giovedì 29 aprile 2010

PETIZIONE PER LA LIBERTA' D'ESPRESSIONE


















La libera ricerca esige che si tolleri la diversità d'opinione e che si rispetti il diritto dell'individuo di esprimere le sue credenze per quanto impopolari possano essere, senza divieti sociali o legali, senza timore di successo.
(Paul Kurtz, "Sulle barricate")
In teoria questo è ancora un paese libero, ma i nostri tempi del politicamente corretto e della censura sono tali che molti di noi tremano all'idea di esprimere le loro giuste idee per timore di essere condannati. In questo modo la libertà di parola viene messa a repentaglio, grandi questioni non vengono dibattute e grandi menzogne vengono accettate come grandi verità.
(Simon Heffer, giornalista britannico)
Cari compagni e amici, invio l’annunciata petizione, che ora si trova collocata qui a destra, in cima al mio blog.
Vi sarei grato se vorrete firmarla. Mi sento abbastanza imbarazzato a chiedervi di impegnarvi in questa battaglia che vi sottrarrà un po’ di tempo. Mi incoraggiano a farlo le numerosissime attestazioni di solidarietà che mi sono pervenute da quando ho diffuso la notizia di questa vertenza legale – e morale ! – con Liberazione e il partito di cui è l’organo. Per questo partito ho militato per sette anni, impegnandovi tutte le mie energie e gran parte delle mie sostanze. Le posizioni politiche che esprimevo sulle grandi questioni internazionali erano anche quelle di una forte componente del PRC, fatto che rafforzava il mio diritto di manifestarle sul giornale, anche quando non fossero in linea con le valutazioni dell’ allora segretario nazionale. Il mio articolo su Cuba, che conoscete o che potete leggere nel mio blog (post “Il corpo del reato”), nel maggio 2003, ha determinato il mio licenziamento su due piedi. Di questa cacciata non mi è stata data mai alcuna comunicazione e spiegazione formale. Ne mi è stato riconosciuto il diritto di esprimermi sul giornale. Alle migliaia di proteste dei lettori, si è risposto con giustificazioni false o statutariamente improprie: non mi sarei attenuto al tema ambientale, avrei deviato dalla linea del partito. Affermazioni grottesche se si guarda alle centinaia di miei articoli e reportage che parlavano di Balcani, Medio Oriente, politica interna, cultura, costume, ogni immaginabile argomento, pubblicati tra il 1999 e il 2003.

Anche di fronte alla sentenza d’appello, che mi impone di restituire una cifra per me irraggiungibile a Liberazione, e di fronte alla pervicacia con cui il giornale persegue l’esecuzione di tale sentenza, nonostante mie offerte di transazione, vi sono state moltissime proteste a giornale e partito ed espressioni di solidarietà nei miei confronti. Mi incoraggia a questa iniziativa l’evidente volontà di molti, che da tanti anni seguono il mio lavoro, di non far scomparire dalla minuta scena dell’informazione “altra” la mia voce. E anche l’impegno che ho preso da sempre nei confronti delle verità dei popoli e delle classi oppressi.

Qui sotto troverete l’unica risposta data ai miei sostenitori da un alto esponente del PRC. Chiediamoci cosa ne direbbero, non solo un Santoro reintegrato dal giudice del lavoro contro l’editto bulgaro, ma i mille e mille lavoratori, che il PRC pretende di rappresentare, cacciati senza giusta causa da un padrone e rivoltisi alla magistratura del lavoro.
Una giustizia del popolo, per le mie ragioni e le loro ragioni, purtroppo non l’ho ancora trovata.



Rispondo a titolo del tutto personale. Nel Partito della Rifondazione Comunista sono stato ieri, lo sono oggi e mi auspico anche domani. Ritengo che sia stato sbagliato (in quanto eccessivo) allora privare Liberazione della collaborazione di Fulvio Grimaldi per dissenso politico, ritengo che ancora più grave sia stato il fatto che Fulvio Grimaldi abbia adito la giustizia borghese per tutelare i propri pretesi diritti economici, così facendo ponendosi fuori irreversibilmente dalla comunità politica di Rifondazione Comunista. Il seguito ne è la mera conseguenza: chi di giustizia borghese ferisce, di giustizia borghese mette in conto di perire.

Stefano Alberione (Vice Presidente del Collegio Nazionale di Garanzia)


































lunedì 26 aprile 2010

VACCHE SACRE AMERIKANE















Nulla di quanto vediamo nei giornali può ormai essere creduto. La stessa verità diventa sospetta quando viene posta in quei veicoli inquinati. La vera dimensione di questo stato di disinformazione è nota soltanto a coloro che sono nella condizione di confrontare i fatti da essi conosciuti con le bugie del giorno.
(Thomas Jefferson)
La violenza dei palestinesi è stata l’unica via per il popolo palestinese poiché l’occupazione israeliana comprende soltanto il linguaggio della violenza.
(Mohamed ELBaradei, già capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica)

C’e gente cattiva, come Beppe Grillo, o gli intemperanti arcieri de “Il Fatto”, che, credendosi spiritosi e ricorrendo alla solita satira criminogena, umiliano il nostro prestigioso capo dello Stato e venerando maestro morale dandogli del “Morfeo” che, per gli sprovvisti di cultura mitologica, significa “morto di sonno”. Definizione assolutamente impropria, quando si guardi all’iperattivismo di questo frenetico presidente, impegnato su mille fronti, in casa e fuori. In casa, ha dovuto ricorrere alle cure di un osteopata per raddrizzare una mano destra anchilosata dall’eccesso di firme. Tutte apposte in difesa di legalità, costituzione, etica pubblica, pace, democrazia. Come dargli del “Morfeo?”. Fuori casa, come si potrebbe non essere rimasti ammirati di fronte allo scatenamento umanitario e patriottico di Giorgio Napolitano, non per nulla meritevole della qualifica di migliore dei Miglioristi, in difesa dei nostri connazionali medici sequestrati in Afghanistan. Gino Strada ancora non si è ripreso dalla stupefatta commozione con cui ha potuto seguire l’accanimento di richieste, pretese, addirittura minacce (“o Emergency, o morte”) con le quali il presidente ha tempestato il suo omologo, Karzai, fino a quando costui non ha dovuto cedere a pressioni divenute insostenibili. Come dargli del “Morfeo”! Lungi come sempre da ogni retorica, sobrio e compassato come il venerato modello inglese gli suggerisce da una vita, questo autentico padre della patria ha rinnovato con modeste e secche parole il suo frugale, “vivo e vibrante” elogio ai nostri missionari di pace impegnati in difesa del sacro suolo patrio nelle missioni umanitarie tese a sradicare la mala pianta del perverso patriottismo altrui, immancabilmente terrorista e minaccioso nei confronti della nostra democratica e civile convivenza.

Un brivido di compiacimento, con qualche lacrimuccia di nostalgia, ha attraversato poi i cuori degli anziani partigiani, sobriamente, ma molto dignitosamente occultati dietro le primissime e prime e seconde e terze file dei generali e feldmarescialli, epigoni del glorioso badoglismo, quando, al Quirinale il 25 aprile, il successore dell’assai più borioso Pertini ha esaltato per l’ennesima volta l’articolo 11 della Costituzione, cardine di pace e libertà (purchè americanamente interpretato, s’intende). “Lo spirito della Resistenza rivive – ha detto, straziando molti cuori – nelle missioni di pace che i nostri soldati conducono in terre lontane”. Anche altri partigiani italiani, non annichiliti dall’età, ma ben svegli e vigili nelle loro tombe, si sono sentiti idealmente e intimamente fusi da quelle alate parole, o quanto vere!, con alcune decine di migliaia di loro affini umanitariamente collocati dai nostri portatori di pace e libertà sotto quelle terre lontane. Libertà, appunto, dai gravosi vincoli terreni. Ratzinger non potrebbe essere più d’accordo. Infatti su tutto questo osserva un silenzio più religioso addirittura di quello con cui circonfonde le chiappe formativamente inchiappettate di giovinetti di terre lontane, ma anche vicine. Pochi giornali hanno saputo essere all’altezza di tanta nobiltà etica e ideologica del nostro presidente, quanto lo è stato il manifesto con paginoni d’apertura – “IL 25 APRILE DEL PRESIDENTE” - ed esaltanti editoriali di Valentino Parlato: “Giorgio Napolitano ha fatto agli italiani e particolarmente ai politici un discorso assolutamente giusto, doveroso e, soprattutto, tempestivo… sul valore fondativo della Resistenza antifascista… Napolitano ha messo in campo ideali storici e forti…Il discorso di Napolitano dovrebbe suscitare iniziative serie… Grazie a Giorgio Napolitano dunque”.

Si poteva forse dire meglio di uno che le leggi antifasciste del governo a lui caro le ha firmate proprio tutte? Del resto quel giornale, che militantemente non tralascia occasione per rafforzare l’eroica resistenza, anche nucleare, dell’ “Uomo del Cambio” contro il terrorismo di Al Qaida e le sue bombe sporche pronte a maciullarci tutti, del Parlato ha allevato intemerati nipotini. E sulle spalle di Napolitano, a volte di Luttwak, veri San Cristoforo traghettatori di portatori di verità e pace, che Giuliana Sgrena proclama al colto e all’inclita il suo eroico impegno a fianco delle missioni di pace che i nostri soldati conducono in terre lontane: “Il problema è dunque quello di salvare gli afghani dai taliban”. Lo capissero finalmente quei 25 milioni di afghani su 25 milioni e diecimila che insistono a volersi salvare dagli interventi di pace degli F16 Usa e dei Tornado italiani.

Poi c’è, tra i venerandi maestri che pullulano in questa nazione di eroi, santi e navigatori, uno che è contemporaneamente tutto questo. Eroe della lotta contro la mafia, santo subito prima di diventare martire (e si guardi le spalle da corifei), navigatore sotto bandiere corsare, di quelle però con cui, da Elisabetta Prima a Vittoria, gli inglesi, hanno soffiato a spagnoli e francesi gran parte del bottino coloniale planetario. Ha fatto coppia con Al Gore, Roberto Saviano. Quell’Al Gore che, sotto i miei occhi, si è conquistato i galloni di Gran Visir ambientalista di Clinton. Eravamo entrambi a Kyoto, 1998, per il vertice del clima. Io per il Tg3, lui per la superecologista lobby militar-industriale Usa. Sotto la spinta di presidenti di arcipelaghi in corso di annegamento, la comunità dei paesi era riuscita ad elaborare una pur timida e minimalista opzione di riduzione delle emissioni climamutanti: qualcosa come il 12% rispetto al 1990 entro il 2010, quando ne occorreva il decuplo per non finire arrostiti nel 2020. Giunse in chiusura l’ecologista Al Gore e sbaraccò tutto. Non se ne fa niente. Replay identico a Copenhagen, 12 anni e un grado e mezzo in più dopo, con il nuovo “uomo del cambio”. Tanto per dire la perennità del complesso militar-industriale. Che nel frattempo, tuttavia, aveva annusato un nuovo modo di estrarre plusvalore da uomo e natura: il business ecologico. Così, tra tante altre belle cose, eco-carburanti anche per caccia, bombardieri e tank (li forniscono i campi dell’agrobusiness che prima producevano nutrimento per viventi), ogm come se piovesse, commercio di acqua e aria pulite del terzo mondo da barattare con acque e arie sozze del Nord. Più pannelli solari e pale eoliche. Ecologista imperiale capo, Al Gore.

Il quale ecologista lo è fin quando non si tratta dei redivivi “paesi canaglia” di bushiana memoria. Lì no, lì vanno bene sanzioni genocide e guerre stragiste. Con tanto di irresistibile conforto del nostrano santo subito. Transitato nel mercatino di cause nobili sotto forma di impresa editoriale o cinematografica, “Che tempo che fa”, spandendo allo sdilinquito Fabio Fazio originalissime banalità sull’ ecologia anche dell’informazione, che deve essere assolutamente indipendente, altro che Berlusconi, Al è tornato tra noi dagli schermi della sua televisione “Current”. Questa volta per mettere in campo il campione assoluto nazionale dell’informazione vera e indipendente. Saviano, appunto.
Ruscellavano placide, ma fiere, ovvietà di deontologia giornalistica, intramezzate dall’ilare cinguettio di Maria Latella, adorante moderatrice, fino al momento in cui questo tran-tran non venne bruscamente lacerato da alcuni fonemi arcaici, fomentatori di polverosa memoria: "Russia, Iran, Corea del Nord"… i delinquenti che minacciano il mondo libero con scudi missilistici pronti al first strike. Risuscitavano, tra le labbra di Saviano e Gore, i “paesi canaglia” dell’idiota-macellaio buonanima. E se l’ex-vicepresidente s’era scordato, o aveva sorvolato distratto su Cuba e nientepopodimeno sul diavolaccio nero dell’imperialismo umanitario e democratico, il Venezuela, ecco prontissimo una volta di più a navigare sulla tolda di quello cannoniera, l’eroe antimafia Saviano. “Sapeste, cari fratelli in Usa e Israele, quante invocazioni mi arrivano dall’ altrettanto santa ed eroina blogger Yoani Sanchez, quante dai sudditi del tiranno Hugo Chavez!”

Saviano ci aveva già informato sul criminale narcotraffico delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC), incautamente smentite dalla massima magistratura dello stesso paese, sulla sua appassionata venerazione per il pacifista Simon Peres e il suo proposito di andare a scampare dalle vendette camorriste nel paradiso israeliano della legalità e della democrazia. Al concerto delle sacrosante verità di solida scuola goebbelsiana cantato insieme ai vessilliferi della pacificazione mondiale, Cia, Mossad, Pentagono, Hillary Clinton, La Russa e, scendendo molto in basso, Bertinotti, mancava ancora il suo do di petto sulle nefandezze di Cuba e Venezuela. La Presidential Medal of Freedom, massima onorificenza Usa, gli è stata subita affissa al petto da un soddisfattissimo ex-vicepresidente (“bombe su Iraq e Serbia”) USA.

Prematuramente chiusa la trasmissione del duetto della bella morte agli incivili, il campione del nuovo canale televisivo di un’informazione investigativa da sbaragliare tutti gli Emilio Fede e tutti i Minzolini del mondo, ci siamo persi quanto il superdecorato in patria e nell’impero avrebbe forse voluto aggiungere a completamento della sua militanza per la verità. Che so, la più grande fossa comune del mondo scoperta in Colombia, che i paramilitari uribisti sono stati costretti a riempire con duemila corpi di contadini e sindacalisti sovversivi. O il recente provvedimento di bonifica etnica adottato dall’esercito israeliano per sgomberare i detriti della Palestina da abusivi autoctoni, probabili terroristi; la granata in fronte al dimostrante di Bilin contro il muro di protezione dell’unica democrazia del Medioriente, le mitragliate ai voraci contadini di Gaza che nei propri terreni insistono a voler seminare terroristiche melanzane da lanciare contro Sderot. Non avrebbe potuto trascurare la giusta esecuzione in detenzione, dal 1967, di 198 palestinesi riottosi, di cui 70 pervicacemente si erano rifiutati di accettare di buon grado le torture praticate in nome della salvezza dei sopravvissuti della Shoah. Con ogni probabilità, primatista della lotta ai casalesi narcotrafficanti, però sotto stretto controllo delle forze armate Usa, padrone del porto export-import di Napoli e di analoghi fortini salva-apparenze in tutta Italia, Saviano avrebbe voluto parlarci della fratellanza Uribe-Dea-‘Ndrangheta, mirata a riscattare i profitti da cocaina nelle opere umanitarie di George Soros e di USAID. Non avrebbe potuto trascurare un accenno di biasimo verso quel Pio La Torre che, in Sicilia, aveva bruciato un'inutile vita nella persecuzione della benefica intesa mafia-base di Comiso, servita a perpetuare una collaborazione democratica garantita da Lucky Luciano nel 1943 tra liberatori Usa e vittime delle razzie antimafia fasciste, in nome della perenne stabilità politico-economico-sociale del nostro paese (chiedete a dangelominosse@hotmail.it per chiarirvi meglio le idee).



Forse si sarebbe spinto fino a denunciare la nefasta opera di sradicamento di papaveri messa in atto dai terroristi taliban a scorno dell’utilizzo Usa dei proventi da tali papaveri per superare la crisi economica che mina il benessere delle democrazie, magari ricorrendo al transito kossoviano garantito dalla megabase umanitaria Bondsteel. Visto l’impegno alla morte suo e del compagno ecologista Gore per la libertà d’informazione, sono certo che avrebbe coronato la sua epifania in Current sottolineando l’opportunità della scomparsa nel nulla a Baghdad di Saad Al Aossi, direttore dell’eversivo settimanale Al Shahid, insieme a un centinaio di suoi collaboratori e vicini, successiva al’irruzione delle “forze dell’ordine” del primo ministro Al Maliki. Al pari di quei 200 giornalisti giustiziati in Iraq per aver diffuso notizie false e tendenziose sull’importazione in Iraq di pace e democrazia, il criticone Saad insisteva a minare la felice tripartizione di un paese le cui componenti confessionali ed etniche erano state costrette in convivenza antistorica e anti-globalizzazione dal mostro Saddam Hussein. Giustamente saranno andati tutti a tenere compagnia ai due milioni di iracheni eliminati perché insofferenti alla superiore civiltà occidentale e fissati con il libertinaggio di donne troppo emancipate e con gli stralussi antimercato di sanità e istruzione gratuite. Si è anche percepito un sospiro di sollievo di entrambi gli eroi della libera e indipendente informazione al pensiero che né in Iraq, né in Afghanistan circola più un solo giornalista che faccia dell’indipendenza fazioso strumento di propaganda ribelle.
Come vedete, il personale per il ricambio post-Berlusconi è bell’è pronto e in buone mani.
Saviano con il premio Nobel per meriti Cia Salman Rushdie
Nel fuorionda captato dopo la chiusura, a me personalmente non è sfuggito il generoso invito legalitario di Saviano al mio ex-giornale Liberazione: ragazzi non accontentatevi della cacciata di Fulvio Grimaldi e della quisquilia dei 100mila euro dovutivi a riparazione di tutte le nefandezze filo-cubane di questo sospetto camorrista-terrorista che avete ospitato. Zittitelo per sempre. Avete a disposizione Yoani Sanchez. Non c’è di meglio. Altro che giornalisti iracheni rompiscatole.


A futura memoria, chissà, di Saviano, Al Gore e vacche sacre USraeliane varie, riproduco il seguente comunicato.


A tutti gli antifascisti
Ai soci dell’ANPI
Agli iscritti all’ANPI giovani


Oggi a Roma il comizio convocato dall’ANPI a Porta San Paolo è stata l’occasione per assistere a una serie di gravissime provocazioni che come antifascisti e democratici non siamo disposti a tollerare e di cui chiediamo conto alla direzione dell’ANPI nazionale e romana.

Alla commemorazione del 25 aprile è stata invitata la neo-presidente della Regione Lazio Renata Polverini; un invito reso più grave dall’imminenza del 7 maggio, giorno in cui il blocco studentesco ha convocato la sua marcia su Roma insultando la storia di una città medaglia d’oro della Resistenza: un merito riaffermato nel corso degli anni dalle lotte antifasciste delle generazioni di giovani che si sono susseguite. Renata Polverini è parte di una coalizione politica reazionaria, promotrice di politiche classiste, razziste, clericali e omofobe.

Come se non bastasse, erano presenti e sono stati invitati sul palco esponenti dell’Associazione Romana Amici d’Israele, calata a Porta San Paolo con un delirante volantino inneggiante al sionismo e a Israele, e sventolando bandiere israeliane, tra cui faceva bella mostra di sè la bandiera dell’aviazione israeliana; l’aviazione israeliana l’anno scorso ha perpetrato – lo ricordiamo a chi se lo fosse dimenticato - il massacro di Gaza bruciando oltre 1400 vite in 20 giorni, e continua a bombardare quotidianamente la striscia di Gaza stretta in un assedio criminale. Cosa c’entrano questi sciacalli con la Resistenza ? La nostra Resistenza ha combattuto per dare a tutti la possibilità di emanciparsi e di vivere in uno stato laico e ospitale: il sionismo è un’ideologia neocoloniale che mira alla supremazia del popolo ebraico e alla sopraffazione del popolo palestinese, negandogli il diritto alla vita, alla terra e alla libertà; “il problema è la natura etnica del sionismo: il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi. Essi non potranno essere mai parte dello stato e dello spazio sionista e continueranno a lottare” (da “La pulizia etnica della Palestina” di Ilan Pappè, docente israeliano rifugiatosi in Inghilterra, all’università di Exeter).

Contro la politica di apartheid dello stato israeliano in tutto il mondo sta crescendo una campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni: “La stessa questione della uguaglianza è ciò che motiva il movimento per il disinvestimento di oggi, che ha come obiettivo la fine dell'occupazione israeliana da 43 anni e l'iniquo trattamento del popolo palestinese dal governo israeliano. Gli abusi che i palestinesi si trovano ad affrontare sono reali, e nessuna persona dovrebbe essere offesa da atti di principio, moralmente coerente e nonviolenta per opporvisi. Non è affatto sbagliato accusare Israele in particolare per i suoi abusi come non lo era accusare il regime dell'Apartheid in particolare per i suoi abusi”. (Desmond Tutu, arcivescovo emerito di Città del Capo).

L’ANPI ospita invece i sostenitori di Israele!

In mezzo a loro c’era non solo il neofascista Riccardo Pacifici ma anche la deputata del PDL nonché colona sionista israeliana Fiamma Nirenstein che si è dichiarata sorpresa dalla contestazione e così farnetica nel suo blog: “E' del tutto sconcertante assistere ad atteggiamenti di tale aggressività da parte di gente che ancora osa sventolare bandiere con falce e martello e soprattutto bandiere palestinesi nel giorno della Liberazione”.

Sono le nostre bandiere: non tollereremo mai più simili offese nè che una simile razzista abbia agibilità nei nostri cortei.


Chiediamo conto ai dirigenti dell’ANPI di queste scelte: è chiaro il vostro tentativo di voler riscrivere la storia e i valori dell’antifascismo, invitando personaggi come Renata Polverini, Fiamma Nirenstein e associazioni che sostengono uno stato guerrafondaio e razzista come lo stato di Israele. L’apologia di Israele non ha niente a che vedere con la lotta di liberazione, la politica di Israele contraddice apertamente l’articolo 11 della costituzione italiana (così spesso citato dall’ANPI): Israele ha sempre utilizzato la guerra e il terrore come strumento politico principale. E’ di questi giorni il decreto militare di espulsione emesso da Israele, che colpirà decine di migliaia di palestinesi residenti in Cisgiordania perché privi di documenti che Israele stessa si rifiuta di dargli.

Ci rivolgiamo ai giovani iscritti all’ANPI e a tutti gli iscritti all’ANPI perché si facciano promotori di una protesta presso i loro dirigenti, colpevoli di scelte che snaturano i valori di questa associazione!

Agli antifascisti: difendiamo i valori dell’antifascismo! Nessuno spazio per i sionisti e per i revisionisti! Ora e sempre resistenza a fianco dei popoli oppressi.

Comitato “Palestina nel cuore” – Roma, 25 aprile 2010

mercoledì 21 aprile 2010

IL CORPO DEL REATO


Cari amici, continuando a impestarvi con l'ignobile storia di cui nei post precedenti, vi riproduco finalmente l'oggetto del contendere, ossia il corpo del reato: il mio famigerato articolo su Cuba del 2 maggio 2003, poi riprodotto nel libro "Mondocane: serbi, bassotti, Saddam e Bertinotti", edizioni Kaos. Penso sia leggibile la chiave satirica del pezzo, chiave che era la cifra di tutti i miei articoli nella rubrica "Mondocane" di Liberazione. Evidentemente la satira meritava editti bulgari non solo da Berlusconi.

Aggiungo poi qualche reazione di iscritti al PRC alla mia successiva cacciata, reazione che superò le 2000 firme. Inutilmente.


CUBA

L0 fan tutti e stavo per pronunciarmi anch’io su Cuba. Riflettevo che la pena di morte non mi pare per niente buona, tanto meno se inflitta a democratici in fuga (qualcuno vorrebbe farli passare per dirottatori a mano armata incaricati di promuovere iscrizioni agli uffici di reclutamento della centrale mafioterroristica di Miami). Non godo delle prigioni (neanche quando inflitte a Adriano Sofri che scambia Trotzky per Bush e bagni di sangue per semina di democrazia), specie se toccano a oppositori (gli integralisti rossi li definiscono mercenari di Mr. Carson, incaricato Usa della liberazione del popolo, reclutati per l’ennesima campagna democratica: 70 miliardi di dollari rubati dall’embargo, 3.478 cubani giustiziati con omicidi, invasioni, bombe, guerre biologiche). Oppositori che vorrebbero per l’isola gli stessi benefici goduti in passato da Paesi come Cile, Guatemala, Argentina e, ultimamente, Iraq.


Stavo per esprimere tutta la mia fregola per i diritti umani disattesi, quando, svaporata un po’ di lucidità grazie a un goccetto di Havana Club, mi sono ritrovato su alcuni, obliati sentieri. Dalle parti di Guantanamo, superate dieci gabbie per polli dove pastori e bambini afgani, incappucciati e incatenati in ginocchio, venivano allevati a diritti umani, gironzolavo in una landa resa verdissima e fronzuta, zeppa di bovini al libero pascolo, ruscelli scalpitanti, uccelletti cinguettanti, pesticidi biologici rampanti, grazie a un ciclopico lavoro di trasferimento d’acqua là dove prima c’era un Sahara. Più in là, in quel di Bayamo, abitavo aule, dormitori, basketdromi, mense e campi biologici, al seguito dialettico di minigonnellate fanciulle che acquistavano gratis conoscenza e coscienza. Mentre, allungato lo sguardo oltremare, scorgevo donne ravanare nell’analfabetismo per il 78 per cento della popolazione centroamericana e caraibica. Impegnato nello scatarrare i residui delle patrie emissioni di diritti umani via marmitte e ciminiere e ancora fosforescente per piogge di casalingo elettrosmog, in cima alla sierra risanavo a forza di medicina naturale, in uno dei mille ambulatori alimentati da pannelli solari con i quali questi avanzi del realsocialismo arrivano al 35 per cento di energia pulita.

E allora, dilemma: come la mettiamo con quest’isola? Mi soccorre il Tg: «In Israele roadmap di pace e governo anti-Intifada di Abu Mazen inaugurati con strage di palestinesi a Gaza. I marines sparano sulla folla a Falluja, Bassora, Mosul, Baghdad» e superano i 30 milioni di esecuzioni extragiudiziarie di dissidenti dal 1945 a oggi. Questa è serietà professionale in democrazia.
Fulvio Grimaldi

(2 maggio 2003]


Alla Direzione/redazione di Liberazione
Alla Segreteria nazionale del Prc.

Cari compagni, riteniamo estremamente grave la decisione di sopprimere il rapporto di collaborazione del giornalista Fulvio Grimaldi con il quotidiano del nostro partito, assunta per la sola ragione che le sue parole di amicizia e solidarietà con Cuba, espresse in poche righe nel suo ultimo corsivo della rubrica "Mondocane", non sono state ritenute "tollerabili". E' grave che in un momento come quello attuale, nel quale la libertà d'informazione e di espressione subisce un attacco senza precedenti nel nostro paese, pure sul nostro quotidiano venga applicata la censura nei confronti di un giornalista di riconosciuta professionalità , tanto che si decida, di punto in bianco e senza alcuna "giusta causa", di impedirgli di scrivere.
E' sconcertante e privo di coerenza che, mentre da un lato si afferma solennemente e con grande enfasi che il pluralismo costituisce l'unico quadro entro cui si possono inscrivere la parola comunismo e la vita stessa del partito (e in ragione di ciò si aprono le pagine del giornale alle posizioni più diverse provenienti dall'esterno), contemporaneamente si reagisce con assoluta intolleranza nei confronti delle opinioni di un giornalista iscritto al partito, espresse in una breve rubrica settimanale. Liberazione è il quotidiano di tutto il partito, tutto il partito contribuisce alla sua esistenza e tutte le posizioni del partito hanno piena dignità, legittimità e diritto di esservi espresse. Se la chiusura delle trasmissioni di Biagi e Santoro apre un contenzioso democratico nel nostro paese, che deve concludersi necessariamente con l'immediata ripresa del loro lavoro, noi riteniamo che lo stesso debba riguardare a questo punto il caso del compagno Grimaldi, a cui vanno tutta la nostra stima e la nostra solidarietà e del quale chiediamo l'immediata reintegrazione nel le funzioni giornalistiche. E' in gioco una questione di democrazia che va al di là della maggiore o minore condivisione delle idee del compagno Grimaldi e che ci chiama in causa tutti: iscritti, simpatizzanti, elettori di Rifondazione comunista, semplici lettori di Liberazione.
Nella celebre lettera del 1926 al Comitato centrale bolscevico, Antonio Gramsci ammoniva che per i comunisti le diversità di posizione si affrontano dialetticamente con il confronto, non con metodi autoritari e burocratici, e osservava che l'unità e la disciplina all'interno di un partito non possono essere meccaniche e coatte, ma leali e di convinzione. A questi principi ci richiamiamo, certi che solo attraverso il confronto si possa costruire, prima di tutto al nostro interno, quell'"altro mondo possibile" di cui tanto parliamo.



Il sito del Circolo "Nanni Rebagliati" del PRC di Savona centro è prontissimo a pubblicare MONDOCANE.
Ho letto "Cuba", l'ultimo editoriale di Fulvio Grimaldi nella sua rubrica "Mondocane". E' vero: si discostava dal discostamento che la maggioranza del partito ha attuato nei confronti di Cuba. Ma non mi sembra tacciasse il partito o chichessia di essere dei traditori dell'amicizia del PRC con Cuba.
Se non si può neppure più esprimere un accento critico sulle parole che vengono scritte sul nostro giornale, ebbene allora tanto vale non inviare neanche più lettere alla rubrica che le ospita.
Sinceramente mi importa poco della nuova veste grafica di "Liberazione": mi importerebbe di più che veri giornalisti come Fulvio Grimaldi non fossero oggetto di ostracismo (e forse non è neppure il primo che Fulvio subisce...) per di più dal proprio partito.
L'atteggiamento di "Liberazione" è eccessivo, indegno di quella pluralità di posizioni che emana dallo Statuto del partito e che, comunque, dovrebbe ispirare l'azione prima del nostro soggetto politico.
Se esprimere poche parole in difesa di Cuba è diventato comportamento oggetto di censura da parte del partito stesso, allora quale critica verrà accettata in futuro? Chi potrà dissentire ed avere voce e chi invece no?
Tutto questo è deprecabile e mi auguro che "Mondocane" torni presto ad essere la rubrica del venerdì sul nostro quotidiano. Altrimenti mi toccherà attuare una forma di "disobbedienza" nei miei stessi confronti (forma di lotta che io non amo particolarmente) e comperare "Liberazione" solo nel momento di pubblicazione degli atti del CPN o della Direzione.
La ricchezza di un quotidiano comunista è il confronto di opinioni: se non stanno su un giornale di sinistra, dove le dobbiamo andare a cercare su "Libero"?
Solidarietà massima a Fulvio che saluto come sempre con grande fraternità comunista.

MARCO SFERINI
Segretario Circolo PRC "Nanni Rebagliati" - Savona centro

www.geocities.com/prcsvcentro

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FULVIO GRIMALDI ALLONTANATO DA LIBERAZIONE
I fatti: dopo la pubblicazione su Liberazione del 9 maggio del suo ultimo "Mondocane" su Cuba, Fulvio Grimaldi viene informato da Mauro Belisario, amministratore unico del giornale, che la sua rubrica è stata sospesa. In altre parole, le pagine di Liberazione per Fulvio Grimaldi si sono chiuse. Se preferite, Liberazione ha licenziato Fulvio Grimaldi. La sua rubrica è già stata prontamente sostituita da un'altra, "Rossoverde" di Fabrizio Giovenale.
La "giusta causa" del licenziamento di Grimaldi è costituita sostanzialmente dalle sue idee e dal pessimo vizio di esprimerle, anche quando non coincidono del tutto con quelle del Segretario o della maggioranza che gestisce partito e giornale; a questo proposito, è interessante rileggere il messaggio di solidarietà inviato dallo stesso Grimaldi alle compagne e ai compagni del circolo "Guido D'Angelo" di Roma sospesi dal partito.
Alla luce di questa vicenda, le varie "Sciuscià in piazza" organizzate da Rifondazione Comunista appaiono piuttosto grottesche, dato che troviamo un po' surreale indignarsi perché Berlusconi caccia Santoro e poi comportarsi nello stesso modo con un altro giornalista.
Naturalmente, a Fulvio Grimaldi va tutta la nostra solidarietà. Però, solidarizzare a parole su una piccola rivista come ARCIPELAGO non basta: troppo comodo incazzarsi quando le porcherie le fa Berlusconi e limitarsi a mugugnare quando le fanno i "nostri". La censura è sempre censura e un licenziamento è sempre un licenziamento, specialmente quando si chiede alla gente di mobilitarsi per estendere l'articolo 18 a tutte e tutti.
Proponiamo due iniziative: la prima è quella di protestare con Sandro Curzi, Direttore di Liberazione, via fax (0644183254) o via mail (alessandro.curzi@liberazione.it); la seconda - rivolta a tutte le testate telematiche di sinistra - è quella di pubblicare sui nostri siti la rubrica "Mondocane" di Fulvio Grimaldi soppressa da Liberazione, perché vogliamo che Grimaldi continui a scrivere le cose su cui siamo d'accordo e quelle su cui non siamo d'accordo. Questa cosa si chiama democrazia e non si può pretendere che la rispettino solo "gli altri".
Chiunque voglia assumere l'impegno di pubblicare i prossimi "Mondocane" che Fulvio scriverà può comunicarlo a info@arcipelago.org. ( dal sito www.arcipelago.org )

LIBERTA' D'ESPRESSIONE E CONTROINFORMAZIONE








L'ambizione ha portato molte persone a diventare false; di avere un pensiero chiuso nel petto, un altro pronto sulla lingua.
(Sallustio: La guerra contro Catilina)
La storia della nostra specie e l'esperienza personale di ognuno sono intessure della prova che non è difficile uccidere una verità e che una bugia ben raccontata è immortale.
(Mark Twain)
Parole false non sono soltanto malvage di per sé, infettano di malvagità l'anima.
(Platone, Dialoghi)
Uso questo spazio per ringraziare davvero di cuore i tanti che si sono precipitati sia sul
famigerato facebook, sia direttamente al mio indirizzo email, sia qui. Vorrei rispondere singolarmente, anche perchè molte argomentazioni ne valgono la pena, ma non troverei proprio il tempo, se voglio continuare a occuparmi non solo delle mie traversie, ma anche delle infamie e bellezze del mondo.
Sto preparando un appello con richiesta di firme, come mi è stato suggerito da molti di voi, da tenere fisso sul blog.

Alcuni hanno percepito il pericolo che un esito negativo di questa vicenda con Liberazione (vedi post precedente) potrebbe porre fine al mio lavoro di inviato e di documentarista. Allora preciso che tutti i miei documentari (vedi elenco nel blog) li ho potuto realizzare perchè ho assunto il costo intero dei relativi viaggi transcontinentali. L'unico docuementario il cui viaggio è stato finanziato dalla Rai è quello sul Vietnam.


Molti di voi sanno che nelle presentazioni dei docufilm che vado facendo da anni in giro per l'Italia e fuori cerco di vendere copie dei relativi dvd. Questo mi ha consentito finora di rientrare al circa 80% nelle spese esclusivamente della produzione, cioè di montaggio, copertina, riproduzione dvd, grafica, spese Siae, pubblicità sul "manifesto". I viaggi, vitto e alloggio, trasporti locali e tutto il resto hanno potuto essere coperti in parte, a partire dal 2004, da quei 100mila euro che il giudice di primo grado mi ha riconosciuto a risarcimento del danno subito con la cacciata in quel modo da Liberazione, danno morale, danno professionale, danno economico. Non ce l'avrei mai fatta con la mia pensione di giornalista che, data la scarsezza di contributi, è al minimo.

Un grazie particolare a quelle persone che si sono offerte a condividere un eventuale sciopero della fame con me, davanti alla sede di Liberazione e del PRC, in Viale del Policlinico. E anche a quei generosi e grandi amici che mi hanno proposto un contributo a una colletta per affrontare la mazzata. Comunque questa ipotesi non esiste.


In chiusura riporto la risposta, impareggiabile per continuità di cinismo, protervia e ipocrisia con coloro che mi cacciarono da Liberazione, data da un membro del Collegio Nazionale di Garanzia al compagno Ivano del Lussemburgo. Ci vuole altro per confermare la giustezza della nostra battaglia? Chissà cosa dice questo personaggio delle migliaia di operai, lavoratori, immigrati, donne abusate, che si sono rivolte alla giustizia “borghese” per avere riconosciuto e raddrizzato il torto subito. Tutti “postisi fuori irreverisibilmente dalla comunità politica di Rifondazione Comunista. C’è da precisare in proposito solo che, da giornalista sotto contratto con Liberazione, i miei referenti erano la direzione del giornale, che non mi ha mai dato una spiegazione, né ha permesso che rispondessi sul giornale alle sue falsità, il Comitato di Redazione, da me sollecitato è rimasto assolutamente silente e dunque complice, e il sindacato nazionale della categoria, FNSI, che mi ha indirizzato alla magistratura. La magistratura del lavoro che difende i diritti violati dei lavoratori è “borghese” e “fuori dalla comunità politica di RC”? Troppo comodo.

Rispondo a titolo del tutto personale. Nel Partito della Rifondazione Comunista sono stato ieri, lo sono oggi e mi auspico anche domani. Ritengo che sia stato sbagliato (in quanto eccessivo) allora privare Liberazione della collaborazione di Fulvio Grimaldi per dissenso politico, ritengo che ancora più grave sia stato il fatto che Fulvio Grimaldi abbia adito la giustizia borghese per tutelare i propri pretesi diritti economici, così facendo ponendosi fuori irreversibilmente dalla comunità politica di Rifondazione Comunista. Il seguito ne è la mera conseguenza: chi di giustizia borghese ferisce, di giustizia borghese mette in conto di perire.

Stefano Alberione (Vice Presidente del Collegio Nazionale di Garanzia)






martedì 20 aprile 2010

FARLA FINITA CON FULVIO GRIMALDI




Questa è davvero personale, però con implicazioni che non faticherete a vedere
quanto siano generali. Qui sotto riproduco un appello a formare un gruppo di sostegno che ho inserito in facebook. E' in gioco qualcosa di più vasto e importante della salvaguardia di questa voce. Voce che molti di voi troveranno discutibile e anche insopportabile, che altri condividono e credono che debba sopravvivere. Se siete tra costoro, vi chiedo di aggiungervi alla lista che a oggi, in meno di cinque giorni, ha raggiunto i mille firmatari. E se poi ci credete e volete fare un ulteriore sforzo, potete anche indirizzare una lettera al quotidiano Liberazione. Forse tutto questo non servirà a impedire che i compagni del PRC mi inceneriscano, ma sarà quantomeno una prova che l'abuso, la censura, la tracotanza di qualsiasi potere, la soppressione di chi, nel nome della verità, osa dissentire da un qualsiasi vertice, non passano lisci.


Vi ringrazio.

Testo su facebook


Cari amici che avete la generosità di aver seguito e di seguire il mio lavoro a suo tempo sui giornali e in tv (Tg3), ora in rete (www.fulviogrimaldicontroblog.info) e con i video (documentari sulle situazioni di conflitto), vi racconto una vicenda del tutto esemplare per il quadro in cui ci muoviamo. E vi chiedo adesioni e supporto. Potrebbero essere importanti per l’esito finale.

Il 9 maggio del 2003, collaboratore a contratto del quotidiano del PRC Liberazione, scrivevo nella mia rubrica un articolo su recenti accadimenti a Cuba che avevano visto la condanna a morte di tre terroristi, dirottatori a mano armata di un’imbarcazione cubana, e a pene detentive di altri 75. La valutazione di quei fatti non corrispondeva a quella data dall’allora segretario nazionale Fausto Bertinotti, né tantomeno allo tsunami di attacchi a Cuba da parte della destra mondiale, unanimi tutti nel deplorare il trattamento riservato a “intellettuali e giornalisti dissidenti”. Le mie informazioni, poi nel tempo confermate da documenti incontrovertibili, mi avevano fatto invece rivelare nell’articolo come quei “democratici dissidenti” fossero al soldo degli Stati Uniti e stessero preparando una campagna di azioni terroristiche, di cui il dirottamento sarebbe stato solo il primo. Erano cioè mercenari al soldo di uno Stato che lavorava per la distruzione della rivoluzione cubana. Il giorno successivo alla pubblicazione del pezzo, in cui peraltro deploravo quella come tutte le condanne a morte, fui licenziato su due piedi, pur nel pieno di una campagna del PRC in difesa dell’articolo 18 aggredito. Non ricevetti la lettera di prammatica del direttore, Curzi, ma solo una telefonata dell’amministratore. Chiesi di ricevere una comunicazione ufficiale. Non la ricevetti. Ma alla rabbia di numerosi lettori e compagni del PCR, che si espressero contro il brutale provvedimento con oltre 2000 firme, Bertinotti, Curzi e la vice-direttrice Gagliardi risposero sul giornale e su altri mezzi d’informazione (Il Foglio, Radio Anch’io), affermando cose false: che avrei deviato dal tema assegnatomi, l’ambiente, o che avrei deviato dalla linea politica del partito.

La prima giustificazione era falsa, perché fin dal primo giorno della mia collaborazione, 1999, avevo potuto occuparmi in articoli e rubriche di ogni tema che volessi scegliere. Una smentita radicale veniva poi dalle mie corrispondenze di guerra dai conflitti nei Balcani, in Palestina e in Iraq, tutti viaggi effettuati a spese mie. Anche la seconda spiegazione era indebita, giacchè della linea politica della maggioranza si trattava semmai, non di quella di tutto il partito, in quanto una forte minoranza appoggiava le mie valutazioni. Inoltre era sempre stato affermato dai vertici del partito che nel partito stesso, come nel giornale, doveva essere rispettato il massimo della dialettica e del pluralismo. Un articolo dello Statuto del PRC garantiva addirittura il diritto degli iscritti di manifestare le proprie critiche alla linea del partito, perfino all’esterno del partito stesso. Il diritto di replica alla false affermazioni dei vertici, assicurato dalla legge sulla stampa, mi venne sistematicamente negato.

Da questa vicenda ricavai un forte danno, oltreché morale, professionale, di perdita di credibilità e di prestigio tra compagni e lettori, anche di riduzione del bacino di coloro che erano interessati ai miei documentari e libri. Feci causa e la vinsi. Il risarcimento del danno fu calcolato dal giudice in 100mila euro. Ora, sette anni dopo, il giudice d’appello, contravvenendo a una consolidata giurisprudenza in materia di cause di lavoro, ha rovesciato tale sentenza e mi ha imposto di restituire quella somma. Somma, che forte appunto di quella giurisprudenza, ho impegnato in gran parte nei viaggi che mi hanno permesso di realizzare i miei documentari da Iraq, Palestina, America Latina, Balcani. Si ricordi che quando vinsi la causa, Bertinotti era il segretario di un piccolo partito di opposizione, quando si avviò l’appello, però, l’uomo aveva assunto la terza carica dello Stato.
A dispetto della sostanziale ingiustizia del provvedimento, ho offerto alla controparte una transazione per metà della somma. E’ stata respinta e mi si è manifestata l’intenzione di arrivare all’esecuzione, cioè al pignoramento di quanto possiedo. Sarebbe la fine della mia attività di militanza giornalistica, con ovvia soddisfazione di non pochi. Ho scritto a Paolo Ferrero, segretario del PRC, a Dino Greco, direttore di Liberazione, e a Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Ad oggi, nessuna risposta.

Credo che a questo punto solo una forte pressione di quel pezzo di società che crede nell’informazione libera e nella libera espressione del pensiero, specie in un giornale e in un partito che si dicono comunisti, possa convincere i responsabili dal recedere da un comportamento che viola ogni principio normativo, etico e deontologico della mia professione. In attesa di altre iniziative cui sto pensando, come una conferenza stampa e uno sciopero della fame davanti alla sede di Liberazione e del PRC, chiedo alle persone di buona volontà di esprimere qui e in tutti i modi la solidarietà a questa causa di democrazia, giustizia e libertà. A una voce che rischia di essere soppressa. Grazie a tutti.

lunedì 19 aprile 2010

CHI HA COMMESSO IL MASSACRO DI KATYN



La misura della menzogna è il fattore decisivo per farla credere, poichè le grandi masse di una nazione sono, nel profondo del cuore, più facilmente ingannate, piuttosto che consapevolmente e intenzionalmente cattive. La primitiva semplicità delle loro menti le rende facile preda di una bugia grande, anzichè di una piccola, anche perchè esse stesse spesso raccontano piccole bugie, ma si vergognerebbero di raccontare grandi bugie.
(Adolf Hitler, Mein Kampf)

Basta ripetere molte volte una menzogna per farla diventare una verità.
(Joseph Goebbels, ministro del Reich)

Cari amici, alle tante obiezioni, dubbi, contestazioni anche feroci, e alle richieste di ulteriori chiarimenti nei commenti al mio post in cui si negava la versione ufficiale del massacro di Katyn, attribuito ai russi (con l'avallo del pizzaiolo Gorbaciov, nientemeno, distruttore e venditore del popolo russo, più che del socialismo detto reale, quindi assai credibile!), anzichè ai tedeschi, rispondo con questo documento.
Si pensi anche a tutti quelli che sono caduti nella trappola foibe e ci si ricordi delle abitudini dei nazisti come esplicitate, per esempio, alle Fosse Ardeatine.
Aggiungo che qualcuno si è lamentato di una mia censura del suo commento. Ripeto che nei commenti va di tutto, salvo ingiurie, provocazioni e infiltrati.

IL MASSACRO DI KATYN
di Ella Rule, Londra
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, il
confine tra Russia e Polonia fu stabilito
lungo una linea che diventò nota come linea Curzon,
dal nome di Lord Curzon, lo statista britannico che
l’aveva proposta.
Questa linea di demarcazione non fu gradita ai
polacchi che subito entrarono in guerra con l’Unione
Sovietica al fine di spingere i confini più ad est.
L’Unione Sovietica contrattaccò e fu pronta non solo
a difendersi ma, contro il parere di Stalin, a liberare
l’intera Polonia. Stalin riteneva che un tale obiettivo
fosse destinato al fallimento perché, disse, il
nazionalismo polacco non aveva ancora compiuto il
suo corso: i polacchi erano decisi a NON farsi
liberare, e quindi non era il caso di tentare. I polacchi
opposero una feroce resistenza all’avanzata sovietica.
Alla fine l’Unione Sovietica fu costretta a ritirarsi e
perfino a cedere alla Polonia alcuni territori ad est
della linea Curzon: le aree in questione erano la
Bielorussia occidentale e l’Ucraina occidentale – aree
popolate in prevalenza rispettivamente da bielorussi e
da ucraini più che da polacchi. L’intera vicenda non
poté non esacerbare la reciproca avversione dei
polacchi e dei russi.

Il 1° settembre 1939 la Germania nazista invase
la Polonia. Il 17 settembre l’Unione Sovietica si
mosse per rioccupare quelle parti della Polonia che
erano situate a est della linea Curzon. Preso il
controllo di quelle aree, l’Unione Sovietica si accinse
a distribuire la terra ai contadini e ad attuare quelle
riforme democratiche che erano così popolari tra la
popolazione e così impopolari tra gli sfruttatori.
Durante la battaglia per riprendere le aree ad est della
linea Curzon, l’Unione sovietica catturò circa 10.000
ufficiali polacchi, che divennero prigionieri di guerra.
Questi prigionieri furono allora tenuti in alcuni campi
situati nelle aree contestate, e messi al lavoro nella
costruzione di strade e attività simili.
Due anni dopo, il 22 giugno del 1941, la Germania
nazista attaccò di sorpresa l’Unione Sovietica.
L’Armata Rossa fu costretta a ritirarsi in fretta e
l’Ucraina fu occupata dai tedeschi. Durante questa
frettolosa ritirata non fu possibile evacuare
nell’interno dell’Unione Sovietica i prigionieri di
guerra polacchi. Il comandante del campo n°1,
maggiore Vetoshnikov, fornì le prove che si era rivolto
al capo del traffico della sezione di Smolensk delle
Ferrovie Occidentali affinché gli fossero fornite delle
vetture ferroviarie per l’evacuazione dei prigionieri
polacchi, ma gli fu detto che questa possibilità era
molto improbabile. L’ ingegnere Ivanov, che all’epoca
era stato a capo del traffico nella regione, confermò
che non c’erano state vetture ferroviarie disponibili.
“Inoltre”, disse, “non potevamo mandare delle vetture
alla linea Gussino, dove si trovava la maggioranza
dei prigionieri polacchi, perché quella linea era già
sotto il fuoco”. Il risultato fu che, in conseguenza del
ritiro sovietico dalla zona, i prigionieri polacchi
divennero prigionieri dei tedeschi.
Nell’aprile del 1943 gli hitleriani annunciarono
che i tedeschi avevano trovato diverse fosse comuni
nella foresta di Katin vicino a Smolensk, contenenti i
corpi di migliaia di ufficiali polacchi uccisi, al dire dei
tedeschi, dai russi.
Questo annuncio mirava a indebolire ancor più
gli sforzi di collaborazione dei polacchi e dei sovietici
per sconfiggere i tedeschi. L’alleanza russo-polacca fu
sempre difficile, perché il governo polacco in esilio,
stabilitosi a Londra, era ovviamente un governo delle
classi sfruttatrici, che doveva opporsi ai tedeschi
perché questi - nella ricerca di quel che chiamavano il
lebensraum (lo «spazio vitale») - si erano impadroniti
cinicamente della Polonia. L’Unione Sovietica
sosteneva che, fin quando essa poteva mantenere il
territorio a est della linea Curzon, non aveva alcun
problema per la ricostituzione di un governo borghese
in Polonia. Ma l’alleanza era già in difficoltà perché il
governo polacco in esilio, guidato dal generale
Sikorski, con sede a Londra, non acconsentiva alla
restituzione di quel territorio, nonostante il fatto che
nel 1941, dopo che Hitler aveva invaso la Polonia,
l’Unione Sovietica e il governo polacco in esilio
avessero non solo stabilito relazioni diplomatiche, ma
avessero anche stabilito di comune accordo che
l’Unione Sovietica avrebbe finanziato la formazione
di un esercito polacco “sotto gli ordini di un
comandante nominato dal governo polacco in esilio,
ma approvato dal governo sovietico: questo
comandante fu, per l’occasione, un generale
nettamente antisovietico, il generale Anders
(prigioniero dei sovietici dal 1939). Alla data del 25
ottobre 1941 questo esercito aveva 41.000 uomini,
IL MASSACRO DI KATIN
di Ella Rule
Questa circostanziata ricostruzione dei tragici eccidi della foresta di Katyn è stata pubblicata a Londra
nel 2002 dalla «Stalin Society», associazione nata nel 1991 per difendere Stalin e la sua opera e respingere
la propaganda anticomunista di borghesi, revisionisti, opportunisti e trotzkisti. La traduzione dall’inglese
è della nostra redazione.
compresi 2630 ufficiali. Ma, alla fine, il generale
Anders rifiutò di combattere sul fronte sovieticotedesco
a causa della disputa di confine tra l’Unione
Sovietica e la Polonia, e l’esercito polacco dovette
essere inviato a combattere altrove - cioè in Iran.
Tuttavia, nonostante l’ostilità del governo
polacco in esilio, c’era una parte significativa settore
di polacchi residenti nell’Unione Sovietica che non
erano antisovietici e accettavano la rivendicazione dei
territori a est della linea Curzon da parte dell’Unione
Sovietica. Molti di loro erano ebrei e fondarono
l’Unione dei Patrioti Polacchi che costituì la spina
dorsale di un governo polacco alternativo in esilio.
La propaganda nazista a proposito dei massacri
di Katyn tendeva a rendere del tutto impossibili i
rapporti fra i sovietici e i polacchi. Il generale Sikorski
fece propria e spinse all’estremo la propaganda
nazista, dichiarando a Churchill di avere in mano
un’“abbondanza di prove”. Non è chiaro come avesse
ottenuto queste “prove” contemporaneamente
all’annuncio tedesco di quelle presunte atrocità
sovietiche, anche se si parla chiaramente di una
collaborazione segreta fra Sikorski e i nazisti. I
tedeschi avevano reso pubblica la loro accusa senza
prove il 13 aprile. Il 16 aprile il governo sovietico
emise un comunicato ufficiale che negava
“l’ingiuriosa falsificazione sulle presunte fucilazioni
di massa da parte di organismi sovietici nell’area di
Smolensk nella primavera del 1940”. E aggiunse:
“La dichiarazione tedesca non lascia alcun
dubbio sul tragico destino degli ex prigionieri di
guerra polacchi che, nel 1941, erano impegnati in
attività lavorative nelle aree ad ovest di Smolensk e
che, insieme a molti sovietici, caddero nelle mani dei
carnefici tedeschi dopo il ritiro delle truppe
sovietiche”.
Nell’architettare questa storia, i tedeschi
avevano deciso di abbellirla con un tocco di
antisemitismo asserendo di essere in grado di indicare
i nomi degli ufficiali sovietici responsabili del
massacro, i quali avevano tutti nomi ebraici. Il 19
aprile la Pravda replicò:
“Sentendo l’indignazione di tutta l’umanità
progressista sui loro massacri di cittadini pacifici e
particolarmente di ebrei, i tedeschi stanno ora
cercando di istigare l’ira dei creduloni contro gli
ebrei. Per questo motivo hanno inventato un’intera
collezione di ‘commissari ebrei’ che, dicono, hanno
preso parte all’assassinio dei 10.000 ufficiali
polacchi. Per questi patentati falsificatori non è stato
difficile inventarsi alcuni nomi di persone che non
sono mai esistite – Lev Rybak, Avraam Brodninsky,
Chaim Fineberg. Nessuna di queste persone è mai
esistita nella ‘Sezione Smolensk dell’OGPU’ o in
qualsiasi altro reparto del NLVD…”
L’insistenza di Sikorski nell’avallare la
propaganda tedesca portò alla completa rottura delle
relazioni tra il governo polacco in esilio a Londra e il
governo sovietico – che Goebbels così commentò nel
suo diario:
“Questa rottura rappresenta una vittoria al
cento per cento per la propaganda tedesca, e in
particolare per me personalmente …. Siamo riusciti a
trasformare i fatti di Katyn in un problema altamente
politico.”
All’epoca la stampa britannica condannò
Sikorski per la sua intransigenza. Il «Times» del 28
aprile 1943 scrisse: “Sorpresa e rincrescimento
proveranno tutti coloro che hanno avuto sufficienti
motivi per comprendere la perfidia e l’abilità
inventiva della macchina propagandistica di
Goebbels e sono caduti essi stessi nella trappola che
è stata loro tesa. I polacchi difficilmente avranno
dimenticato un libro ampiamente diffuso nel primo
inverno di guerra, che descriveva con ogni dettaglio
di prove circostanziate, inclusa quella fotografica, le
presunte atrocità dei polacchi contro i pacifici
abitanti tedeschi della Polonia”.
Alla base dell’insistente affermazione di
Sikorski che il massacro era stato effettuato dai
sovietici anziché dai tedeschi c’era la disputa sul
territorio a est della linea Curzon. Sikorski cercava di
utilizzare la propaganda tedesca per mobilitare
l’imperialismo occidentale in appoggio alla
rivendicazione di quel territorio da parte della
Polonia, e costringere gli occidentali ad abbandonare
quella che lui riteneva fosse una posizione di sostegno
all’Unione Sovietica sulla disputa di confine.
Se si leggono le odierne fonti borghesi, si
constata che tutte asseriscono che l’Unione Sovietica
fu responsabile del massacro di Katyn, e lo fanno con
tale certezza e coerenza che chi cerca di sostenere il
contrario ha l’impressione di essere un revisionista
storico nazista che cerca di negare il massacro degli
ebrei da parte di Hitler. Dopo il collasso dell’Unione
Sovietica, perfino Gorbaciov fu arruolato in questa
campagna di disinformazione e fornì materiale, tratto
presumibilmente dagli archivi sovietici, che
“dimostrava” che i sovietici perpetrarono le atrocità e
lo fecero, naturalmente, su ordine di Stalin. Ora,
sappiamo l’interesse che i vari Gorbaciov del mondo
hanno nel demonizzare Stalin. Il loro obiettivo non è
tanto Stalin, quanto il socialismo. Il loro scopo, nel
denigrare il socialismo, è di restaurare il capitalismo e
di condurre, con i loro seguaci, una vita da parassiti a
spese di grandi sofferenze dei popoli sovietici. Il loro
cinismo eguaglia quello dei nazisti tedeschi, e non
sorprende affatto trovarli a cantare gli stessi inni.
Le fonti borghesi asseriscono avventatamente
che le prove sovietiche a sostegno della responsabilità
dei tedeschi per le atrocità erano o del tutto assenti o
basate semplicemente su dicerie di abitanti della
regione terrorizzati. Non fanno menzione di una prova
che lo stesso Goebbels dovette ammettere essere
disastrosa dal suo punto di vista. Egli scrisse nel suo
diario l’8 maggio 1943: “Sfortunatamente, munizioni
tedesche sono state trovate nelle fosse di Katyn … E’
essenziale che questa circostanza rimanga
segretissima. Se dovesse venire a conoscenza del
nemico, l’intero affare di Katyn dovrebbe essere
lasciato cadere.”
Nel 1971 il «Times» pubblicò delle lettere le
quali sostenevano che i massacri di Katyn non
potevano essere stati effettuati dai tedeschi, in quanto
essi usavano mitragliatrici e camere a gas anziché
eliminare i prigionieri nel modo in cui le vittime di
Katyn erano state uccise, cioè con un colpo alla nuca.
Un ex soldato tedesco che all’epoca viveva a
Godalming, nel Surrey, intervenne con una sua lettera:
“Come soldato tedesco, all’epoca convinto
della giustezza della nostra causa, ho preso parte a
molte battaglie e azioni durante la campagna di
Russia. Non sono stato a Katyn né nella vicina
foresta. Ma ricordo bene il clamore che sorse quando
nel 1943 fu data notizia della scoperta dell’orrenda
fossa comune vicino a Katyn, la cui area era allora
minacciata dall’Armata Rossa.
“Josef Goebbels, come dimostrano i documenti
storici, ha ingannato molte persone. Dopo tutto,
questo era il suo lavoro e in pochi metterebbero in
dubbio la sua completa padronanza di questa attività.
Ciò che sorprende, tuttavia, è che ne abbiamo la
dimostrazione nelle pagine del «Times» a distanza di
più di trent’anni. Scrivendo per esperienza, io non
credo che - in quel momento avanzato della guerra -
Goebbels sia riuscito a ingannare molti soldati
tedeschi in Russia sulla questione di Katyn … I soldati
tedeschi sapevano benissimo sparare alla nuca …
Noi soldati tedeschi sapevamo che gli ufficiali
polacchi erano stati mandati all’altro mondo da noi
stessi e da nessun altro”.
Inoltre, molti testimoni si fecero avanti per
attestare la presenza di prigionieri polacchi nella
regione dopo che i tedeschi ne avevano preso il
controllo.
Maria Alexandrovna Sashneva, insegnante in
una elementare del posto, rese una testimonianza a
una commissione speciale insediata dall’Unione
Sovietica nel settembre del 1943, subito dopo la
liberazione dell’area dai tedeschi: nell’agosto del
1941, due mesi dopo il ritiro dei sovietici, essa aveva
nascosto un prigioniero di guerra polacco a casa sua.
Il suo nome era Juzeph Lock e le aveva parlato di
maltrattamenti subiti dai prigionieri polacchi da parte
dei tedeschi:
“Quando arrivarono, i tedeschi si impadronirono del
campo polacco e vi instaurarono un regime severo. I
tedeschi non consideravano i polacchi come esseri
umani, li oppressero e li maltrattarono in ogni modo.
In alcuni casi i polacchi furono fucilati senza alcun
motivo. Egli decise di fuggire …”
Molti altri testimoni fornirono prove di aver visto nei
mesi di agosto e settembre 1941 i polacchi che
lavoravano sulle strade.
Inoltre, testimoni parlarono di retate di prigionieri
polacchi fuggiti, compiute dai tedeschi nell’autunno
del 1941. Danilenko, un contadino del luogo, era uno
dei testimoni che lo dichiararono.
“Retate speciali furono fatte nella nostra località per
catturare prigionieri di guerra polacchi che erano
fuggiti. Alcune perquisizioni furono fatte a casa mia
due o tre volte. Dopo una di queste perquisizioni io
chiesi al capo … chi stavano cercando nel nostro
villaggio. Egli disse che era stato impartito un ordine
dal comando tedesco secondo il quale si dovevano
fare perquisizioni in tutte le case senza eccezioni,
perché prigionieri di guerra polacchi fuggiti dal
campo si nascondevano nel nostro villaggio.”
Ovviamente i tedeschi non spararono ai polacchi
sotto gli occhi di testimoni locali, ma esistono tuttavia
testimonianze significative da parte di persone del
luogo su quello che stava succedendo. Una testimone
era Alexeyeva, che era stata incaricata dal capo del
suo villaggio di servire il personale tedesco in una
casa di campagna nel settore della foresta di Katyn
noto come Kozy Gory. Questa casa, che era stata la
casa di riposo dell’amministrazione del
Commissariato del Popolo degli Affari Interni di
Smolensk, era situata a circa 700 metri dal luogo in
cui furono trovate le fosse comuni. Alexeyeva disse:
“Verso la fine di agosto e durante la maggior parte
del mese di settembre del 1941 parecchi autocarri
arrivavano praticamente ogni giorno alla casa di
campagna di Kozy Gory. All’inizio non vi feci
attenzione, ma successivamente notai che ogni volta
che questi autocarri arrivavano sui terreni intorno
alla casa, si fermavano per mezz’ora e a volte per
un’ora intera, da qualche parte sulla strada di
campagna che collegava la casa alla strada maestra.
Trassi questa conclusione perché a volte, e dopo che
questi autocarri erano arrivati nei terreni intorno alla
casa, il rumore che facevano cessava.
“Simultaneamente alla cessazione del rumore si
sentivano singoli colpi di arma da fuoco che si
susseguivano l’uno all’altro a brevi ma
approssimativamente regolari intervalli. Poi gli spari
cessavano e gli autocarri si dirigevano in direzione
della casa. Dagli autocarri uscivano soldati e
sottufficiali tedeschi che parlando ad alta voce
andavano a lavarsi nel bagno, dopo di che si
abbandonavano ad orge di bevute.
“Nei giorni in cui arrivavano gli autocarri
arrivavano alla casa anche altri soldati provenienti
da unità militari tedesche. Per loro venivano
preparati letti speciali. Poco prima che gli autocarri
arrivassero alla casa, dei soldati armati andarono
nella foresta, evidentemente sul luogo dove gli
autocarri si fermavano, perché mezz’ora dopo
ritornarono in quegli autocarri insieme ai soldati che
vivevano in permanenza nella casa.
“ … In varie occasioni notai delle macchie di sangue
fresco sui vestiti di due soldati scelti. Da tutto questo
dedussi che i tedeschi portavano in autocarro delle
persone alla casa e le uccidevano a colpi di arma da
fuoco. ”
Alexeyeva scoprì anche che le persone che venivano
uccise erano prigionieri polacchi.
“Una volta mi sono fermata in quella casa un po’ più
del solito… Prima di aver finito il lavoro che mi
impegnava lì, un soldato entrò improvvisamente e mi
disse che potevo andare. Egli …mi accompagnò fino
alla strada maestra.
Dalla strada maestra, a 150 o 200 metri dal punto in
cui c’è la deviazione verso la casa, vidi un gruppo di
circa 30 prigionieri di guerra polacchi che
marciavano lungo la strada maestra sotto una forte
scorta tedesca … Mi fermai vicino al lato della strada
per vedere dove venivano portati, e vidi che voltavano
vero la nostra casa di Kozy Gory.
“Poiché avevo ormai cominciato ad osservare
attentamente tutto quello che succedeva nella casa, il
mio interesse si acuì. Tornai a una certa distanza
dalla strada maestra, mi nascosi tra i cespugli vicino
al lato della strada e aspettai. Nel giro di 20 o 30
minuti udii quei singoli spari che mi erano familiari”.
Le altre due cameriere che lavoravano nella casa di
campagna, Mikhailova e Konakhovshaya, hanno
fornito altre testimonianze. Altri residenti nella zona
hanno fornito prove analoghe.
Basilevsky, direttore dell’osservatorio di
Smolensk, fu nominato vice borgomastro di
Menshagin, collaborazionista nazista. Basilevsky
stava cercando di far liberare un insegnante,
Zhiglinsky, dalla prigione tedesca, e persuase
Menshagin a parlare della cosa al comandante tedesco
della regione, Von Schwetz. Menshagin lo fece, ma
poi riferì che era impossibile assicurare questa
liberazione perché “erano state ricevute istruzioni da
Berlino che prescrivevano il mantenimento del più
severo regime.”
Basilevsky riferì poi la sua conversazione con
Menshagin:
“Involontariamente replicai ‘Ci può essere qualcosa
di più severo del regime esistente nel campo?’
Menshagin mi guardò in modo strano e,
avvicinandosi al mio orecchio, rispose a bassa voce:
sì, ci può essere! I russi possono essere lasciati
morire, ma, per quanto riguarda i prigionieri di
guerra polacchi, gli ordini dicono che devono essere
semplicemente sterminati.”
Dopo la liberazione fu ritrovato il taccuino di
Menshagin scritto a mano con calligrafia confermata
da esperti grafologi. La pagina 10, datata 15 agosto
1941, contiene questa annotazione:
“Tutti i prigionieri di guerra fuggiaschi devono essere
detenuti e consegnati all’ufficio del comandante.”
Questo di per sé dimostra che i prigionieri polacchi
erano ancora vivi a quell’epoca. A pagina 15, che è
senza data, c’è questa annotazione: “Corrono voci tra
la popolazione sull’uccisione di prigionieri di guerra
polacchi a Kozy Gory (per Umnov)” (Umnov era il
capo della polizia russa).
Molti testimoni fornirono la prova di essere
stati indotti dai tedeschi nel 1942-43 a fornire false
testimonianze sull’uccisione dei polacchi da parte dei
russi. Parferm Gavrilovich Kisselev, residente nel
villaggio più vicino a Kozy Gory, testimoniò di essere
stato convocato dalla Gestapo nell’autunno del 1942 e
interrogato da un ufficiale tedesco:
“L’ufficiale affermò che, secondo informazioni in
possesso della Gestapo, nel 1940, nella zona di Kozy
Gory nella foresta di Katyn, funzionari del
Commissariato del Popolo per gli Affari Interni
avevano ucciso ufficiali polacchi, e mi chiese quale
testimonianza potevo fornire su questo fatto. Risposi
che non avevo mai sentito parlare del Commissariato
del Popolo per gli Affari Interni che uccideva persone
a Kozy Gory, e che comunque la cosa era
impossibile, spiegai all’ufficiale, in quanto Kozy Gory
è un luogo del tutto aperto e molto frequentato, e se ci
fossero stati degli spari l’intera popolazione dei
villaggi vicini lo avrebbe saputo ….
“ … L’interprete tuttavia non mi ascoltava; prese un
documento manoscritto dalla scrivania e me lo lesse.
Diceva che io, Kisselev, residente in un piccolo
villaggio nella zona di Kozy Gory, attestavo
l’uccisione di ufficiali polacchi da parte di funzionari
del Commissariato del Popolo per gli Affari Interni
nel 1940.
“Letto il documento, l’interprete mi disse di firmarlo.
Io rifiutai… Alla fine urlò: ‘O lo firmi subito o ti
distruggeremo. Fai la tua scelta.’
“Spaventato da queste minacce, firmai il documento e
pensai che la cosa sarebbe finita lì.”
Ma la cosa non finì lì perché i tedeschi
pretendevano che Kisselev desse testimonianza
verbale di quello che aveva “visto” a gruppi di
‘delegati’ invitati dai tedeschi a venire nella zona per
verificare la prova delle presunte atrocità sovietiche.
Subito dopo che le autorità tedesche avevano
annunciato al mondo nell’aprile del 1943 l’esistenza
di fosse comuni “l’interprete della Gestapo venne a
casa mia e mi portò nella foresta nella zona di Kozy
Gory.
“Quando eravamo usciti da casa ed eravamo soli
insieme, l’interprete mi avvertì che dovevo dire alla
persone presenti nella foresta esattamente tutto quello
che avevo scritto nel documento che avevo firmato
alla Gestapo.
“Quando arrivai alla foresta vidi le fosse aperte e un
gruppo di sconosciuti. L’interprete mi disse che erano
delegati polacchi arrivati per ispezionare le fosse.
Quando ci avvicinammo alle fosse i delegati
cominciarono a farmi varie domande in russo a
proposito dell’uccisione dei polacchi, ma poiché era
passato più di un mese da quando ero stato convocato
dalla Gestapo, avevo dimenticato tutto quello che
c’era nel documento che avevo firmato, mi confusi e
dissi che non sapevo niente sull’uccisione degli
ufficiali polacchi.
“L’ufficiale tedesco si arrabbiò molto. L’interprete mi
staccò via rudemente dalla ‘delegazione’ e mi
scacciò. L’indomani mattina una macchina con un
ufficiale della Gestapo arrivò a casa mia. Mi trovò in
giardino, mi disse che ero agli arresti, mi mise in
macchina e mi portò alla prigione di Smolensk …
“Dopo il mio arresto fui interrogato molte volte ma mi
picchiarono più di quanto mi interrogassero. La
prima volta che mi convocarono mi picchiarono
pesantemente e mi insultarono, lamentandosi che li
avevo traditi e poi mi rimandarono in cella. Durante
le successive convocazioni mi dissero che dovevo
dichiarare pubblicamente che era stato testimone
dell’uccisione degli ufficiali polacchi da parte dei
bolscevichi, e che fino a quando la Gestapo non fosse
stata soddisfatta che lo avrei fatto in buona fede, non
sarei stato liberato dalla prigione. Dissi all’ufficiale
che avrei preferito restare in prigione piuttosto che
raccontare menzogne alla gente. Dopo questo fui
picchiato duramente.
“Di questi interrogatori con percosse ce ne furono
molti, e il risultato fu che perdetti tutta la mia forza,
l’udito s’indebolì e non potevo muovere il braccio
destro. Dopo circa un mese dal mio arresto, un
ufficiale tedesco mi convocò e mi disse: ‘Vedi le
conseguenze della tua ostinazione, Kisselev. Abbiamo
deciso di giustiziarti. In mattinata ti porteremo nella
foresta di Katyn e ti impiccheremo.’ Chiesi
all’ufficiale di non farlo e cominciai ad implorarli
dicendo che non ero adatto per la parte del ‘testimone
oculare’ dell’uccisione perché non sapevo dire bugie
e pertanto avrei fatto nuovamente confusione.
“L’ufficiale continuò ad insistere. Parecchi minuti
dopo dei soldati entrarono nella mia stanza e
cominciarono a picchiarmi con dei bastoni di gomma.
Non riuscendo a sopportare le botte e la tortura,
accettai di apparire in pubblico e riferire falsità
sull’uccisione di polacchi da parte dei bolscevichi.
Dopo di che fui liberato dalla prigione a condizione
che, alla prima richiesta dei tedeschi, avrei parlato
davanti alle ‘delegazioni’ nella foresta di Katyn …
“Ogni volta, prima di portarmi alle fosse nella
foresta, l’interprete veniva a casa mia, mi portava nel
giardino, mi chiamava da parte per essere sicuro che
nessuno ascoltasse e per mezz’ora mi faceva imparare
a memoria tutto quello che avrei dovuto dire sulla
presunta uccisione di ufficiali polacchi da parte del
Commissariato del Popolo per gli Affari Interni nel
1940.
“Ricordo che l’interprete mi disse qualcosa del
genere: ‘Abito in una casetta di campagna nella zona
di ‘Kozy Gory’ non lontano dalla sede del
Commissariato del Popolo per gli Affari Interni. Nella
primavera del 1940 ho visto, per varie notti, polacchi
che venivano portati nella foresta e uccisi.’ E poi era
obbligatorio che io dicessi che ‘questo era opera del
Commissariato del Popolo per gli Affari Interni.’
Dopo aver memorizzato quello che lui aveva detto,
l’interprete mi portava alle fosse comuni nella foresta
e mi costringeva a ripetere tutto alla presenza delle
‘delegazioni’ che venivano lì.
“Le mie affermazioni erano rigorosamente
supervisionate e dirette dall’interprete della Gestapo.
Una volta che parlai davanti a una certa
‘delegazione, mi fu fatta questa domanda: ‘Hai visto
questi polacchi personalmente prima che fossero
uccisi dai bolscevichi?’ Non ero preparato a una tale
domanda e risposi come stavano le cose di fatto, e
cioè che avevo visto prigionieri di guerra polacchi
prima della guerra, mentre camminavano lungo le
strade. Allora l’interprete mi trascinò violentemente
da parte e mi portò a casa.
“Vi prego di credermi quando dico che sento rimorsi
di coscienz,a perché sapevo che in realtà gli ufficiali
polacchi erano stati uccisi dai tedeschi nel 1941. Non
avevo altra scelta in quanto ero costantemente
minacciato con la replica dell’arresto e della
tortura.”
Numerose persone confermarono la
testimonianza di Kisselev e un esame medico
avvalorò le sue affermazioni di essere stato torturato
dai tedeschi.
Furono fatte pressioni anche su Ivanov, impiegato
presso la locale stazione ferroviaria (Gnezdovo),
perché fornisse una falsa testimonianza:
“L’ufficiale chiese se ero a conoscenza che nell’aprile
del 1940 grandi gruppi di ufficiali polacchi catturati
erano arrivati alla stazione di Gnezdovo con parecchi
treni. Dissi che lo sapevo. Allora l’ufficiale mi chiese
se sapevo che nella stessa primavera del 1940, subito
dopo l’arrivo degli ufficiali polacchi, i bolscevichi
avevano ucciso tutti nella foresta di Katyn. .Risposi
che non ne sapevo niente e che non poteva essere
vero, perché nel corso del 1940-41 fino
all’occupazione di Smolensk da parte dei tedeschi,
avevo incontrato ufficiali polacchi catturati che erano
arrivati nella primavera del 1940 alla stazione di
Gnezdovo e che erano impiegati nella costruzione di
strade.
“L’ufficiale mi disse che, se un ufficiale desco diceva
che i polacchi erano stati uccisi dai bolscevichi,
voleva dire che questo era un fatto. ‘Perciò’,
l’ufficiale continuò, ‘non devi aver paura di niente e
puoi firmare in piena coscienza un documento in cui
si dice che gli ufficiali polacchi catturati sono stati
uccisi dai bolscevichi e che tu ne sei stato testimone.’
“Replicai che ero ormai vecchio, avevo 61 anni, e non
volevo fare peccato, alla mia vecchia età. Potevo solo
testimoniare che i polacchi catturati arrivarono in
realtà alla stazione di Gnezdovo nella primavera del
1940. L’ufficiale tedesco cominciò a convincermi a
fornire la testimonianza richiesta, promettendo che,
se fossi stato d’accordo, mi avrebbe promosso dalla
posizione di sorvegliante di passaggio a livello a
quella di capostazione della stazione di Gnezdovo,
posizione che avevo sotto il governo sovietico, e
avrebbe provveduto anche ai miei bisogni materiali.
“L’interprete osservò che la mia testimonianza come
ex impiegato della ferrovia alla stazione di Gnezdovo,
la stazione più vicina alla foresta di Katyn, era
estremamente importante per il Comando tedesco, e
che non mi sarei pentito se avessi fatto questa
testimonianza. Compresi che mi ero messo in una
situazione molto difficile e che mi aspettava un triste
destino. Tuttavia rifiutai nuovamente di fornire la
falsa testimonianza all’ufficiale tedesco,il quale
cominciò a sgridarmi, minacciò di bastonarmi e
uccidermi, e disse che non capivo quello che era il
mio interesse. Eppure rimasi sulle pie posizioni.Allora
l’interprete compilò un breve documento di una
pagina in tedesco e mi diede una libera traduzione del
suo contenuto. Questo documento registrava, come mi
disse l’interprete, soltanto il fatto dell’arrivo dei
prigionieri di guerra polacchi alla stazione di
Gnezdovo. Quando chiesi che la mia testimonianza
foswe registrata non solo in tedesco ma anche in
polacco, l’ufficiale alla fine andò su tutte le furie , mi
bastonò con un randello di gomma e mi portò via
dall’edificio…”.
Savvateyev fu un’altra persona sulla quale i tedeschi
fecero pressioni per fornire falsa testimonianza. Alla
Commissione di Indagine Sovietica egli disse:
Alla Gestapo testimoniai che nella primavera del
1940 prigionieri di guerra polacchi arrivarono alla
stazione di Gnezdovo in parecchi treni e proseguirono
in autocarri, e non sapevo dove andavano. Aggiunsi
anche che successivamente incontrai più volte quei
polacchi sulla strada maestra Mosca-Minsk, dove
lavoravano a fare riparazioni in piccoli gruppi.
L’ufficiale mi disse che stavo confondendo le cose,
che non avevo potuto incontrare i polacchi sulla
strada maestra in quanto erano stati uccisi dai
bolscevichi, e mi chiese di testimoniare questo fatto.
“Rifiutai. Dopo avermi a lungo minacciato e allettato
con lusinghe, l’ufficiale si consultò con l’interprete in
tedesco e poi l’interprete scrisse un breve documento
e me lo diede per firmarlo. Spiegò che era la
registrazione della mia testimonianza. Chiesi
all’interprete di farmi leggere il documento ma mi
interruppe con insulti ordinandomi di firmarlo
immediatamente e andar via. Esitai un minuto.
L’interprete prese un bastone di gomma appeso alla
parete per colpirmi. Dopo di che firmai il documento
presentatomi. L’interprete mi disse di andare a casa
e di non parlarne con nessuno, o altrimenti sarei stato
ucciso…”Altri fornirono testimonianze simili. Furono
fornite anche prove di come i tedeschi ‘curarono’ le
tombe delle vittime per cercare di eliminare le prove
che i massacri non avvennero nell’autunno del 1941
ma nella primavera del 1940 poco dopo che i polacchi
erano arrivati nella zona. Alexandra Mikhailovna
aveva lavorato durante l’occupazione tedesca nella
cucina di una unità militare tedesca. Nel marzo del
1943 trovò un prigioniero di guerra russo che si
nascondeva nel suo capannone:
“Conversando con lui appresi che si chiamava
Nikolai Yegorov, nativo di Leningrado. Dalla fine del
1941 era stato nel campo tedesco n°126 per
prigionieri di guerra nella città di Smolensk.
All’inizio del marzo 1943 fu mandato con una
colonna di varie centinaia di prigionieri di guerra dal
campo alla foresta di Katyn. Questi prigionieri,
compreso Yegorov, furono costretti ad aprire le fosse
contenenti corpi di ufficiali polacchi in uniforme,
tirar fuori questi corpi dalle fosse e prendere dalle
loro tasche documenti, lettere, fotografie e tutti gli
altri oggetti.
“I tedeschi diedero ordini severi affinché niente fosse
lasciato nelle tasche dei cadaveri.Due prigionieri di
guerra furono uccisi perché dopo aver ispezionato
alcuni cadaveri, un ufficiale tedesco vi scoprì alcune
carte. Gli oggetti, i documenti e le lettere estratti dagli
indumenti dei cadaveri furono esaminati dagli
ufficiali tedeschi, che poi costrinsero i prigionieri a
rimettere parte delle carte nelle tasche dei cadaveri,
mentre le altre cose furono buttate in un mucchio di
oggetti e documenti che avevano estratto e poi
bruciate.
“Oltre a questo, i tedeschi fecero mettere dai
prigionieri nelle tasche degli ufficiali polacchi alcune
carte che tirarono fuori da certe borse o valigie (non
ricordo) esattamente) che avevano portato con loro.
Tutti i prigionieri di guerra vivevano nella foresta di
Katyn in condizioni spaventose a cielo aperto ed
erano sorvegliati molto severamente….All’inizio
dell’aprile del 1943 tutto il lavoro programmato dai
tedeschi era evidentemente completato, in quanto per
tre giorni nessuno dei prigionieri di guerra ebbe del
lavoro da fare….
“Improvvisamente di notte tutti senza eccezione
furono svegliati e portati da qualche parte. La
sorveglianza fu rafforzata. Yegorov intuì che qualcosa
non andava e cominciò ad osservare molto
attentamente tutto quello che succedeva. Marciarono
per tre o quattro ore verso una direzione sconosciuta.
Si fermarono nella foresta presso una fossa in una
radura. Vide che alcuni prigionieri di guerra
venivano separati dal resto, portati verso la fossa e
uccisi. I prigionieri di guerra cominciarono ad
agitarsi e a diventare inquieti e turbolenti. A poca
distanza da Yegorov molti prigionieri di guerra
attaccarono le guardie. Sul posto arrivarono di corsa
altre guardie. Yegorov approfittò della confusione e
fuggì nella foresta oscura mentre sentiva grida e
spari.
“Dopo aver ascoltato questa terribile storia, che
rimarrà impressa nella mia memoria per il resto della
mia vita, fui molto addolorato per Yegorov e gli dissi
di venire nella mia stanza per riscaldarsi e
nascondersi fino a che avesse recuperato le forze. Ma
Yegorov rifiutò … Disse che comunque sarebbe
andato via quella stessa notte, con l’intenzione di
attraversare la linea del fronte verso l’Armata Rossa.
La mattina, quando andai ad assicurarmi che fosse
andato via, Yegorov era ancora nel capannone. Pare
che durante la notte avesse tentato di avviarsi, ma,
dopo aver fatto solo una cinquantina di passi, si sentì
così debole che fu costretto a tornare indietro..Questo
esaurimento era causato dalla lunga prigionia nel
campo e dalla mancanza di cibo negli ultimi giorni.
Decidemmo che doveva restare da me parecchi giorni
per recuperare le forze. Dopo avergli dato da
mangiare andai al lavoro.Quando la sera tornai a
casa le mie vicine Branova, Mariy Ivanovna,
Kabanovskaya ,Yekaterina Viktorovna mi dissero che
nel pomeriggio durante una perlustrazione della
polizia tedesca, il prigioniero di guerra dell’Armata
Rossa era stato scoperto e portato via.”
Un ulteriore conferma fu data da un ingegnere
meccanico chiamato Sukhachev che aveva lavorato
sotto i tedeschi in qualità di meccanico nella fabbrica
della città di Smolensk:
“Lavoravo nella fabbrica nella seconda metà del
marzo 1943. Parlai con un autista che parlava un po’
di russo e poiché portava farina per le truppe al
villaggio di Savenki e l’indomani tornava a Smolensk,
gli chiesi di portarmi con lui e così avrei potuto
comprare un po’ di grassi al villaggio. La mia idea
era che fare il viaggio in un camion tedesco mi
avrebbe evitato il rischio di essere trattenuto alle
stazioni di controllo. Il tedesco acconsentì a portarmi,
a pagamento.
“Lo stesso giorno alle dieci di sera eravamo sulla
strada Smolensk-Vitebsk, io e il mio autista tedesco
nell’autocarro. La notte era chiara e solo un po’ di
nebbiolina sulla strada riduceva la visibilità. A circa
22- 23 km da Smolensk presso un ponte demolito sulla
strada c’è un ripido pendio sulla tangenziale.
Cominciammo a scendere dalla strada quando
improvvisamente dalla nebbia apparve un autocarro
che veniva verso di noi. . O perché i nostri freni non
funzionavano o perché l’autista non aveva esperienza,
non riuscimmo a fermare il nostro autocarro e poiché
lo spazio era molto stretto andammo a sbattere contro
l’autocarro che veniva verso di noi. L’impatto non fu
molto violento in quanto l’autista dell’altro autocarro
sbandò su un lato, con il risultato che gli autocarri si
urtarono e scivolarono affiancandosi.
“Tuttavia, la ruota destra dell’altro autocarro finì nel
fossato e l’autocarro si piegò sul pendio. Il nostro
autocarro rimase eretto. Io e l’autista saltammo
immediatamente dalla cabina e corremmo verso
l’autocarro che era precipitato. Fummo inondati da
un forte fetore di carne in putrefazione che
evidentemente proveniva dall’autocarro.
“Avvicinandomi vidi che l’autocarro portava un
carico coperto con un telone e legato con delle funi
che all’impatto si erano spezzate e parte del carico
era caduto sul pendio.Era un carico orribile –corpi
umani vestiti in uniformi militari. Per quanto ricordo
c’erano cinque o sei uomini vicino l’autocarro: un
autista tedesco, due tedeschi armati di mitra – gli altri
erano prigionieri di guerra russi in quanto parlavano
russo e avevano un abbigliamento corrispondente.
“I tedeschi cominciarono ad insultare il mio autista e
poi fecero dei tentativi di rialzare l’autocarro. Nel
tempo di circa due minuti altri due autocarri si
avvicinarono al luogo dell’incidente e si fermarono.
Un gruppo di tedeschi e di prigionieri di guerra russi,
circa dieci uomini in tutto, vennero da questi
autocarri verso di noi. …Con sforzi congiunti
cominciammo a sollevare l’autocarro. Approfittando
di un momento opportuno, chiesi a bassa vocene ad
uno dei prigionieri di guerra russi: ‘Cosa c’è?’
Rispose molto piano: ‘Già da molte notti stiamo
trasportando cadaveri nella foresta di Katyn’.
“Prima che l’autocarro rovesciato fosse rialzato un
sottoufficiale tedesco si avvicinò a me e al mio autista
e ci ordinò di procedere immediatamente.Poiché il
nostro autocarro non aveva subito danni seri l’autista
lo sterzò verso un lato, si diresse verso la strada
maestra e proseguimmo. Quando stavamo
oltrepasando i due autocarri coperti che erano
arrivati dopo, sentii di nuovo l’orribile fetore di
cadaveri”.
Anche molte altre persone fornirono testimonianza di
aver visto gli autocarri carichi di cadaveri.
Fornì una testimonianza anche un certo Zhukhov,
patologo che visitò realmente le fosse nell’aprile del
1943 su invito dei tedeschi:
“Gli indumenti dei cadaveri, in particolar modo
cappotti, stivali e cinture erano in buono stato di
conservazione. Le parti metalliche degli indumenti
–fibbie delle cinture, ganci dei bottoni e chiodi sulle
suole delle scarpe, etc.- non erano molto arrugginite
e in alcuni casi il metallo conservava ancora la sua
lucentezza. Settori della pelle dei corpi che si
vedevano - facce, colli, braccia - erano
principalmente di un colore verde sporco, e in alcuni
casi marrone sporco, ma non c’era completa
disintegrazione del tessuto e non c’era putrefazione.
In alcuni casi si vedevano tendini scoperti di colore
biancastro e parti di muscoli.
“Mentre ero nelle fosse, delle persone erano al lavoro
selezionando ed estraendo i corpi nel fondo di una
grande buca. A questo scopo usavano vanghe ed altri
attrezzi e prendevano i corpi anche con le mani e li
trascinavano da una parte all’altra, tirandoli per le
braccia,le gambe o i vestiti. Non vidi un solo caso di
corpi che si disintegravano o di membra che si
laceravano.
“Riflettendo su tutto questo, arrivai alla conclusione
che i cadaveri erano rimasti nella terra non tre anni,
come affermavano i tedeschi, ma molto meno.
Sapendo che nelle fosse comuni, specialmente in
assenza di bare, la putrefazione dei corpi avanza
molto più rapidamente che non nelle tombe singole,
arrivai alla conclusione che l’uccisione in massa dei
polacchi era avvenuta un anno e mezzo prima, e
poteva essere avvenuta nell’autunno del 1941 o nella
primavera del 1942. In conseguenza della mia visita
sul posto degli scavi mi convinsi fermamente che i
tedeschi avevano commesso un crimine mostruoso.”
Molte altre persone che all’epoca visitarono
le fosse fornirono testimonianze simili.
Inoltre, i patologi che esaminarono i cadaveri nel 1943
conclusero che non potevano essere morti da più di
due anni. In aggiunta, furono trovati dei documenti su
alcuni cadaveri che ovviamente erano sfuggiti ai
tedeschi quando falsificarono le prove. Tra questi
documenti c’erano una lettera datata settembre 1940,
una cartolina datata 12 novembre 1940, una ricevuta
di pegno del 14 marzo 1941 e un’altra del 25 marzo
1941, ricevute datate 6 aprile 1941, 5 maggio 1941,
15 maggio 1941, e un cartolina in polacco non spedita
datata 20 giugno 1941. Quantunque tutte queste date
siano antecedenti al ritiro sovietico, tutte sono
successive all’epoca del presunto massacro dei
prigionieri da parte delle autorità sovietiche nella
primavera del 1940, epoca indicata come data del
presunto massacro da parte di tutti coloro che i
tedeschi riuscirono a costringere a fornire false
testimonianze. Se, come è asserito dalla propaganda
borghese, questi documenti sono delle falsificazioni,
sarebbe stato più semplice falsificare documenti con
date successive alla partenza sovietica, ma questo non
fu fatto – e non fu fatto perché i documenti trovati
erano indubbiamente autentici.