martedì 30 giugno 2009

DA TEHRAN A TEGUCIGALPA: SUSSURRI E GRIDA (Più una chiosa sulla "rivoluzione verde" cara ai "rossi")









Cominciamo dalla chiosa.
A coloro che insistono a elevare inni alla “rivoluzione verde”. Stanziamento della National Endowment for Democracy (il reparto finanziatore della Cia)) e del brigante della destabilizzazioner George Soros ai neocon dell’ International Republican Institute: “110mila dollari per sostenere elementi riformisti in Iran e porre termine al loro attuale isolamento attraverso un progetto pilota che colleghi gli attivisti politici iraniani ai riformatori democratici di altri paesi. Il programma svilupperà una rete di appoggio internazionale ai riformisti iraniani, nonché rafforzerà le loro capacità di comunicazione e organizzazione attraverso la formazione di competenze e la fornitura di accessi all’informazione”. Seguirono i 400 milioni stanziati da Washington per innescare una rivolta “popolare” (cortesia di Paco Casal).
Quanto all’uccisione, in classico stile provocazione Mossad-Cia, di Neda Agha-Soltan, le cui immagini si ripetono all'infinito sugli schermi, si tenga presente che la 26enne giovane senza storia politica personale, è stata colpita alle spalle, lontana dagli scontri, mentre passeggiava isolata fuori da ogni manifestazione di protesta. Nonostante da quelle parti non succedesse nulla, erano presenti numerosi fotografi e telecamere che, nel giro di un paio d’ore, avevano fatto pervenire le immagini a BBC e Voice of America. La pallottola che le è stata tolta dalla testa non è del tipo usato in Iran. Quando i servizi segreti occidentali vogliono coronare le proprie operazioni con un martire, attribuendone l’assassinio al governo da destabilizzare, la scelta più efficace è quella di una giovane donna, suscettibile di provocare il massimo di partecipazione e commozione. Contemporaneamente le telecamere erano del tutto assenti nelle situazioni in cui i pacifici dimostranti di Musavi hanno devastato la città bruciando macchine, negozi, banche, mezzi pubblici e uccidendo con le armi 8 guardie.
Da più parti mi si chiede di fare una valutazione di quanto sta accadendo nell’Honduras. Non sono un esperto di Centroamerica e quindi mi limito a riprodurre questo articolo della ONG A Sud. Si tratta più che altro di una cronaca degli ultimi avvenimenti con qualche elemento sui retroscena politici, geopolitici e sociali. Manca il contesto, che del resto sfugge quasi sempre alle ong diritto- umaniste.
Quel che è certo che la”svolta” di Obama ha portato a un superamento dell’impotenza degli Usa di Bush nei confronti degli sconvolgimenti antimperialisti e progressisti in atto da una decina d’anni in America Latina. Come ha intensificato l’aggressione al popolo afghano, aumentando le stragi di civili nella speranza di demoralizzare la popolazione di un paese che è al 75% sotto controllo della Resistenza; come ha allargato il conflitto al Pakistan, sia massacrando i villaggi con i droni, sia costringendo con il ricatto economico-militare quel governo-fantoccio a lanciare una campagna di sterminio contro la propria popolazione pashtun (sommariamente definita tutta “taliban”, come i resistenti iracheni sono diventati tutti “Al Qaida” per i velinari del Pentagono); così sta impegnando le forze della destabilizzazione imperialista a rioccuparsi dell’America Latina in fuga.


Si comincia dal Centroamerica, più vicino, più fragile, con più forze fantoccio economiche e repressive ancora dominanti. Il predecessore del fiduciario nero dell’élite bianca di Wall Street e del complesso militar-industriale, era riuscito, dalla propria duplice esperienza, a insegnare al candidato vassallo Calderon come si scippano all’avversario di sinistra Obrador un milione di voti e, così, la presidenza di un Messico indispensabile per virtù di petrolio, narcotraffico e commercio di esseri umani. Si prosegue con messaggini inconsistenti a Cuba, però decorati di fiorellini per rincitrullire l’armata mondiale degli obamaisterici (alla “manifesto”) e nascondere le brighe reazionarie e colonialiste che si tornano a praticare altrove, a partire dal piano di assassinare prima Evo Morales e poi Hugo Chavez. Per far fuori costui durante la visita al Salvador, l’amministrazione di “svolta” di Obama ha riattivato nientemeno che il vecchio arnese del suo terrorismo di Stato (Stato primatista mondiale di terrorismo, seguito dappresso da Israele, Regno Unito e dall’Italia mafio-massonica), Luis Posada Carriles. Il serial killer che è stato mandato a imperversare nel Cono Sud da quando la Cia lo assoldò nel 1961 per la Baia dei Porci, ha sulla coscienza i 74 cubani fatti esplodere in aria nel 1976, assassini mirati in tutti i paesi latinoamericani, innumerevoli bombe tra le quali quella che uccise all’Avana l’italiano Fabio di Celmo, decine di tentativi di assassinare Fidel. Oggi, mentre da dieci anni cinque agenti cubani che avevano smascherato le trame dei terroristi di Miami, comprese quelle di questo arnese della delinquenza Usa, e le avevano denunciate allo stesso FBI, languiscono nelle carceri della Casa Bianca (e lo “svoltone” Obama ne ha fatto annullare l’appello alla Corte Suprema), Posada Carriles scampa e campa, protetto e onorato negli Usa.
l presidente honduregno Zelaya, non certo un bolscevico, ma politico liberale, si era messo in testa di limitare la manomorta genocida dei gorilla, bananieri Usa e oligarchi ladroni locali sul paese, proponendo un’assemblea costituente che mettesse la martirizzata nazione al riparo degli spolpatori del Nord. Ovviamente dalla fetida fogna dei “difensori della democrazia” mediatici e politici sono uscite solo esalazioni diffamatorie che, dell’intero processo costituente, sottoposto a sondaggio popolare, hanno menzionato unicamente la proposta di rielezione del presidente, come già fatto con le modifiche costituzionali di Hugo Chavez. A evidenziare i presunti propositi autoritari di Zelaya, laddove dalle nostre parti i capi di governo possono riproporsi all’infinito. Per primo, Zelaya, pochi giorni fa, aveva aderito all’ALBA, l’intesa bolivariana creata da Chavez per una rete di collaborazione economico-sociale di dignità ed equità, sottratta agli Usa e ai suoi organismi necrofori sovranazionali. Subito dopo aveva lanciato il referendum per un nuovo Honduras, sul modello di Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, chiaramente con il rinnovo del suo mandato, indispensabile garanzia del processo. E’ bastato per attivare l’antico riflesso di tutti i presidenti Usa, da 200 anni a questa parte, quando si tratta di far fuori popoli renitenti e sovranità non ligie, come quella italiana, a Nato. Cia e Scuola delle Americhe, bracci armati della bulimia divoratrice dei vampiri del Nord globale. Le gommose parole di perplessità pronunciate da Obama in merito al golpe, rientrano nell’ormai stracca retorica buonista di questo cialtrone con la ventosa sulla giugulare del’umanità, ma vorrebbero anche soddisfare la necessità di non scatenare ulteriormente la collera di genti latinoamericane che già marciano sulla via della rivoluzione. Né di mettere in imbarazzo i democratici pupattoli europei nella loro funzione di “palo” e ascari delle rapine imperialiste. Inoltre, come si fa a tentare un golpe reazionario in Iran, sotto la mimetica verde dei propri corifei autoctoni, detti “riformisti”, e poi non prendere le distanze da chi fa, per conto di Washington, la stessa cosa, addirittura con i gorilla e il rapimento del presidente?
Resta da proporre, con sentimenti che ti intorcinano le budella, il confronto tra la bandiere rosse e la vibrante e compiaciuta indignazione agitate dai nostri sinistri davanti all’ambasciata iraniana, e il vuoto abissale davanti ad altre ambasciate di Stati canaglia che sbattono lo stivale fascista sulla faccia di popoli cui la fame non ha ancora seccato la volontà di combattere. Dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Iran al Pakistan, dalla Somalia al Darfur, dalla Colombia e dal Perù, con i loro regimi terminator filo-Usa, all’Honduras. Dappertutto gli dice male, sempre più male. Gli dirà così anche a Tegucigalpa. E non per merito di falci e martelli di marca italiota.
Fulvio.




Honduras: colpo di stato contro Zelaya
Lunedì 29 Giugno 2009 08:58 A Sud
Dopo giorni di tentativi, pare sia riuscito ieri il colpo di stato in Honduras contro il presidente Zelaya, orchestato dalle destre politiche con l'appoggio delle forze armate. Il presidente è stato sequestrato dall'esercito. La tensione nella capitale Tegucigalpa stava montando da giorni dopo che il presidente Zelaya aveva annunciato un progetto di modifica della Costituzione, sfidando così il potere dell'esercito e del Congresso. Secondo le prime indiscrezioni, Zelaya era stato portato in una base militare, mentre l'esercito continua a tutt'oggi a presidire la sua casa.

Una nota di questa mattina informa che attualmente il presidente si troverebbe invece in Costa Rica, dove avrebbe chiesto asilo politico. "Sono stato vittima di un rapimento, di una cospirazione", sono state le prime parole di Zelaya alla tv locale Telesur al suo arrivo nel Paese, "e' stato un colpo di Stato", ha aggiunto. Il presidente ha raccontato che le sue guardie del corpo "hanno combattuto con i soldati per mezz'ora".

Nel frattempo in Honduras è stato nominato capo di governo golpista Roberto Micheletti, che ha dichiarato che reggerà il mandato fino alle nuove elezioniche saranno indette per novembre ed ha indetto un coprifuoco di 48 ore in tutto il paese.

Dal Costa Rica, Zelaya ha rivolto un appello ai suoi concittadini a manifestare contro il colpo di stato "pacificamente, senza violenza" e chiesto a "tutti i settori" della societa' di pronunciarsi controil golpe. "Gli autori del colpo di Stato "rimarranno soli e usciranno pieni di vergogna" da questa vicenda, ha proseguito Zelaya, che ha chiesto "il ritorno immediato" allo Stato di diritto, "che e' stato violentato".

Molte le dichiarazioni di solidarietà internazionale arrivate al presidente deposto e le voci di condanna levatesi da più parti. Tra gli altri l'OSA, il Mercosur e l'Alba hanno biasimato l'operato delle forze armate schierandosi dalla parte del governo vittima del golpe.

Oggi si riunirà d'urgenza l'Assemblea generale delle Nazioni unite per esaminare la situazione politica in Honduras, mentre migliaia di sostenitori di Zelaya hanno deciso di sfidare il coprifuoco di due giorni imposto dal nuovo capo dello Stato protestando sotto il palazzo presidenziale.

Nel frattempo i mezzi corazzati e i cecchini presidiano le vie della capitale, Tegucigalpa, mentre la pagina web del governo è stata oscurata. Il Governo golpista ha chiuso nelle scorse ore anche l'ultimo mezzo di comunicazione libero che trasmetteva nel paese: Radio Globo. Intanto è arrivata notizia che il dirigente di Via Campesina Rafael Alegria, è stato costretto a fuggire assieme a molti altri giornalisti, dirigenti sociali e sindacali che si sono dati alla clandestinità.


Si parlava di imminenti tentativi di golpe già da giorni, e giovedì pareva fosse stato sventato. Secondo il COPINH – Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell'Honduras, che il 24 giugno scorso aveva denunciato i tentativi di destabilizzazione del paese “si tratta dell'ultimo colpo di coda di una destra sconfitta che cerca di frenare la volontà popolare e la ricerca di vie democratiche per la trasformazione del
paese".

Da mesi la destra reazionaria cerca freneticamente di impedire la Consultazione Nazionale che era in programma per il 28 giugno e nella quale il popolo dell'Honduras sarebbe stato chiamato a esprimersi sulla convocazione di un'Assemblea Nazionale Costituente incaricata di elaborare una nuova costituzione e che aveva in progetto, tra l'altro, di eliminare la norma che stabilisce l'ineleggibilità del capo di Stato per più di una volta.

Mercoledì notte, il Presidente della repubblica Zelaya, di fronte al rifiuto del capo delle forze armate a distribuire il materiale elettorale, lo aveva destituito. Da lì in poi si erano innescate una serie di dimissioni a catena, scatenando una tempesta mediatica. Giovedì mattina, la giudice di alta istanza della magistratura aveva puntualmente sfornato una sentenza fatta su misura dai committenti golpisti annullando la destituzione dell'alto capo militare.

Dopo la destituzione del capo di stato maggiore, i cittadini erano scesi in piazza, con a capo lo stesso presidente, per recuperare le urne e le schede che i militari si rifiutavano di distribuire nelle circoscrizioni elettorali. Il popolo honduregno si era riversato nelle strade anche per difendere il presidente e il processo di cambiamento messo in moto attraverso, ad esempio, l'adesione all'Alba e alla Petrocaribe e la convocazione dell'Assemblea costituente.

L'offensiva golpista è stata pianificata e eseguita in maniera articolata dal Congresso Nazionale, i mezzi di comunicazione e i loro propietari, gli imprenditori e le Forze Armate. Secondo le notizie arrivate, l'esercito avrebbe assunto un ruolo simile a quello ricoperto negli anni '80, quando era nient'altro che uno strumento in mano ai poteri forti per garantire ordine e seminare repressione.

Inutile sottolineare come questo golpe rappresenti un atto di aggressione contro il popolo dell'Honduras, realizzato di comune accordo dalle gerarchie della chiesa avangelica e cattolica con le frange golpiste, con l'ingerenza del governo degli Stati Uniti e la sua ambasciata in Honduras che, informati previamente dei fatti, hanno abbandonato il paese invitando i funzionari della Banca Mondiale e del FMI a fare lo stesso.

Nei giorni scorsi, gli Stati Uniti avevano fatto sapere di aver ricevuto rischieste di appoggio da parte dei golpisti e di aver rifiutato. Tuttavia il silenzio mantenuto da Washington nelle ore successive al golpe fa riflettere sulla portata reale del tanto declamato “cambio di strategia” degli Usa in America Latina.

Secondo il COPINH, gli Usa, impossibilitati dai processi in atto ad incidere profondamente sulle sorti dell'America del Sud, avrebbero valutato più conveniente, nel frattempo, tornare a ingerire – come fu costume negli anni 70 e 80 – sulle sorti dei più prossimi e gestibili paesi dell'America centrale.

C'è anche da considerare che sul 2010, anno prossimo a venire, la preoccupazione è tanta. La data è altamente simbolica, e in Messico qualcosa di grosso si prepara. A 200 anni dall'indipendenza e 100 dalla rivoluzione zapatista, il monito del popolo messicano che si prepara a riprendere in mano le redini del proprio destino preoccupa non poco le stanze dei bottoni oltrefrontiera.

È quindi palese, come non hanno mancato di sottolineare movimenti, organizzazioni e reti sociali, che questo Washington non può permetterlo, anche a costo di lastricare la strada per Città del Messico di “momenti preparatori” come quello di ieri.

Redazione A Sud

venerdì 26 giugno 2009

DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI (LA RIVOLUZIONE VERDE). Con menzione speciale a Giuliana Sgrena










Finchè le persone credono ad assurdità, continueranno a commettere atrocità.
(Voltaire)

Nulla è più facile dell’autoinganno di chi ritiene vero semplicemente ciò che desidera.
(Demostene)

Le foto qui sopra rappresentano, accanto ai manifestanti di Musavi, alcune delle centinaia di vittime dei servizi segreti già dello Shah, Savak, poi sussunti pari pari dal primo ministro di Khomeini, Mir-Hussein Musavi, per annegare in un oceano di sangue centinaia di migliaia di rivoluzionari comunisti e islamisti di sinistra che avevano cacciato lo Shah e fatto trionfare una rivoluzione laica e progressista. Si dovebbero aggiungere le immagini del milione di morti provocati da Musavi negli otto anni di guerra all’Iraq commissionatagli da Ronald Reagan per ridurre l’Iraq alla ragione imperialista e punirlo per aver costituito il Fronte del Rifiuto arabo contro la resa egiziana a Israele.
Se uno voleva appendersi in casa, a mo’ di ammonimento, accanto all’immagine del Che, l’epitome della disintegrazione epistemologica, morale ed escatologica della sinistra, bastava che fotografasse la non si sa se più patetica, o miserabile, scena ieri davanti all’ambasciata iraniana di Roma. Insieme a quattro scaltri iraniani esiliati da trent’anni, del tutto ignari del loro paese, ma speranzosi di rientrare sull’onda munifica della “democrazia”, utili imbonitori dell’ io sono iraniano, io so, un gruppetto di autoctoni agitava le bandiere rosse falci martellate dei due partiti fusi o sfusi, inveiva contro i brogli, inneggiava a Hussein Musavi e ai diritti umani senza la mordacchia di barba e velo. Privi totalmente di bussola, inconsapevoli della funzione attribuita ancora alla loro putrescenza, questi “comunisti” (s’intorcina la lingua a dargli tale nome) si ritrovano a braccetto, anzi proprio lingua in bocca, con il più micidiale concentrato di ammazzamondo mai rigurgitato dalla storia umana. Ecco gli indignati dirittoumanisti di Ferrero e Diliberto e, idealmente sullo stesso marciapiede, passeggiatrici come Ciro Reza Pahlavi, erede dell’imperatore da operetta, boutique e stragi, che dalla Casa Bianca si è offerto ai “rivoluzionari verdi” come nuovo Shah e simbolo del’unità nazionale, la coppia Rajavi, leader dei Mujaheddin Al Khalk, mercenari prima di Saddam e ora della Cia, di stanza a Parigi e Washington, Henry Kissinger, che due settimane prima del pogrom verde aveva anticipato una sommossa popolare per buttare giù il “regime”, Netaniahu che non sta più nelle scaglie per vedere avvicinarsi l’ora in cui potrà incenerire nuclearmente il fastidioso rivale regionale, Bush, Obama e tutta l’accozzaglia neocon che per gli eventi di Tehran hanno stanziato 400 milioni di dollari due anni fa, le solite agenzie della destabilizzazione (Ned, Freedom House, USAid, American Enterprise Institute, Council of Foreign Relations) che hanno istruito e foraggiato i caporioni della rivolta, con gli stessi manuali, fondi e tecnologie delle identiche operazioni passate (Serbia, Ucraina, Georgia, Libano, Venezuela….).

La piovra imperialista usa tre tentacoli: quello estremo, fallite le altre opzioni, è la guerra d’aggressione e di sterminio; quello iniziale è l’intervento del Fondo Monetario Internazionale che, corrotto qualche tirannello del paese da depredare, gli impone un debito per Grandi Opere che non si realizzano, debito che non si riesce a ripagare, per cui diktat FMI per misure di aggiustamento finalizzate a spogliare il paese di ogni bene e gettarlo nell’immondezzaio della globalizzazione. Il terzo tentacolo viene mosso quando l’aggressione bellica non è praticabile alla luce del rapporto costi-benefici, o quando l’artiglio FMI non ha potuto far breccia in un establishment custode della sovranità nazionale. E’ quello della destabilizzazione in atto in Iran, riuscita in Serbia, Georgia, Ucraina, fallita in Moldavia, a Beirut e a Caracas. Le sinistre, con falce e martello o senza, sbronzi di prosopopea eurocentrista, colonialisti alla pizza, ignari della merda che gli cola sugli stendardi dai sovrastanti vessilli imperiali, sono il sound-system che accompagna gli sbancamenti del caterpillar. Lo stesso che gli Usa forniscono a Israele per radere al suolo case e ulivi d’intralcio alla pulizia etnica. Non si salva proprio nessuno. In questi giorni di sisma geopolitico dell’8° grado, di aggressione imperialista all’ultimo Stato indipendente e forte nelle due mezzalune che costeggiano il mondo arabo e l’Asia russa e cinese, perfino i puri e duri Comunisti Uniti hanno dedicato (me compreso) mille tempi ed energie informatiche allo sclerotizzato provvedimento di espulsione di Marco Rizzo dal PdCI per aver denunciato le frequentazioni del suo segretario, Diliberto, con gentaccia della P2. Non s’è udito un colpetto di tosse su un fenomeno che rischia di buttarci per aria tutti.
Quando Bertinotti abolì l’imperialismo e nel presunto vuoto infilò la nonviolenza e la scomparsa del “nemico”, il virus deve essere penetrato anche in chi pensava di essere schermato. Dice Giulietto Chiesa, uno che studia, guarda e capisce, che la sinistra è stata sconfitta perché ha sbagliato l’analisi della società italiana e, prima ancora, l’analisi del mondo globale. Le ha sbagliate perché, autoreferenziale, compiaciuta e narcisistica com’è, non le ha studiate. Per l’ennesima volta la cantonata voluta prendere sull’Iran e sul quisling in pectore Musavi, dimostra che non ha saputo capire la portata della cosiddetta “guerra contro il terrorismo internazionale”, tanto da far svaporare il grande movimento contro la guerra (peraltro pesantemente intossicato dalle infiltrazioni umanitariste). Ha accantonato, e dunque accettato, nella sua identità truffaldina e nella sua immensa portata geopolitica e geostrategica, addirittura antropologica, la balla cosmica dell’11 settembre. Ha accettato, senza dirselo e senza dircelo, la narrazione del mondo dei dominatori. Non ha visto niente.

E ha continuato a mutare geneticamente il suo linguaggio, fino a renderlo compatibile con quello dei necrofori, ma facendolo incomprensibile e inutile ai più. Oggi si è attaccata allo strascico di un delinquente e venduto come Musavi, senza neanche andare a vedere le ricevute Cia e Mossad (vedi mio precedente post) che gli spuntano dalle tasche. Senza neanche farsi passare per la testa che anche quello in corso in Iran potrebbe essere un’operazione sporca yankee-sionista, da collocare nel quadro della “guerra infinita” dei ricchi contro i poveri, cioè della lotta di classe. Fighe, queste sinistre! Trascurano addirittura il buon lavoro svolto da Musavi quando, acquistate armi dagli amici israeliani, il pagamento lo ha indirizzato a Reagan e Oliver North perché la facessero finita con quei senzadio di sandinisti in Nicaragua (Iran-Contra), Non ci provano neanche a riequilibrare il loro sostegno ai crimini imperialisti con qualche sospiro sui 70 partecipanti a un funerale massacrati da un drone Usa in Pakistan, o sui 140 civili trucidati in un villaggio raso al suolo in Afghanistan, piccolo campione, negli stessi giorni, di un genocidio che Obama ha allargato dall’Afghanistan al Pakistan.

Ieri sera sono andato a un’iniziativa di tale associazione BADGIR, di iraniani esuli e loro allievi, capeggiata dal classico personaggio di estrazione tra il l’intonacato di Assisi e il non-violento equo e solidale. Ci vengono somministrate strazianti testimonianze di martirio lette da connazionali emule delle verdi signorine dei quartieri alti di Tehran, un filmato che rinnova l’accuratissima selezione fatta dalle inviate dei lobbisti sionisti dei nostri media, compresa la scena apicale della povera Neda morente, un predicozzo accorato del locale Ghedini di Musavi che, per correttezza e completezza dell’informazione-valutazione gareggia con i pronunciamenti di Berlusconi su terremoti, crisi e ragazze-immagine a Villa Certosa. Ho tentato di suscitare qualche dubbio chiedendo se non fosse curioso che per quei manifestanti bastonati a Tehran c’è l’appassionata solidarietà e l’incondizionato sostegno di quegli stessi che altri manifestanti li hanno massacrati di botte e di spari ai Genova, Londra, Rostok, a Ginevra, Seattle, Cairo (per la Palestina), Ramallah (dove il quisling Abu Mazen trucida partigian),Grecia. Non raccolto.

Ho provato allora a raccontare alcuni fatti. Visto che il corifeo della rivoluzione verde aveva denunciato, a prova inconfutabile dei brogli, l’impossibilità del “regime” di conoscere i risultati appena poche ore dopo la chiusura dei seggi, ho spiegato che le urne installate in Iran erano 45.713 e che ognuna poteva contenere fino a 860 schede, ognuna con la semplice scelta di un solo nome. Ci vuole più di un paio di ore per contare 860 schede per urna e trasmettere i conteggi elettronicamente al centro? No, non ci vuole. Senza contare che la scienza statistica ha provato che basta lo scrutinio del 5% dei seggi per avere una certezza del 95% del risultato finale. Non era più sospetto il fatto che Musavi, dato per perdente per due a uno da tutte le rilevazioni straniere fatte nei trenta giorni della campagna nelle trenta provincie del paese, due ore prima della chiusura dei seggi si fosse già proclamato vincitore? E che questa rivendicazione era basata su una lettera, provata poi apocrifa, di un impiegato di basso ordine alla Guida suprema Ali Khamenei che, ore prima della chiusura, annunciava la vittoria di Musavi? Come se un tale esito potesse essere oggetto di corrispondenza tra un travet del ministero degli interni e la massima autorità del paese.

Da anni i servizi segreti israeliani e anglosassoni sanno come controllare e intervenire sulle reti sociali. Non è sorprendente che alla notizia della stravittoria di Ahmadi Nejad, decine di migliaia di telefonini ricevessero sms anonimi in cui si invitava alla rivolta, alle concentrazioni in dati luoghi, ai parafernalia verdi da indossare? E innocente il fatto che sia sfuggito all’attenzione degli scrupolosissimi narratori degli eventi iraniani quel celeberrimo Jared Cohen, del reparto “policy planning” del Dipartimento di Stato Usa, che, prima, ha diffuso un video su come organizzare una folla eversiva e, poi, riempito di comunicati all’uopo tutti i twitter iraniani, ha chiesto al “social network”di ritardare i programmati lavori di manutenzione nelle ore critiche della rivolta di Tehran, onde non interrompere il flusso dei suoi tweets ai compari persiani? E come mai il guru locale di Musavi non si era peritato di far apparire il rivale battuto come vindice dei bisogni sociali, proprio all’ombra di un padrino, Rafsanjani, uno degli uomini più ricchi del mondo, corrotto ladrone e fautore di liberalizzazioni e privatizzazioni (petrolio in testa, povero Mossadegh) contro i provvedimenti sociali adottati per i poveri dal presidente uscente, pur sotto il morso delle sanzioni inflitte al paese? Come mai, ululando contro la sanguinosa repressione di pasdaran e basiji, secondo lui partita ancor prima delle manifestazioni, ha trascurato di parlare della caterva di immagini trasmesse da televisioni non assoldate, come Al Jazira e anche alcune emittenti Usa, che mostravano turbe di rivoltosi che, all’atto dell’annuncio finale, già stavano devastando la città bruciando cassonetti, banche, negozi, edifici pubblici e sparacchiando a più non posso? Cosa ne è stato delle otto guardie uccise dai rivoltosi verdi di cui, tra i denti, hanno riferito i telegiornali italiani solo poche ore prima? E a proposito della giovane Neda, la cui agonia è diventata una specie di icona cristologica, presuntamente colpita nel fuoco degli scontri, che invece si trovava a passeggio da sola, in piena tranquillità, lontanissima dalla zona delle turbolenze, senza presenza di polizia o armati di alcun genere, ma fulminata da un cecchino invisibile e ignoto? Perché si sarebbe dovuto uccidere una donna disarmata, lontana dal conflitto, senza storia politica personale? Per fornire un martire alle forze che puntano alla disintegrazione del paese? Non gli veniva spontaneo il ricordo dei tiratori scelti installati dai golpisti venezuelani sui tetti, assassini, insieme ai poliziotti arruolati nel golpe, di una sessantina di difensori della legalità, dissolti nel nulla ma filmati e riconosciuti come agenti israeliani?

Come mai sono sfuggite al nostro apostolo verde, come anche agli occhiuti professionisti della nostra informazione, nessuno dei quali ha mai sentito il bisogno di riferire il parere di chi non fosse aureolato di verde e elegante padrone dell’inglese, alcune date assai significative, come: 23 maggio 2007, ABC News: La Cia ha ottenuto il nulla osta segreto presidenziale per allestire operazioni “nere” destinate a destabilizzare il governo iraniano; 27 maggio 2007: Il quotidiano londinese Telegraph riferisce: Bush ha firmato un documento ufficiale che approva i piani della Cia per una campagna di propaganda e disinformazione intesa a destabilizzare e quindi deporre il regime teocratico dei mullah in occasione delle prossime elezioni presidenziali; 16 maggio 2007, il Telegraph riporta le dichiarazioni dell’ambasciatore Usa all’ONU, John Bolton, secondo cui un attacco militare Usa all’Iran sarebbe l’opzione estrema, dopo il fallimento delle sanzioni economiche e del tentativo di fomentare una rivoluzione popolare; 29 giugno 2009, il premio Pulitzer Seymour Hersh scrive sul New Yorker: Il Congresso ha approvato una richiesta del presidente Bush di finanziare una forte escalation di operazioni coperte contro l’Iran, finalizzate a destabilizzare attraverso sabotaggi e moti popolari la leadership religiosa del paese; 9 giugno 2009, poche ore prima delle votazioni, il consulente neocon del Dipartimento di Stato Kenneth Timmerman scrive: Si sta parlando di una “rivoluzione verde” a Tehran. La National Endowment for Democracy e George Soros (sempre quelli da Belgrado in qua) hanno già speso milioni per promuovere una rivoluzione colorata… Buona parte del denaro è stato indirizzato nelle mani dei gruppi filo-Musavi che hanno ottimi rapporti anche con altre Ong internazionali; due settimane prima delle elezioni, Henry Kissinger (quello dell’assassinio di Allende e del golpe di Pinochet) dichiara che ci sarà una rivoluzione verde in Iran alla quale il mondo libero dovrà dare tutto il suo appoggio.

Come facevano questi fetidi figuri a sapere, prima del voto, che ci sarebbe stata una “rivoluzione verde”, a meno che tale rivoluzione non fosse stata accuratamente preparata in quei quartieri? Visto anche che Musavi e i suoi si dicevano tanto fiduciosi della vittoria? Vogliamo scommettere che nessuno dei bravi giornalisti, dei commossi e indignati lottatori per la democrazia e i ditti umani risponderà a queste domande? Certamente non quella Marina Forti, sincrona con tutto quello che viene rigurgitato da Tel Aviv, che da settimane riempie il “manifesto”, ora affiancata anche da quel dabbenuomo di Tommaso de Francesco, con il monopolio delle voci musaviane, la favola dei brogli, gli osanna ai “giovani” filo-occidentali. Ma neanche risponderà quella indicibile perla nella collana delle cacasenno che dal rapimento in Iraq ha spiccato il volo per la cattedra della più filoamericana esperta di cose mediorientali nell’intero cucuzzaro mediatico italiota.






Avrei voluto porre altre questioni all'avvocato del papi persiano trombato. Ma la di lui sensibilità democratica a questo punto si dissolse svanì come il profumo di una rosa in sfacelo.. Sbattuta con violenza una cartelle sul tavolo, si mise a sbraitare cose intrugliate e incomprensibili, probabilmente senza senso. Alla Ghedini, appunto. Poi, in un impeto battagliero, si lanciò al di là della tavola e, insieme alla moglie strepitante e che pareva un mulino a vento sotto la bufera, sempre urlando, mi si avventò contro. Il bassotto Nando, non avvezzo a escandescenze persiane, tirò il guinzaglio e mi trascinò fuori. A riveder le stelle.




Chiudo malissimo questo pezzo, nel senso che parlo di sfaceli politico-professionali riferendomi a un’ultima pagina del “manifesto” (24/6/9) intitolata “Baghdad, la speranza”, con riferimento a un Iraq che sta vivendo una grande offensiva della Resistenza e, simultaneamente, come sempre, il depistaggio da quella attraverso stragi confessionali operate da Usa e fantocci. Riproduco dall’unico giornale che disperatamente ci tocca leggere, con un senso forte di nausea, alcune gemme di una piena e gioiosa legittimazione dell’apparato assolutamente delinquenziale dagli occupanti messo in testa al popolo più martirizzato del mondo. Avallata la fandonia che ormai “tutto va bene, madama la marchesa”, di democrista memoria, nell’Iraq ininterrottamente maciullato da occupanti, carcerieri, milizie di marca iraniana, torturatori, ladri di Stato, Giuliana Sgrena offre una splendente tribuna al ministro degli interni (non ministro-fantoccio, come avrebbe scritto Stefano Chiarini, che si rivolta nella tomba come una trottola), Jawad al Bolani. Ne esce un ritratto dell’uomo e del paese che non sfigurerebbe se fatto al campione del buongoverno delle Mille e una notte, Harun El Rashid. Di suo, la piagnucolona islamofobica aggiunge di tanto in tanto solo incisivi riferimenti a quei brutaloni di Al Qaida che ostacolano la generosa ricostruzione democratica e sociale tentata con tutti i mezzi dagli occupanti e loro emissari indigeni. La Resistenza, che ha ripreso a uccidere un soldato yankee al giorno, decine di contractors e militari fantocci e agisce con crescente intensità nella regione tra Baghdad e Mosul, per Sgrena non esiste. Esiste Al Qaida, si DEVE chiamare Al Qaida, che a nessuno più venga il dubbio che i bravi governanti e i loro padrini avrebbero già rimesso in piedi paese e popolo, se solo non ci fossero quei dannati terroristi islamici. Ovviamente inventati, anche dalla solidale Sgrena, per satanizzare i partigiani della liberazione, con il risultato che non c’è più al mondo uno straccio di compagno che solidarizzi con quelli. Gongolante di orgoglio patrio, Sgrena arriva addirittura a chiedere al delinquente installato al ministero della repressione se è davvero soddisfatto dell’addestramento che i nostri carabinieri impartiscono a quegli ascari dell’occupante che sono i poliziotti iracheni. Entrambi esultano agli onori e ringraziamenti, resi nella risposta, al contributo offerto dall’Italia “sotto la supervisione della Nato”. Impagabile la speranzosa domanda finale della “giornalista comunista”: “Comprerete anche armi dall’Italia?” Dalla Finmeccanica sono subito partiti i commessi viaggiatori.

Sarà stata la fretta, la simpatia ispiratagli dell’interlocutore, le secchiate di vernice rosa da spandere su tutto l’Iraq, rimane curioso che Sgrena non si sia ricordata che quel Ministero degli Interni governava milizie personali che andavano in giro a trapanare la testa a gente con nomi sunniti, a rastrellare donne e bambini da stuprare o minacciare di ogni possibile tortura se non avessero fornito dati su mariti, padri, fratelli, figli, combattenti. O solo oppositori. Che in quel ministero gli stessi statunitensi, scottati da Abu Ghraib e seguenti e desiderosi di riequilibrare la manomorta scito-iraniana sull’Iraq e sul genocidio con la propria, scoprirono negli antri sotto l’edificio un’immensa prigione, sale di tortura, fosse comuni e residui umani che neanche Auschwitz. Del tanfo di morte che si sprigiona da quei sotterranei e che aleggia in tutto l’edificio e insudicia ogni parola del suo interlocutore “ministro”, Sgrena non si è avveduta. Saranno stati i profumi di Tehran Alta, passatile da Marina Forti, ad averla circonfusa e protetta.

martedì 23 giugno 2009

"CON QUESTI NON VINCEREMO MAI!" IRAN: l'internazionalismo destro dei sinistri









































I peggiori mali che l’uomo abbia inflitto all’uomo sono venuti da persone che si dicevano certe di qualcosa che, in effetti, era falso.
(Bertrand Russell)
Fare propaganda è convincere la gente a farsi una convinzione nascondendole i fatti.
(Harold Evans)
Il linguaggio politico è finalizzato a rendere bugie verità e guerre rispettabili, e a dare un’apparenza di sostanza al vento.
(George Orwell)

Dunque, la rinnovata adesione del PRC alla truffa dei “due stati per due popoli in Palestina” e alla “lotta del popolo iraniano”, lo pone in ottima compagnia: Netaniahu, Obama, Cicchitto, Sarkozy, la Cia, il Mossad, TG1, TG5, CNN, BBC, l’intera banda della disinformazione universale e, immancabile alle scadenze dei genocidi, Adriano Sofri.
Così il “manifesto” e “Liberazione”, condotti per mano dai fiduciari di punta della lobby ebraica. Così, petto in fuori e vessilli crociati o laici al vento, tutta l’armata pacifinta e diritto-umanista che, serrati gli occhi sull’obliterazione di Iraq, Palestina, Jugoslavia, Afghanistan e ora, grazie alla “svolta” di Obama, anche Pakistan e Somalia, torna a infervorarsi, come ai tempi di Sarajevo, Belgrado, Kiev, Tblisi, Beirut, per l’affresco dell’Iran appeso dall’imperialismo bianco, cristiano, civile, moderno, nel museo colossal delle Grandi Turlupinature della Storia.

Del PRC non c’è da meravigliarsi. Al guinzaglio del guinzagliato Veltrinotti in marcia di avvicinamento al postribolo borghese, il partito aveva affidato il suo internazionalismo a Von Klausewitz della geopolitica come Salvatore Cannavò e Ramon Mantovani, che celebravano la resa della Serbia a Usa-UE per mano dei “compagni no-global”, ma anche Cia, di Otpor (poi operativi in Georgia e Ucraina); o come Gennaro Migliore, il quale inorridiva con Sharon davanti allo slogan “Intifada fino alla vittoria” ; o come Fabio Amato che, sceso dai suoi Sound System, inneggia oggi alla “rivoluzione verde” in coppia con il responsabile esteri di un’organizzazione iraniana di cui si sono perse le tracce trent’anni fa. Arriva, il PRC, facendo sghignazzare di goduria Cia, Mossad, MI6, a chiedere “a tutte le forze democratiche italiane, alle organizzazioni dei lavoratori e degli studenti, di sostenere il movimento iraniano, moltiplicando gli atti di protesta a supporto della lotta democratica del popolo iraniano” . Si celebra così il matrimonio morganatico (del principe con il plebeo) tra PD, UDC, PDL e la cosiddetta “sinistra radicale”, autenticando la “diversità assoluta” rispetto al PD che era stata codificata nelle tavole della legge del nuovo PRC. Tra le righe si percepisce l’invocazione, a stento repressa, al solito “intervento umanitario”.

In questo diadema di vetraccio fatto passare per diamanti, spicca uno che, assoldato alla pulizia etnica condotta da croati, bosniaci, kosovari, israeliani, fin da quando transitò dall’antimperialismo rivoluzionario di Lotta Continua (perciò lo conosco bene) al libro paga di Giuliano Ferrara (Il Foglio), Carlo Rossella (Panorama) e Ezio Mauro (Repubblica), segna di menzogna tutta la compagnia cantante il coro de diritti umani. Si chiama Adriano Sofri, scrive intrugliati saggi al servizio di ogni possibile guerra, di bombe o di velluto. In tal modo si è guadagnato libertà, privilegi e guiderdone come a nessun condannato per omicidio è mai capitato. Al tempo del ricambio imperialista dell’imperatore persiano con un chierico rancoroso, stragista di comunisti e iracheni, Sofri e la sua spalla Carlo Panella, pure lui nella truppa di ascari USraeliani di Ferrara, inneggiarono alla “rivoluzione islamica”. Pareva che non avessero capito nulla, invece, istruiti nelle segrete stanze, avevano capito tutto.

Khomeini era l’asso nella manica degli ultrà della rivincita colonialista che, togliendo di mezzo l’Iraq, doveva far fuori la minacciosa prospettiva dell’unità araba. Così, ancor meglio, quel corrotto satrapo ladrone, filo-yankee da sempre, di Rafsanjani e, poi, un po’ meno bene, il riottoso Mahmud Ahmadi Nejad. Solo che a costui è andata di lusso finchè ha partecipato, insieme agli Usa e all’Occidente, all’allestimento del banchetto iracheno e alla liquidazione dei Taliban. Ma poi, diventato in virtù del suo antisionismo e delle sue ambizioni da potenza regionale, portate avanti anche con l’appoggio alla resistenza palestinese e libanese, un catalizzatore della collera araba e di tutti i Sud del mondo e quindi uno scoglio intollerabile contro le razzie israeliane, ha incominciato ad andargli malissimo. Si scatena la superpotenza nucleare Israele e trasforma lo sviluppo del nucleare civile iraniano, legittimo in tutto il mondo, in megatoni d’assalto contro i sopravvissuti della Shoah. Ripartono le geremiadi delle nostre zannute ginocrate sull’infame velo. Venendo da una società in cui donne, più degradate che in qualsiasi paese musulmano, per far soldi devono rendere servizietti al premier, o sbatterci in faccia capezzoli e inguini, sotto facce ottuse, tutte uguali, non c’è male come coerenza femminista. Insomma tanto si è fatto, tanto si è sparlato da creare ricche motivazioni per indurre la conventicola teocratica giudeo-cristiana a infilare Ahmadi Nejad nella categoria dei reprobi da regime change e da scatenargli contro il vecchio fantoccio Musavi, collaudato nei traffici Cia dell’Iran-Contra, con dietro la classe sociale di mercanti, trafficoni (anche di droga), feudatari e fighetti borghesi. E pour cause : sugli interessi di questi ceti parassiti, oltre a tutto, Ahmadi Nejad aveva fatto prevalere, a forza di redistribuzione della ricchezza, di interventi su sanità, istruzione, viveri a prezzi sussidiati, gli interessi dei poveri, lavoratori, contadini, certo con tanto di velo e senza culi e tette al vento.

Conviene, comunque, ricordare ai chierichetti diritto-umanisti, più o meno consapevole mercenariato imperialista, i connotati precisi della nemesi iraniana Mir Hussein Musavi (vedi anche il mio precedente post sulla rivoluzione verde). Angolo persiano dell’esagono USA che comprendeva Michael Ledeen (neocon del Pentagono)-Kashoggi (miliardario saudita, fiduciario Cia)- Ghorbanifar (mercante d’armi iraniano)-Oliver North (esecutore Iran-Contra)-Ronald Reagan (mandante Iran-Contra), l’ex-premier 1980-85 negli anni ’80 si è arricchito del traffico d’armi e droga con cui Israele, Khomeini e la Cia finanziarono l’assalto Usa al Nicaragua sandinista (20mila morti), nonché la guerra dell’Iran all’Iraq su mandato USraeliano. Tutto questo accadeva sotto l’ombrello di alcuni istituti specializzati in operazioni sporche destinate a rimuovere fisicamente avversari e a effettuare cambi di regime senza l’intervento ufficiale delle forze armate. Nella Coalizione per la Democrazia in Iran figuravano, oltre ai partner di Musavi sopra citati, esperti di destabilizzazioni come lo JINSA (Istituto Ebraico per la Sicurezza nazionale), l’ex-capo della Cia James Woolsey, l’American Enterprise Institute, l’Hudson Institute, il National Endowment for Democracy, più una prezzemolata di ultrà del bellicismo Usa. Tutta roba già attivatasi con soldi, logistica e capobastoni neocon come Brzezinski, Richard Perle, Elliott Abrams. Robert Kagan, William Kristol, per le varie rivoluzioni colorate, a partire da Belgrado e dalla Cecenia e a finire con il Darfur e ora l’Iran. Come anche documentato egregiamente da un’ agghiacciante puntata di “Report” di qualche tempo fa.

Ineguagliabile la prosa da neomelodico Adriano Sofri (apertura in prima pagina di Repubblica): “La minaccia ha la divisa nera dei picchiatori e degli sfregiatori arruolati a milioni (bum!) dal delirio khomeinista". Tra chi è il confronto, secondo questo Oriano Fallaci da macero? “Tra uomini fanatici dalle barbe accuratamente incolte e le ragazze libere e intrepide…”. Ragazze che così gli raccontano la “rivoluzione”:
Sto ascoltando la musica che amo, anzi voglio mettermi a ballare con qualche canzone. Ho le sopracciglia sottili, può darsi che, prima, passi da un salone di bellezza domani…”
Questa la descrizione dell’ inedito “soggetto rivoluzionario” fresco di salone di bellezza: “Sempre nuove ragazze si sono riguadagnate millimetro per millimetro la loro cospirazione per la libertà, un fazzoletto spostato indietro sulla fronte, una ciocca di capelli sbucata come per distrazione da una tempia, una festa senza la tetra mascheratura come in una effimera terra di nessuno…. Mai è stato così chiaro da che parte stare. Di un Dio che bastona e stupra e lapida (guardate, non è mica il dio di Bush, a quello Sofri leva alleluia), o di un dio che sorrida dal vento tra i capelli delle ragazze…” Stiamo, come tendenza culturale, tra il vecchio Bolero Film e Carolina Invernizio. Quelli che mettono le mani nei “capelli delle ragazze”, sono rozza plebaglia al seguito di costruttori di bombe atomiche (per Sofri, più celere di Netaniahu e Lieberman, l’Iran ce l’ha già. Di quelle israeliane non si parla) che vogliono la “distruzione di Israele” (solita sineddoche falsa e tendenziosa: Ahmadi Nejad ha sempre parlato di smantellamento dello Stato sionista e razzista, non di Israele) e pretendono di aver vinto “un’elezione normalmente truccata” . Naturalmente, all’ex-rivoluzionario trasvolato tra gli ascari di Pannella e poi di Craxi non cale assolutamente dell’aspetto di classe della vicenda iraniana. Di capelli e saloni di bellezza negati si tratta, nell’eterna guerra dei ricchi contro i poveri. Tanto più che i ricchi come Sofri possono godere della “fortuna, del vanto e del privilegio di vivere in democrazia" e, dunque, di “poter scegliere che uso fare del vento fra i capelli ”. Fortuna e vanto di cui godiamo l'impareggiabile privilegio grazie a zoccole, lodi Alfano, sbirri, militari e ronde spaccacrani. Fortuna negata a quelli di Gaza, visto che il vento nein capelli e nei pomoni gli porta fosforo e uranio. O a quelli del Messico dove il favorito di Marcos e di Sofri, Calderon, da Washington ha fatto soffiare un vento che gli ha portato in grembo un milione di voti rubati al vincitore Obrador. Ma di ciò a Sofri poco importa.

Si chiedano gli indignati apostoli dei diritti umani, fatti di capelli al vento e saloni di bellezza e mai di pane, istruzione, casa, terra, autodeterminazione, come ci si trova chiusi, insieme a Sofri, Allam, Fallaci e ascari vari, in una camera iperbarica dove l’alimentazione Cia-Mossad tiene in funzione i detriti comatosi del trasformismo italiota. Se lo chiedano meglio, ricordando questo caporale di giornata sull’attenti a ogni convocazione imperialsionista, mentre a Sarajevo avallava la bufala assassina del fascista Izetbegovic sulle “bombe serbe” contro donne bosniache in fila al mercato. Bombe che invece il despota islamico aveva fatto lanciare, lui, sulla sua gente, in combutta con gli squartatori Nato della Jugoslavia (come appurato dalla commissione d’inchiesta ONU). Ma tant'è, la "rivelazione" dell'emissario agevolò i successivi bombardamenti Nato.

Sia chiaro: sui governanti di Tehran, immancabilmente definiti “dittatori” anche da coloro cui il nostro regime sta sottraendo perfino le bolle di sapone della legalità borghese, io mi sono espresso negli anni senza la minima indulgenza. Pur laico e anticlericale da far impallidire le migliori intenzioni di Robespierre, non mi sono azzardato a far da grillo parlante su costumi, religioni e culture di altri mondi con altri tempi. Ma quanto al cinismo di un regime che, d’intesa con i peggiori serial killer dell’umanità, da un lato assassina l’Iraq e collabora all’assassinio dell’Afghanistan (pur, come l’Iran, senza “vento nei capelli”) e, dall’altro, si espande regionalmente sfruttando la giusta resistenza di libanesi e palestinesi alla soluzione finale sionista, non gliene ho mai fatta passare una. Fin da quando nel 1979, sulle montagne del Kurdistan iracheno, vedevo villaggi iracheni bruciare sotto proiettili israeliani da cannoni persiani, mesi prima dello scoppio della guerra. Fin da quando vedevo i militari di Saddam (laico, socialista, con tutto il vento del mondo nei capelli delle ragazze, ma diabolizzato lo stesso) rastrellare i sabotatori infiltrati dall’Iran in tempo di pace. Fin da quando stavo sotto le bombe bushiane di Shock and Awe che davano via libera alle milizie assassine scite al soldo di Tehran. E fin da quanto si scoprì che a gassare i curdi di Halabja erano stati gli iraniani, a dispetto di una bufala, ingoiata da tutti, che aveva attribuito la strage a Saddam. Non corrano, gli utili idioti, a darmi del filo-Ahmadi Nejad perché tra un quisling della destabilizzazione voluta dall’imperialismo e un presidente nazionalista, democraticamente eletto, non mi piego all’ennesima truffa colorata. Qui non era in gioco il crepuscolare “vento nei capelli delle ragazze” (ragazze, peraltro, che lì possono abortire fino al 45° giorno, divorziare, prostituirsi, cambiare sesso con la mutua, fare tutti i mestieri e laccarsi le unghie prima di scendere in piazza). Qui l’Iran si sta giocando il ruolo di ultimo Stato della regione, accanto alla Siria, non divorato dagli sterminatori della sovranità dei popoli. Dei morti ammazzati nei cortei di Tehran, come delle devastazione fatte prima da un vento che non scompigliava capelli, ma incendiava e saccheggiava case, edifici pubblici e verità, si chieda conto ai burattinai di tutte le “rivoluzioni colorate”. Stanno a Washington, a Langley, a Tel Aviv. Stavano anche sui terrazzi di Caracas, quando, per incolpare Chavez di strage analoga, cecchini di estrazione israeliana spararono e ammazzarono. Allora furono 60.

C’è di tutto sul carrozzone degli utili idioti e degli amici del giaguaro che, trainato da somari, viaggia verso il paese dove le orecchie da somaro crescono a chiunque. E il contrario di tutto, concesso ma non ammesso che quello che in Italia si definisce di sinistra, o centrosinistra, sia il contrario di quanto si definisce di destra. Cosa smentita anche in questo caso dal comune rovesciamento della verità iraniana. Tra i paggetti sul retro del Landau c’è anche tal Niki Vendola, governatore delle Puglie, un OGM delle coltivazioni postcomuniste dalle fattezze di cera sotto calore, la cui onestà intellettuale viaggia disinvolta tra contraddizioni vertiginose. Agli anatemi contro i fondamentalisti di Tehran, fautori di veli e persecutori di omosessuali, si sposa una scalmanata devozione a Chiesa e papi che l’omosessualità la vedono come Khomeini vedeva Moana. Primo atto del governatore della Puglia, seguito dalla privatizzazione del massimo acquedotto nazionale, l’intitolazione dell’aeroporto di Bari al caro polacco Woytila. Il secondo atto venne forse suggerito dalla necessità di un miracolo per la sua giunta sprofondante nella melma della sanità pugliese (vicepresidente inquisito e dimissionario, uomo della “primavera” di Vendola), oppure dal bisogno di un’assoluzione per essersi fatto fuori, secondo gli autorevoli Rizzo e Stella, la bellezza di 350mila euro per esibirsi alla 4 giorni newyorchese del Columbus Day (la sceneggiata con cui i coloni Usa coprono il genocidio dei nativi). Trattossi dell’omaggio al gabbamondo dagli autograffi sul palmo delle mani, al “santo di stoppia” secondo papa Roncalli. Si vocifera che ora lo Svendola pensa di sostituire la mummia di Lenin con quella di Padre Pio. Forse per le virtù rivoluzionarie che il monaco manifestava già negli anni venti quando, con manipoli di squadristi del foggiano, andava pestando e sfasciando esponenti e comuni di sinistra. Vendola in fila tra i fedeli rintronati e poi militante montalciniano, prostrato in venerazione davanti alla salma riesumata e siliconata, creatrice a S. Giovanni Rotondo della più abbietta e sanguisuga superstizione dai tempi dell’invenzione della reliquia del Santo Prepuzio: è un continuum vendolottiano di tutta la conventicola umoristicamente chiamata “Sinistra e libertà”. Si parte dagli ex-voto al Dalai Lama, al papa, a Padre Pio e si finisce coerentemente con i vituperi contro Ahmadi Nejad e i “terroristi islamici”, ovunque e specialmente a Gaza. Dite voi se si tratta di utili idioti o amici del giaguaro. Già mi rimproverano che vedo Cia e Mossad dappertutto…E’ che stanno tutti nello stesso caravanserraglio, Frattini, Hillary, Gordon Brown, Minzolini, Pagliara, Parlato, Bertinocchio, Marina Forti (“I brogli di Ahmadi Nejad”), Left (“Il voto rubato”), Franco Giordano, Veltroni, Ingrao, Rossanda… ci si confonde tra tutte queste orecchie d’asino. Tra le quali spiccano per proterva lunghezza quelle di Gigi Sullo, il direttore della rivista “Carta”, house-organ del Fregoli Marcos e delle sue sei residue caracoles zapatiste. Merita una menzione speciale per quel numero intero dedicato al musulmano libico Gheddafi, un altro Hitler ovviamente (anche se fuori tempo rispetto all’impostazione Usa), che rinchiude in orridi campi di concentramento i profughi africani. Punta avanzata di una pattuglia di ringhiosi eurocentrici, dall’inconscio revanscismo coloniale, l’uomo zapatico avrebbe fatto bene a considerare che in Libia arrivano le torme di disperati dall’intero continente, roba che neanche una potenza come gli Usa saprebbe affrontare. Che quei disperati sono in fuga dai disastri che tutti sono stati combinati dai par suoi bianchi e cristiani, in termini militari, politici, economici, ambientali, climatici. Che la genìa della quale lui è un tardo, ma non indegno, derivato, della Libia aveva fatto tabula rasa come meglio non avrebbe potuto il Sahara, gassandone, bombardandone, impiccandone e uccidendone nei campi di concentramento mezza popolazione. Qualsiasi cosa si possa attribuire a Gheddafi, che comunque per il suo paese ha fatto un po’ meglio di decine di premier democristo-socialisto-ulivesco-berlusconidi, nessun erede della più sanguinaria dei genocidi coloniali ha il diritto di agitare il ditino. Prenditela con coloro che costringono a fuggire in Libia le vittime dei loro crimini. E semmai con quel tuo subcomandante che, da chissà quale pulpito, si permette di sbertucciare i leader e i movimenti antimperialisti di mezzo mondo.

E’ un’ armata Brancaleone che, ispirata dagli sfracelli del duo papa-imperatore da Sacro Romano Impero, con l’innesto di qualche rabbino dalla ferità talmudiana, si è dato il compito di coprire di gigli umanitari le volpi e i conigli mandati a mandare in vacca la volontà della maggioranza degli iraniani, nonchè le corazze e le balestre di ogni nuova crociata e magari i 500 ascari e i Tornado promessi dal guitto mannaro al neo-sfracellatore Usa di Afghanistan e Pakistan, a rinforzo di chi già si è fatto le ossa mitragliando famigliole “integraliste” L’assunzione incondizionata del paradigma del “terrorismo islamico” (presto, vedrete, daranno dell’Al Qaida anche a Ahmadi Nejad) lo concede e lo impone. Vantano, questi fustigatori dell’oscurantismo islamico, radici in un Occidente dove non esiste più l’ombra di un voto onesto, sia per brogli sistematici che portano al potere presidenti e vassalli, sia perché l’oligarchia mediatica predispone i cervelli alla scelta voluta, fosse anche del più nefasto dei propri nemici di classe. Epperò si permettono di strepitare di brogli in un’elezione che ha confermato tutti i sondaggi, interni ed esterni, più di trenta, che ha visto un dibattito libero e vivace come nella zombilandia occidentale manco ce lo sogniamo, un’affluenza dell’80%, una differenza di 21 milioni sul candidato appoggiato da tutta la cosca Nato e in cui, per sovraprezzo, si è deciso di andare alla verifica di tutti quei voti per cui sono state avanzate contestazioni. Hanno individuato la prova della truffa nella comunicazione dei risultati appena due ore dalla fine dello spoglio, ma hanno guardato dall’altra parte quando lo sconfitto annunciava la propria vittoria ore prima della fine del conteggio. Orgasmatiche tra le sorelle verdi scese su alti tacchi dai quartieri alti, le vibranti inviate dei nostri media non hanno mai messo piede nelle provincie, nelle città e nei villaggi dell’entroterra dove da anni Ahmadi Nejad gode di un appoggio stramaggioritario. L’evidenza di uno scontro di classe tra borghesia dei commerci, delle professioni, degli affari e i ceti dei meno abbienti, l’hanno accantonata con lo sprezzante “non sempre il proletariato fa le scelte giuste”. Avrebbero potuto documentarsi sul perché il presidente abbia vinto tra i lavoratori del petrolio e delle grandi industrie: avrebbero scoperto che a costoro non piaceva il programma riformista di privatizzazione di tali industrie e deregolamentazione dei servizi pubblici. Fossero andati nelle regioni di confine, avrebbero potuto capire le ragioni del massiccio voto per Ahmadi Nejad nel suo rafforzamento della sicurezza alla frontiere contro le sempre più virulenti minacce israeliane e statunitensi e le operazioni sporche finalizzate a creare movimenti secessionisti. Ecco, invece, che riemerge, per tutto ridurre ad unum, l’ombra di Hitler, quella da tempo cucita dai nazisionisti e neocon sulla figura di Ahmadi Nejad. Non è stato così con Milosevic, con Fidel, Kim Jong Il, Chavez, Nasrallah, Saddam? E mai con Uribe, Mubaraq, Netaniahu? E qual’era il crimine hitleriano di costoro se non la mancata calata dei pantaloni davanti a Exxon, Monsanto e il Pentagono? Repetita juvant, ma solo per chi non è stato infettato dalla sindrome di Giuda.

Netaniahu aveva sollecitato i propri accoliti sionisti negli Usa a giocare fino in fondo la carta della frode elettorale, onde distogliere Obama da eventuali dialoghi con Tehran. L’emittente Usa “ABC” e il londinese “Daily Telegraph” avevano annunciato nel maggio del 2007 che la Cia aveva ricevuto il mandato presidenziale di unire le operazioni sporche per destabilizzare il governo iraniano a una grande campagna di propaganda e disinformazione contro il regime dei mullah. John Bolton, ex-ambasciatore Usa all’ONU, aveva dichiarato che un attacco all’Iran sarebbe stata l’opzione estrema, ma solo dopo sanzioni economiche e dopo il fallimento di una rivolta popolare per presunti brogli elettorali. Il giornalista investigativo Seymour Hersch, premio Pulitzer, aveva rivelato mesi fa sul “New Yorker” che il Congresso aveva approvato una richiesta della Casa Bianca di finanziare con 400 milioni di dollari una grande campagna di sabotaggi del potere religioso iraniano. Un giorno prima delle elezioni, il neocon Kenneth Timmerman scrisse che vi sarebbe stata una “rivoluzione verde” a Tehran per la quale la National Endowment for Democracy (NED), quella dietro a tutte le “rivoluzioni colorate”, avrebbe già speso milioni di dollari. I legami del gruppo Musavi con Ong finanziate dalla NED sono noti. Per quale motivo preparare una “rivoluzione verde” prima del voto, visto che Musavi e i suoi si dicevano sicuri della vittoria?


Tutto questo dovrebbe porre un freno agli ossessi dell’unità delle sinistre. Unità con chi? Unità con i bulimici di strapuntini PD? Unità con chi si mette la stola del Dalai Lama e sfoggia sorrisi celestiali? Unità con chi salta su e marcia a ogni suon di tromba dell’associazione a delinquere chiamata “comunità internazionale”, fino alla disintegrazione del Sudan grazie ai mercenari locali nel Darfur, fino al doppio stato in Palestina che destina quel popolo alla sottomissione, alla frantumazione, all’estinzione. Fino all’esportazione dei “diritti umani” e della “democrazia” tipo Uribe, Karzai, Al Maliki, Mubaraq, in Somalia, Eritrea, Venezuela, Cuba, Nepal, Gaza, Bolivia, ovunque nel mondo vi sia una miniera da arraffare, una foresta da tagliare, una sorgente da rubare, un popolo di troppo da sterminare. Pigolìì sommessi e incerti sono state, a questo proposito, le voci non allineate che resistono in nicchie anatagoniste. La lezione pro-Nato del compromissorio Berlinguer e le flatulenze collaborazioniste di Bertinotti hanno prodotto un degrado etico-politico universale. Hanno avvolto il maglio dell’imperialismo nell’ovatta dei diritti civili e di una democrazia talmente falsa da nobilitare al confronto l’ipocrisia di 2000 anni di pontefici di Santa Romana Chiesa. E senza sapere di imperialismo, cari compagni, non si sa e non si fa un fico secco di lotta di classe. E non la si sa e non la si fa mai più con queste escrescenze spurie di una storia compromessa, qualsiasi unità si voglia costruire incollando i cocci di un’anfora il cui vino è andato a male da tempo. Personalmente non sono disposto a estenuarmi ulteriormente in indulgenze per chi arriva a vertici di idiozia o collateralismo come quelli denunciati in questa scritto. Chi toppa sull’imperialismo e sull’internazionalismo non può avere voce in capitolo neanche su precari, terremoto e Vicenza. Si deve ripartire da capo, que se vayan todos.

sabato 20 giugno 2009

DALL'ETNA ALL'ABRUZZO: DISTRUGGERE PER SPECULARE, DEVASTARE, MILITARIZZARE, LAGHERIZZARE
















Permettendomi di mettere sul blog questo scritto (già diffuso in rete), epitome del laboratorio del nuovo fascismo che il guitto mannaro e i suoi scagnozzi, sicari di mandanti occulti, hanno messo in piedi in Abruzzo, mi viene da ricordare un’esperienza personale a conferma della strategia che promuove e governa i disastri “naturali” nel nostro paese.

Era l’inverno-primavera del 1991 e il Tg3 mandò me e il mio indimenticabile superbassotto Rambo sull’Etna dove si era verificata una colossale eruzione che stava minacciando da un paio di mesi, nell'assoluta inerzia della combriccola democristian-socialista romana, l’abitato di Zafferana. Ci rimasi, venendo e tornando a varie riprese, un paio di mesi. Chi si occupava dell’eruzione era Franco Barberi, vulcanologo e allora capo della Protezione Civile di nomina craxiana. Combinò, il Barberi, cose fantasmagoriche che, pur cambiando di contenuto ogni par di settimane, dovevano ognuna garantire il blocco della colata e delle sue numerose bocche effimere, esplosioni di lava che si verificavano qua e là, perlopiù a valle delle colate principali.
Come prima mossa, accompagnata dall’ilarità della comunità vulcanologica internazionale e di quel centro di eccellenza che era l’Istituto di Vulcanologia di Catania e che i governo aveva esautorato del tutto, ci fu lo scavo di fossi e l’erezione di terrapieni. Con tranquilla noncuranza, il vulcano si mangiò entrambi e arrivò a bruciare le prime case di Zafferana.
Sui resti delle case incenerite gli abitanti scrissero: “Grazie, governo!” (erano mesi che i loro allarmi erano rimasti inascoltati a Roma), ma furono messi al loro posto da Vittorio Sgarbi, col quale nell’occasione ebbi una clamorosa litigata dopo che lo strepitone smanierato inveì contro la “brutte case” che emigranti di ritorno con quattro lire avevano costruito sulle pendici. Memorabile fu la sua invocazione “Forza Etna!”. Stava già allora, lo Sgarbi, dalla parte giusta.

Polverizzate dall’Etna e dal ridicolo, quelle barriere barberiane, il generalone che imperversava napoleonicamente sul vulcano pensò bene di ricorrere alla potenza di chi, all’insaputa delle sinistre già in quei tempi dimentiche di imperialismo, colonialismo, Nato e basi Usa, determinava ogni aspetto della vita e ogni manomissione della sovranità nazionale. Erano le settimane in cui ci apprestavamo a fargli da reggicoda bombaroli nella prima Guerra del Golfo. A maggiore gloria del Grande Alleato, Barberi invocò l’intervento degli elicotteri-monstre Chinook dalla vicina base di Comiso. Una specie di Apocalypse Now dalla quale i prodi aviatori Usa, nella riconoscenza degli etnei tutti e nell’ammirazione del popolo dal Lilibeo alle Alpi, sganciarono sulle colate e sulle bocche effimere grandi massi di cemento. Erano i blocchi che, piazzati sulle vie d’accesso alla base dovevano impedire assalti di “terroristi”. In questo caso il terrorista era il vulcano e, dunque, doveva essere bombardato. La spettacolare operazione concentrava su di sé e sul salvatore della patria a stelle e strisce, Barberi, l’attenzione ammirata di telecamere, reportage e taccuini. Telecamere, reportage e taccuini che in tal modo erano del tutto distratti da quanto scorreva intanto sulle statali che lambivano il vulcano: megatrasporti di missili Cruise in arrivo dal Pentagono e destinati dalla base siciliana a frantumare un bel po’ dell’irriverente Iraq di Saddam. Magari con testate all’uranio che avrebbero curato l’estinzione nei secoli di quel popolo obnubilato dal socialismo, dall’antimperialismo, dall’antisionismo e dalla propria sovranità.

Che peccato che quelle bombe, alle quali era stata dato il compito surreale fare da tappo alle colate delle cento bocche effimere, ebbero sull’eruzione gli stessi effetti che i bombardamenti provocarono sull’animo degli iracheni: più rabbia e più combattività. Anche il drammone colossal dei Chinook svaporò presto in uno tsunami di ilarità universale. Il vulcanologo di fama mondiale non aveva tenuto conto del fatto che il cemento di quei blocchi fonde e si spappola a poco più di 500 gradi di calore, mentre quella dispettosa lava di gradi ne vantava 1.200. Un po’ come pretendere che le fiamme scarsine di un pieno di carburante del Boeing 757 avrebbero fuso simultaneamente le trecento megacolonne di acciaio delle Torri Gemelle costruite per resistere a roghi da fine del mondo (nessun grattacielo è mai venuto giù per un incendio, come quelle torri che invece si sarebbero accartocciate su se stesse per colpa di poco più di una grigliata in giardino). Queste cose allora si potevano ancora raccontare al Tg3 e io lo feci, suscitando l’ira funesta della celebrità vulcanologica che mi approstofò pesantemente nel comune albergo, proprio mentre stava riprendendo tutto una vispa e libera televisione di Catania. Che poi mise in onda l’intera scenata, contribuendo alla pandemia di risate, ma anche di sbigottimento, del colto e dell’inclita. Il buon Barberi ne aveva ben donde di essere incazzato, già l’avevano sbertucciato gli sconcertati inviati giapponesi che, venendo da un paese in cui i vulcani si domano a carezze e prevenzione, non si facevano capaci di quella vietnamizzazione bombarola dell’Etna.

Mi ero fatto amiche le guide dell’Etna, che ne sanno una più del diavolo e mille più di Barberi, sull’oggetto della loro passione e della loro frequentazione quotidiana. Una mi costruì in scala un masso di cemento della stessa composizione dei blocchi che dai Chinook piovevano sulla lava (non prendendoci quasi mai e disseminando di veleni mezzo Etna). Agganciai il blocchetto a un cavo di ferro e lo calai nella voragine pulsante di una bocca effimera: il campione si dissolse nei tempi di un servizio di telegiornale: 1,50 minuti. L’immagine del padrino Atlantico, che si era voluta magnificare in termini di un’ Apocalypse Now destinata a salvare case e vite etnee, ne uscì come quella di Israele dopo il massacro di Gaza: ottusi e feroci violentatori. In questo caso dell’ambiente e della scienza vulcanologica. Poi mi capitò in albergo un frustratissimo e preoccupatissimo, ma sconosciuto e perciò irrilevante, quanto il ricercatore del Gran Sasso che aveva previsto il terremoto in Abruzzo, tecnico dell’indagine tomografica sulle temperature del sottosuolo (credo si chiami termotomografia). Con un suo elicottero sorvolammo l’intera zona dell’eruzione e dalle riprese, stupefacentemente, ma logicamente, venne fuori la mappa dettagliata di tutte le colate di lava che correvano sotto la superficie. Di questa risolutrice tecnica e dei suoi risultati, che avrebbero permesso di conoscere l’intero reticolo dei percorsi lavici e quindi di anticipare interventi di deviazione, Franco Barberi non ne volle sapere. Il Tg3, però, mi permise di illustrarla. Altro putiferio nell’albergo di Zafferana.

In quell’albergo stavamo tutti: Barberi, i giornalisti, i vigili del fuoco, tecnici vari, politici in vena di spogliarelli in tv, e, naturalmente, la truppa eroica della Protezione Civile, largamente maggioritaria rispetto alle altre categorie. Era un piacere seguirne l’andirivieni tra lobby, salotti, ristoranti, sale d’attesa, durante le lunghe giornate in cui il vulcano impazzava, gli statunitensi bombardavano, Barberi si manifestava, tra una trasvolata in elicottero e l’altra, in interviste come se piovesse. Non ho mai cessato di scervellarmi su cosa diavolo stessero lì a fare questi baldi giovanotti e balde giovanotte, suddivise in schiere dalle misteriose funzioni e dalle divise cinturonate e luminescenti, fresche di ferro da stiro, dense di badge, loghi, insegne varie. Ne avessi mai visto un esponente dalle parti della colata. Invece popolavano poltrone, divani e terrazze dell’hotel, ognuno col suo telefono professional, quando non con la ricetrasmittente appesa tra gli alamari. Sedevano, telefonavano, trasmettevano, stendevano le gambe, si aggiravano, si alimentavano…
C’è qualche richiamo alle lande intorno all’Aquila?

Alla fine, stanco di spurgarsi e, di più, di non aver incontrato almeno un antagonista degno di confronto, l’Etna si placò da solo e si ritirò a casa sua. Barberi, dopo mesi di interviste e trasvoli, applicò quanto l’intero mondo scientifico aveva suggerito fin dall’inizio: la deviazione dei flussi residui verso l’ampia, vuota Valle del Bove. Ma cantò vittoria sul “nemico”. Quanto meno, riteneva, l’aveva intimidito. L’Etna era stato butterato da tossici blocconi di cemento, statunitensi e Nato avevano fatto la loro porca figura, la zona era stata militarizzata, le voci dissenzienti tacitate, popolazioni ed esperti esclusi. Si poteva procedere verso altre catastrofi “naturali”, altri controlli di genti e territori, altri “guadambi” (così dicono in Abruzzo), altre emergenze da Stato di polizia e forze armate (grazie G8), e, come castigamatti delle vittime incazzate, le ronde di Bortolaso. Le catastrofi servono, oportet ut eveniant. Nel caso, si possono anche provocare. Anche per torri gemelle, aerei civili da mandare contro grattacieli, o abbattere a distanza sull’Atlantico, neutralizzandone tutti i comandi e le comunicazioni, a scopo di prova e avvertimento

Passiamo la parola all’Abruzzo e si vedrà come transitare da Barberi a Bortolaso sia come procedere da Craxi a Berlusconi. In direzione ostinata e contraria dalla farsa alla tragedia.

Data: Venerdì 12 giugno 2009, 11:49

Lettera dall'Abruzzo


Questa
lettera è stata scritta da Andrea Gattinoni*, un attore
che si trovava a L'Aquila per presentare un film. Le parole sono dirette a
sua moglie ma rappresentano un'efficace testimonianza per tutti quelli che a
L 'Aquila non ci sono ancora stati.

*Andrea, per chi non se lo ricordasse era uno degli interpreti del recente
film Si può fare con Claudio Bisio, su un gruppo di "pazzi".

Oggetto: HO VISTO L 'AQUILA
Lettera a mia moglie scritta ieri notte
Ho visto l'Aquila. Un silenzio spettrale, una pace irreale, le
case distrutte, il gelo fra le rovine. Cani randagi abbandonati al loro
destino. Un militare a fare da guardia a ciascuno degli accessi alla zona
rossa, quella off limits.
Camionette, ruspe, case sventrate. Tendopoli. Ho mangiato
nell'unico posto aperto, dove va tutta la gente, dai militari alla
protezione civile. Bellissimo. Ho mangiato gli arrosticini e la mozzarella e
i pomodori e gli affettati.
Siamo andati mentre in una tenda duecento persone stavano guardando "Si Può
Fare". Eravamo io, Pietro, Michele, Natasha, Cecilia, Anna Maria, Franco e
la sua donna. Poi siamo tornati quando il film stava per finire. La gente
piangeva. Avevo il microfono e mi hanno chiesto come si fa a non impazzire,
cosa ho imparato da Robby e dalla follia di Robby, se non avevo paura di
diventare pazzo quando recitavo.
Ho parlato con i ragazzi, tutti trentenni da fitta al cuore.
Chi ha perso la fidanzata, chi i genitori, chi il vicino di casa.
Francesca, stanno malissimo. Sono riusciti ad ottenere solo ieri che quelli
della protezione civile non potessero piombargli nelle tende
all'improvviso,anche nel cuore della notte, per CONTROLLARE. Gli anziani
stanno impazzendo.

Hanno vietato internet nelle tendopoli perché dicono che non gli serve. Gli
hanno vietato persino di distribuire volantini nei campi, con la scusa che
nel testo di quello che avevano scritto c'era la parola "cazzeggio". A venti
chilometri dall'Aquila il tom tom è oscurato. La città è completamente
militarizzata. Sono schiacciati da tutto, nelle tendopoli ogni giorno
dilagano episodi di follia e di violenza inauditi, ieri hanno accoltellato
uno. Nel frattempo tutte le zone e i boschi sopra la città sono sempre più
gremiti di militari, che controllano ogni albero e ogni roccia in previsione
del G8. Ti rendi conto di cosa succederà a questa gente quando quei pezzi di
***** arriveranno coi loro elicotteri e le loro auto blindate? Là ???? Per
entrare in ciascuna delle tendopoli bisogna subire una serie di
perquisizioni umilianti, un terzo grado sconcertante, manco fossero
delinquenti, anche solo per poter salutare un amico o un parente.
Non hanno niente, gli serve tutto. (Hanno) rifiutato ogni aiuto
internazionale e loro hanno bisogno anche solo di tute, di scarpe da
ginnastica. Per far fare la messa a Ratzinger, il governo ha speso
duecentomila euro per trasportare una chiesa di legno da Cinecittà a
L'Aquila.
Poi c 'è il tempo che non passa mai, gli anziani che
impazziscono. Le tendopoli sono imbottite di droga. I militari hanno fatto
entrare qualunque cosa, eroina, ecstasy, cannabis, tutto. E' come se
avessero voluto isolarli da tutto e da tutti, e preferiscano lasciarli a
stordirsi di qualunque cosa, l'importante è che all'esterno non trapeli
nulla. Berlusconi si è presentato, GIURO, con il banchetto della Presidenza
del Consiglio. Il ragazzo che me l 'ha raccontato mi ha detto che sembrava
un venditore di pentole. Qua i media dicono che là va tutto benissimo.
Quel ragazzo che mi ha raccontato le cose che ti ho detto, insieme ad altri
ragazzi adulti, a qualche anziano, mi ha detto che "quello che il Governo
sta facendo sulla loro pelle è un gigantesco banco di prova per vedere come
si fa a tenere prigioniera l 'intera popolazione di una città, senza che al
di fuori possa trapelare niente". Mi ha anche spiegato che la lotta più
grande per tutti là è proprio non impazzire. In tutto questo ci sono i
lutti, le case che non ci sono più, il lavoro che non c'è più, tutto
perduto.
Prima di mangiare in quel posto abbiamo fatto a piedi più di tre chilometri
in cerca di un ristorante, ma erano tutti già chiusi perchè i proprietari
devono rientrare nelle tendopoli per la sera.
C'era un silenzio terrificante, sembrava una città di zombie in un film di
zombie. E poi quest'umanità all'improvviso di cuori palpitanti e di persone
non dignitose, di più, che ti ringraziano piangendo per essere andato là. Ci
voglio tornare. Con quella luna gigantesca che mi guardava nella notte in
fondo alla strada quando siamo partiti e io pensavo a te e a quanto avrei
voluto buttarmi al tuo collo per dirti che non ti lascerò mai, mai, mai.
Dentro al ristoro privato (una specie di rosticceria) in cui abbiamo
mangiato, mentre ci preparavano la roba e ci facevano lo scontrino e fuori c
'erano i tavoli nel vento della sera, un commesso dietro al bancone ha porto
un arrosticino a Michele, dicendogli "Assaggi, assaggi". Michele gli ha
detto di no, che li stavamo già comprando insieme alle altre cose, ma quello
ha insistito finchè Michele non l'ha preso, e quello gli ha detto
sorridendogli: "Non bisogna perdere le buone abitudini".
Domani scriverò cose su internet a proposito di questo, la gente deve
sapere.
Anzi metto in rete questa mia lettera per te.

Andrea Gattinoni, 11 maggio notte

mercoledì 17 giugno 2009

DOPO L'ARANCIONE, LA ROSA, LA VELLUTO... ECCO LA NUOVA RIVOLUZIONE COLORATA:VERDE-CIA-MUSSAVI (con in platea tutto il cocuzzaro degli utili idioti)















Già, la verità. Buffo come tutti continuano a cercarla, ma quando la ottengono non le credono perchè non è la verità che volevano sentire.
( Helena Cassadine)
La verità che fa l'uomo libero è perlopiù la verità che gli uomini preferiscono non sentire.
(John Ruskin)
Uno dei più grandi problemi del mondo è l'impossibilità di trovare la verità su un qualsiasi
argomento quando si pensa di possederla già.
(Dave Wilbur)
Non conta ciò che è vero. Conta ciò che si percepisce come vero.
(Henry Kissinger)
Ci risiamo con le rivoluzioni colorate, con la Cia, con il Mossad, con USAid, con la NED (National Endowment for Democracy), con George Soros, con Otpor, insomma con tutto l’armamentario del “regime change” che l’imperialismo USA-UE-SION mette in campo contro governi e popoli renitenti, prima di ricorrere a misure stragiste dal rapporto costi-benefici più incerti. Stavolta la “rivoluzione” è verde e assomiglia come una sfilata di cacchette di capra a quelle precedenti, o riuscite come in Serbia, Georgia e Ucraina, o fallite come in Venezuela, Bolivia, Libano, Uzbekistan. Ovunque un voto non sia andato come auspicato dal Nuovo Ordine Mondiale del saccheggio e della morte. E ci risiamo inesorabilmente con l’unanimità destra-centro-sinistra su "giovani e donne contro tirannia, oscurantismi, fondamentalismi, terrorismi, brogli". Quella dei brogli, poi, venendo da un mondo che il voto l’ha sfigurato fino al suo contrario, è degna del Bagaglino: vai avanti tu, chè a me viene da ridere. Quanto ai “giovani” e alle “donne”, a guardar bene le immagini che simpatizzanti ed accorati inviati dirittoumanisti filo-Mussavi ci trasmettono da Tehran, si capisce subito tutto. A voler capire, s’intende. Come a Belgrado, a Kiev, a Tblisi, a Beirut, lo jato antropologico è drastico che più drastico non si può: nella folla dei filo-Mussavi, volti pariolini, lisci, curati, truccati, fighetti in mise che sembrano usciti da una selezione di “Amici”, o da un cartellone di Benetton; nei cortei dei sostenitori di Ahmadinejad, le solite facce proletarie e contadine del Sud del mondo, rughe, veli, abiti stazzonati, i volti del nostro neorealismo. Plebaglie.

Come andrebbe ripetuto ad nauseam , quando sono concordi sinistre e destre, è la destra che vince e la sinistra che la prende nel culo. E’ un teorema così incontrovertibile che quello di Pitagora al confronto pare un’affermazione del guitto mannaro su Noemi. Non dovrei aver bisogno di rivendicare la mia militanza giornalistica contro l’Iran degli ayatollah. Ci sono decine di mie pubblicazioni a ribadirla. Critiche, certo, per motivi diversi, a volte opposti, rispetto ai sensocomunisti (non male, come calambour, no?), agli unanimisti umanitaristi, cercando di non farmi imbrigliare dal senso comune, appunto, di ideologhi a scatola chiusa, ignoranti e opportunisti, con dentro i batteri dell’infiltrazione. Siamo stati in pochi a ricordare che il “rivoluzionario” Khomeini, ospitato e foraggiato dall’Occidente, giunto da Parigi a Tehran su aereo Usa, per prima cosa ha fatto piazza pulita di coloro, comunisti e marxisti islamici, che a milioni avevano cacciato lo Shah: necessità di ricambio e aggiornamento imperialista-sionista per un regime feudal-gossiparo privo di base di massa, logoro e sputtanato. Ricambio di elites, per sventare il rischio che l’insurrezione popolare facesse entrare l’Iran nell’orbita sovietica o non-allineata.
Voces clamantes in deserto, abbiamo documentato il complotto khomeinista per falciare il moderato Carter e promuovere il cane rabbioso Reagan con il rilascio degli ostaggi Usa in coincidenza con la vittoria dell’attoruccolo da mezzogiorno di fuoco. Ne abbiamo illustrato il pagamento di pegno a USraele quando, rifornito di armi e istruttori israeliani, ha assaltato l’Iraq di Saddam Hussein, ultimo baluardo di una nazione araba da unificare nel segno della laicità, del progressismo sociale, dell’antimperialismo e dell’identificazione con la causa palestinese. Con i quattrini pagati dal regime degli ayatollah ai fornitori USraeliani e indi trasferiti ai mercenari Contras, Khomeini ha restituito il favore contribuendo alla distruzione del Nicaragua e alla cacciata dei sandinisti. In un’affascinante altalena tra collusione e collisione, i due compari anti-arabi hanno poi sbranato l’Iraq, aggredito l’Afghanistan dei Taliban (odiato da Tehran fin dal primo giorno) e chiuso il cerchio con un’alleanza di burattinai e fantocci che s’è vista consacrare dall’Occidente nella recente processione a Tehran della fraternita di Ahamedinejad, Al Maliki, Karzai e Zardari. Tutto questo sta molto bene all’imperialismo-sionismo, in quanto contributo all’eliminazione di popoli di troppo. Ma ancora meglio andrebbe un sodale meno pretenzioso e autonomo, magari un fiduciario assai più ossequioso, senza pretese di egemonia regionale, magari un agente Cia, magari un corrotto ladrone ricattabile che, magari, rinunciasse a certi equilibri tra cosche assassine e, magari, abbandonasse Hezbollah e Hamas al destino programmato dagli sterminatori israeliani. E, visto che il padrino della cosca, Rafsanjani, lo “squalo”, ha perso un po’ di smalto a furia di ladrocini e complotti antipopolari, vada per il vecchio, fidato arnese della guerra all’Iraq con armi USraeliane, Musavi, primo ministro al tempo di quell’impresa congiunta, e delfino del satrapo filo-Usa, Akbar Rashemi Rafsanjani.

Abbiamo cercato di spiegare come i persiani, nella loro millenaria strategia di potenza regionale, siano astuti biscazzieri che giocano su vari tavoli, anche opposti: con gli Usa e Israele a sventrare l’Iraq e vanificare l’unità araba, con Hezbollah e Hamas (la cui autonomia palestinese e araba non si ha il minimo motivo di mettere in discussione: i sostegni si accettano leninisticamente anche dal diavolo), a contrastare l’avanzata dell’altra potenza regionale: Israele. Quelli che tagliano la geopolitica con l’accetta, secondo schemi prefissati e incartapecoriti, succubi di sparate demagogiche dell’uno o dell’altro protagonista dello scenario, farebbero bene a studiarsi qualche manuale della realpolitik degli Stati. E farebbero benissimo a estrarre il “moderato” e “democratico” Mir-Hossein Musavi, virtuoso antagonista dell’oscurantista radicale Ahmadinejad, dalle nebbie soffiategli addosso dagli specialisti delle rivoluzioni colorate e collocarlo sul vetrino del loro microscopio.

Chi è Mir-Hussein Mussavi?
Cosa hanno in comune l’ultrà neocon Michael Ledeen, amico dei fascisti italiani, il saudita Adnan Kashoggi, massimo mercante d’armi mondiale con logo Cia e Mir-Hussein Musavi?
Sono tutti amici e associati di Manucher Ghorbanifar, anche lui grande mercante d’armi, doppio agente iraniano del Mossad, figura centrale nella porcata Iran/Contra, l’affare triangolare armi in cambio di ostaggi e dell’assalto all’Iraq messo in piedi con i persiani di Khomeini e Musavi dall’amministrazione Reagan.

Del compare di Mussavi, Ghorbanifar, si legge nel rapporto Walsh su Iran/Contra: “Ghorbanifar, informatore Cia, fiduciario del primo ministro Musavi, si fece prestare da Kashoggi milioni di dollari, con pieno consenso di Washington, per l’acquisto delle armi israeliane da usare per distruggere l’Iraq (colpevole di aver creato il Fronte del rifiuto contro la svendita egiziana di arabi e palestinesi a Tel Aviv e Washington) Ottenuti fondi dal governo di Tehran, Ghorbanifar compensò Kashoggi con una tangente del 20% . Sfiduciato in un primo momento da Khomeini, Ghorbanifar rientrò nel gioco diventando il fiduciario e braccio operativo di Mir-Hossein Musavi, primo ministro iraniano. A questo proposito, ecco il commento di Michael Ledeen, allora consulente del Pentagono per l’antiterrorismo, sulla coppia di compari: “Si tratta delle persone più oneste, istruite e affidabili che abbia conosciuto”. Per altri si tratta di bugiardi che non saprebbero dire la verità sugli abiti che indossano”.




Il rapporto Walsh si dilunga poi su certe lamentele di Musavi al presidente Reagan per una spedizione di elicotteri Hawk non corrispondenti al modello ordinato (dovevano servire contro l’opposizione laica e di sinistra non ancora del tutto domata e contro l’Iraq). E aggiunge: “All’inizio di maggio, 1985, il colonello Oliver North (il gangster che raggirò il Congresso per occultare l’operazione Contra), il capostazione Cia, George Cave, Ghorbanifar e Musavi si incontrarono a Londra per discutere questa ed altre collaborazioni Iran-Usa-Israele. Ledeen fu incaricato di informarsi presso il primo ministro israeliano, Shimon Peres, sul suo accesso a buone fonti e a buoni contatti in Iran. Israele diede garanzie in tal senso e Reagan approvò che all’Iran di Mussavi si spedissero missili Usa Tow in cambio del rilascio degli ostaggi statunitensi in mano alla resistenza libanese. Il capo della Cia, Casey, raccomandò che il Congresso fosse tenuto all’oscuro di tutto l’affare”.
ll rapporto di amicizia e collaborazione tra Ledeen, Ghorbanifar e il candidato “riformista” Musavi resistette nel tempo, fino ad alimentare il sostegno dei “moderati” Usa alla candidatura del provato fiduciario. Fino all’attuale tentativo di regime change alla serba, o all’ucraina. Davvero un bell’eroe riformista che s’è scelto la sinistra italiota
.

Fattosi le ossa con le cinque pagine di lirica esaltazione per un discorso di Obama al Cairo, zeppo di banalità e retorica e di sostanziale identificazione con i nazisionisti di Tel Aviv (fatta salva la “preoccupazione” per la “continuità” dell’espansione delle colonie in Cisgiordania), il “manifesto”, in assoluta sintonia con il coro delle destre, si è fatto reclutare, con la nota Marina Forti, nelle schiere colorate della spia Musavi, quasi fosse un novello Mossadeq o Dubcek. Astutamente l’inviata ha messo le mani avanti fin dai giorni della vigilia, sia anticipando brogli (è la regola dalla Serbia di Milosevic in qua), sia dando voce esclusivamente a intervistati dell’eversione filoccidentale. Viaggiava sottobraccio a quella Lucia Goraci del TG3 che, rinnovando i fasti collaborazionisti e mistificatori dell’ancor più nota collega Giovanna Botteri, nuotava felice nell’elegante piscina verde delle masse scese dai quartieri alti. Accodatisi tutti quanti alle geremiadi su brogli, conclamati senza un’ombra di evidenza dalle centrali della disinformazione ontologica (CNN, Reuters, Fox di Murdoch, NBC, New York Times, Time), hanno dovuto subire l’onta di una smentita addirittura di fonte statunitense. Un sondaggio condotto da un’organizzazione non profit, “The Center for Public Opinion”, che da tre anni monitora le posizioni dei cittadini iraniani cogliendo sempre nel segno e venendo per questo premiata con un “Emmy Award”, aveva constatato una prevalenza di Ahmadinejad sul diretto rivale addirittura superiore all’esito finale del 66% contro il 32%. 12 milioni di voti di differenza, all’anima dei brogli! La ricerca era stata condotta dall’11 al 20 maggio in tutte le 30 province del paese. Sul campo aveva operato con una società di ricerca che da anni lavora per le televisioni ABC e BBC e aveva previsto una vittoria del presidente in carica per 2 a 1. Nei media infervorati per i “riformisti” si rivendicava a Musavi la gran maggioranza dei giovani dotati di internet. Peccato che solo un terzo degli iraniani ha accesso a tale tecnologia e che il gruppo di età fra i 18 e i 24 è risultato il blocco dal sostegno più forte per Ahmadinejad. Dove il suo rivale primeggiava era tra studenti, laureati e ceti dal reddito elevato. Il che dovrebbe far riflettere anche quegli integerrimi puristi della lotta di classe che individuavano in Musavi il vindice delle richieste sociali delle masse. Quanto ai wrestlers per la “democrazia” contro la “tirannia” dei mullah, che confrontino l’ultralibero e vivacissimo dibattito pre-elettorale di quel paese, la quota dei suoi votanti (80%), con l’assetto mediatico del nostro paese e il numero di elettori e votanti nel paese-modello Usa, questo sì organizzatore di brogli vincenti a casa sua (due presidenze fasulle) e nei paesi satelliti.

Dice, ma alla protesta degli sconfitti (anzi, “derubati del voto”) si sta reagendo con la repressione, le bastonate, gli spari, la censura ai media stranieri. Vogliamo vedere cosa farebbe qualsiasi governo occidentale se bande istigate a foraggiate dal Cremlino facessero tutto questo ambaradan, bloccassero il paese, in seguito a un’elezione non vinta? Vogliamo ricordare cosa capitò ai militanti scesi in strada perchè non tollerarono il ritorno del fascismo in salsa tambroniana? Se i media stranieri sparano balle al servizio degli destabilizzatori di un governo, compiono reati che vanno puniti perlomeno con l’espulsione. Da noi i giornalisti che pubblicheranno le nefandezze del guitto mannaro e dei suoi commensali finiranno in carcere e, quanto alla censura, si guardi al modello israeliano, che non ha ammesso neanche un giornalista alla carneficina di Gaza, che ha espulso il sottoscritto perché non assecondava la ferocia e le menzogne della Guerra dei sei giorni. Gli assassini mirati e le stragi di bambini per mano israeliana, gli stermini di oppositori in Iraq, sono stati oggetto di analoga indignazione? Perché non se la prendono con le milizie di tagliagole controllate da Tehran che hanno fornito il contributo decisivo all'assassinio di quasi due milioni di inermi iracheni? Perché in quel caso sta bene all’Occidente e punisce un popolo che ha sostenuto Saddam? E soprattutto perchè non manifestano un qualche dubbio sulla credibilità di una stampa schierata interamente a favore di figuri equivoci come quelli sopra descritti, quando perentoriamente attribuisce sette morti ai cecchini pasdaran sui tetti? Potrebbe, dovrebbe, venire in mente a loro come a me cosa accadde nel golpe amerikano contro Hugo Chavez, aprile 2001, quando decine di morti, proprio tra le loro file, vennero attribuite ai militanti chavisti scese in piazza in difesa della legalità e della rivoluzione. Ci vollero pochi giorni perchè circolassero ovunque, ma non nei media complici e nella Cnn, i video in cui si vedevano cecchini sui tetti e poliziotti addestrati da istruttori e al soldo dei golpisti Usa che sparavano su manifestanti inermi. Come ovunque in Latinoamerica, quando si tratta di provocazioni e terrorismi a favore di tirannie e oligarchie filoamericane, comparve anche in quella occasione l'ombra degli onnipresenti specialisti del Mossad.

Tutti allineati e coperti nelle formazioni d’assalto dell’eurocentrismo, nel disprezzo e nella persecuzione di popoli e culture, costumi e fedi generati da altre storie, altri ambienti, necessitati da altre priorità e sensibilità. Tutti ostinatamente incorreggibili. Nel 2001, quando un colpo di Stato promosso dalle stesse matrici Usa ed eseguito dalle bande CIA-NED di Otpor incendiando il parlamento e distruggendo le schede, rovesciò il democratico governo serbo e sventrò la trincea jugoslava contro l’espansione UE-Nato, riducendo i Balcani a sette malavitosi micro-protettorati del vampirismo occidentale, “Liberazione” titolò, all’unisono con i bollettini mafio-imperiali: “Belgrado ride” . Ancora meglio il “manifesto” con “La primavera di Belgrado”. Una primavera finita nella ghiacciaia. Oggi lo stesso giornale, sotto le foto del manutengolo USraeliano e dei suoi fan in maglietta verde, spara in prima pagina: “I giorni dell’Iran” e, il giorno dopo, “Iran contro” . Perseverare diabolicum. Ma nei covi dei cospiratori e serial killer USraeliani si brinda a tale stampa come Nelson ai rincalzi di Bluecher a Waterloo. Se avesse vinto Mussavi si rallegrerebbero, costoro, che i patrioti libanesi e palestinesi verrebbero a perdere l’unico punto d’appoggio in tutto il mondo, almeno politico, forse strumentale ma tant’è, e che il fronte USraeliano, con il corredo dei suoi vassalli e fantocci alla Abu Mazen, si avvantaggerebbe di un ancora più disciplinato e incondizionato apporto persiano per meglio sistemare Afghanistan, Pakistan, pieni di odiati sunniti, la Russia, la Cina, tutti noi? Ma ci sono o ci fanno? E’ così che si sostiene l’autodeterminazione dei popoli? Mettendovi a capo spioni dell’impero, chiamandone i manichini estratti dal sangue dei loro popoli “governo”, “presidente”, “primo ministro”, come una qualsiasi Ong di merda?

Sempre su questa linea quattro donne stronze, quattro studenti imbecilli, indegni dell’Onda, quattro fascisti revanscisti, un capopartito che di politica internazionale ne capisce quanto io di astrofisica (Di Pietro), hanno fatto casino contro Muhammar Gheddafi, il dittatore, il pagliaccio. E quando sono venuti il nazista nucleare Lieberman, l’assassino seriale Olmert, il licantropo in gonnella Condoleezza, il fantoccio Karzai, il macellaio Uribe? Zitti e mosca. Prima di aprire bocca su un presidente di un paese che dal buco nero del colonialismo ha tirato fuori un popolo e gli ha dato dignità e benessere, dove le leggi vengono formulate e votate da assemblee di popolo, costoro dovrebbero sfondarsi il petto di mea culpa per i connazionali che, tra il 1911 e il 1941, hanno massacrato un libico su sette, ne hanno gassato, torturato e impiccato decine di migliaia, sono corresponsabili della catastrofe inflitta all’Africa intera dal colonialismo europeo. Quella catastrofe per la quale la Libia diventa l’imbuto in cui finiscono i profughi delle tragedie sociali, politiche, ambientali da noi provocate in tutto il continente. E’ Gheddafi che dovrebbe sistemare a proprio agio e a tempo indeterminato questi profughi delle terre da noi devastate, o dovremmo essere noi, solo noi, smettendola intanto di esaltare o riconoscere i vari tirannelli indiamantati che le nostre multinazionali mettono su troni con le gambe radicate nel sangue, eurocentristi del cazzo?