy Goodman. Non male per un “giornale comunista”.
Non parlando di 11 settembre, si tentenna sul “terrorismo islamico” (salvo Giuliana Sgrena, del “manifesto”, che ci da dentro con croce e femminismo d’assalto) e si stende un velo bertisconiano sull’imperialismo (abolito, ricordate, non dal Pentagono, ma dal monarca PRC già ben sette anni fa). Ora l’imperialismo è con ogni evidenza il paracadute di un capitalismo che precipita a fil di piombo, si è riaperto quando questo stava per sfracellarsi al suolo. E qual è il rastrello con cui il capitalismo elimina le erbacce e, comunque, le presenze in eccesso, se non la “security”? Abbiamo una trinità che si vanta clone diretto di quella originaria. E probabilmente, a sentire Natzinger, lo è. Il padre il capitalismo, il figlio l’imperialismo, lo spirito santo la “security”. E siccome la messa in onore della trinità si celebra a Ground Zero, o sciogliamo il nodo 11 settembre-Al Qaida, o vinceranno sempre loro.

Ci sono filmati, libri, documenti, confessioni, testimonianze, perizie tecniche, decine di migliaia di sostenitori, nel Movimento per la verità sull’11 settembre. Ci sono perfino le famiglie delle vittime. Capi di Stato, come Fidel, Evo, Chavez, perfino ministri tedeschi e parlamentari Usa, a cui va riservata una credibilità che è pari alla diffidenza dovuta a Bush o Berlusconi, hanno evidenziato crepe come la faglia di California nel bugiardino del Congresso. Da noi uno dei tre o quattro giornalisti veri d’Italia, Giulietto Chiesa, fino al giorno prima universalmente stimato e creduto, per aver dedicato alla verità un film e un libro – Zero - dalle tesi inoppugnabili (e perciò ignorate), si è visto messo a margini della professione. La nuovo “Unità” dell’osannata Concita De Gregorio veleggia invece nei venti giusti e, nel segno di un 11 settembre da far rivivere come i morti viventi di Romero, fa colare da tutta una pagina “i tentacoli di Al Qaida sul Sud Libano” . E giù con apocalittiche minacce all’Unifil, “in particolare ai soldati italiani” (quelli delle Folgore degli orgasmi di Bertinotti) “perché i più benvoluti dalla popolazione locale” (sentite un’eco di “Italiani, brava gente?). E vai con Osama e Al Zawahiri e altri spettri made in Usa e con Al Qaida che vuole destabilizzare il Libano e attaccare Israele e combinare un armagheddon finale. Le fonti? Rigorosamente anonime: “intelligence oblige”. E sotto, a corredo, si titola “McCartney, sarà sangue”, giacchè se il beatle residuo suonerà in Israele, secondo un predicatore in Libano, sarà un bagno di sangue. Sono i crostini nel brodo security.

Scusate, ma dobbiamo star zitti solo perché qualche sciroccato e succube giornaletto o politichetto dell’ altrimenti già dimostrata pseudosinistra, o canta a piena voce nel coro imperialista “11 settembre”, o si limita a sorvolare, non ci deve essere chi si sporca le proprie impopolari mani con questa Al Qaida? Lo sanno tutti che Al Qaida è stata inventata e gestita dai servizi USraeliani fin da quando le hanno caricato il loro 11 settembre, da quando l’hanno gestita in Afghanistan, Bosnia, Kosovo, Algeria, Milano, fino a quando Israele non ha tentato di infiltrarla tra i palestinesi (ed è stato scoperto e smascherato), fino a quando si è scoperto che la cellula “Fatah al Islam” di Al Qaida, che ha combinato il casino di Nahr el Bared in Libano, era organizzata e finanziata dal boss filoamericano e filosaudita Hariri. E’ così difficile il due più due fa quattro?

Lottiamo contro la base di Vicenza? Ma la base di Vicenza non è uno strumento dell’imperialismo? E l’imperialismo di cosa si nutre se non della “sikurezza”? E la sicurezza da quale pancia è uscita? Andate a Ground Zero, vi troverete ancora frammenti di placenta. A guadar bene si vedono alcune stelle e strisce. Tacere è morire.

lunedì 15 settembre 2008

Un ombelico senza corpo?

Guardarsi l’ombelico è pratica divertente e ricorrente. E come penetrare in un buco nero. Tutto quello che sta attorno sparisce. Piedi per camminare, braccia per manovrare, occhi per vedere, orecchie per udire, organi preziosi per andare e venire, accogliere e rispedire. Soprattutto svanisce il cervello senza il quale neanche l’ombelico avrebbe senso e verrebbe alimentato.
Dipingere sull’aria farebbe sfigurare qualsiasi avanguardia concettuale, di quelle che lanciano secchiate colorate sulla tela, di quegli altri che esibiscono una pecora in agonia da fame. Però basterebbe un refolo, o una pioggiarellina estiva a far svaporare l’opera. Per lasciare traccia della propria creatività e trasmetterla all’osservatore, conviene dipingere su un fondo. E’ il fondo, la tela, la tavola, la porcellana, a tenere insieme gli elementi apposti, a evidenziarli, a trattenerli, a collegarli, a dargli un senso compiuto.Trattasi di metafore.

Assemblee
Mi è occorso di partecipare domenica a un paio di assemblee della sinistra che si divincola per risorgere e di quella che, più o meno, continua ad agitare le pinne sul bagnasciuga. Chi c’era sa di che parlo. Gli altri indovinino. Quanto alla prima, si sono sentire parole chiare su dove siamo e chi siamo e chi non siamo, appropriatamente si è parlato di quei delinquenti fascisti di P2 ormai al potere (aggiungerei: insieme ai nipotini di Toto Riina e Provenzano, sotto perenne tutela Usa), di tutta lo sconcio cialtroname che marcia sui nostri corpi e sul nostro territorio al comando del guitto-mannaro con al guinzaglio il guitto-coniglio. Di lavoro, scuola, Alitalia, diritti conculcati, sindacati confederali da scordare e sindacati di base da sostenere. Si è convincentemente chiarito che nulla ci sarà mai da aspettarsi da un PD che ha gli stessi referenti economici e sociali (aggiungerei: internazionali) dei governanti e quindi ne è collaboratore (aggiungerei: un po’ come il rapporto tra il parairacheno Al Maliki e i suoi padrini di Washington). Si è giustamente, ma indulgentemente definita “ debole “ la piattaforma da dame di S.Vincenzo della manifestazione nazionale dell11 ottobre 2008 a Roma, visto che la necessità di un’alternativa netta e strategica al partito bipartisan del guitto-coniglio non viene neanche citata nell’angolino di sinistra in basso.
La seconda, con affluenza pari alla prima di un film con George Clooney, tocca ammetterlo, aveva, tranne le vivificanti intemperanze di un operaio napoletano, l’andamento di una sommessa novena evangelica, con tanti bravi pastori a dirci quello che non va e, come andrebbe meglio se solo quei distrattoni del PD si allontanassero un tantino dai calcagni del guitto-mannaro. Una veneranda maestra ultraottuagenaria ha detto cose buone e belle, peccato che di soppiatto le sia scappato da sotto la gonna il suo memorabile voto per lo sterminio degli afghani. Era la Menaguerra, ovvio. Un’impennata di novità, di volume e fervore s’è avuta da un’oratrice lesbica che, politically very correct, ha sistemato la lotta di genere al posto della lotta di classe e ha fatto rimpiangere tutti di non avere tante più Sarah Palin, Condoleezza Rice, Hillary Clinton, Golda Meir, Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Angela Merkel, Vladimir dell’Isola…

Elettra contro Putin
Annuiva con soddisfazione l’ex-deputata Elettra Deiana, capo-ginocrate del PRC. Solo poche ore prima aveva presentato al Comitato Nazionale del suo partito un ordine del giorno che condannava “l’aggressione russa alla Georgia” (odg respinto). Per sostenere questo, alla faccia dei 1800 osseti massacrati insieme alla loro capitale due giorni prima che i russi intervenissero a stoppare questa nuova pulizia etnica dell’Impero e dei suoi sicari, aveva avuto scambi telefonici con alcuni compagni di tendenza. Con costoro aveva concordato di pronunciare la stessa loro battuta al sangue contro gli imperialisti dello “zar Putin” impegnati nello stupro della vergine signorina Georgia, fidanzata Nato: Bush, McCain, Cheney, Brzezinski, il potenziale presidente “di svolta” Obama, l’ayatollah tritacarne con Croce di ferro e cappuccio bianco Sarah Palin e tante altre brave persone in sintonia con Elettra.
Ah, questa Elettra, sempre la stessa. Era il 2003, vigilia dell’attacco all’Iraq ed Elettra aveva fatto un giretto di 48 ore al centro di Baghdad con una commissione parlamentare. Risolse di comunicare alle plebi, in un cinema di S.Lorenzo, le rivelazioni che aveva tratto da questa approfondita indagine. Maltrattò i suoi 30 minuti sparando una serie di grotteschi, ma dannanti stereotipi su popolo, paese, “regime”. Con trent’anni di Iraq alle spalle, ebbi l’ardire di chiedere la parola per scrostare un po’ di quelle deiezioni dalle sinapsi dei presenti e, a futura memoria, dalle pareti del cinema. Parola che fu accetta a tutti. Salvo che a Elettra che si alzò, si sotterrò in un cappottone fino agli aculei in testa e si allontanò con tutta la sua ginocorte, non senza aver prima lanciato addosso al malcapitato sottoscritto una raffica di onde acustiche che intimavano: “Grimaldi, vaffanculo!” A ognuno i suoi concetti, a ognuno il suo stile. Si compenetrano.

Ma la geopolitica, l’imperialismo?
Ciò che avevano in comune le due assemblee, la prima, mi auguro, per mancanza di tempo (è durata la metà di quell’altra), era un vuoto. Il vuoto del corpo intorno all’ombelico, il vuoto dietro alle raffigurazioni a colore del pittore. In quel vuoto, a mio modesto avviso, avrebbe dovuto esserci una cosa grande proprio come il corpo bucato dall’ombelico, come la tela che raccoglie i colori: la geopolitica e, dentro questa, l’imperialismo con le sue guerre.
C’è un detto francese tout se tien. Se nelle classi tolgono i maestri e ci infilano alunni (salvo quelli di altri colori) manco fossero i detenuti in sovrannumero delle nostre carceri e se riducono le università a mignotte in stracci di Benetton, non è forse perché alla cupola mondiale della criminalità politica organizzata conviene avere sudditi decerebrati e dunque passivizzati nel momento in cui gli si tolgono anche i denti, non solo per mordere, perfino per masticare? Se il fascismo trasuda dalle pareti della nostra casa nazionale come se fosse immersa in una vasca, non è perché il cannibalismo sociale impostato a Chicago e messo in orbita da Reagan-Thatcher a forza di schiaffi o prebende sia stato imposto alle colonie di tutto il dominio imperiale? Se precariato, delocalizzazioni e contaminazioni dell’ambiente minacciano la nostra sopravvivenza fisica, etica e intellettuale, non è perché il sistema è imposto e garantito dall’alto, dall’altissimo e lontanissimo, per opera della Citybank, della BCE, della General Motors, della Monsanto, della Lockheed e dai think tank che impostano l’intero ambaradan? Il costo della vita che fra un po’ farà del famoso ombelico il perimetro della nostra cintura non lo dobbiamo a quelli che fanno sparire il grano da pane per metterci il grano da agro combustibile, a quelli che su uno starnuto di Ahmadi Nejad costruiscono il petrolio da $150, ai borseggiatori della speculazione continentale?
E il vaiolo delle basi Usa su tutto il territorio nazionale e alcune migliaia di militari italiani al soldo dei poteri di cui sopra che vanno girando il mondo sparacchiando ammazzando gente e stuprando paesi, a chi fanno capo se non al Centcom, all’Africacom, al Sudcom, all’Asiacom dei terroristi di Stato Usa? E se i nostrani guitti da gran guignol sbroccassero, chissà, per intossicazione da Viagra o da camomilla, e decidessero di fare la scuola pubblica, gratis e con quanti maestri richiedessero la multiformità del mondo e ll pluralismo libero dei bimbi, assumessero a tempo indeterminato tutti i precari, agganciassero i salari al costo reale della vita, chiudessero anche un solo gabbiotto Usa, richiamassero i mercenari a riciclare la monnezza, spegnessero gli inceneritori, mettessero alle discariche boyscout al posto dei fucilieri, facessero le ronde con i senegalesi, tassassero a sangue rendite, case da 300mila euro in su e successioni, punissero con la chiusura ogni giornale che dicesse le stesse cose di un altro o del governo, mandassero in galera manager e ministri che hanno fatto scendere il valore dell’Alitalia sotto i tacchi dell’ultimo barbone per regalarla ai sodali (come il trio Soros-Draghi-Amato aveva fatto con l’IRI negli anni ’90), coltivassero azalee e carciofi in Val di Susa e raddoppiassero i treni dei pendolari… Finisco perchè il periodo diventa peggio di un piatto di peperoni a sera. Succederebbe che faremmo la fine dell’Iraq. O che la Cia, in carenza di effettivi con l’artiglieria, ci richiamerebbe all’ordine con un fuoco d’artificio Al Qaida da Piazza Venezia a Piazza San Marco da far impallidire il fantasma Osama e i predecessori di Stato che allestirono la stagione da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Emergenze non di regime, nostre
A me pare che non ci sia in molti la piena consapevolezza delle emergenze che ci inchiodano alle pareti come fossimo in quei cilindri rotanti dei lunapark. Emergenza libertà: tutti sospetti, tutti osservati, tutti schedati, i deboli tutti a Bolzaneto, chi mette il naso in piazza se lo vede spiaccicare dal tonfa, elezioni anticostituzionali che codificano il principio dell’eterogenesi dei fini, chi non si adegua peste lo colga (e la peste gira). Emergenza pane che serve a togliersi dai piedi gente di troppo per un pianeta da quattro paperoni, a obnubilarci al punto di farci la guerra tra noi. Sta arrivando uno tsunami mondiale, in particolare su repubbliche delle banane come la nostra, al confronto del quale il default argentino del 2001 (50% della popolazione alla fame) parrà la bancarotta di un bottegaio. Per evitare contraccolpi alle loro puttanate e ruberie, si attrezzano tipo Gestapo e IDF (Israeli Defence Force). Emergenza sovranità. Questa è l’emergenza di cui nessuno pare voglia parlare. Ci hanno messo del loro anche tutte quelle cornacchie che hanno inneggiato – facendo scompisciare i capi degli Stati Nazione grossi – alla fine dello Stato Nazione (e intanto hanno lubrificato la strada ai distruttori degli Stati Nazione piccoli e perfino a quelli plurinazionali) e al campanile municipale, più vicino al “basso” (per il solluchero di Bossi). Ma i partigiani col fazzoletto rosso e la bandiera tricolore si rivoltano nella tomba: uno Stato Nazione, che per loro avrebbe dovuto essere uno Stato Nazione Sociale, regalato gratis alla destra. Sovranità nazionale a sinistra è diventata una parolaccia e un esercizio retrò, e anche sospetto, la sua difesa contro prevaricatori esterni (che sono poi quelli che tengono in piedi ideologia e palazzo dello Stato borghese, capitalista, ladro, assassino, cattolico, magari di polizia e, come occorre allo Stato imperialista, ben frantumato in federalismo o peggio).

Ma come, siamo una colonia né più né meno che la Cisgiordania e, come Abu Mazen, il governo e i suoi sgherri lavorano per il re di Prussia. Siamo costellati dai bubboni mortiferi delle basi Usa che spurgano veleni sul territorio e stragisti sul mondo; dal 1945 non un battito di palpebra è stato fatto dalla nostra classe dirigente senza l’input, l’ordine, l’occhiolino, del padrone a stelle e strisce e del suo braccio armato mafioso.Tranne la miracolosa eruzione del ’68 e dopo, non c’è stato giorno della nostra vita che non abbia visto sorgere e tramontare il sole su comando dei padroni d’oltreoceano. Il dato è incontrovertibile: non si muove foglia che lo Stato imperialista, Leviatano più che mai, non voglia. E allora prima di buttar via lo Stato Nazione – che, tra l’altro, dimostra in America Latina e altrove di essere ancora un bel baluardo - prima di estinguerlo nel comunismo futuro, prima di rinunciare acchè sia lo Stato del proletariato allargato, tocca difenderlo. L’internazionalismo proletario è stato una bella cosa in Spagna, a Cuba, in Vietnam, in Palestina. Oggi è appena un buon sentimento e se non fa riferimento al tuo di Stato, prima trincea contro l’imperialismo, scade in demagogia da corteo. Sovranità è la parola di tutti coloro che sono impegnati nella liberazione dei popoli latinoamericani. Sovranità significa tagliare i fili che fanno ballare i burattini locali dal burattinaio esterno. Senza il motore dell’antimperialismo e della sovranità recuperata, camminano poco le lotte locali, s’è visto. Piccolo non è affatto bello. E’ una truffa, un disarmo unilaterale. Come la nonviolenza. Difatti vanno di pari passo. Sulla scacchiera dell’imperialismo le pedine di ogni colore si muovono secondo le regole e gli spazi della scacchiera. Quando ti tolgono la sovranità sei scacco matto. E’ la scacchiera che tocca rovesciare. Non facciamo i provinciali. E non diciamo, caro Paolo Ferrero, che a Vicenza stanno “raddoppiando” la base americana. Lasciamolo dire a Veltrusconi, La Russa e al commissario governativo Paolo Costa, quello del Mose caro a Rossanda. Ne stanno facendo un’altra, più grossa, più assassina e ce ne fanno complici tutti quanti. Noi dovremmo riflettere sul motto “Patria o muerte” che ha mosso e muove mezzo miliardo di latinoamericani e tanti altri. E anche i nostri partigiani.