sabato 31 ottobre 2009

HONDURAS: TRIONFO TATTICO DEL POPOLO INSORTO. Avanti verso la vittoria strategica.
























Occhio: da fine novembre, primi di dicembre, sarà disponibile “HONDURAS – L’AMERICA LATINA ALLA BATTAGLIA FINALE” , il mio nuovo documentario girato nel Continente latinoamericano e in Honduras con Marco Diotallevi. Si possono prenotare presentazioni da metà dicembre.

Beato il paese che non ha bisogno di eroi.
(Bertold Brecht)
Beato il paese che produce molti eroi.
(io)

Un popolo in piazza per quattro mesi, in città, villaggi, quartieri, bidonvilles, a dispetto delle proprie forze, della famiglia, della scuola, del lavoro, della salute, del rischio di essere ferito, sequestrato, fatto sparire, torturato, ammazzato. Per la libertà, anzitutto (il nome vero dell’abusata “democrazia”), per la dignità, per il pane, per i figli, per il futuro. Quattro mesi di sacrosanto amore, fitto tessuto della comunità, e di sacrosanto odio che, aldilà dei vaneggiamenti dei nonviolenti fautori del disarmo unilaterale, va a chi, per ingrassare, ci succhia il sangue. E così, dopo decine di morti, centinaia di feriti, migliaia di carcerati e desaparecidos, infinite botte, paura, terrore, repressione dell’informazione libera e resistenza, guidato da capi scaturiti dalla lotta e dalla volontà di massa resi irriducibili, il Frente de Resistencia al Golpe de Estado, ha vinto. Alla maniera di come hanno vinto i popoli di Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua. Rendendo impraticabile la dittatura, gettando i corpi dei tantissimi giusti contro fucili, veleni e mazze, riparo dei pochissimi ingiusti. Micheletti ha firmato l’ultimo punto del comunque nefasto “Accordo di S. José” mediato in Costarica dal mezzano locale degli Usa, Oscar Arias, premio Nobel alla maniera di Obama. Accordo che sancisce il ritorno formale alla situazione istituzionale precedente il golpe del 28 giugno, cioè del ritorno alla presidenza della repubblica di Manuel Zelaya, il liberale-liberista divenuto riformatore alla bolivariana, traditore de suoi padrini oligarchici e imperialisti, impegnato a trasformare la “repubblica delle banane”, piattaforma per le incursioni genocide degli Usa in Centroamerica, in qualcosa di degno del proprio popolo.

L’accordo è stato firmato il 30 ottobre dal lumpendiktator Roberto Micheletti, dopo aver tentato di tergiversare per arrivare a elezioni da manipolare grazie al potere assoluto sull’amministrazione statale e alla disponibilità dei gorilla delle forze armate di obbedienza pentagoniana. Elezioni che avrebbero legittimato quell’operazione 28 giugno che aveva riportato l’America Latina ai fasti fascisti della kissingeriana operazione Condor: Obama esattamente come Nixon e Reagan e tutti i presidenti Usa di tutti i tempi. “L’impero è l’ìmpero”, come mi ha detto a Tegucigalpa, nella sua modesta casa, abitazione più da operaio che da segretario generale del sindacato honduregno, Carlos Reyes, protagonista del memorabile sciopero generale del 1954 che rivelò al mondo come tra banane e bananieri a stelle e strisce ci fossero anche lavoratori in lotta, indigeni vivi, un popolo degno del nome più di molti altri. Reyes è oggi, a elezioni di fine novembre garantite limpide dal restaurato Zelaya, il candidato alla presidenza della repubblica del movimento di resistenza popolare: C’è chi si illude su Obama, che s’immagina scontri tra i cattivi e i buoni a Washington. Ma così argomentando si mena solo il can per l’aia. E il cane siamo noi. L’impero è l’impero. L’impero ci ha fatto due guerre in questi mesi: una interna, di classe, utilizzando i tirapiedi locali delle Dieci Famiglie e dell’esercito gorilla, per annullare le misure sociali antiliberiste adottate da Zelaya. L’altra, esterna, contro Hugo Chavez e tutto il movimento di emancipazione latinoamericano, per il quale noi dovevamo servire da esempio e, poi, da base di lancio per il recupero, anche militare, delle posizioni perdute nel continente.

Certo, pecore e volpi (chiedo scusa per la metafora agli animali) inneggeranno ora agli Usa, a Obama, al Dipartimento di Stato della virago Clinton, qualche femminista italiana del giro delle ginocrati tornerà a scaldarsi sull’ “angelo Hillary” (Mariuccia Ciotta) che ha inviato a Tegucigalpa il suo sottosegretario Thomas Shannon, una di quelle lenze alla Holbrooke e alla Mitchell che vanno in giro a fottere la gente con sopra il cappuccio del boia la targhetta del “mediatore”. Tutto il merito agli Usa che, dopo quattro mesi, hanno costretto il Goriletti – Pinochetti ad abbassare il pennacchio mussoliniano. Cosa che avrebbero potuto fare con una telefonata al proconsole coloniale il pomeriggio stesso della defenestrazione manumilitari di uno Zelaya in pigiama. Non scherziamo. La Clinton che, tramite il suo burattino all’OSA aveva dato dell’ “idiota” a Zelaya rientrato avventurosamente, per i golpisti imbarazzantemente, in Honduras, pronube Lula, aveva flirtato per tutto questo tempo con la feccia militar-oligarchica insediatasi nel più povero, degradato e presunto sottomesso paese dell’area. Il golpe l’aveva partorito questa orrida megera, inseminata da Cia e Mossad (presente in forze, come mi ha denunciato lo stesso Reyes, in tutte le fasi di golpe e repressione), con l’assistenza al parto della levatrice Obama. Obtorto collo, ridotta in ginocchio dall’immensa e ininterrotta forza dei caminantes honduregni, si è dovuta acconciare al piano B: accettare il ritorno dell’ infame, rinnegato dell’impero, ma senza che a ciò si accompagnasse alcun provvedimento contro i fiduciari momentaneamente messi da parte. Fiduciari Usa che ogni legge marchia di criminali colpevoli di alto tradimento, di assassinii di massa e di violazione di ogni diritto umano. Impunità di costoro, conferma del golpista militare al comando supremo, Vasquez Velasquez, salvataggio del torturatore e seriallkiller degli anni’80, Billy Joya, qui tornato a impazzare. Per gli Usa e le Dieci Famiglie di licantropi locali c’è, ad addolcire la battuta d’arresto, il valore aggiunto di un presidente, sì vittorioso nel recupero della sua carica, ma sostanzialmente svuotato di ogni possibilità di far danno. Ha sottoscritto i punti dell’accordo che annullano l’assemblea nazionale costituente per il cambio radicale del paese, ha rinunciato ai più importanti provvedimenti a suo tempo adottati per mutare la condizione di stato-burletta nel teatro delle multinazionali come, in primis, l’adesione all’ALBA, l’Alleanza Bolivariana dei Popoli dell’America Latina, voluta da Chavez e diventata il temutissimo, da multinazionali e FMI, fronte avanzato dell’antimperialismo e del progresso sociale nel continente.

Il giorno prima dell’arrivo dell’emissario Shannon, c’era stata una delle più grandi manifestazione della Resistenza e una delle più brutali aggressioni dei gorilla di Micheletti. Forse il dado è stato tratto quel giorno. Un popolo in piedi e in piazza, pur inerme, troppo inerme, ininterrottamente per oltre 120 giorni, alla faccia del peggio che il pinochettismo aggiornato può infliggere a essere umani, fa paura e pesa. Qualcuno tra i burattini e il burattinaio ha capito che così non c’era verso di andare avanti. I burattini ci hanno provato: nel percorso dall’Università Pedagogica, nella lontana periferia, fino all’Hotel Clarion, sede delle trattative, hanno scatenato sui ventimila tra donne, anziani, bambini, militanti, tutto quello che l’apparato repressivo messo in piedi dagli israeliani aveva a disposizione: altri feriti, altri fratturati, altri bastonati, altri sequestrati, altri spediti in ospedale per intossicazione da gas venefici. Molte centinaia avevano incredibilmente resistito e si erano trincerati davanti al “5 Stelle” , luogo della presa per i fondelli durata un mese e oggi battuta. Girava voce, confermata in Nicaragua, che in quel paese honduregni meno disposti a subire calci in faccia e morti ammazzati da una dittatura duratura, stavano addestrandosi ad altre forme di lotta e di contrasto al terrorismo di Stato sparso dall’impero per ogni dove. Sarebbe stata una resistenza non isolata come un tempo, non senza sostegni internazionali di ogni genere: l’America Latina non è più tutta amerikana, anzi, lo è per soli due parastati, narcostati, Colombia e Perù. Voleva Obama lacerare ulteriormente la sua facciata di cartapesta imbarcandosi in una guerra di sterminio sul modello Contras degli anni’80? Forse no, non ancora. Intanto ci ha provato con il golpe alla Pinochet. Ma stavolta li non è andata come a Kissinger allora. Bel segno di come le cose da quella parte del mondo sono cambiate. E pensare che da noi, chi dovrebbe guardare da quelle parti e imparare, imparare, imparare, tiene la testa di struzzo avvolta nel pluriball delle sue folcloristiche pippe domiciliari.

Mentre scrivo c’è ancora qualche firma da mettere sotto l’accordo per il ritorno alla legalità costituzionale. Ancora per guadagnare tempo – non tanto per salvarsi la ghirba, quella gliela garantisce Washington – il Goriletti con le mutande alle caviglie si è appellato a un trucco istituzionale: il ritorno di Zelaya deve essere “approvato dal Congresso sentita la Corte Suprema di Giustizia”. Su questi due organismi si appoggia il lumpendiktator appeso al cappio strettogli addosso dalla rivolta popolare. Si tratta di due putride latrine, colme di detriti rastrellati dall’oligarchia golpista, che già avevano legalizzato il colpo di Stato. Forse, agitandogli sul muso i suoi serpenti la gorgone Clinton, questi sicari del golpe accetteranno di sottostare alla necessitata congiuntura e approveranno. Mel Zelaya tornerà al suo posto, è stato bravo nelle condizioni micidiali in cui i gaglioffi lo avevano ristretto nell’ambasciata del Brasile, ha tenuto duro, ha incitato la sua gente alla resistenza. Ma quello che governerà da qui alla fine di gennaio, quando gli subentrerà il successore eletto il 29 novembre, sarà un presidente dimezzato, impegnatosi a non fare più nulla di quello che voleva fare e il popolo chiedeva che facesse. Sarà già grasso che cola se riuscirà a impedire che le elezioni diventino una megatruffa alla Karzai, quelle che gli Usa hanno ormai preso la consuetudine di allestire a casa loro e ovunque gli convenga. Perché il processo di liberazione portato avanti dai milioni di eroi di questo paese continui, dovrebbe uscire da libere e trasparenti elezioni il candidato del popolo Carlos Reyes. Sarebbe come la vittoria di Chavez o di Morales, una rivoluzione dal voto. Se Zelaya invita a votare per lui, non c’è partita per gli altri, squallidi rimasugli di un bipartitismo – liberal-nacional - all’Italiana, di quelli che ci sono famigliari poiché, qui come lì, si esibiscono sui muri delle città con le facce più bolse e ottuse che la politica della borghesia capitalista riesce a scovare.

Il composito Fronte della Resistenza deve ora mantenere la sua finora saldissima unità, riuscita addirittura ad aggregare settori del vecchio Partito Liberale e del partitello di Unità Democratica. Non deve perdere i pezzi particolarmente leali al personaggio Zelaya che potrebbero dirsi: “Tornato il presidente tutto è risolto. Lasciamo fare a lui”. E no. La vittoria è grande, esemplare, storica. Ma è una vittoria tattica. Tira un’aria, soffiata dagli Usa, da legge di “Punto final”, quella che nei paesi della dittatura latinoamericana ha garantito per troppi anni, e in parte ancora garantisce, l’impunità ai despoti assassini e violatori dei diritti umani. Guai se la Resistenza ora mollasse e non stesse con 14 milioni di occhi (sette e mezzo sono gli abitanti, il mezzo è dei vampiri e loro ascari) addosso agli eventi politici che si dipanano a partire da adesso e che, o sono condizionati dalla richiesta popolare di democrazia, giustizia e assemblea nazionale costituente per il rinnovamento del paese, o sono il contrario, come golpisti e padrini vorrebbero. Le insidie per l’Honduras libero sono ancora tante. E ancora tanta è l’indifferenza, l’ignavia, la stolta assenza delle sinistre fuori dall’America Latina. Se l’Honduras perde, anche noi perdiamo e non ce lo dovremmo perdonare mai. Lo stivale del mostro avrebbe fatto un altro passo avanti sul corpo di tutti. In queste ore a Tegucigalpa la città è occupata da centinaia di migliaia di persone festanti e decise più che mai. Il paese è occupato da 7 milioni. Quello stivale ha perso il tacco.

Scrive il Fronte Nazionale di Resistenza: Questa vittoria si è potuta ottenere con più di quattro mesi di lotta e sacrificio del popolo. Un popolo che, nonostante la selvaggia repressione inflittagli dai corpi fascisti di uno Stato in mano alla classe dominante, ha saputo resistere e far crescere coscienza e organizzazione, fino a trasformarsi in una forza sociale incontenibile… La firma da parte della Dittatura del documento in cui si stabilisce di far tornare il Potere Esecutivo allo stato precedente il 28 giugno rappresenta l’accettazione esplicita che in Honduras v’è stato un colpo di Stato… Ribadiamo che l’Assemblea Nazionale Costituente è un’aspirazione irrinunciabile del popolo honduregno e un diritto non negoziabile per il quale continueremo a lottare nelle piazze, fino ad arrivare alla rifondazione della società per renderla giusta, egualitaria e autenticamente democratica.

Ne avessimo di eroi così! Altro che il buon Brecht…
Da noi ci si chiacchera addosso e si tace sul resto.

Scenderemo nel gorgo muti.
(Cesare Pavese, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”)

venerdì 30 ottobre 2009

INTERNAZIONALISMO O IDOLATRIA. Su un articolo di Gianni Minà.

Con uno scritto di Joao Pedro Stedile dei Sem Terra


Il cinico smaschera con il suo esempio gli idoli privati e pubblici. Esemplare, a questo proposito, quel filosofo cinico trascinato in giudizio perché si rifiuta di accettare i misteri. Se i misteri sono cattivi, egli dice, il filosofo deve dire la verità su di loro. Se sono buoni, dovrà attirarvi più gente possibile. In ogni caso deve conoscerli e quindi non possono
darsi misteri
.
(Michel Foucault)

Diverse volte mi sono pronunciato, anche a rischio di scomuniche (ma a quelle ci ho fatto callo e scaglie), sulla confusione che quasi tutti fanno tra solidarietà con un popolo, paese, Stato, lotta, e l’incondizionata approvazione, quasi sempre in forma di panegirico, di ciò che vi fanno i dirigenti. Io penso che la vera solidarietà sia prima con il popolo e i suoi obiettivi, e poi con i capi. E con i capi solo nella misura in cui a nostro avviso (sempre relativo, ovvio, basta che sia studiato e sincero) essi corrispondono a quei bisogni, a quegli obiettivi. Sempre che sia muovano sui binari della rivoluzione conclamata. Tacere, per esempio, sul recente Fidel, che tutti onoriamo ed ammiriamo, e sulle sue improvvide e improprie esternazioni su quanto sarebbe stato “positivo il Premio Nobel a Obama”, cioè a colui che sta massacrando mezzo mondo, compresi i propri lavoratori, su mandato dei suoi padrini cannibali e sta assaltando quell’America Latina per la quale Fidel e Cuba sono da mezzo secolo faro, ispirazione e operativa fratellanza, è come il credente che, nel nome della fede, tace sui peccati del parroco. O come il prete che sorvola sulle aberrazioni oscurantiste e collaborazioniste del papa, o, ancora, come il comunista che sorvola sulle purghe staliniane, occultandole alla critica del libero arbitrio della sua comunità, cioè all’intelligenza del reale e al suo superamento. Da questi oscurameneti escono poi, per nemesi, rovesciamenti come i Fassino, D'Alema, Veltroni. Si spazza l’inconveniente sotto il tappeto e il salone risplende della sua perenne immacolatezza. Ingannando il colto e l’inclita e impedendogli di pensare e dire il giusto sulla strada percorsa e sulle sue buche, cosa necessaria a qualsiasi cammino in avanti.

Posso dire che la cacciata “con indegnità” dalla direzione del governo e del partito di due illustri e universalmente stimati dirigenti come Carlos Lage, vicepresidente, e Felipe Perez Roque, straordinario e amatissimo ministro degli esteri, non mi è piaciuta né nella forma opaca, né nella sostanza gossipara, per niente convincente? Posso dire che Fidel ha abusato del suo ruolo quando, nel pieno di una feroce offensiva imperialista e uribista contro le FARC colombiane, si è inserito nel coro di biasimo e di presa di distanza dalla lotta di liberazione dal narcotraffico e dall’imperialismo di un paese e di una storia altri? E che con ciò ha fatto un favore, sicuramente contro la sua volontà, al narcofascista presidente e ai narcocolonizzatori che in quel paese stanno impiantando sette basi militari d’assalto ai popoli latinoamericani? Posso dire che a Cuba, nel tessuto di una società che ha insegnato ai popoli come liberarsi e progredire, si stanno diffondendo i germi di una corruzione endemica che minaccia di preparare il terreno al ritorno degli yankee e della loro mafia? Posso dire che è sconcertante che dopo 50 anni siano al vertice dello Stato e del Partito degli ottuagenari e che nessun membro delle successive generazioni di formazione rivoluzionaria sia ancora considerato affidabile e degno di sostituirli? Certo che lo posso dire, perché queste cose le ho viste e perché temo che non favoriscano la salute di quella rivoluzione dalla quale dipende la felicità, il benessere e la sovranità di quel popolo. E io con quella rivoluzione sto.

Gianni Minà è un incondizionato sostenitore di Cuba e ha sbaragliato negli anni tutti i provocatori e disinformatori politici e mediatici sguinzagliati dai nemici del popolo cubano e delle sue libere scelte. Sarebbe più credibile, avrebbe ancora maggiore impatto se si pronunciasse anche su qualcuna delle cose cui ho accennato sopra. In un recente numero del “manifesto”, nell’ultima pagina (potete ritrovarlo in internet), l’autorevole giornalista amico di Mohammed Ali e di Fidel Castro, ha sciolto un’inno di potenza gregoriana a Lula Da Silva, presidente del Brasile. In tutto il paginone neanche un accenno di critica, una piccola riserva su otto anni di governo, ma una sinfonia di elogi assolutamente incondizionati, esaltati, da stordire il più entusiasta dei trombettieri. Eppure dal e sul Brasile, cui si riconosce un’inedita autonomia dall’invadente vicino nordamericano e un buon rapporto con gli esponenti della più avanzate esperienze latinoamericane, non è che non escano voci, degne di rispetto, che tratteggiano un quadro non del tutto abbagliante, anzi, invaso da forti ombre. Non è balenato all’amico di tutti i popoli latinoamericani oppressi e sfruttati dagli yankee che la via imboccata da Lula, più che puntare a una rovesciamento dei rapporti di forza e di potere tra i suoi milioni di umili ed esclusi e le poche migliaia di oligarchi, terratenientes, manager multinazionali, stia allestendo un Brasile
(sub)imperialista sul piano economico e nuovo soggetto nel “libero” mercato dei protagonisti della competizione capitalista? E’ sfuggito al compagno Minà il crimine contro l’umanità commesso in complicità da Bush e Lula quando hanno votato grandi pezzi di Brasile, prima, al nutrimento con gli agro(necro)combustibili del principale elemento di distruzione del pianeta, i veicoli a motore, sottraendoli al nutrimento degli affamati, e poi alla sterilità perpetua da ipersfruttamento?

Qui sotto riproduco un testo del maggiore esponente delle rivendicazioni e lotte di massa del Brasile, il leader dei Sem Terra, Joao Pedro Stedile. Senza i Sem Terra, che ancora attendono una riforma agraria promessa da Lula decenni fa, Lula non starebbe dove sta. Se ne ricordi Gianni Minà. E tutti i corifei al seguito di carri di trionfo.


PESTICIDI NEL VOSTRO STOMACO
Di João Pedro Stedile

I RICCHI SANNO DI COSA STIAMO PARLANDO E CONSUMANO PRODOTTI BIOLOGICI. VOI
DOVETE DECIDERE. DA CHE LATO STATE?



I portavoce della grande proprietà e delle imprese transnazionali sono
pagati molto bene per sostenere, parlare e scrivere tutti i giorni che in
Brasile non ci sono più problemi agrari. Alla fine, la grande proprietà è
diventata molto più produttiva. Quindi il latifondo non è più un problema
per la società brasiliana. Sarà vero?

Nonostante questo, voglio affrontare il tema dell'ingiustizia sociale
della concentrazione della proprietà della terra che fa sì che il solo 2%
dei proprietari, ossia 50.000 latifondisti, siano padroni della metà di
tutte le nostre terre, mentre abbiamo 4 milioni di famiglie senza diritto
alla terra.

Parlerò delle conseguenze, per voi che abitate in città, del modello
agricolo dell'agrobusiness. L'agrobusiness è la produzione su larga scala,
con monoculture, con l'uso di pesticidi e macchinari. Usano veleni per
eliminare altre piante e non assumere manodopera. In questo modo distruggono
la biodiversità, alterano il clima e espellono sempre più famiglie
di lavoratori rurali dalle loro terre.

Al momento dell'ultimo raccolto, le imprese transnazionali, e sono poche
(Basf, Bayer, Monsanto, DuPont. Sygenta, Bunge, Shell chimica...), hanno
festeggiato perché il Brasile è diventato il maggior consumatore mondiale di
veneni agricoli. Sono stati utilizzati 173 milioni di tonnellate. Una media
di 3700 chili per ogni brasiliano. Questi veleni sono di origine chimica e
restano nell'ambiente. Inquinano il suolo. Contaminano le acque. E,
soprattutto, si accumulano negli alimenti. Le coltivazioni che più
utilizzano i veleni sono: La canna da zucchero, la soia, il riso, il mais,
il tabacco, il pomodoro, la patata, l'uva, le ciliegie e gli ortaggi. Tutto
questo lascerà residui nei vostri stomaci. Nel vostro organismo le cellule
si ammalano e, un giorno, potranno trasformarsi in cancro.


Domandate agli scienziati del nostro Istituto Nazionale del Cancro, centro
di riferimento della ricerca nazionale, qual è la principale origine del
cancro, dopo il tabacco?

La Anvisa (Agenzia Nazionale di Vigilanza Sanitaria) ha denunciato che
esistono nel mercato più di venti prodotti agricoli non raccomandabili per
la salute umana. Tuttavia, nessuno inserisce informazioni sulle etichette
degli alimenti, né li ritira dagli scaffali. In passato era permesso che la
soia e l'olio di soia avessero solo 0,2 mg/kg di residui del veleno
glifosato per non causare problemi di salute. Improvvisamente, la Anvisa ha
autorizzato che i prodotti derivati dalla soia potessero contenere fino a
10,0 mg/kg di glifosato: 50 volte di più. Questo è avvenuto certamente per
pressione della Monsanto, poiché il residuo di glisofato è aumentato nella
soia transgenica di sua proprietà.

La stessa cosa sta succedendo ora con i derivati del mais. Dopo che è stata
approvata la coltivazione di mais transgenico, il che ha aumentato l'uso di
veleni, vogliono ampliare la possibilità di residui da 0,1 mg/kg
(attualmente permesso), a 1,0 mg/kg.

Esistono molti altri esempi delle conseguenze dei pesticidi. Il dottor
Vanderley Pignati, ricercatore della UFMT (Universidade Federal do mato
Grosso), ha rivelato nelle sue ricerche che nei comuni dove c'è grande
produzione di soia, in seguito a un uso intensivo dei pesticidi, gli indici
di aborti e malformazioni di feti sono un quarto di più della media dello
Stato.

Noi abbiamo sostenuto che è necessario valorizzare l'agricoltura familiare
contadina, che è l'unica che può produrre senza veleni e in modo
diversificato. L'agrobusiness, per ottenere vantaggi di scala e grandi
guadagni, riesce a produrre solo con veleni e espellendo i lavoratori verso
le città.

E voi pagate il conto con l'aumento dell'esodo rurale, delle favelas e con
l'aumento dell'incidenza del veleno nei vostri alimenti.

Per questo, sostenere l'agricoltura familiare e la riforma agraria, che è
una forma di produrre alimenti sani, è una questione nazionale, di tutta la
società. Non è più un problema dei senza terra. E è per questo che sempre
più il MST e Via Campesina si mobilitano contro l'agrobusiness e contro le
imprese transnazionali; è per questo che i loro mezzi di comunicazione e i
loro deputati e senatori ci attaccano tanto. Perché sono in conflitto due
modelli di produzione. E' in discussione a quali interessi la produzione
agricola deve rispondere: solo il profitto o la salute e il benessere della
popolazione?

I ricchi sanno di cosa stiamo parlando e consumano solo prodotti biologici.
E voi dovete decidere. Da che parte state?





* Membro da coordenação nacional do MST e da Via campesina Brasil

lunedì 26 ottobre 2009

L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA

Tegucigalpa. Honduras, ottobre.
Il Premio Nobel per la Pace, elogiato da Fidel, lancia l'Operazione Condor 2
L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA
tra fascisti e Resistenza, tra imperialismo e popoli












































































Nos tienen miedo por que no tenemos miedo - Hanno paura perché noi non abbiamo paura.
(Slogan del Frente de la Resistencia contra el golpe de Estado)

Tegucigalpa, ottobre. Oggi la Resistenza si è concentrata alla UNAH, Università Nazionale Autonoma dell’Honduras, cuore della lotta studentesca. Stradone di entrata e uscita dalla capitale bloccata dai copertoni incendiati. I poliziotti robocop e i militari bardati come per un assalto a Gaza (sono ottimamente istruiti dai paramilitari colombiani e dai soliti specialisti israeliani, a disposizione di ogni efferatezza fascista in America Latina) stanno alla larga. Le migliaia accorse all’appello degli studenti dai barrios e dalle colonias (favelas) di questa città dalla cupola di merda e di dollari e dalla base di rabbia e fame, sono troppe da bastonare, gassare, sparare, intossicare con la chimica rossa al peperoncino. Ci sono stati altri due morti ammazzati, in aggiunta alla ventina documentata (poi ci sono i desaparecidos nelle carceri della tortura; anche qui, esperti israeliani): Jairo Sanchez, sindacalista che una pallottola in faccia ha ucciso dopo 21 giorni di agonia, ed Eliseo Hernandez, professore, direttore della scuola El Mateo a Santa Barbara. Il conto per oggi, ultracentesimo giorno del popolo in piazza contro il colpo di Stato, parrebbe chiuso. Quei posapiano dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), terminale latinoamericano del travestimento democratico Usa, potrebbero vedersi costretti ad arricciare il naso sugli eccessi della dittatura del lumpendittatore Micheletti. Già hanno dovuto dar retta a Lula, che gli ha intimato di porre un freno all’assedio della sua ambasciata con dentro, dal 21 settembre, Mel Zelaya, presidente deposto, impegnato in un dialogo che con la teppa fascista golpista mai si sarebbe dovuto neanche concepire.

“Dialogo” tra assassini e assassinati
Il rinnegato di classe Mel Zelaya deve essere ammorbidirlo ulteriormente, visto che, accettati tutti i punti dell’accordo-truffa di San José (assemblea costituente alle calende greche, elezioni-farsa sotto controllo militare il 29 novembre, cancellazione dei provvedimenti sociali) suggerito da Washington al suo fantoccio costaricano Oscar Arias, Premio Nobel per meriti Usa, insiste sull’ultimo punto: il reinsediamento di Manuel Zelaya nella carica di presidente dell’Honduras dalla quale la notte del 28 giugno fu strappato in pigiama, con le pistole dei gorilla puntate alla testa, e sbattuto in Nicaragua. Così, dopo i gas tossici sparati nelle tubature dell’ambasciata, dopo l’ordigno dai suoni laceranti, entrambi fiori tecnologici all’occhiello dei torturatori israeliani, ora si tratta di praticare su presidente, famigliari, seguaci, personale brasiliano, il tuttora irrinunciabile metodo Guantanamo: la privazione del sonno attraverso fotoelettriche accecanti sparate nelle stanze dell’ambasciata, fragorose esercitazioni da caserma notturne sotto le finestre, strepitii di trombe, tuoni di tamburi e soprattutto l’amplificazione micidiale di quella musica rock che ha fuso il cervello dei detenuti nella base strappata a Cuba. E’ in queste condizioni e in quelle quotidiane di irriducibili masse di donne, bambini, uomini massacrati dalla repressione, che si “dialoga” tra un presidente e la banda di delinquenti venduti al colonialismo gringo che lo tiene rinchiuso nel proprio paese in un’ambasciata straniera. Del resto, non aveva il rappresentante nell’OSA dell’ultrà Hillary Clinton definito Zelaya un “imprudente idiota”? Così il rappresentante del Frente, Juan Barahona, visto che lì, all’Hotel Clarion, sede del negoziato propiziato dagli sciacquapanni dell’OSA, chi ciurlava nel manico, chi faceva il pesce in barile, chi si calava i pantaloni (anche se solo fino al ginocchio), ha sbattuto la porta ed è tornato in piazza. Dove ormai, nella battaglia finale lanciata dagli Usa di Obama contro l’America Latina in progress, a partire dall’anello ritenuto più debole, tutto si decide.

Studenti
Parte la marcia verso il centro. Sono migliaia, le eterne donne dagli assalti verbali furibondi contro la teppa golpista, i quadri nati nel fuoco dello scontro da cento e cento associazioni sindacali, socialiste, dei diritti umani, di categoria, insegnanti in testa, i meticci e gli indios (sono il 90% dei 7 milioni di honduregni e riempiono per intero l’80% della povertà di questo paese che è al penultimo posto nella graduatoria continentale, prima di Haiti), qualche rinnegato della classe creola (i discendenti dei coloni spagnoli), gli studenti davanti a tutti, i meno rassegnati al pacifismo integrale del Frente. Tutti con la richiesta prioritaria su tutte: Zelaya al suo posto, e con quella strategica, imprescindibile: assemblea nazionale costituente per passare dalla Repubblica del Pentagono, di Chiquita, degli avvoltoi minerari e del disboscamento, a una società come quella di Cuba, o di Chavez, terrore dell’Impero. E’ stato tolto lo stato d’assedio che la banda dei mercenari di Obama aveva proclamato a fine settembre, che aveva provocato morti, feriti, arresti, torture, desaparecidos, ma che non c’è stato giorno che la Resistenza non l’abbia sfidato. Sono stati liberati due dei tanti media d’opposizione devastati e chiusi: Radio Globo e Canale 36 (ma altri i gorilla delle dieci famiglie, in gran parte ebree, che depredano paese e popolo, i Facussé, capocomici di questo colpo di Stato, per primi, li tengono chiusi). E la marcia va a festeggiare i compagni di Radio Globo che, alla faccia delle attrezzature rubate e dei locali distrutti, hanno continuato a diffondere la parola della Resistenza attraverso internet, sfuggendo alla caccia degli sbirri, spostandosi di casa in casa, di giardino in giardino, di anfratto in anfratto, come il nostro amico Pavel, strepitoso protagonista di questa contesa tra guardie di menzogne e ladri di verità.

Nonviolenza?
A un certo punto ecco i cobras, neanche un centinaio, con quelle mazze di legno spaccaossa, i mitra, i lanciagranate CS, quelle facce che abbiamo visto a Genova, brutizzate dall’addestramento alla protervia, alla ferocia. Davanti a quest’ ola di entusiasmo e determinazione, i mercenari delle Dieci Famiglie, gli ascari della Scuola delle Americhe, i pretoriani della gerarchia cattolica ed evangelica, disorientati, sbigottiti, arretrano, si limitano a seguire da lontano. Non è il momento di sparare, siamo troppi e non conviene macchiare di sangue gli sparati di chi al Clarion finge di negoziare pacificazioni. E’ bastato che un centinaio di studenti, giorni prima, davanti al Clarion, per una volta reagissero al fugone disordinato della folla aggredita, ponendosi in mezzo, a copertura di donne, vecchi, deboli, ragazzini, perché la truculenza impunita dello sbirrame della dittatura vacillasse. Nos tienen miedo por que no tenemos miedo. Non è questione, ancora, di resistenza armata, come, chiamandola “insurrezione” e “terrorismo”, la cricca dei golpisti la denuncia, “scoprendo” ordigni esplosivi nei centri commerciali, o puntando il dito su campi di addestramento in Nicaragua, allo scopo di liberarsi le mani a una resa dei conti militarizzata, che sia giustificabile davanti alla già collusa “comunità internazionale”. C’è qualcuno che dal grasso Nord del mondo ha qui importato la burlesca fissa della “nonviolenza” da agnelli sacrificali. E così ogni lotta, ogni manifestazione ha subito lo stesso destino: botte da orbi, un omicido o due, gas venefici, panico, dispersione disordinata, traumi e senso di sconfitta. Forse da questi studenti, dai più consapevoli dei militanti sta uscendo l’intuizione che nonviolenza è soprattutto la difesa dalla violenza dei gorilla di Goriletti (detto anche Pinochetti). Che i deboli, gli indifesi di un corteo vanno protetti con servizi d’ordine che sappiano, anche a fuochi, pietrate e barricate, frenare gli attacchi della repressione, organizzare e garantire via di fuga e di riordinamento, costituire un contropotere di massa, evitare che si arrivi al punto di non poterne più di prenderle, sempre prenderle e si finisca col restare a casa. Lo hanno insegnato i boliviani, gli ecuadoriani, quando hanno cacciato i loro di Micheletti. Forse sapranno rispondere al piano repressivo che la dittatura, mostratasi irriducibile e magari domani nascosta dietro elezioni “democratiche” alla Bush, già previste sotto controllo delle Forze Armate, figurarsi, costruendo una rete clandestina di resistenza. Rete che salvaguardi la direzione e il tessuto del Fronte della Resistenza, condizione imprescindibile per quella vittoria, domani, che la maturità politica espressa da questo popolo saprà garantire a sé, facendone anche scudo ai fratelli sotto tiro Cia in tutto il continente latinoamericano, da Cuba alla Bolivia, dal Venezuela all’Ecuador, al Nicaragua, al Salvador, al Paraguay, all’Uruguay, ai rivoluzionari e ai progressisti.

Oggi, intanto, è festa e affermazione su una cricca di macellai fascisti che, abolito formalmente lo stato d’assedio e la legge marziale, sconfitti dalla disobbedienza di massa, vogliono perpetuarli nella sostanza approfittando del sonnecchiare complice dei democratici e delle sinistre di quasi tutto il mondo. Resta infatti praticata la sospensione delle libertà e dei diritti all’inviolabilità del domicilio, a manifestare, riunirsi, associarsi, comunicare in termini non di regime Qui è successo e continua a succedere un Cile 1973, quello per cui da noi i sindacati scioperavano, boicottavano, i manifestanti assediavano le ambasciate, la stampa “perbene” strepitava indignazione, Lotta Continua organizzava “Armi al MIR” (l’organizzazione del martire Miguel Enriquez che, diversamente dal PCC, non si rassegnò). Oggi silenzi e occultamenti, sparuti segnali dei pochi cui è rimasto la consapevolezza che la battaglia internazionalista contro fascismo e imperialismo è la chiave anche per affrontare la propria macelleria sociale, la chiave di un futuro o da fine del mondo, o di liberazione per tutti. Si attraversano i quartieri delle casupole e delle baracche, con i cartelli delle parole d’ordine tracciati da donne proletarie e sottoproletarie, incredibilmente consapevoli, accolti dalle donne delle baraccopoli che dall’inedia del dollaro al giorno riescono a estrarre pasti per chi resiste nelle piazze. Veniamo infoltiti dalle vittime della sopravvivenza senza lavoro, senza scuola, senza sanità, che da quattro mesi sfidano lesioni, arresti, abusi e morte per arrivare a dire finalmente la loro sul destino di questo paese. Ogni incontro, pure rinnovatosi tutti i giorni, è avvolto in un’affettività che sprigiona calore da unità d’intenti, un rete d’amore contrapposta alla gelida complicità di quei quattro becchini della giustizia e della vita nascosti dietro ai loro pretoriani. E gli studenti coronano la giornata accendendo nel buio mille fiaccole, dando ulteriore nerbo alla resistenza con quell’enorme falò che incenerisce il Micheletti-fantoccio vestito di bandiera Usa. Sacrosanto falò di sostanze tossiche, di quelli che tanto scandalizzano i tutori della “società civile” quando s’inceneriscono stelle di Davide, pupazzi di mercenari o vessilli a stelle e strisce.































Genova 2001 ?
Con Marco, amico e collega telecineoperatore, abbiamo vissuto per due settimane in un paese sotto stato d’assedio. Quel figlio della Grande Meretrice nel Nord, Micheletti, dopo qualche giorno di sopracciglia inarcate dei soci della “comunità internazionale”, aveva dichiarato revocato il provvedimento e la legge marziale. Ma non aveva pubblicato la revoca sulla Gazzetta Ufficiale, in modo da poter surrettiziamente continuare a infierire sugli inermi: manifestanti, comunicatori, associazioni. E così che ci trovammo coinvolti nel quotidiano assalto a manifestanti che, correttamente, avevano individuato nell’Ambasciata Usa, al di là delle fanfaluche sull' Obama buono messo alle strette dai tagliagole del Pentagono e dalla virago Clinton, l’obiettivo cardine della resistenza al golpe. Erano qualche centinaio a cantare – questa è una lotta che canta, come tutte quelle che hanno un’anima rivoluzionaria – ballare e lanciare slogan contro i gringos e i loro fantocci e per l’assemblea costituente. Lo schieramento di robot armati a difesa della sede dei neoconquistadores intima di togliersi dai piedi. La folla rifiuta come un sol uomo, pur avendo fatto quotidiana esperienza del modello Genova che ne sarebbe seguito. Alle 12.15 scatta la carica. Prima una grandinata di mazzate sulle prime file, spappolamenti, lacerazioni, sangue. Poi sulla moltitudine in fuggi fuggi una scarica di gas tossici e acque chimicizzate. Robaccia da accecare, rendere incapaci, lesionare e danneggiare nel tempo. Marco, dalle lunghe gambe e da esperto professionista, dietro a un albero si cura di mettere al riparo lo strumento di lavoro e di verità, la telecamera, il Kalachnikov dell’informatore onesto. Io, abbioccato dal gas, indugio tra marea in fuga e squadroni di Mazinga all’inseguimento. Piovono granate come castagne d’autunno. In quei momenti, accecato o non accecato, asfissiato o respirante, al cronista viene l’urgenza di raccontare subito, senza la mediazione del ricordo. Voglio dire qualcosa al microfono di Marco per comunicare autenticità e immediatezza. Ma il discorso “in camera”, quello che noi della tv chiamiamo stand up, resta strozzato in gola da un attacco di tosse convulsa che mi piega in due. Tutt’intorno altri polmoni si accartocciano, si rivedono le scene dei gas sparati dagli iraniani sui curdi. E l’idea che questi allievi di Negroponte e Netaniahu, specialisti di squadroni della morte su entrambe i lati dell’oceano, possano sorvolare su chi si proclama “prensa” o “press” e ha in mano gli attrezzi del mestiere, svapora quando il fotografo restato indietro con me viene colpito in piena schiena e abbattuto da una granata di quella roba tossica. Conviene unirsi ai fuggiaschi. Si serpeggia tra mazze che ruotano sulle teste e si dribblano granate saettanti tra i piedi. Ancora una volta va deprecata l’assenza di qualsiasi ombra di servizio d’ordine che faccia barriera tra robocop scatenati e inermi allo sbaraglio, che convogli verso ripari e santuari, riorganizzi un minimo di risposta. Succedeva, ci raccontano le immagini, nei primi tempi della rivolta contro i masnadieri fascisti, ma poi prevalse la parola d’ordine della nonviolenza sublimata in martirio. Guai se quelli lì trovano pretesti per darti del violento, del teppista, del terrorista! Come se di pretesti avessero bisogno! Canali televisivi e giornali non chiusi, tutti in mano alla mafia oligarchica, ti davano comunque dell’insorto contro le leggi dello Stato, del devastatore, del criminale, anche se ti presentavi snocciolando rosari. Il confronto è tra il Cile, consegnato dal pacifismo mitizzato a un ventennio di terrore e depredazione, e la Bolivia, l’Ecuador, il Venezuela, dove masse insorte, nonviolente ma non indifese, hanno invece saputo infliggere alla belva fascista danni insostenibili. Anche perché se giorno dopo giorno protesti e poi lasci la piazza, la città in mano ai “tutori dell’ordine”, non ti si fila nessuno. S’è visto nell’abissale silenzio, nella cinica e complice indifferenza con cui tutti i media del mondo, sinistre comprese (faccio un’isolata eccezione per Geraldina Colotti, correttissima sul “manifesto”), hanno accompagnato e affossato lo scontro tra l’80% di un popolo e i matamoros rapinatori di libertà e di vite. Sarebbe stato lo stesso se ragazzi avessero difeso pezzi della loro città con le barricate incendiate, la paralisi del traffico e dei trasporti, larghe zone di inagibilità dello Stato?

Diritti umani sotto dittatura
In coda a uno spezzone della manifestazione, tra pestati, sanguinanti e incazzati, arriviamo nel cuore della città, alla sede del COFADEH (Comitato dei famigliari dei detenuti e desaparecidos in Honduras). Una palazzina a due piani dove da decenni si lavora, e mai come in questi mesi, alla ricerca, difesa, liberazione delle vittime della repressione, all’inseguimento giuridico dei responsabili, degli aggressori, degli assassini. Il comitato è presieduto da Bertha Oliva: nel 1982, nel paese dell’eterna repressione oligarchico-coloniale, a Bertha è stato fatto sparire suo marito. La sua silhouette tracciata sulla porta della direzione ce lo presenta giovane, con panni e faccia da ’68. Dal suo personale desaparecido questa donna ha tratto la forza per costruire uno scudo a tutti i vessati, abusati, carcerati, perseguitati del suo paese. Subito all’ingresso una bambina di 14 anni, con la madre. Sulla nuca una larga fascia a copertura della ferita procuratasi quando, accecata dai gas, è precipitata da un muretto. Più o meno negli stessi giorni, la furia mirata degli sbirri aveva spaccato il braccio a Carlos Reyes, segretario del più grande sindacato honduregno e fino a poco fa credibilissimo candidato indipendente alla presidenza della repubblica. Ci aveva detto, Reyes, che la sua candidatura avrebbe retto solo nel caso del ritorno alla presidenza di Manuela Zelaya e, quindi, di elezioni libere, trasparenti, non manipolate dalla cricca di golpisti alla moda afghana. Quell’ipotesi sembra caduta con la rottura del “negoziato” tra criminali e vittime, sigillata dal rifiuto di tornare alla situazione istituzionale di prima del 28 giugno. E pensare che nei sondaggi Reyes figurava in testa a tutti. Con competitori come gli squallidoni Elvin e Pepe dei soliti Partito Liberale e Partito Nazionale, che si alternano al potere dall’eternità a difesa delle medesime rapine e obbedienze yankee come se fossero dei PD e PDL qualsiasi, la partita non era difficile. Anche per questo il golpe. Più avanti, nell’androne del Cofadeh, su un divano, giace rannicchiato immobile un pallidissimo ragazzino sui 12 anni. Incapace di arrestare le lacrime, ormai più dolore che rabbia, sua mamma racconta a Marco quello che gli hanno fatto: polmoni bruciati, costole spaccate, terrore inseminato per chissà quanto.
Carlos Reyes

Nel vociare degli scampati alla caccia all’uomo che fanno registrare ai volontari di Bertha gli abusi subiti o testimoniati, la presidente di questo organismo eroico, minacciato, perseguitato e diffamato più di coloro che difende, ci mostra la bozza del Segundo informe sobre violaciones a derechos humanos en el marco del golpe de estato en Honduras: Cifras Y Rostros de la Represion (Dati e volti della repressione). Entriamo in uno scenario cileno di cui, per ragioni di spazio, riferiamo solo le cifre essenziali. La musica dell’orrore ve la dovete immaginare. Diritto alla vita: 21 assassinati accertati al 20 ottobre (e ci si riferisce solo alle città, le campagne devono essere indagate), 3 tentati omicidi, 108 minacce di morte; diritto all’integrità personale: 133 persone colpite da trattamento crudele, disumano e degradante, 21 da lesioni gravi, 453 feriti da mazzate e granate, 211 colpiti da armi non convenzionali; diritto alla libertà: 3.033 detenzioni illegali, 2 tentativi di sequestro, 114 arresti politici; libertà d’espressione: 27 mezzi di comunicazione occupati, devastati e chiusi, 26 aggressioni a giornalisti; 3 organizzazioni sociali vietate; libertà di movimento: 52 fermi di polizia e militari senza imputazioni. Seguono le violazioni di domicilio, del diritto di difendere i diritti umani, cioè i provvedimenti contro dirigenti sociali e dei diritti umani… Spicca tra la profusione di foto su tutte le pareti quella di una giovane di gentile e volitivo aspetto: era Wendy Elizabeth Avila, 24 anni, uccisa dai gas del despota scaturito dalla base Usa di Palmerola, mentre, militante della Resistenza dal giorno del golpe, il 22 settembre in mezzo a una folla immensa festeggiava davanti all’ambasciata brasiliana il rocambolesco ritorno di Zelaya. Sono gas forniti da Israele, come gli istruttori delle squadre degli assassini mirati, fin dai tempi della caccia Contras al sandinista.

Operazione Condor 2
Del resto, come mosche sul miele o, meglio, come rapaci lanciati da falconieri, si sono avventati sull’Honduras da eviscerare gli stessi cavalieri dell’apocalisse che avevano stritolato il paese e i suoi vicini negli anni ’80, al tempo delle mattanze di Reagan e Bush padre contro le forze di liberazione di Salvador, Guatemala, Nicaragua. Centinaia di migliaia di morti ammazzati. Era la coda dell’Operazione Condor, dittature militari, terrore e stragi in tutto il “cortile di casa” Usa dai ’70 agli '80.Siamo all’Operazione Condor Due. Governava la prima edizione Otto Reich, imprestato al Dipartimento di Stato dalla mafia cubana di Miami, protettore dell’iperterrorista Posada Carriles. Oggi, da sottosegretario della Clinton, torna a governare la versione obamiana dell’uccisione di repubbliche che “delle banane” devono restare. Era ambasciatore allora John Negroponte, padrino di tutti gli squadroni della morte che hanno funestato l’Honduras, l’America Centrale, successivamente l’Iraq. Negroponte, recuperato per tali meriti dalla segretaria di Stato di Obama, è tornato a occuparsi di Honduras e di squadroni della morte. Billy Joya di questi è il campione, quello che ci tiene a sporcarsi direttamente le mani. Specialista degli assassinii mirati e di torture ai prigionieri durante gli anni del mattatoio reaganiano, uccideva personalmente i prigionieri. E’ tornato pure lui e stavolta a incarico di altissimo livello, ufficiale, visibile a tutti, così che tutti imparino: consigliere per la sicurezza del lumpendiktator. Nientemeno. Il che ci fa capire cosa s’intende oggi quando, anche da noi, ci si parla di “sicurezza”. In Honduras lo chiamano el matarife, il macellaio. Lo abbiamo colto al volo, col telefonino, all’aeroporto di Tegucigalpa, andava a casa a farsi commissionare nuovi crimini. Se ci avesse visto filmarlo avremmo tardato molto a rientrare. Scusate se l’immagine, rubata, non è perfetta. Basta per ricordare una faccia.

Billy Joya

I predatori e il loro golpe
Se del paese da un secolo fanno man bassa la United Fruits, ora Chiquita, e la Dole, già dei fratelli Vaccaro, dietro le quinte di ogni spettacolo granguignolesco allestito in Centroamerica, non sono da meno, tutti del Nord del mondo, i disboscatori e quelli delle miniere. L’Honduras è tutto un saliscendi dal livello del mare ai quasi 2000 di La Esperanza, cuore della maggioranza india Lenca, figli degli amerindi peregrinati qui da Colombia e Venezuela e discepoli degli aztechi. Poverissimi tra i poveri, resistenti tra i resistenti. Paesaggi come montagne russe, un tempo fittamente rivestite da superfetazioni tropicali in basso e sterminate foreste di pini in alto. In mezzo il prezioso mogano, ambìto nelle magioni dei fissati di status ed esibizione. Siguatepeque è una cittadina nel cuore del paese. Intorno ha ancora le antiche foreste, rifugio di Lempira, grande capo indiano che ripetutamente sconfisse i predecessori spagnoli dei genocidi yankee e, consegnatosi dopo tre mesi di assedio, fu ovviamente trucidato dal Billy Joya dell’epoca. Per arrivarci con la corriera tocca scivolare con lo sguardo su una serie ininterrotta di montarozzi calvi, spennati senza pietà. E’ la deforestazione, una distruzione dell’ambiente corroborata dalla corruzione della classe dirigente, inflitta dal commercio, fuorilegge ma multinazionale, del legname. Già nel 2004 (altre cifre non ci sono) il paese perdeva 1000 kmq di foresta all’anno, un 2% della superficie boschiva nazionale. Disboscamento significa erosione del suolo, impermeabilità del terreno, incendi, inondazioni, valanghe di fango che, estremizzate anche dall’uragano Mitch, hanno ucciso migliaia di persone. I pini forniscono il 96% del legname del paese, metà abbattuto illegalmente. Del mogano fino all’80% viene prodotto illegalmente: tre milioni di tasse evase, svalutazione del valore sul mercato internazionale, incalcolabili danni all’ambiente naturale. Ogni anno l’Honduras perde così un miliardo e mezzo di dollari, la Terra un pezzo dei suoi polmoni. Gli Usa acquistano il 38% di questo legname. I suoi burattini despoti locali chiudono gli occhi e intascano la provvigione.

Capisaldi della Resistenza
Lungo i tornanti della strada che si avvinghia alla montagna in crescita, il loquacissimo per esuberanza rivoluzionaria compagno del Frente, Ostilio (produce magliette della Resistenza di ottima qualità diffuse tra la gente come margheritine sui prati primaverili), ci ferma dove sorgono una serie di negozietti che nascondono un villaggio di recente creazione, bello, lindo, ordinato e con tanto di bel campo sportivo. E, insieme all’aumento del 60% del salario minimo, alle leggi per la scolarizzazione, al sostegno alimentare ai più poveri, al controllo sugli sciacalli delle industrie farmaceutiche e ad altri provvedimenti che hanno permesso l’inserimento dell’Honduras nell’ALBA (Alleanza Bolivariana dell’America Latina), una delle iniziative di Zelaya che hanno mandato in bestia i padroni interni ed esterni del paese. Gente che se ne stava rannicchiata in tuguri nascosti tra gli alberi ai lati della strada e scendeva ai bordi per offrire agli automobilisti quanto sottraevano alla propria bocca, frutti, pannocchie, sciroppi, ha ottenuto l’incentivo finanziario e la formazione professionale per trasformare la mendicità in attività produttiva e commerciale e l’indigenza in modesto benessere. Coloratissime e sorridenti signore indigene, con addosso il solito grappolo di frugolini, presidiano una sfilata di botteghe artigianali con il frutto della loro evoluzione: oggetti in ceramica, maschere, utensili domestici in versione artistica, stoffe, oltre alla solita radiosa frutta. Un pezzo di vita honduregna cambiata, un’esclusione senza dignità sostituita dal ruolo sociale e, a giudicare dai manifesti della Resistenza, dalla coscienza politica. I golpisti e i loro burattinai a Washington potranno pure impedire il ritorno del presidente defenestrato, allungare il brodo rancido del “dialogo” fino alle elezioni di fine novembre, manipolare quelle per rimettere in capo al paese il solito bulimico verminaio, predisporre questa base d’assalto dell’imperialismo in Centroamerica al roll back latinoamericano di Obama-Clinton-Pentagono-multinazionali-FMI, al recupero dei popoli e delle risorse perse, alla liquidazione dei Chavez, Correa, Morales, Ortega e, se non s’accucciano, anche di Brasile, Argentina, Salvador, Guatemala, Paraguay, Uruguay e, naturalmente, Cuba. Ma quanto è nato, cresciuto, maturato in questa gente nel corso di quattro incredibili mesi di insanguinata ma irriducibile lotta a chi vorrebbe riportare l’orologio ai tempi di Videla, Pinochet, Batista, Somoza, a me pare una garanzia di vittoria. Non nell’immediato, forse, quell’occasione sembra sfumata, ma a largo plazo, nel lungo termine di sicuro. Proseguiamo scorrendo lungo il lunghissimo muro di cinta e di filo spinato che occulta “Palmerola”, la più grande base militare Usa in Centroamerica. Quella che ha alimentato nei decenni l’oceano di sangue e di miseria che ha sommerso i paesi dell’Istmo e i Caraibi. Da qui tutte le amministrazioni Usa dell’ultimo mezzo secolo hanno fatto partire le loro spedizioni punitive contro Guatemala, Salvador, Nicaragua, Cuba, Haiti, Panama, Grenada… Da qui sono stati rigurgitati il boia Micheletti e i gorilla in uniforme, marchiati sul mazzo da stelle e strisce e stelle di Davide, come vitelli. Capito cosa devono ai resistenti honduregni i popoli della regione?

Per la festa, non c’è tornado che tenga
A Siguatepeque la Scuola di Trinidad Sanchez, 40 anni, un entusiasmo che gli vibra negli occhi, dirigente del Frente de Resistencia, è ancora immersa nei pini. L’Istituto per la Commercializzazione Comunitaria Alternativa è una delle centinaia di tessere che compongono il Fronte della Resistenza al Colpo di Stato, assieme a partiti di sinistra, organizzazioni sociali, organizzazioni indigene, associazioni per la difesa dei diritti umani, Via Campesina, sindacati, comitati di quartiere e di villaggio, insomma tutto quello che di sano e di contrasto si muove in una società che ha iniziato a rifiutare esclusione e discriminazione. Mentre le mamme, volontarie, preparano la cena, i ragazzi dell’Istituto, perlopiù campesinos provenienti da tutta l’area e in parte qui alloggiati, mettono in scena uno spettacolino che racconta in termini satirici la vicenda golpista e si conclude, ovviamente, con la fortissima invocazione dell’Assemblea Nazionale Costituente. Trinidad ci spiega che la scuola fa parte della Red Comal, rete di strutture che propongono e attuano un programma di produzione-commercializzazione, sempre nel quadro di un rigoroso biologismo, che prescinda dai momenti di speculazione e estrazione di plusvalore e colleghi direttamente il produttore organizzato con il consumatore organizzato. Un modello già realizzato in Venezuela con le cooperative agricole e i celebrati Mercal, un’altra spina nel fianco della élite compradora e del capitalismo selvaggio inflitto dalle multinazionali e dagli organismi finanziari a questo paese. Ma c’è di più, nel compound della scuola di Trinidad. In una casetta defilata, oltre il limitare del bosco stanno nascosti e protetti Melissa, giovane fuggiasca, e i suoi tre piccoli figli. Sono latitanti da S. Pedro Sula, l’altra grande città in rivolta, lei violentata dagli sbirri, il marito ucciso. Ne sentirete il racconto, rappresentativo della parte di violenza alle donne di questa dittatura, nel documentario che stiamo montando.

La sera un gruppo del Salvador sul palco della plaza central stracolma, dà vita a un concerto straripante di energia latinoamericana, di fuoco rivoluzionario, canzoni di lotta della guerriglia d’un tempo, melodie fiorite dalla lotta di oggi, come da noi nel ’45, o nel ’68. I ragazzi del gruppo leggono documenti di solidarietà dei contadini salvadoregni, poesie, gridano serie di slogan che culminano sempre con l’urlo “Asamblea Nacional Constituyente”. C’è mezzo paese in piazza e gli si abbatte addosso sul finale uno di quegli sgrulloni che nei tropici marcano i giorni della stagione delle piogge, ma da noi passerebbero per cicloni. Se non respiri col naso e apri la bocca rischi il waterboarding naturale, tanto è il Niagara che viene giù. Ma non si sposta quasi nessuno. I ragazzi sul palco, inzaccherati, continuano a suonare e, giù, la gente s’è messa le sedie in testa e a far trenini per la piazza. Uno sghignazzo di sfida alla pioggia e a chi la manda a fermare il canto della Resistenza.

La Esperanza è un grosso paese più a nord, a pochi passi dal Salvador, a 1.800 metri di altitudine. E’ la capitale degli indigeni Lenca e dell’organizzazione COPINH, Consiglio dei popoli indigeni dell’Honduras. Ci ospitano i suoi militanti, alcuni stranieri, anche italiani che qui hanno incontrato il sollievo di una speranza e di un impegno per darle corpo. Ci hanno dato una grossa mano, la loro generosità nella lotta e verso chi viene a conoscerla è impagabile. Non ne facciamo i nomi: finchè c’è Goriletti non è consigliabile. Il centro di La Esperanza è uno sfolgorio di luci e colori, in abbacinante contrasto con un tessuto umano di scarnificata povertà, quello che la domenica mattina si sparge per il centro. Sono i contadini Lenca di sfolgoranti tinte vestiti, quasi solo donne, anziane che fuggono l’obiettivo demoniaco, giovani già maturate al sorriso. Sono scese dai villaggi sui monti con la fantasmagoria colorata dei loro prodotti, frutta, verdura, formaggi, povero artigianato. 7 bambini su 10, di quelli appesi alle vaste gonne delle madri, muoiono di patologie banali prima dei 5 anni. Le baracche di legno delle loro microbotteghe furono tutte bruciate nel Natale del 2006. C’entravano i Caltagirone del posto. Speculatori volevano costruirci un megacentro commerciale. Ma i venditori occuparono la piazza, resistettero a minacce, compromessi a perdere, cariche, ricostruirono le loro baracche. Progetto palazzinaro sconfitto. La Resistenza di oggi ha radici segrete, lontane, nasce anche dal risveglio di una popolazione antichissima che non ha mai perso la memoria di sé e che, diversamente da quanto elucubrano alcuni settori indigeni del Cono Sud, ha imparato che la salvezza sta nella classe, non nell’etnia.

Come ti frego i media del padrone
E a questa gente dalla coscienza in crescita, via dal folclore turistico, che si rivolge Rolando, diciottenne conduttore della radio del COPINH, una di quelle che da noi si dicevano “libere”, che tutte hanno subito le vessazioni della dittatura, ma che hanno resistito e, ostinate, sono tornate a trasmettere, anche dopo irruzioni e furto di attrezzature. Con i compagni ricercati o arrestati, il ragazzo Rolando ha tenuto in piedi da solo la radio per 45 giorni: notiziari di lotta, voci dal territorio, informazioni dal mondo, appuntamenti e mobilitazioni, 24 ore su 24 al microfono, a coprire le poche ore di sonno con una musica che prende il sangue e mi ricorda quella di Lotta Continua. Melissa, del Copinh e della formazione femminista che fa parte del Frente, parla delle esperienze fatte in alcuni giri in Europa. Non sono esaltanti. Incontri eminentemente con attivisti già convinti, pochi contatti con il pubblico generico, persone rimaste solo colpite dal racconto delle condizioni di tremendo sfruttamento umano nelle maquilas, le fabbriche dove operaie schiavizzate cuciono vestiario con tessuti importanti dal Nord. Modello Benetton su scala terzomondiale. Ha l’impressione che da noi il terreno non sia preparato, che si rimanga appesi a quello che chiama “folclore politico”. Perché? Perché s’è perso il concetto, la consapevolezza, la pratica dell’internazionalismo, quella componente della coscienza di classe che unifica condizioni e lotte, individua il nemico comune, sempre quello. E’ l’assenza di un disegno strategico comune. Ci vedono sempre come mondi diversi, distanti, chiude Melissa, mentre fa le valigie per un'altra spedizione in Slovenia e Italia. Que le vaya bien, come dicono qui. E’ una vita che da queste pagine si strepita sul burinismo localista e particolarista delle nostre sinistre “radicali”, sulla perdita, davvero letale, della quadra internazionalista. Passando con un taxi per le strade di La Esperanza impariamo un altro dettaglio dell’oppressione di classe che si copre di razzismo, come insegna Maroni: le vie della parte di città abitata dai creoli, dai bianchi, è lastricata alla perfezione, asfaltata; poi c’è una cesura netta e inizia la parte indigena: strade sterrate, marciapiedi frantumati, polvere quando c’è il sole, paludi e fango quando piove, come ora. Miseria, abbandono, sottosviluppo, sfruttamento che non hanno impedito che da questo segmento di popolo nascesse il Copinh, una grande forze sovversiva e di emancipazione, oggi la componente politicamente forse più matura della grande coalizione contro il golpe e per il rinnovamento di Stato, società, paese. Nessuno ha saputo informare meglio nel dettaglio e nei significati profondi quello che qui è stato vissuto a partire dal 28 giugno.

Traditori di classe ed ecoassassini
Marco ed io siamo ospiti della famiglia Zelaya, cugini del presidente e come lui, più di lui, traditori della propria classe d’origine e impegnati in prima persona nella Resistenza. Lorena è membro della direzione del Frente ed è grazie a lei che siamo capitati sempre nel posto giusto al momento giusto. La vedete in bianco, qui sotto, fronteggiare un battaglione di sbirri. La mamma-nonna, Estella, ha 86 anni, è vispa e combattiva come un gatto infuriato, ha una memoria da generale di battaglie napoleoniche, sa tutto dello scontro in corso e s’incazza sui golpisti in tv manco li avesse sotto le mani. Una donna da innamorarsene. Il suo amico Fidel le disse: “Mai ti vorrei avere come nemica !” Una sua foto con la mano sulla gamba del gigante cubano troneggia in salotto. Chissà cosa pensa del fideliano “bene hanno fatto a dare il Nobel a Obama” che ha sbigottito la sinistra in tutte le Americhe… L’altra figlia, Sandra, ci fatto da autista e guida per mezzo Honduras.

Un giorno finiamo nel dipartimento di Olancho, tre ore a Ovest, verso il Caribe, dove apre le sue voragini e avvelena ambiente e gente la GoldCorp, multinazionale mineraria canadese che imperversa intossicando, devastando e rubando, sulle vene d’oro di mezzo mondo. Dopo essere sfilati lungo giganteschi depositi di legname, grossi tronchi accatastati e strappati dai deforestatori yankee alla salute del territorio, su una spianata ribollente di acque termali incontriamo Martin Herazo, sopracciglia come tettoie, barbetta di capra, occhi trapananti, una specie di Pan, presidente del Comitato Ambiente della regione e combattente irriducibile contro i predatori dell’oro. Le bolle incandescenti delle acque che servirebbero a sanare una moltitudine di patologie, ci dice, sono tutte contaminate da cianuro, arsenico, metalli pesanti utilizzati nell’estrazione e lavorazione dell’oro. Le donne che, in basso, sciacquano i panni nel torrente, sono costrette a farlo a dispetto dell’inquinamento. L’acqua non è potabile da nessuna di queste parti, ma la bevono lo stesso. Altra non ce n’è. E’ un ennesima neoplasia che l’economia di rapina del Nord coltiva sul suolo e tra le vite dell’Honduras. Tutta l’area è contaminata, denuncia Martin. Gli effetti dell’arsenico su una popolazione che ha un tasso di mortalità superiore a qualunque altro territorio del Centroamerica sono cancro a vescica, polmoni, pelle, reni, naso, fegato e prostata. Negli animali aumenta la mortalità, produce sterilità, moltiplica gli aborti spontanei e distrugge i globuli rossi. Nel 2008 il presidente Zelaya eliminò la GoldCorp dallo “Jantzi Social Index”, un elenco di società che godono di ampi privilegi fiscali e all’export. Spiega Martin: Fu il frutto della forte opposizione indigena alle miniere in Guatemala, che noi abbiamo ripreso, e la risposta all’incuria della società nei confronti dei problemi sanitari delle comunità honduregne e dei danni all’ambiente.

Raggiungiamo l’ingresso della miniera, irto di guardioni armati, dopo essere passati accanto a una specie di ambiente desertificato: catene di colline circondate da filo spinato formate dalla terra di riporto della miniera. Ci mettono sopra dieci centimetri di terra e ci coltivano avocado, ovviamente tossici, spiega Martin. All’avvicinarci ai guardioni dell’oro rubato per Citybank e First Ladies deve nascondersi tra i sedili. E’ a rischio l’incolumità e la libertà di chi si oppone ai magnati dell’oro. Non pochi ci hanno rimesso la pelle per ogni parte dell’America Latina, ma dai collier il sangue che cola non si vede. Sandra s’impegna in un lungo negoziato con il capobastone all’ingresso. Dice che siamo giornalisti che vorrebbero vedere la miniera per un reportage sullo sviluppo dell’Honduras. Ci chiedono nomi, dati, patrocini, passaporti. Telefonano di qua e di là. Alla fine, come è ovvio, non si passa. Il crimine non va mostrato, neppure a reporter “benevoli”. E’ l’ora del cambio turno. Tra i tanti che escono da questa fucina di patologie, sentiamo una giovane donna, madre di due ragazzi. Il contratto? E’ mensile. E poi? Forse lo rinnovano per un altro mese. Quanto prendi? 8 dollari per dieci ore. Trasporti? No, a piedi, il villaggio dista solo quattro chilometri. Quattro all’alba e quattro alle due del pomeriggio. Ci manderesti a lavorare i tuoi figli? Si volta verso l’ingresso, poi aggiunge sottovoce: Mai!

Golpe continuo
All’Hotel Clarion, non più assediato dai militanti del Frente che ha optato per disseminare le mobilitazioni nelle città, nei barrios, nei villaggi di tutto il paese, ormai in previsione di una lotta di lunga durata, si trascina a vuoto un negoziato morto, che avrebbe dovuto concludersi entro il 15 ottobre, che i carnefici del paese avevano già fatto partire morto e che, probabilmente, non avrebbe mai dovuto essere accettato senza che fossero prima ristabiliti la legalità istituzionale e i diritti costituzionali. I bonari delegati dell’OSA sono lontani, emettono qualche pigolìo dalla loro sede all’ombra della Casa Bianca. Il silenzio della “comunità internazionale” è assordante. L’informazione e la solidarietà di media e forze politiche europee ai minimi termini. Non fosse per Chavez e i suoi compagni sudamericani, che nel vertice dell’ALBA a Cochabamba, Bolivia, hanno ribadito la rottura di ogni relazione e sanzioni ai golpisti, l’Honduras sarebbe solo. Juan Barahona, leader della Resistenza sul campo e membro della delegazione di Zelaya, ha sbattuto la porta. I socialdemocratici del Partito dell'Unione Democratica si sono già ritirati dalla farsa. Carlos Reyes ha scritto al Tribunale Elettorale che, senza il ripristino delle condizioni ante 28 giugno, avrebbe ritirato la candidatura a presidente e tutto il movimento popolare ha deciso per il boicottaggio di elezioni che, sotto controllo degli eversori fascisti e delle loro soldataglie, avrebbero fatto impallidire valvassini e narcofantocci come Karzai in Afghanistan, Thaci in Kosovo, Al Maliki in Iraq, Abu Mazen in Palestina. Lo scopo delle fasulle trattative sull’accordo a perdere di Oscar Arias e di Washington era appunto quello: guadagnare tempo per guadagnare assuefazione internazionale e una nuova vernice di legittimità attraverso “elezioni democratiche” che ponessero drasticamente fine alla trasformazione del paese da repubblica delle banane in membro della catena di Stati emancipati latinoamericani. Quel mondo che si avvia a un totale rovesciamento dei rapporti di forza tra masse subalterne in rivolta per la democrazia e la giustizia sociale e l’infima minoranza di licantropi, il cui scheletro ha per spina dorsale le dieci famiglie ispano-ebree, le sue articolazioni politico-militari nelle forze armate, nell’Opus Dei, nei consulenti e operatori necrogeni del Mossad e, per testa, i revanscisti del colonialismo di Washington e Bruxelles. L’ultimo trucco escogitato era che il ritorno di Zelaya avrebbe dovuto essere sancito dalla Corte Suprema di Giustizia, quell’organismo infeudato ai buttafuori di Micheletti, tipo quelli che da noi vanno a cena da Berlusconi, che già aveva sancito la “legittimità del golpe”! Di fronte allo stallo imposto dal lumpendiktator Micheletti a trattative per le quali si era impegnato di fronte all’OSA al termine ultimo del 15 ottobre, l’organizzazione dei famigli di Obama non ha saputo che esprimere voti che il negoziato riprenda “presto o tardi”. Tali sono le pressioni delle “democrazie” perché si ponga fine a questa sanguinaria pinochettata. Forse in un soprassalto di ipocrisia torneranno a esigere il ripristino di Zelaya, forse la camarilla accetterà in extremis, ma sarà comunque uno Zelaya guscio vuoto quello che potrà tornare a sedersi sullo scranno più alto della repubblica, l’assemblea nazionale se l’è giocata, affidata “alla forza del popolo quando sarà il momento” e le elezioni manipolate dai golpisti faranno finta che l’Honduras ucciso stia uscendo dalla sala di rianimazione. La rianimazione vera la faranno queste masse che per quattro mesi nessuna brutalità, nessun terrorismo di Stato, nessuna lusinga ha saputo far retrocedere di un centimetro dall’obiettivo del cambio radicale.

Resistenza oggi e domani
Alla Resistenza, forse presto votata alla clandestinità, non resta che accingersi a una lunga guerra che contesti sistematicamente a tutti i livelli la strategia reazionaria. Guerra che, volente o nolente, potrà dover assumere tutte le forme e accettare tutti i sacrifici che nella storia dei popoli sono state imposti dalla violenza dei tiranni e dell’imperialismo. E non ci dovrà essere nessun santone della liberazione dei popoli a dovergli dettare le forme che stanno bene a lui. Gli honduregni sanno benissimo che in questa fase rappresentano, con i palestinesi, gli iracheni, gli afghani, i fratelli latinoamericani, l’avanguardia della lotta di liberazione dal nuovo colonialismo e per l’autodeterminazione, la sovranità, il potere delle classi emarginate. Hanno la consapevolezza, che manca a tanta parte delle sinistre mondiali, italiane in testa, di essere il primo capitolo di un libro che il recupero capitalista capeggiato da Obama sta scrivendo e che dovrebbe vedere nel suo epilogo un’America latina tornata carogna alla mercè degli avvoltoi liberisti. In Honduras, aprendo anche qui le ostilità contro il Venezuela bolivariano, la Bolivia di Morales, tutte le forze antagoniste del continente, gli Stati Uniti intendono inviare un messaggio di intimidazione-estorsione a chiunque nella famiglia umana pensi di sottrarsi al dominio e al saccheggio dei genocidi capitalisti disperatamente, sanguinariamente alla ricerca di un’uscita dal loro collasso. E’ una prova di forza all’apice dell’agonia del sistema. In Honduras, in America Latina tutto questo si sa, si prova sulla pelle. Da noi, no.

Premio Nobel
In Honduras, in America Latina si è sentito sbigottiti l’elogio del comandante in capo, Fidel Castro, a coloro che hanno premiato col Nobel per la pace il massimo strumento di guerra e di morte. “Operazione positiva”, ha detto il costruttore di Cuba socialista e antimperialista. Unico nel mondo della sinistra vera, dei popoli aggrediti che con queste parole si sono visti presentare la figura di un terrorista planetario, seppure di narcotizzante pelle nera, che avanza marciando su stermini, distruzione, corruzione, narcobusiness e che, da queste parti, ha ripreso a roteare la spada dei Nixon, Kissinger, Reagan, Bush. La spada che dovrebbe falciare i campi della vita riconquistata e difendere il solco dei nuovi Pinochet. Ma come, riconoscimenti di pace a chi allestisce colpi di Stato, piazza sette nuove basi nel narcostato vassallo Colombia per assaltare il resto del Continente e garantirsi l’usufrutto della cocaina, istiga la Cia a destabilizzare paesi usciti dall’orbita facendo leva su settori reazionari e imbecilli della popolazione nativa (succede oggi in Ecuador, Bolivia e Venezuela), puntando sulla complicità dell’acritica e non sempre innocente mitizzazione degli indios, immancabilmente puri e giusti, da parte di tante Ong? Massimo premio di pace al massimo assassino di massa, a colui che, calpestando diritto internazionale e autodeterminazione, costringe governi asserviti a lanciare armate genocide contro la propria popolazione (Afghanistan, Pakistan), complotta per destabilizzare un paese dopo l’altro, dall’Iran alla Somalia, dalla Cina alla Russia, usando il bisturi dell’inganno, del raggiro umanitario, del sostegno a circoli di rinnegati fatti passare per vindici della democrazia. Il Premio di Nelson Mandela e Arafat dato a uno che a casa sua sta spostando ulteriori ricchezze nelle tasche di chi lo ha inventato e finanziato, a scapito di milioni di disoccupati e di decine di milioni votati alla fame, rafforzando con il testé proclamato “Stato d’emergenza” in tutto il paese il bushiano “Patriot Act”, prodromo di Stato di polizia, per coltivare la gigatruffa della pandemia H1N1 a fini dell’ illimitato potere finanziario e politico di Big Pharma e di controllo fascistoide della popolazione. Arriveremo a masse poste in quarantena, magari negli stadi. Si farà in modo che la più innocua di tutte le influenze recenti diventi letale e, nel frattempo, rafforzi il massimo strumento del potere morente: la paura.

Forse Fidel pensava ai Cinque eroi sequestrati da dieci anni negli Usa, o al cinquantennale blocco di Cuba e che benemerenze come il plauso al premiato nella scia di serialkiller come Peres, Begin, Kissinger, il Dalai Lama, potessero favorire un atteggiamento benevolo della belva. Ha calcolato giusto? E, soprattutto, si è posto a fianco di coloro che da Obama subiscono il terrore fascista, le stragi dai droni in Pakistan, le armi militari e politiche per la pulizia etnica israeliana, lo squartamento di pezzi d’Africa, l’impoverimento e la cancellazione del futuro a fronte della complicità con la criminalità organizzata di Wall Street e del narcotraffico che, oggi, intende fare dell’Ecuador l’hub continentale per gli stupefacenti fatti coltivare in Colombia e Perù? Ne è valsa la pena, Fidel? Forse no, come non è valsa la pena biasimare le FARC colombiane e la loro lotta. Quelle FARC cui altra scelta se non la resistenza armata è stata concessa, dopo il massacro della loro opzione politico-parlamentare anni fa, e alle quali tu hai chiesto di rilasciare senza condizioni i propri prigionieri, dimentico delle centinaia di loro compagni torturati nelle carceri del narcopresidente Uribe.

Siamo stati nelle colonias appese sui colli più alti e spellati della capitale, le più torturate dalla fame e dalle intemperie, Villa Nueva, Los Pinos, Alto de Bella Oriente. Nomi grotteschi, dati da chissà chi a coprire abissi urbani che celano una fatiscenza sociale peggiore delle favelas d Rio. Da lì, da baracche in cui su fornelli di pietra al centro di pavimenti in terra si cucina per far reggere ai manifestanti le giornate di marcia, lotta e botte, scendono i flutti più forti e più decisi della resistenza, al pari di quelli che arrivano dalle università. Gruppi di poverissimi, tappi galleggianti su giornate risolte con espedienti, ma che si sono uniti e sono diventati militanti della resistenza e oppongono organizzazione e coscienza sia alla delinquenza endemica nelle riserve indiane dell’esclusione sociale, sia ai gorilla di Pinochetti. Gente che non ha niente da perdere e che sa mettere in gioco i suoi sforacchiati brandelli di vita. Donne giovani, lì nate, o lì sospinte da bambine come detriti di risacca, ma che dei golpisti e delle ragioni della lotta hanno capito tutto. Avanguardie della Resistenza sotto tetti di plastica e tra pareti di tavole rimediate tra i rifiuti.
Lorena Zelaya

























Myrta Kennedy, presidente del movimento femminista integrato nel Frente e sua componente particolarmente combattiva, è stata, nella Casa della Mujer a Tegucigalpa, la nostra ultima intervistata. Femministe che non mettono al posto della lotta all’imperialismo e al dominio di classe, oscurandoli, il tema GBLQT, o la guerra di genere, ma li vedono come inscindibili articolazioni di uno scontro globale tra dominatori e dominati, tra chi aggredisce e chi si difende.
Di Myrta riportiamo un appello che ci ha pregato di riportare in Italia: Alle organizzazioni delle donne in tutto il mondo chiediamo un appoggio deciso perché il nostro popolo possa riconquistare il suo diritto a vivere in pace, libertà e giustizia. Incrinerà questo grido, anche a nome delle tante donne uccise, ferite, carcerate, violate nell’Honduras del joker statunitense, la lastra di ghiaccio del nostro silenzio? Delle donne e di tutti?


(Tutto il resto nel documentario che uscirà fra un mese).

venerdì 2 ottobre 2009

DA TEHRAN A TEGUCIGALPA: C'E' "RIVOLUZIONE" E RIVOLUZIONE








signore di Tehran







proletari a Tegucigalpa



























Al momento di marciare molti non sanno / che alla loro testa marcia il nemico / La voce che li comanda / è la voce del nemico / e chi parla del nemico / è lui stesso il nemico.
(Bertold Brecht)
L’uomo muore in tutti coloro che restano silenziosi davanti alla tirannia.
(Wole Soyinka)
Il silenzio, dicono, è la voce della complicità. Ma il silenzio e’ impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, proprio come fare niente è un’azione. Fai risuonare chi sei in ogni atto e parola. Diventa quello che sei. Ciò che fai è ciò che sei. Diventa il tuo messaggio. Tu sei il messaggio. Nello spirito di Cavallo Pazzo.
(Leonard Peletier, ergastolano pellerossa)

Cari i miei generosi e pazienti interlocutori. Penso che, a vostro sollievo, da dove mi troverò non sarà facile rifilarvi le mie periodiche intemperanze. Ci risentiremo verso fine mese. Qui, un breve post su eventi che dovrebbero infliggere qualche scrupolo anche ai più pervicaci degli asinelli nel paese della cuccagna.

Non si contano i media da cui sono stato cacciato, o dai quali mi sono allontanato. E’ un rosario di fratture dalle quali, mi auguro, le mie ossa siano uscite via via rafforzate. E l’azione ne abbia guadagnato in limpidezza e verità. Paese Sera, The Middle East, la BBC, la Rai, Liberazione… E ora anche Uruknet. Uruknet è un sito-bollettino quotidiano in inglese che la scarsa anglofonia degli italiani non diffonde all’altezza dei suoi meriti (anche se sporadicamente produce versioni in italiano). In compenso ha centinaia di migliaia di affezionatissimi e grati seguaci all’estero. Non v’è dubbio che sul conflitto mediorientale, con excursus in campi anche lontani dello scontro popoli-imperialismo, sia la fonte più attendibile e ricca, un castigamatti dei bugiardi e falsari. Ne sono stato per molti anni uno dei collaboratori più assidui e, dal rilievo concessomi, mi illudo tra i più apprezzati. Poi su Uruknet si è abbattuta la “rivoluzione verde” di Tehran, vista e accanitamente propagandata anche grazie all’apporto della più astuta e disonesta disinformazione imperiale. Una caduta epocale. La giusta avversione a un governo che ha collaborato con l’imperialismo nel più sanguinario crimine del secolo, lo squartamento dell’Iraq, ha tolto a Uruknet quella lucidità di analisi e valutazione che i suoi gloriosi trascorsi avrebbero dovuto garantire. Siccome Ahmadinejad è stato il co-assassino dell’Iraq, ecco che chiunque si scagli contro di lui è apoditticamente un vindice della libertà, democrazia, giustizia. Anche se ogni evidenza grida al cielo – e Hillary Clinton non si è peritata di ammetterlo – che quei moti dell’alta borghesia iraniana, non certo la liberazione dell’Iraq reclamavano, ma un’alleanza con i devastatori imperiali del pianeta tutto. E questo, giustamente nel momento in cui l’intesa congiunturale Iran-Israele-Usa contro Iraq e arabi era andata sfilacciandosi, sostituendovi la collisione per l’egemonia regionale. L’Iran, in questa prospettiva, è l’unico grande Stato musulmano, l’unico paese tra Atlantico e Oceano Indiano, cui la cupola criminale occidentale non ha saputo sottrarre indipendenza, sovranità, ruolo geopolitico e geostrategico. Un ostacolo colossale nell’avanzata verso la frantumazione complessiva di tutti gli Stati frapposti tra il cannibalismo petrolifero e la strategia maltusiana dell’Occidente, e l’Asia centrale, “cuore del mondo”. Il semplicismo analitico, rafforzato da un approccio più emotivo che scientifico, ha fatto di Uruknet, nel suo sostegno a una sedizione Cia-Mossad, assolutamente identica alle destabilizzazioni imperialiste di molti altri paesi, incompresa nei suoi aspetti di classe, l’imbarazzante, stolto puntello a sinistra della guerra infinita rilanciata da Obama. Uruknet, dando poco peso a considerazioni deontologiche, ha smesso di pubblicare la mia versione opposta degli eventi persiani (e anche tutto il resto), ma ha dato ampio spazio alle visceralmente rancorose e diffamatorie aggressioni personali di una sua malferma collaboratrice. Che mi ha descritto in marcia con i fondamentalisti iraniani, nientemeno, con il turbante in testa. Come quando l’invettiva berlusconiana copre la requisitoria del pubblico ministero. Una bella sintonia di Uruknet e della sua corista verde con Obama, Netaniahu, La Russa e tutti i delinquenti della guerra ai “fondamentalisti islamici”. Quelli della, bene o male, tanto gloriosa quanto unica resistenza di massa ai necrocrati del nuovo colonialismo in quella regione del mondo. Chi ha la cortesia di seguirmi su questo blog non ha bisogno che io sottolinei la portata squallidamente squadrista di tale ritrattino. Bye bye Uruknet. C’è sempre tempo, comunque, per riaggiustare il tiro sul nemico. Quando c’è la buonafede…

Ci hanno martellato le palle e, a ogni residuo singulto di una sedizione borghese fallita, continuano a martellarcele, sulla repressione, sui presunti brogli, sulle atrocità carcerarie, sulle confessioni a priori false dei terminali Cia-Mossad in Iran. Tutti quanti, dal mignolo destro al mignolo sinistro, passando a colpi di traveggole per la capoccia vuota di un’opinione pubblica decerebrata. La solita unanimità corale che impone la musica di chi ha la bacchetta in mano. Tutti d’accordo? Vince la destra. E’ un assioma che la storia dei padroni porta appuntato sul petto. E ora, agli assordanti schiamazzi verdi sull’Iran, ottimo sottofondo ai missili che USraele ogni paio d’ore minaccia di lanciare su quel paese, opponiamo il silenzio che si è esteso sull’ecatombe di Gaza, sulla sadica antropofagia di Israele, sull’olocausto dell’Iraq, sul genocidio afghano (fiancheggiato dal “pio pio, ritiriamo le truppe”, pigolato dagli uni, e dal “però non possiamo abbandonare gli afghani “ dei manifestini alla Sgrena), sulla nuova strategia obamiana di sbranare e triturare il Pakistan nucleare in combutta tra India, Israele e Usa. Ma, soprattutto, ponete il berciare omologo sull’Iran a confronto con la morta gora in cui si avviluppa e occulta l’Honduras. E’ questo l’internazionalismo dei nostri giorni. Delle nostre sinistre.

Mettiamo su un piatto della sbilancia l’accanimento terapeutico sul cadavere della rivolta filo-Usa in Iran e, sull’altro, gli spazi dedicati al colpo di Stato nella più derelitta della “repubbliche delle banane”, base d’intervento per tutte le sanguinarie imprese dell’imperialismo Usa, da Cuba al Nicaragua, da Grenada a Panama , dal Salvador al Guatemala, al golpe dei gorilla fascisti scaturiti dalla base Usa di Palmarola e alla resistenza assolutamente fantastica di tutto un popolo, tolta la lumpenborghesia compradora con i suoi mercenari addestrati nella Scuola delle Americhe. Una resistenza del tutto inaspettata da parte di masse contadine analfabete, represse, sprofondate nella miseria, oggetto da decenni dello sfruttamento più spietato da parte dei vampiri multinazionali, giunta a quasi cento giorni di ininterrotta lotta non armata, segnata da brutalità militari di ogni genere, con un presidente deposto, sequestrato, sbattuto fuori, che, da mite liberale dai buoni sentimenti, si è trasformato, spinto al vento della resistenza, in bandiera dell’emancipazione e della sovranità. L’Honduras, emerso dall’abiezione colonialista e oligarchica a una prodigiosa coscienza e combattività rivoluzionaria, trattato come sempre in passato gli Usa hanno trattato popoli stufi di schiavitù, da Pinochet a Videla, da Somoza a Duvalier, da Batista a Uribe, è un paradigma del nostro tempo in bilico tra planeticidio e liberazione, tra criminalità organizzata, politica, economica, culturale, e giustizia nella libertà. Come Gaza, come l’Iraq, come l’Afghanistan, come la Somalia, con un passo in più grazie alla scintilla sociale e laica che ne ha innescato l’incendio antimperialista e antifascista, scintilla trasvolata dal fuoco di fila rivoluzionario o progressista che avanza dal Cono Sud.

E’ da qui e dalle parallele sette basi militari installate dal guerrafondaio Obama(“Uomo di pace” per l’israelomaniaco Furio Colombo su “Il Fatto”), che si sta scatenando sull’America Latina il revanscismo imperialista e di classe del brigantaggio planetario statunitense. Con tanto di imprescindibile partecipazione israeliana, denunciata dallo stesso Mel Zelaya, con i suoi onnipresenti specialisti degli squadroni della morte ed esperti vuoi delle destabilizzazioni colorate, vuoi della repressione sociale. Ovvio che la classe politica europea dei sottomessi e venduti volti la faccia dall’altra parte, sostenuta nella complicità dai mezzani dei media. Agghiacciante l’ignavia o lo schifiltoso minimalismo con cui le sinistre e i loro comunicatori accompagnano questo ennesimo tentativo imperialista di annichilire un popolo in/risorto e di riequilibrare, a partire da Tegucigalpa, i rapporti di forza tra elites cannibali e resto del mondo, compromessi dall’insorgenza politica latinoamericana.

Per un evento di portata storica e planetaria, dalle ripercussioni infinite e pianificate, scarse e rituali cronache, commenti che si guardano bene dal vedere l’enorme potenzialità di riscatto rivoluzionario manifestato dalle masse in un incredibile maturazione politica, verificatasi in poche settimane. Ponderate analisi che arrivano a simpatizzare con la truffa del “dialogo” affidata da una Washington in difficoltà al pupazzo Usa del Costarica, Oscar Arias, e finalizzata a ricondurre tutto nell’ambito pseudodemocratico di un dominio coloniale affidato da elezioni sotto tutela al mercenariato locale. Unica eccezione, stavolta da innalzare a pietra di paragone di tutte le sinistre in fuga, le cronache e gli interventi sul dramma honduregno del PdCI. Dove sono i cortei, i presidi, le assemblee, le conferenze, le mobilitazioni di qualsiasi genere, gli appelli accorati e indignati della sgomenta intellettualità sinistra? In quale oscuro cunicolo, scampato alla frana dell’opportunismo e dell’autoconservazione, è rannicchiato un residuo di intelligenza politica e di coerenza ideologica?

Sento da mille pizzi microscopiche e ineffettuali organizzazioni di comunisti critici, uniti, dei lavoratori, piattaformali, in movimento, popolari, costituenti, rifondati, vociferare sul proprio primato nella ricostruzione del “Grande Partito Comunista Italiano”. Corrono, sotto l’infuriare di una tempesta imperialista che non avvertono e che tutto condiziona e tutto determina, appresso agli operai sui tetti o sulle gru, ai precari cacciati nel nulla, agli studenti di un’onda che assomiglia a una risacca, a terremotati per sempre senza più comunità, celebrano vittorie per una fabbrica passata da padrone delle ferriere a padrone delle ferriere. Femministe luxuriazzate celebrano messe cantate alla centralità del discorso di genere e seppelliscono sotto i vapori dei turiboli i milioni di donne abusate, violentate, mercantizzate, escluse, massacrate dai valorosi combattenti contro il velo in Iraq, Palestina, Africa, Asia, Honduras.
Battaglie condivisibili? Certo, perlomeno quelle che si pongono l’obiettivo di un frammento di giustizia sociale. Ma battaglie inesorabilmente sterili quando a guardare il bosco non si vedono che singoli alberi. Quando non si vogliono riconoscere i propri alleati, la trincea, lunga quanto il mondo, nella quale inserire, a fianco dello schiavo bananiero honduregno, l’operaio della gru e la sua rivendicazione di lavoro e dignità. C’è più sinistra nel più pio dei Taliban, nel più rigoroso militante di Hamas, nel pirata o Shahaab somalo, nel più saddamita o islamico dei guerriglieri iracheni, in ogni singolo campesino, studente, o sottoproletario honduregno che da 100 giorni marcia contro fascismo e imperialismo. C’è più sinistra, forse l’unica rimastaci, in chi a Vicenza ancora capisce di Nato e di base di controllo assoluto e di sterminio. Con il golpista Micheletti, detto Gorilletti e Pinochetti dagli scamiciati dei barrios e del campo, è partita l’operazione roll-back Usa nei confronti di un continente che ha proiettato sullo schermo del futuro una nuova società, una nuova umanità, per una nuova via rivoluzionaria E’ la vecchia talpa che ha scavato, si è moltiplicata e sta fuoruscendo al sole in America Latina e di qua e di là nel mondo. Lasciandosi dietro lombrichi senza luce a masticare terreni irranciditi da crittogamici scaduti.

Golpe pinochettista e stadio d’assedio in Honduras, la Colombia dell’indispensabile narcoprofitto trasformata in piattaforma d’assalto a Venezuela e Ecuador, innesco di sedizioni reazionarie etniche in Ecuador e Bolivia, attivazione della IV Flotta Usa nelle acque del continente, tambureggianti invenzioni mediatiche e Cia di un “terrorismo islamico” scaturito nelle regioni delle risorse ambite (Amazzonia, Aquifero Guarany della triplice Frontiera, petrolio venezuelano, gas boliviano). L’uomo del change sta davvero compiendo un cambio. Non quello attribuitogli da corifei e gonzi. Si riparte da Pinochet e dall’Operazione Condor. Punto di partenza, oggi, Tegucigalpa. Punto d’arrivo? Credo che lo stabiliranno le masse latinoamericane e le altre che, non importa dove, si alzano in piedi e bruciano le maledette bandiere. Loro sanno che stanno in trincea con noi. Ma noi? L’alternativa è tra un mondo dove mille torri gemelle vengono scagliate sulle parti spendibili dell’ umanità e il bunker sotto la cancelleria di Berlino. E Norimberga. Norimberga non gestita dai vittoriosi tra i criminali. Norimberga degli esclusi, dei popoli.