sabato 31 luglio 2010

CUBA, FRATELLI COLTELLI? UNA RIVOLUZIONE AL BIVIO (e buone notizie dall'Iraq)

Se, cubanofili o cubanofobi, vi prende la fregola di sapere subito
quanto di straordinario e inedito sta accadendo nell’isola, andate più sotto.


Dove il potere è padrone, la giustizia è serva
(Proverbio)
Meglio morire in piedi che sopravvivere in ginocchio
(Dolores Ibarruri)
Talvolta il nemico marcia alla nostra testa
(Bertold Brecht)

Ai cubani, per quanto bravi in genere, non piacciono molto le critiche.
Ma di questo e di quelli che sembrano dei veri e propri sconvolgimenti politici in atto nell’isola della cinquantennale rivoluzione, parliamo tra un attimo. Prima un paio di aggiornamenti .

Chi non muore, Iraq!
Ricordate i reportages dall’Iraq sulle, ormai lontane di cinque mesi, elezioni generali?
Tutti embedded, dalla Sgrena del “manifesto” a qualsiasi velinaro della dependance imperiale; “Tutto va bene, madama la marchesa “ era l’inno sciolto da questi corifei dell’impero alla presunta normalizzazione e democratizzazione all’ombra di 120mila soldati Usa, di esercito e polizia del regime fantoccio, il più corrotto del mondo insieme agli altri messi su dalle Grandi Democrazie, delle milizie assassine scite filo-iraniane. Stando così le cose, i sinistri, già anti-guerra, potevano riposarsi sugli allori del voto pro-intervento in Afghanistan e di un movimento per la pace che ormai ha altre pippe da farsi.


E invece col cazzo! Per darvi un bagliore di verità sugli ultimi 18 mesi di fortissima ripresa della resistenza armata e civile, ovviamente da Sgrena ed embedded vari diffamata in “Al Qaida”, mi limito a citarvi il bollettino della guerriglia diffuso dall’Associated Press il 29 luglio scorso. Definendo tale guerriglia ovviamente “Al Qaida”, per inserirla nel quadro del “terrorismo islamico”, una costernata Associated Press è costretta ad ammettere, alla luce degli eventi di sole 48 ore, che gli “insorti” sono all’offensiva, che ogni illusione di pacificazione va riesaminata a fondo, che la promessa del vicepresidente Joe Biden, di pochi giorni prima, per cui non vi sarebbe stata più una ripresa della “violenza”, che la resistenza ha riguadagnato forza in uomini, armi, operatività e retroterra. Ne gioiamo. Ed ecco il bollettino:


"16 ufficiali delle forze di sicurezza fantoccio sono stati uccisi da un’azione coordinata di 20 attaccanti ad Azimiyah, Baghdad, e sul quartiere sventola la bandiera nazionale dell’Iraq di Saddam (descritta come di “Al Qaida”), nessun attaccante è stato colpito o catturato; in altre parti del paese la guerriglia ha ucciso 23 tra militari e forze di sicurezza varie; giorni prima gli insorti hanno attaccato e svuotato con un comando, in pieno giorno, la Banca Centrale irachena; a Tikrit, città natale di Saddam, un minibus telecomandato è stato lanciato contro una base dell’esercito, provocando almeno 4 morti; a Fallujah, due ordigni esplosivi (IED, Improvised Explosive Device) hanno ucciso due soldati e un numero imprecisato di poliziotti e funzionari; a Mosul, altra roccaforte degli insorti, una bomba fissata su un blindato della polizia ha ucciso un agente e ne ha feriti altri due; a Baghdad gli insorti hanno fatto saltare per aria la sede della televisione araba “Al Arabiya”, nota per la sua posizione pro-occupanti e definita dalla resistenza “canale corotto e traditore”, uccidendo sei addetti; da un capo all’altro del paese si sono succeduti attacchi alla mina, all’autobomba e al cecchino. Poche settimane prima, erano stati fatti saltare ben tre ministeri nella protettissima "Zona Verde", peraltro ripetitamente colpita da mortai e razzi.
Quanto a noi, tutto questo si direbbe un buon viatico per l’Iraq e per nostre vacanze di soddisfazione.

Wikileaks e chi ci crede
Se occorreva qualche ulteriore indizio, oltre alle certezze che derivano dall’invariabile e stereotipato modus operandi e dagli interessi strategici degli Usa, che la bomba dei 90mila documenti segreti rivelati dai giornali dell’Impero su imbeccata di Wikileaks, avesse come obiettivo, oltre a quello di gonfiare a bue rane che già tutti conoscevano, il rilancio dell’aggressione USraeliana a Iran, Afghanistan e Pakistan, ecco due conferme. La prima, a firma della capo-lobby ebraica del “manifesto”, Marina Forti, che, accorrendo alla bisogna, stila un pezzo in cui si ammette che la “vera notizia è una sola”. Quale? “Che per la prima volta emerge che i Taliban hanno acquistato missili terra-aria”. E ci mancherebbe: era questa la notizia che occorreva per far venire l’acquolina in bocca al noto macellaio Petraeus, che ora può potenziare senza limiti le regole d’ingaggio; per giustificare gli ulteriori 30mila soldati Usa votati dal Congresso su sollecitazione dell’Obama Nero (quello Bianco, in Puglia, plaude al padrino), nonché l’aumento dei militari italiani che, di nascosto dal parlamento, prima Prodi e poi Berlusconi hanno concordato con il sovrano. Ma non è, per Forti, la sola “rivelazione” significativa e gravida di conseguenze. “Non è davvero una novità la rivelazione dei contatti organici tra l’ISI (servizi pakistani) e i Taliban afghani". A ulteriore criminalizzazione del Pakistan, che ha portato già allo sterminio con droni e squadre speciali di migliaia di civili nel Nord, ma che deve lubrificare la definitiva distruzione del paese musulmano, Forti aggiunge che fu quell’ISI infame ad aiutare la nascita dei Taliban negli anni ’90. Strano, finora l’universo mondo sapeva che quei Taliban erano stati lanciati contro i sovietici e i comunisti locali dai servizi statunitensi. Cosa non si fa contro quel demone di Pakistan, “paese che ha fatto del terrorismo uno strumento della sua politica”. Parrebbe che qui si parli degli Usa, o di Israele. Macchè, Forti parla del Pakistan in corso di sbranamento. E conclude con un soffietto finale alle mire obamiane su quel paese, inconsultamente nucleare: “Visto che SIS e leader ribelli si incontrano ogni mese a Quetta, per promuovere buoni rapporti e azioni comuni, risultano confermati tutti i sospetti Usa verso il loro alleato”. E come ciliegina sulla torta di cacca imbanditaci da Wikileaks (almeno stavolta), ecco una notiziola, ovviamente nascosta da tutti: prima di pubblicare quanto l'eroico blogger aveva fatto circolare, il giornale più integralista ebraico e imperialista di tutti, il New York Times, ne aveva chiesto il permesso al Pentagono. Che l’ha dato istantaneamente, ringraziando. Se Wikileaks fosse quel vindice della controinformazione sui crimini di guerra e contro l’umanità USraeliani, pensate che al suo responsabile rimarrebbe un’ora di vita o di libertà? Sono migliaia i killer Cia che s’aggirano per ogni dove. Sono centinaia le prigioni segrete Usa dove si scompare senza lasciare traccia. Sono quasi 200 i giornalisti veri ammazzati dagli Usa in Iraq e 17 quelli trucidati dai loro ascari in Honduras. Comunque sia, manteniamo aperta una finestrella: se attraverso questa, Wikileaks ci passa qualche notizia-bomba sulle trame assassine e di guerra degli Usa contro il Venezuela, siamo disposti a riflettere.

Per trascuratezza, forse determinata dalla fretta di rilanciare i fini veri delle “rivelazioni”, Forti si dimentica dell’altro proiettile sparato da quel cannone dell'"informazione libera", stavolta contro l’Iran: l’accusa di sostenere e armare i Taliban. Non bastava che l’Iran gli avesse fregato trequarti di Iraq, che si erano fatti passare studi nucleari a scopo civile e medico da fabbricazione di bombe atomiche, che si accompagnassero colazione, pranzo e cena con avvertimenti a tamburo che Iran, Hezbollah e Hamas stavano per innescare guerre dal Medioriente all’America Latina. Ora, con questa "rivelazione", la misura è colma. L’intervento umanitario contro il terrorismo congiunto iraniano-afghano-pakistano, nell’ammutolimento delle sinistre farlocche, trova piena giustificazione.



?Que linda es Cuba?Ai cubani le critiche piacciono poco. Forse perché sanno di essere i migliori. Ma anche in paradiso a volte c’è qualcosa da ridire. Specie se non facciamo i chierichetti del governo cubano, ma gli amici del suo popolo. Ricordo quel responsabile della gioventù comunista, a Caimito, venuto a trovare la nostra brigata di lavoro, cui chiesi ragione dei fedeli che affollavano le chiese millenariste evangeliche, dai Testimoni di Jehova agli Avventisti del Settimo Giorno, alla Chiesa di Dio, ai battisti, in una Cuba che soleva impartire ai suoi giovani la più rigorosa e felice istruzione rivoluzionaria. Cosa cercava quella gente, tanta, nei templi di queste astute avanguardie della corruzione ideologica e dell’infiltrazione di valori reazionari? Un po’ infastidito, il giovanotto mi rispose con uno slogan: “A Cuba c’è libertà di religione”. Problema risolto.

Eppure a Cuba il diritto di critica, specie tra i giovani e gli studenti, è praticato e accettato alla grande. Sono innumerevoli le occasioni in cui negli ultimi anni si sono levate voci, anche di protagonisti della società e della cultura cubane, che hanno denunciato pecche e rallentamenti, squilibri e carenze. Pensate ai grandi film come "Fragola e Cioccolato", o "Lista d'attesa", formidabili atti d'accusa a certi ottusi quadri della rivoluzione. Vorremmo che anche noi, da sempre sostenitori di Cuba, anche a duro prezzo, fossimo messi sullo stesso piano e ascoltati un poco. A parole te lo concedono, ma nei fatti molto meno. Ne so qualcosa personalmente. Dai cubani a Cuba, dalla loro ambasciata e neppure dell’associazione italiana di amicizia, per i quali da anni ci diamo da fare al meglio delle nostre possibilità, abbiamo avuto il benché minimo appoggio nella vertenza con “Liberazione”, il giornale che mi voleva fare pagare un prezzo spietato per aver difeso Cuba contro calunnie e falsità.

Chi libera, la rivoluzione o i preti?Molta libertà religiosa c’è, in effetti, a Cuba, tanto che la Chiesa cattolica, nella persona del cardinale dell’Avana, Jaime Ortega, ha potuto strappare al governo e al partito l’iniziativa tattica. Speriamo che l’iniziativa da tattica non diventi strategica. Ed è da lì che pare essersi aperta nella società e nella rivoluzione una contraddizione senza precedenti. Con sulla scena due schieramenti ben distinti. La sinistra latinoamericana e molte voci cubane, a quanto pare capeggiate dal redivivo Fidel, non sembrano aver gradito il ruolo attribuito alla Chiesa nella liberazione dei 52 prigionieri. Fino all’aprile scorso, Raul li definiva “terroristi” e “mercenari dell’impero” (“Davanti al ricatto di Usa e UE, Cuba non cederà, succeda quel che succeda”); oggi accetta l’accordo dettatogli da un imperversante emissario di Ratzinger. Accordo che avalla la descrizione, fatta da costui e da tutta la banda dirittoumanista mondiale, Amnesty e Human Rights Watch in testa, di quei detenuti come “prigionieri politici”, “prigionieri di coscienza”. Rappresentanti dello stesso Ratzinger hanno sostenuto il colpo di Stato fascista in Honduras, i complotti antirivoluzionari e il sodalizio con le dittature e oligarchie di destra in tutta l’America Latina. Non parrebbe il migliore dei biglietti da visita di un negoziatore con dirigenti comunisti.

Allo spazio aperto alle sette evangeliche, missionarie del Dipartimento di Stato, si affianca ora il vasto spazio politico e morale offerto al Vaticano. 52 persone, delle quali nel 2003 era stata dimostrata, al di là di ogni dubbio, la complicità con le politiche di destabilizzazione Usa, che avevano dirottato armi alla mano battelli carichi di famiglie, che stavano preparando una nuova ondata di terrorismo sul tipo di quelle che avevano seminato oltre tremila morti a Cuba, compresa quella di Fabio Di Celmo, che erano stati filmati mentre intascavano il soldo nell’ufficio d’affari Usa, sono diventate grazie a un po’ di acqua santa “prigionieri di coscienza”. Mercenari di uno Stato nemico aggressore, avevano scontato 7 anni di galera, ben nutriti e ben curati (altro che Guantanamo, o un nostro Cie), laddove in qualsiasi paesi sarebbero stati passibili della pena prevista per alto tradimento, la massima. La ricaduta? Che Obama, reduce da invasione del Costarica, occupazione militare di Haiti, golpe honduregno, basi d’attacco tutt’intorno al Venezuela, trame in tutti i paesi progressisti, IV Flotta riattivata doppo 60 anni a minacciare le coste latinoamericane, il più vasto narcotraffico del mondo e i più feroci squadroni della morte USraeliani, allentasse un pochino il cinquantennale embargo? Che facesse affluire milioni di turisti Usa? Che l’UE sospendesse la sua scandalosa “Posizione Comune” contro Cuba, voluta dal fascista Aznar? La coerenza politica sacrificata sull’altare della captatio benevolentiae nei confronti di chi da cinquant’anni diffama, aggredisce, affama, terrorizza il popolo cubano? Economisti marxisti hanno calcolato che, per le dimensioni delle sue difficoltà economiche, a Cuba occorrerebbero dieci miliardi di dollari. Possibile che tra un Venezuela da sempre ultrageneroso con Cuba (ma meno in questa fase), la Cina, la Russia, il dinamicissimo neoliberista ma “comunista” Vietnam, non si possa mettere insieme questa somma per ristrutturare l’economia del paese, anche mista alla Raul, senza dover pagare prezzi politici e ideologici così alti?
Volete sapere quale è stata nell’immediato la risposta Usa alle “disponibilità” di Raul? Il 21 luglio, negli stessi giorni in cui venivano liberati - e implicitamente riabilitati - i terroristi cubani, Gerardo Hernandez Nordelo, uno dei cinque cubani sequestrati innocenti da 12 anni nelle carceri statunitensi, è stato per la terza volta rinchiuso nella “buca”. La “buca” è un orrendo spazio senza finestre di 2,5 x 1,20 metri, del tipo in cui i giapponesi costringevano ieri e gli israeliani oggi (ho visto la “buca” israeliana a Kiam, in Libano) i prigionieri “indisciplinati”. Gerardo vi è stato rinchiuso insieme a un altro detenuto. Non per qualche infrazione. Come nelle altre occasioni, solo per aver inoltrato un appello al tribunale, o per sbertucciare il liberatore degli scagnozzi USA a Cuba. Insomma, a Cuba gli Usa, che si volevano ammorbidire, rispondono con una picconata sui denti. Ottima strategia diplomatica.

Obiettivi comprensibili, quelli della sospensione del blocco e delle angherie collegate, nel paese in preda a una crisi economica e sociale gravissima, in massima parte dovuta all’embargo, ma anche a inefficienze e corruttele proprie dello Stato che non ha più saputo gestire e motivare i suoi apparati pubblici: un’agricoltura a ramengo, lo zucchero importato, sacche di povertà in crescita, l’industria di base mai decollata, un decimo della popolazione senza lavoro, l’assurda doppia valuta, per poveri e per ricchi, l’emergere, in una società che si voleva senza classi, di un ceto parassita arrampicato sul turismo. Roba contro cui in passato, finchè poteva, Fidel aveva tuonato e rituonato. Ma poi erano arrivati la malattia e il fratello giovinetto Raul. E si sono allargate le maglie: la libreta, che garantiva l’essenziale per la sopravvivenza alimentare, in corso di smantellamento, l’omogeneità dei salari all’interno di una scala ristrettissima abolita, il ritorno progressivo alla proprietà privata, una generazione nuova di dirigenti annichilita e sostituita dai militari del giro di Raul.
Esempio che ancora oggi sconcerta: la cacciata su due piedi, con motivazioni tardive e tanto infamanti quanto risibili, di due massimi dirigenti, universalmente amati e rispettati, individuati come successori al vertice: il miglior ministro degli esteri mai spuntato in Latinoamerica, Felipe Perez Roque, per vent’anni segretario di Fidel, e il vicepresidenfe Carlos Lage, che aveva salvato il paese dalla catastrofe del periodo especial. Si arrivò a dire che i due in disgrazia avevano firmato una lettera di autoaccusa. Era un falso. Sembrava essere tornati alle famigerate purghe degli anni’30 in Urss. Di quell’URSS così incombente a Cuba fino al 1989 e per la quale il Che nutriva comprensibili diffidenze. E poi, uno dopo l’altro, altri ministri tirati via, come le ciliege. Hugo Chavez, che di Perez Roque aveva una stima sconfinata, ne rimase sbigottito – questo lo so da fonte diretta - e i frequenti e affettuosi incontri con Fidel non furono sostituiti da quelli con il nuovo presidente. La prova che quell’autoaccusa non era mai stata firmata la conserva il presidente venezuelano.

Qualche stranezza nella coerenza rivoluzionaria dello stesso Fidel, forse per assecondare la successione senza contraccolpi del fratello, le sinistre rivoluzionarie latinoamericane l’avevano già percepita. Quando, intervenendo senza titoli, biasimò le FARC colombiane per la lotta armata e, incredibilmente, per non cedere i loro prigionieri, arnesi militari e politici del narcofascista Uribe, senza pretendere la liberazione dei 500 combattenti nelle carceri della tortura di Bogotà. Oppure quando elogiò la scelta, che definire paradossale è un eufemismo, di dare all'assassini di massa Obama, impegnato ad allargare il terrorismo di Stato a sempre nuovi paesi, il Premio Nobel della pace. O, ancora, quando avallò la liquidazione dei dirigenti Perez Roque e Lage, imputandola a loro intesa col nemico, mentre invece molti sospettarono che il dissenso di costoro era verso la politica aperturista e liberista del neopresidente. Ma poi sembrerebbe che per Fidel, rimessosi, si sia fatto da parte del fratello il passo più lungo della gamba. E nel giro di pochi giorni il comandante – e nessuno a Cuba mette in dubbio che, segretario generale del PC, sia ancora tale, al di là delle investiture formali – si presentò al suo popolo sei clamorose e significative volte di seguito. Compresa la più recente quando, rompendo una tradizione di mezzo secolo, festeggiò il 26 luglio, anniversario dell’assalto al Moncada del 1956, inizio della rivoluzione, separato dal fratello: Fidel nella capitale, Raul a Santa Clara. Tutti e due silenziosi. Non era mai successo. Gioco delle parti? Difficile.

Si potrebbe pensare che quella liberazione di detenuti, così gravata da benevoli, quanto indebiti ripensamenti circa il loro ruolo di mercenari provocatori e così prodiga di prestigio e autorevolezza per la Chiesa e per tutti gli avvoltoi che di quei soggetti avevano rivendicato la probità dissidente, sia stata la classica goccia. La rivoluzione, i suoi organi di difesa, il suo apparato di giustizia, la sua valutazione degli interessi giusti o predatori, avevano permesso che qualcun altro, la totalmente infida Chiesa Cattolica e i suoi fiancheggiatori umanitari, vi si sostituisse. E mentre la controparte cubana della nostra Associazione di Amicizia e la stessa ambasciata non perdono occasione per stimolarci alle campagne per i cinque cubani imprigionati da 12 anni negli Usa per aver denunciato i propositi terroristici della mafia cubana, campagne che da anni facciamo con accanimento, s’impone una domanda drammatica: come è possibile che, alla luce di questa, che da anni risulta un’assoluta priorità della politica estera cubana, Raul Castro non abbia chiesto agli sponsor dei falsi “prigionieri di coscienza” in cambio – pubblicamente ! - la liberazione dei veri prigionieri politici cubani negli Usa? Magari lo ha fatto sottobanco, ma allora sono dignità nazionale e politica del popolo che vanno a farsi fottere. Al punto che Obama ha chiuso Gerardo nella "buca".

Ricordiamo. Il problema dei detenuti a Cuba non è mai stata questione di diritti umani, bensì di manovre imperialiste per distruggere la rivoluzione. Coloro che hanno alzato il vessillo della loro promozione a “prigionieri di coscienza” e della loro liberazione sono il cardinale Ortega, il ministro degli esteri spagnolo, Moratinos, la destra del parlamento europeo, i provocatori delle ong dirittoumaniste, con il direttore tecnico seduto nella Sala Ovale. Hanno vinto e, per la prima volta dai giorni della conquista del potere, la rivoluzione ha ceduto a pressioni dall’esterno. Non sono stati il Partito Comunista o il governo cubano, in piena autonomia, a liberare i detenuti. Il credito pubblico mondiale dell’operazione ricade su altri protagonisti, sicuramente non ben intenzionati. La Chiesa Cattolica, fomentatrice di restaurazioni reazionarie in tutto il continente, si presenta alle luci della ribalta come il soggetto del cambio progressista.

Se non si tratta di un astuto gioco delle parti, quella che si è aperta con fracasso a Cuba è una divergenza strategica. E io penso che tutti gli amici del popolo cubano, il quale più di tanti ha saputo manifestare la sua capacità e volontà di resistenza all’imperialismo e di difesa e rilancio della rivoluzione, debbano prenderne atto, con pieno diritto di dire la loro. Ogni altro atteggiamento veleggerebbe tra blindatura stalinista e compatibilità togliattiane e, soprattutto, irrobustirebbe quella che è la maggiore debolezza di Cuba, la sclerosi burocratica con i connessi e connaturati fenomeni di privilegio, nepotismo e corruzione. La prima cosa che occorre a Cuba per la continuità e la rivitalizzazione della sua rivoluzione è trasparenza e, dunque, una voce più potente della sua gente. Dal basso.

La reazione del Venezuela, ogni giorno di più a rischio di aggressione da Colombia e Usa, è eloquente. Negli stessi giorni in cui Chiesa e presidente concludevano l’accordo sui detenuti, Hugo Chavez ribadiva con forza il “Chi è” del terrorismo, arrestando a Caracas e poi estradando a Cuba, sui piedi di Raul, Francisco Chavez Abarca, un vecchio delinquente dell’industria terroristica anticubana. Abarca, braccio destro di Luis Posada Carriles, dal 1960 massimo operativo del terrorismo Cia in America Latina, pluri-attentatore a Fidel, aveva messo nel 1997 quelle bombe nei ritrovi pubblici di Cuba che costarono la vita anche al nostro Fabio Di Celmo. Arrestarlo e consegnarlo alle vittime dei suoi attentati, nel momento in cui suoi compari venivano ribattezzati “di coscienza” e spediti all’estero per prolungare, liberi, la campagna di odio e violenza contro Cuba, non poteva non avere, insieme alle rivelazioni sulla campagna di terrore di cui gli Usa avevano incaricato Abarca in Venezuela, il significato di un chiaro messaggio di Hugo a Raul: tu liberi e implicitamente riscatti la stessa risma di terroristi che, dopo aver colpito il tuo paese, vuole distruggere il mio. Ora ti consegno uno di questi, responsabile di sangue e distruzione nel tuo paese. Libererai anche lui in quanto promosso dal Vaticano e affini a “prigioniero politico e di coscienza”?

Ci sono poi state le fragorose uscite in serie di un Fidel 84enne, convalescente, ma ben rimpannucciato, del tutto analoghe a quelle di Chavez e in implicita dissonanza con gli accomodamenti perseguiti dal nuovo gruppo dirigente. Questi si sono inventati il termine evolucion. Fidel insiste: revolucion. In ogni intervento i due leader rivoluzionari latinoamericani hanno riproposto i contenuti e le ragioni dello scontro mortale con l’imperialismo, sia che Fidel denunciasse in termini sconvolgenti la galoppante distruzione del pianeta ad opera del cannibalismo capitalista, sia che entrambi alzassero al livello rosso l’allarme di nuove imminenti guerre imperialiste contro Iran, Libano, Pakistan, Yemen, Somalia, Venezuela. Tutti fenomeni al cui servizio militavano, prezzolati, gli sporchi congiurati liberati all’Avana, o quello catturato ed estradato in Venezuela. E per coronare questa robusta conferma di chi è nemico e chi va combattuto, pena la disfatta, ecco che Fidel annuncia la tempestiva pubblicazione di una sua “piccola biografia” , intitolata “La vittoria strategica”, che copre la fase rivoluzionaria della guerriglia sulla Sierra Maestra. Un altro messaggio, neanche tanto obliquo, per contrapporre a un temuto cedimento, per incerti ritorni, un ritorno alla forza vincente della lotta per sovranità e giustizia in tutte le sue forme? Una lotta che la rivoluzione la rinnova, ma che non ne farà mai una evolucion. Quello è concetto borghese e riformista. Porta malissimo.

Se qualche cubano, o filocubano doc, ora si risente di quanto qui ho scritto, se non capisce se queste righe siano di amore per il popolo cubano e la sua rivoluzione, o di malevola e magari equivoca polemica anticubana, ebbene mi rassegnerò. Non è di questi cubani che noi o Cuba abbiamo bisogno. Ne conosco di migliori.

mercoledì 28 luglio 2010

SPIGOLATURE DI FIORE IN FIORE, DI CLOACA IN CLOACA. E un documento della Resistenza honduregna.

L'ultima mia proposta è questa: se volete trovarvi, perdetevi nella foresta.
(Giorgio Caproni)
Ai ladri e assassini / libertà provvisoria oggi è concessa. / E', per legge stessa, / provvisoria la vita ai cittadini.
(Francesco Proto)


Veterani di guerra Usa in corteo con il movimento anti-guerra


Di corsa, e per scongiurare che la lunghezza dei miei interventi vi spaventi fino all’allontanamento, ecco un rapido florilegio d’attualità, da selezionare secondo i tempi opportuni, con inseriti due documenti inoltratimi e che rilancio. Wikileaks90.000 documenti segreti del Pentagono pubblicati da Wikileaks. Accanto a rivelazioni scioccanti e punitive per gli Usa, ma che chi appena appena s’informa da tempo conosceva (squadroni della morte dei reparti speciali Usa, guerra afghana perduta, massacri di civili), ce ne sono tre che sono da un pezzo i cavalli di battaglia di Cia e Mossad: il servizio segreto pakistano, SIS, che collabora o addirittura dirige la Resistenza afghana e il sostegno ai Taliban (sunniti) da parte degli ammazza-sunniti di Tehran. Due bocconi velenosi che, in complicità con l’India, lubrificano, uno, l’assalto e lo squartamento, peraltro già in atto a forza di droni, squadroni Cia della morte e ascari locali, dell’infido Pakistan nucleare, amico della Cina a dispetto dei fantocci Usa che lo governano e, a livello di massa, fortemente antiamericano e, secondo, l’attacco USraeliano all’Iran. Un terzo carico da 90, poi, le rivelazioni di Wikileaks lo mettono a disposizione del matamoro Petraeus, comandante alleato, affermando che ormai “i Taliban sono imbottiti di missili terra-aria” (probabilmente nordcoreani). Quale migliore pretesto offerto a Petraeus e al reggicoda La Russa, per modificare verso il nulla osta totale regole d’ingaggio che impediscano a questi selvaggi di usare tecnologie patrimonio esclusivo della civiltà occidentale? Persa l’egemonia politica in Iraq a vantaggio dell’Iran e dei suoi agenti sciti di Baghdad e del Kurdistan, persa la guerra in Afghanistan, il mostro bicefalo USraeliano, per ricuperare, si scaglia contro Pakistan e Iran. Hai visto mai che, accerchiati, anche i patrioti afghani possono essere liquidati? E poi, senza ulteriori guerre, come fa la locomotiva militare Usa a rimediare alla catastrofe economica? Questo leak di Wikileaks mi pare che puzzi.

Non puzza per niente al solito mattinale indigeno del Dalai Bama e del Dalai Vendola, i cui tre cavalli di razza allogena, Giuliana Sgrena, Giuliano Battiston e Emanuele Giordana, al pari di tutti i media imperiali, reggono esultanti lo strascico ai tre “giornali blasonati”, New York Times, Guardian e Spiegel, che hanno pubblicato quei documenti. Il peana, titolato a caratteri monumentali “Senza bavaglio”, rimbomba in crescendo dalla prima alla terza pagina: “Wikileaks rappresenta un riscatto dell’informazione che potrebbe segnare l’inizio della fine della guerra in Afghanistan (occhio, non all’Afghanistan, ma in Afghanistan)… la nuova frontiera dell’informazione indipendente… nuova ecologia dell’informazione". Più riservato il collateralista Giordana, di Lettera 22, forse perché rispetto a quelli sulle mattanze Usa di civili i suoi dati avevano sempre privilegiato i (falsi) massacri compiuti dai Taliban ai quali, in una scomposta foga collaborazionista, era riuscito ad attribuire oltre metà delle vittime civili (ultimissima: 52 civili massacrati dalla Nato in Helmand, Afghanistan; 30 civili ammazzati da droni Cia in Pakistan; 8-10 invasori al giorno e zero civili uccisi dai Taliban. Sfugge a questi sicofanti degli interventi umanitari che pubblicare “rivelazioni” su due giornali oltranzisti della guerra imperialista come il New York Times e lo Spiegel, incastrandoci in mezzo il cerotto liberal Guardian, è collaudata tattica da imbonitori. Mentre non dovrebbe sfuggire ai senza-bavaglio il bersaglio grosso a cui mirano questi cecchini di riserva dell’impero quando, rimasticando le cianfrusaglie propagandistiche dei feldmarescialli Usa (il macellaio McChrystal buono e il macellaio Petraeus meno buono) fanno del popolo afghano la vittima chiusa nella tenaglia di chi lo bombarda e di chi lo difende. Trascurando l’inezia per cui se la massima potenza mondiale viene fatta a pezzi in Afghanistan, ciò è possibile solo perché la Resistenza ha dietro di sé proprio l’intero popolo. Scrive, tra dabbenaggine e connivenza, il quotidiano: “A rimetterci di più sono gli afghani: non quelli con turbante nero, kalashnikov, corano in tasca e una virulenta determinazione contro gli ‘invasori infedeli’, ma i poveri disgraziati che, stretti nella morsa tra i taleban e le truppe americane e della Nato, cercano di barcamenarsi come possono”. Qui non è questione di bavaglio. Qui è questione di fraudolento e colonialista cerchiobottismo.
Myanmar
Il Myanmar (per i colonialisti Birmania) nucleare! Bel colpo. Dopo Iran e Corea del Nord, aggressive e incontrollabili potenze nucleari grazie a qualche grammo di uranio arricchito, entra nella compagnia di coloro che minacciano i detentori di 20.000 testate nucleari, sparse tra le case della gente di tutto il mondo, anche il Myanmar della santa-subito Aung San Suu Kyi con quartier generale a un tiro di schioppo dalla Casa Bianca. Questa “rivelazione” arriva dal portavoce della destra militarista britannica, Daily Telegraph: “La Birmania sta lavorando a un programma di armi nucleari. Lo affermano esperti dopo aver visto fotografie segrete”. Le foto sono state contrabbandate fuori dal paese e consegnate agli “esperti dei servizi occidentali” dalla “Voce Democratica della Birmania”, formazione, cara a radicali, che sostiene la Kyi e auspica il libero mercato “all’americana”. Le considera prova del riarmo nucleare tale Robert Kelley, già ispettore statunitense dell’Aiea (poi cacciato) al tempo delle foto irachene di tubi e camion che “dimostravano” la presenza di armi di distruzione di massa di Saddam. Se ne deduce che “è stata creato una rete clandestina nucleare che unisce Corea del Nord, Iran, Pakistan e Siria”. Mancano al momento foto venezuelane, cubane, boliviane, nicaraguensi, yemenite, somale. Ma arriveranno. Qui il fetore è quello di tutte le puzzole americane attivate contemporaneamente.

Torturatori di Obama e torturatori di Al MalikiGli Usa, messi alle strette da una resistenza irachena che da 18 mesi è tanto attiva, soprattutto contro le forze collaborazioniste, quanto occultata dagli imbarazzati media di destra e sinistra, hanno messo in atto un’operazione di feroce intimidazione. Chiudendo Camp Copper nella finzione obamiana dell’imminente ritiro dall’Iraq (lasciandosi però dietro 50mila marines, squadroni della morte chiamate “truppe speciali” e 120mila mercenari privati), gli Usa hanno consegnato ai fantocci iracheni i primi 26 di circa 300 prigionieri, tra i quali dirigenti del Baath non ancora impiccati. Le carceri del democratico regime iracheno stanno a Guantanamo, come Auschwitz sta a Buchenwald. Il Comando iracheno del Partito Baath, fulcro della Resistenza, consapevole per esperienza diretta di cosa accade a Khadimiya, prigione dei tagliagole sciti, hanno rivolto a chiunque si preoccupi della difesa di diritti umani autentici un appello perché si impedisca che a questi patrioti sequestrati dall’aggressore venga riservata l’orrenda sorte inflitta dagli aguzzini e seviziatori traditori a tutti coloro su cui hanno potuto mettere le mani. Tra loro anche Tariq Aziz, l’ormai anziano e malatissimo vice-premier di Saddam, condannato a 16 anni per aver con dignità, onore, coraggio, mostrato al mondo, inascoltato dalla sinistra, di che pasta fosse fatto l’eroico popolo iracheno, la verità sul suo governo e sulle trame bugiarde dell’imperialismo. Quando gli Usa gli promisero la libertà in cambio di una sua testimonianza contro Saddam, rifiutò. Tariq Aziz, che ho avuto la gioia di conoscere e di apprezzarne la nobiltà di spirito, la cultura, l’intelligenza, mentre era nelle mani dei carcerieri di Bush e Obama ha subito pestaggi, privazioni, è stato confinato in pochi metri quadrati all’aperto, costretto a scavarsi il proprio pozzo nero, ha subito due infarti e un ictus. Parla e si trascina a fatica. Al momento della consegna ai torturatori fantocci, gli sono stati negati i 30 farmaci indispensabili per sopravvivere. Alla Croce Rossa, che peraltro nicchia, il premier fantoccio ha rifiutato l’accesso alla prigione.
Intanto, accanto alle azioni mirate della Resistenza, per spostare il conflitto su solito piano della guerra civile, le “forze speciali” USraeliane hanno ripreso alla grande gli attentati confessionali, vuoi contro gli sciti, vuoi contro i sunniti. Attentati attribuiti a chi? Ma è una domanda da farsi? Ce lo ha confermato anche Giuliana Sgrena sul “manifesto”: ad Al Qaida, of course. E per non farsi mancare proprio niente, dopo cinque mesi dalle elezioni che hanno visto la vittoria della formazione collaborazionista sunnita (antiraniana), non si è ancora riusciti a formare un “governo” e i conti si vanno regolando a forza di bombe stragiste tra l’una e l’altra fazione della cosca al potere.
I terroristi sequestrano, noialtri catturiamo
“Il manifesto” non ci priva mai della dolce musica dei suoi violini di terza fila agli ordini del direttore d’orchestra imperiale. Proseguendo, con i soliti musicanti di nota formazione, una lunga sinfonia di assonanze con i media rispetto ai quali si dice “alternativo”, il giornale comunista, internazionalista e antimperialista ci informa di “due soldati Usa sequestrati in Afghanistan”. Nel breve pezzo le parole “sequestro”, “sequestrati”, “rapimento”, “ostaggio” si moltiplicano e aggrovigliano come un trillo di Paganini. Anche i quattro militari nazisionisti che penetrarono in Libano nel 2006, agnelli sacrificali di Israele (che non ha scrupoli, come le Torri Gemelle ricordano) per accusare Hezbollah di provocazione e trarne la giustificazione all’aggressione, erano stati sequestrati. Anche l’incursore nazisionista Shalit a Gaza venne sequestrato. I nostri fanno prigionieri. Loro sequestrano, rapiscono, prendono ostaggi. Il pensiero deve correre ai banditi sardi, ai macellai del generale Videla, ai pirati mori, ai terroristi che ovviamente non praticano le leggi di guerra, le convenzioni di Ginevra e il diritto internazionale. E’ nel dettaglio che sta il diavolo, vero “manifesto”?


Climax e anticlimax
Restando sullo stesso “quotidiano comunista”, non c’è santo giorno che ci si risparmino l’orgasmatico baccanale delle ginocrate femministe e i loro uterini spasmi (se fossero androcrati direi “testicolari”) per questo o quest’altro idolo dello spettacolo dell’effimero e del fuffarolo. Ida Dominijanni transita ora dai coiti politici nell’alcova obamiana, dai cuscini di pelle islamica triturata, a quelli nella “fabbrica” del putto neopiddino Vendola, incurante dell’alleanza con il “sinistro per Israele” e devastatore di Roma e della probità politica, Walter Veltroni, alla cui “Scuola di politica” questo gemello morale di Saviano si va istruendo. E con buone ragioni: non si avanza forse dal Tavoliere, nel tripudio di fanfare d’ogni banda, il lungamente atteso messia della sinistra di pace con tutti? Appropriatamente celebrato – e autocelebrato - con rami d’ulivo e tappeti di verginali rose, come “l’Obama bianco”? A ogni messia la sua vestale. Ma una vestale meno comica e più irritante è quella generalessa del truppone delle donne al testosterone che si chiama Luisa Muraro. Avete presente Ipazia d’Alessandria, la filosofa scienziata, rigoglio estremo della civiltà pagana, maciullata dai cristiani fattisi impero? Fu perseguitata e alla fine scuoiata viva nel 415, nel rogo della più grande biblioteca dell’antichità, dagli assassini in tonaca (altro che “turbante”) del santo vescovo Cirillo, Padre della Chiesa. Con lei, ultima face di un’era della ragione, della bellezza, di psyche, della libertà di pensiero e di ricerca, i sanguinari ottenebrati scaturiti dalle circonvenzioni d’incapace di S. Paolo vollero cancellare dalla faccia della Terra tutto quello che sfuggiva alla dittatura dei loro dogmi della menzogna e dell’ignoranza, finalizzati a un potere assoluto su corpi, cuori e menti. Cosa direbbe l’incommensurabile essere umano Ipazia, donna al di là di donna o uomo, a vedersi rinserrata dalla monomaniacale monotematica Muraro nelle vesti di "martire del femminismo", punto e basta? “Non fu uccisa per le sue idee, come si è detto, ma per quello che lei era, una donna indipendente e pura (sic!)”. Come ridurre la galassia a una stella.
A proposito del profeta pugliese ricevo e riproduco:
Contro il Piano sanitario pugliese del Governo Vendola. Diciamo no!
Categoria:
Organizzazioni - Organizzazioni politiche
Descrizione:
Il Governo Vendola (PD-SEL-IDV-PRC/PCI) in ossequio ai dettami del Governo Berlusconi, vara un Piano sanitario pugliese che taglia 19 ospedali pubblici, 2200 posti letto, una trentina di consultori pubblici e mette il ticket di un euro sulle ricette. Nel frattempo, costruisce ospedali pubblici da regalare ai privati, come il San Raffaele a Taranto per don Verzè, braccio destro di Berlusconi!
Michele Rizzi e Alternativa comunista avevano denunciato tutto questo in campagna elettorale per le regionali!
Adesso proseguiamo la lotta con tutti i compagni, indipendentemente dalla loro collocazione, che ci stanno per dire no al Piano di tagli!! (visualizza meno contenuto))
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Suicidi
Grande spazio dei media all’ufficiale italiano suicidatosi a Kabul. Poveretto, cosa glie lo ha fatto fare? Ma è chiaro: “La vita quasi da reclusi, in compound separati dalla popolazione (cui si spara addosso), sempre in bilico fra la tentazione di rilassarsi e la necessità di stare all’erta, con scarse possibilità di sfogo e poco ottimismo sulle prospettive della missione…” E neanche un cinema, una coscia da adocchiare per strada, un vero riso alla milanese, una paga, sì, decupla rispetto ai colleghi a casa, ma vuoi mettere con quel clima tra gelo e canicola e i Taliban dallo zoccolo di capra? Certo, sarebbe indecoroso e assolutamente poco edificante sospettare che l’infelice si sia voluto tirare fuori una volta per sempre, vuoi dalla merda di una situazione in cui ce la si fa sotto da mane a sera, vuoi magari da atrocità criminali che ti vedono partecipe dell’affondamento nel sangue di un popolo che non ti ha fatto niente. Quanto ai colleghi Usa, la proporzione è quella derivata dal maggiore impegno: 32 suicidi al mese. Altri rientrano a casa e segano in due la moglie, o mitragliano una scuola. Per un’opinione diversa, è gente che ha risparmiato un po’ di lavoro alla Resistenza.

Chi vivrà…Irlanda!
Nei primi anni ’70 infuriava la lotta di liberazione del popolo nordirlandese per la libertà dal colonialismo e per la riunificazione nazionale. Cronistaccio di Lotta Continua, ovviamente dalle tasche desertiche, ero ospitato nel quartiere belfastiano di Ardoyne dalla vedova di un caduto della Resistenza con due piccoli figli. Si chiamava Rose e lo era. Ed era anche una protagonista di quel retroterra civile della lotta contro i militari britannici e i loro ascari unionisti che ha saputo sostenere l’Ira durante i suoi trent’anni di insurrezione. Di giorno, la comunità si organizzava per il supporto logistico, di sera si riuniva per spettacoli, canti e balli della tradizione e della resistenza (ci sono venuti pure “I Bassotti”). Di notte ci allestivamo per le incursioni di energumeni britannici che irrompevano, sfasciavano, incendiavano, sequestravano, ammazzavano. Ma a terrorizzare non li ho visti riuscire mai, che si trattasse di vegliardi buttati giù dal letto, o di ragazzini trascinati a schiaffi per strada. Intanto, mentre le donne imperversavano con urla e lanci, dagli astuti passaggi segreti, aperti tra casa e casa e vicolo e vicolo, i combattenti se la squagliavano e rispondevano. Poi sono venuti gli accordi del Venerdì Santo e il disarmo di una guerriglia che aveva portato Londra a due passi dal ritiro. Gli orangisti, invece, non disarmarono manco per niente.
La burletta di un governo di riconciliazione nazionale, fittiziamente autonomo dalla metropoli coloniale, reminiscente della letale truffa di Oslo per la Palestina, trovò consenzienti i dirigenti nazionalisti e anticapitalisti del Sinn Fein, ex-comandanti dell’Ira ravvedutisi nella nonviolenza, e i fascistoni massonici e ultracapitalisti dei partiti unionisti-protestanti e dello loro squadracce armate. Di superamento della lacerazione inflitta dal colonialismo all’Irlanda, con la spaccatura tra Nord e Sud negli anni ’20 del secolo scorso, non si sarebbe parlato più a tempo indeterminato. Alla minoranza (quasi del 50% e in crescita) furono concessi il vice premierato (Martin McGuinness, già comandante Ira a Derry) sotto la ferula del premier unionista Robinson, uomo di paglia di Londra e del supremo pretone fascista, cacciatore di teste repubblicane, Ian Paisley. Ci potevano stare irlandesi che da tre secoli e passa sostenevano l’urto della loro civiltà di pace e di uguali contro il cannibalismo imperiale britannico? Da come li ho conosciuti, non potevano. A tanto sono valsi gli accordi tra colonizzatori e colonizzati che quest’anno i fascisti Orange in bombetta vollero celebrare la loro vittoria del Boyle (1690) marciando per la prima volta anche attraverso Ardoyne, fortino proletario resistente, assediato da quartieri unionisti, che già due anni fa si volle provocare picchiandone i bambini che, per andare a scuola, dovevano attraversare strade presidiate dagli squadristi protestanti. Tutta Ardoyne è esplosa. Sembravano i bei tempi della libera Comune di Belfast e di Derry. Tre giorni e tre notti di rivolta di massa, pietre, barricate, molotov, mazzate dall’una e dall’altra parte. 90 sbirri feriti. E i tamburi funebri degli organgisti rimasero fuori da Ardoyne. Ce n’est que un debut? Il mio amico e compagno Martin McGuinness, colui che nottetempo, sfuggendo ai rastrellamenti britannici, mi sbolognò fuori da Derry e nella Repubblica per farvi arrivare la documentazione della strage del Bloody Sunday, ha commentato: “La nostra esperienza dimostra che il modo per affrontare qualsiasi disputa o contrasto sono il dialogo e l’accordo”. Pareva di ascoltare Abu Mazen.
Sansonetti? Requiescat in pace
Alla lunga neanche il bitume riesce a mascherare la calvizie. E’ già assodato per il guitto mannaro. Varrà per Vendola come è valso per Bertinotti e come sta valendo per il suo trombettiere preferito. Quel Piero Sansonetti che, da direttore di “Liberazione”, affossò sotto il monumento a Luxuria ogni residua traccia di opposizione all’esistente di merda. Incidentalmente, anche colui che si scatenò contro di me in tribunale per riavere quanto la giustizia mi aveva dato a risarcimento della cacciata con due calci dal giornale per aver scritto un paio di verità su Cuba, sgradite all’eco in cachmere dell’anticastrismo e del filozapatismo. Eliminato dal giornale – bella nemesi - grazie alla felice dipartita di Svendola, Sansonetti, mentre veniva incessantemente apparecchiato da Vespa sulla mensa per bulimici di fandonie di regime, degradò verso un giornaletto chiamato inoffensivamente “Gli altri”, rimasto sotto gli scaffali delle edicole per pochi mesi e poi cancellato da un’inanità che lo rendeva inutile anche agli occhi dei suoi padrini. Cui pure aveva assicurato ogni appoggio al passaggio della “democratica e civile legge contro le intercettazioni”. Oggi Sansonetti è sceso ancora più in basso. E non perché si tratti della Bassa Italia. A Cosenza lo hanno chiamato, a dirigere il loro paragiornale “Calabria ora”, due limpidissimi esempi dell’informazione che si batte alla morte per la legge sulle intercettazioni: Pietro Citrigno e Fausto Aquino, imprenditori ex-craxisti con grandi interessi nell’edilizia e nella sanità privata. Che, in Calabria, si sa a chi devono far capo. Citrigno è stato condannato per usura a 4 anni e 8 mesi. Aquino, ancora indenne, è nella giunta della Confindustria Calabria e si occupa di petrolio. Che si sa a chi fa capo. Com’è che si è liberato il posto? Il precedente direttore, Paolo Pollichieri, è stato costretto alle dimissioni, insieme al caporedattore, due vice, due capiservizio, il capocronista politico e due cronisti minacciati dalle cosche, dopo una serie di articoli in cui denunciava le collusioni tra il noto governatore PDL Scopelliti, e alcuni boss della ‘ndrangheta. Chi poteva colmare appieno tanti e tali vuoti aperti da questi nuovi Angelucci di Calabria, se non una garanzia per ogni stagione? Non poteva che essere Sionetti l’uomo per la bisogna.Tutto torna quando si vedano i percorsi dei virgulti di Bertinotti.

Zastava. Non amo che le rose che non colsi / non amo che le cose che potevano essere e non sono state. (Guido Gozzano)
Era l’ottobre 2001 e io ero a Belgrado per “Liberazione”. Una plebaglia prezzolata e armata dagli Usa e guidata dagli agenti della prima “rivoluzione colorata”, osannata dalle nostre sinistre radicali, aveva incendiato il parlamento e le schede elettorali che provavano la vittoria dei partiti di sinistra, sostenitori del presidente della resistenza antimperialista ed antiliberista, Slobodan Milosevic. Dopodichè si erano dati alla caccia all’uomo nelle sedi dei sindacati, della stampa e delle forze di sinistra, bastonando, devastando, distruggendo, uccidendo. Si compiva il colpo di Stato contro un presidente e un governo patriottici e autenticamente democratici (20 partiti, con quelli di destra al governo nelle maggiori città) che dieci anni di assalti alla Jugoslavia e al suo cuore serbo non erano riusciti ad abbattere. Il paese era stato ridotto in macerie e in miseria dalle solite sanzioni democratiche e dal solito intervento bombarolo umanitario, con il caporale ascaro D’Alema che sparava a più non posso.

Prima del loro pogrom, i dirigenti di Otpor, formazione al soldo della Cia mimetizzata dal logo con il pugno chiuso, erano stati addestrati a Budapest, nel giugno 2000, dal colonello Usa Robert Helvey ed erano stati finanziati dal National Endowment for Democracy, da USAID e dall’International Republican Institute (solo da questo 1,2 milioni di dollari solo nel 2000). Salvatore Cannavò, allora vicedirettore di “Liberazione” e oggi leader di “Sinistra Critica”, invitò Otpor alle kermesse no global chiamandolo “una costola del movimento”. Naturalmente cestinò tutti i miei articoli da Belgrado che svergognavano questa idiozia. Come la mia intervista con il capo di Otpor, Ivan Marovic, un trucido energumeno, mezzo bruto squadrista e mezzo fighetto berlusconide. Assicurava, il manutengolo Cia, poi attivo nelle “rivoluzioni di velluto” in Georgia, Ucraina, Venezuela, Libano, che una volta liquidati Milosevic (lo avvelenarono in prigione all’Aja, visto che non riuscivano a dimostrane alcuna colpa) e il governo socialista, la Serbia sarebbe diventata “il paradiso degli investitori stranieri, dato che aveva una classe operaia altamente qualificata ed estremamente parsimoniosa, l’ideale per un libero mercato che l’avrebbe fatta finita con i prezzi e i salari controllati, lo statalismo nell’economia, nell’istruzione e nella sanità, i lacci e lacciuoli ai capitali esteri”. Alla mia domanda sull’accusa che Milosevic faceva a Otpor di essere uno strumento della Cia, la risposta fu: “Noi siamo orgogliosi di essere sostenuti dal servizio di intelligence della più grande democrazia del mondo”. Testuale.

Prima ero stato alla mitica fabbrica d’automobili Zastava, a Kragujevac, cuore operaio di tutta la regione. C’ero stato nell’aprile del 1999, mentre i missili piovevano sugli stabilimenti e li polverizzavano tutti, compresi alcuni degli operai che, in massa, avevano fatto gli scudi umani davanti al loro stabilimento. C’ero stato nel 2000, d’estate, quando una classe operaia come nel resto d’Europa ormai ce la sognavamo, con l’aiuto del governo di Milosevic aveva rimesso in piedi ben due linee di montaggio, non potendo ricorrere per la ricostruzione ad altro che alle macerie uranizzate dai missili. E infine c’ero tornato nel 2001 quando il nuovo regime di quisling Nato, consegnato Milosevic al boia per trenta denari, aveva cacciato dalla fabbrica tre quarti della forza lavoro. Privati di qualsiasi sostegno dal nuovo governo, devoto al libero mercato delle multinazionali, migliaia di operai erano andati ad affiancarsi alle baracche dei profughi del Kosovo, della Krajina croatizzata, della Bosnia. Le loro baracche e quelle dei profughi, insieme agli iracheni i più dimenticati del mondo, stanno ancora lì. Con dentro ancora le stesse persone. E’ il prezzo del libero mercato e, con la consegna ai boia dell’Aja degli eroi della resistenza anti-Nato ed antisciovinista, il prezzo dell’ingresso in quest’Europa del cazzo. Come non poteva non arrivarci il vecchio socio della Zastava statale, la Fiat, che durante tutto il tracollo se n’era rimasta zitta e complice, E arrivò. E, subito dietro, altri “capitani coraggiosi”, l’OMSA, le cinque banche più mafiose, nordestini vari… Sulla carrozza d’oro trainata dai milioni di dollari di contributi del nuovo regime profetizzato da Otpor, dall’esenzione dalle tasse, dai salari di fame, 350 euro al mese, e dall’abolizione di scioperi, malattie, diritti universali. Quei diritti che avevano fatto dell’operaio Zastava, con Milosevic, la trincea avanzata, dopo il crollo dell’Est, della resistenza agli stragisti Nato e, poi, agli sciacalli che rovistano tra ossa e sangue. Tipo Marchionne.
I chierichetti della CGIL nel “manifesto”, ormai desueti a ogni concetto di lotta transnazionale, praticata invece alla grande dai globalizzatori, avevano inneggiato alla “vittoria operaia” ottenuta con la conferma della Panda – in culo agli operai polacchi - in una Pomigliano convertita in campo di punizione. Ora si stracciano le vesti perché quella conferma era il prezzo della riduzione in schiavitù, peggio dei polacchi, di tutta la classe operaia italiana (dopo quella del lavoro intellettuale). Ora le orrende monovolume Fiat lasciano Mirafiori e se ne vanno nella Kragujevac liberata da Otpor. Forse, se in Italia si costruirà ancora un prodotto obsoleto e pernicioso come l’auto, torneranno a Torino una volta che anche lì si sia capito che il futuro porta la data delle giornate di Bava Beccaris. Nulla da dire, Salvatore Cannavò?

Lo Zocalo di Città del Messico a una manifestazione per Obrador
Marcos svapora, Obrador risorge
A volte la storia fa giustizia. Quattro anni fa la contesa elettorale, al termine del mandato del burattino yankee Fox, era tra un suo clone in peggio, Felipe Calderon, e l’espressione di tutti i diseredati e oppressi di questo paese “così lontano da dio, così vicino agli Stati Uniti”, Andrés Manuel Lopez Obrador, detto Amlo. Amlo era il candidato del Partito della Rivoluzione Democratica, già nettamente socialdemocratico, epperò in graduale scivolata verso l’omologazione con una classe politica (Partito Rivoluzionario Istituzionale e Partito dell’Azione Nazionale) corrotta, poltronara, repressiva, proconsolare di Washington. Però ne rivendicava un’autonomia già collaudata quando era stato il più popolare ed ecologista sindaco di tutta la storia della capitale e ora ribadita con la rottura e la creazione di una formazione politica pulita, nettamente di sinistra. Lo scontro con Calderon fu vinto alla grande ma, come succede ormai inesorabilmente in tutti i paesi governati da destre al servizio degli Usa, venne rovesciato nell’esito contrario dal trasferimento di un milione di voti da Obrador al sicario del mandante imperiale. Uno scandalo colossale che, per un po’, animò le pagine di qualche giornale. Uno scandalo su cui nulla ebbe da dichiarare il mitico subcomandante Marcos, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, una sigla che sta alla realtà come Berlusconi sta alla legalità. Anzi, il mitico para-Zorro, icona di adolescenti italiani dai pruriti di iconoclastia moderata e compatibile, al rischio zero della nonviolenza e del non-presa del potere, girovagando in campagna elettorale per il Messico, pericolo pubblico autoproclamato ma indisturbato, in passamontagna, motocicletta, cavallo, o pullmino, non aveva perso occasione per far sapere al colto e all’inclita, cioè all’elettore di sinistra, che Obrador faceva schifo come e più degli altri. Guai a votarlo. Come facevano abbastanza schifo anche la rivoluzione cubana, quella bolivariana, i governanti progressisti dell’America Latina, cornutoni che insistevano a occuparsi del potere anziché di una “rivoluzione interiore”… Calderon ancora pone fiori ogni mattina davanti all’immagine dell’illusionista del Chiapas. Mentre il Messico perse l’occasione di staccarsi di qualche misura dal patibolo-postribolo Usa e inserirsi nel grande movimento di emancipazione latinoamericano. In Honduras c’è voluto un golpe sanguinario, in Messico sono bastati un Calderon e un Marcos.

Dal 2006 questa nobilissimo patria-matria della più bella rivoluzione del primo Novecento e delle perduranti resistenze alla sconfitta di quella prospettiva, è diventato il buco nero del continente. Del mondo, se non ci fossero l’Iraq, la Palestina, l’Afghanistan. Preda ormai totale del narcotraffico, le cui bande, divise tra sostenute e avversate dal governo e dagli Usa, hanno fatto del paese di Cielito Lindo ed Emiliano Zapata un mattatoio senza uguali sulla Terra. 25mila ammazzati negli ultimi due anni, tra i quali le 500 donne dei feminicidi di Ciudad Juarez. Tra Nafta e Plan Merida, i due strumenti del colonialismo yankee che hanno ridotto l’intero Messico a livelli di sussistenza haitiani, si è inserita, con il pretesto del narcotraffico, una militarizzazione, finalizzata alla repressione politica e sociale e al dominio dei narcos, da far impallidire il ricordo di Pinochet. Da questo mare di fango e di sangue si è ancora una volta sollevato un pezzo di popolo messicano, quale nella resistenza armata, quale in quella civile, e ha deciso di ritentare la carta capace nell’immediato di far uscire il paese dalla tenaglia narcos-fascisti che lo sta uccidendo: Lopez Obrador, nuovamente candidato alle presidenziali 2012. Tra i temi della sua campagna: la democratizzazione antimonopolio dei mezzi di comunicazione, priorità assoluta per ogni democrazia, una riforma fiscale che ridistribuisca la ricchezza, la precedenza all’industria nazionale contro la manomorta delle multinazionali, la riforma e riattivazione agraria, il rafforzamento di programmi sociali oggi abbandonati, una rivoluzione morale del paese. Risorge, con Amlo, una speranza, mentre subcomandanti vari, desertificate le lotte, si incontrano nell’immondezzaio della storia. Di Marcos, tranne "Carta" e Casarini, non parla più nessuno.
Lopez Obrador
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CAMPAGNA URGENTE PER IL POPOLO HONDUREGNO

A tutti i popoli fratelli del mondo, alle loro organizzazioni sociali e politiche, che condividono l'ideale di un mondo libero da ingiustizie e disparità che mutilano i sogni delle nostre società, chiediamo di unirsi alla grande CAMPAGNA PER IL POPOLO DELL’ HONDURAS.
Il giorno 30 luglio l'Assemblea Generale dell'Organizzazione degli Stati Americani (OEA), terrà una riunione straordinaria per trattare il “caso Honduras”. Sappiamo che la lobby del dipartimento di Stato USA ha esercitato pressioni su molti paesi, affinché votino a favore della riammissione dell’Honduras, a prescindere dalle condizioni del nostro popolo, che si trova ad affrontare la più brutale repressione e violazione dei diritti umani.
Fino ad ora, l'estorsione dell'impero è riuscita a piegare i rappresentanti di 22 paesi, mentre 9 si oppongono. Resta in sospeso il voto del Cile che, possiamo anticipare, servirà per forzare la riammissione. Insulza è giunto ad un accordo criminale, che implica infrangere il principio del consenso, ed ha creato lobby a favore della maggioranza, che ormai ha ottenuto.
È una vergogna che i governi di molti paesi abbiano la sfacciataggine di vendere il nostro popolo eroico per qualche briciola in più, in molti casi neanche per quello.
La nostra campagna chiede che tutti i cittadini del mondo, che nutrono un sentimento solidale e si oppongono alle ingiustizie, alle trame imperiali contro i popoli, a coloro che godono dell'impunità nell'esercizio della violenza brutale contro le loro popolazioni, inviino messaggi di posta elettronica alla lista d’indirizzi e-mail qui acclusa. E’ la lista dei contatti con tutti e ciascuno degli ambasciatori alla Commissione Permanente dell'OEA.
Esprimete la vostra condanna nella forma preferita, ognuno scelga, ma tutti quanti inviamo messaggi a questi indirizzi, dobbiamo essere in migliaia ad esprimere il nostro ripudio al premio che stanno per consegnare ai golpisti assassini.
Due giorni fa, rilasciando dichiarazioni ad un mezzo d’informazione, Enrique Ortez Colindres, Cancelliere del Colpo di Stato, Consulente delle Forze Armate Honduregne, ha affermato “... i militari installarono Micheletti ed estromisero Zelaya...” Una massima dice “... a confessioni di parti in causa, ecco le prove...” Non ci sono verità da cercare: si è trattato di colpo di stato militare; c'è piuttosto giustizia da impartire, al riguardo, per le vittime assassinate dal regime Micheletti-Lobo-Sosa, per il presidente Zelaya, per gli espatriati, per i perseguitati e per tutto il popolo dell’Honduras.
Contiamo sulla vostra solidarietà. Ricordate: oggi difendiamo in Honduras ciò che, con le azioni ignobili dell'OEA, potrebbe succedere domani in altri paesi.
Fino alla vittoria, sempre!

mercoledì 21 luglio 2010

L'AUTOBAVAGLIO DEGLI ANTIBAVAGLIO. E "il manifesto" sposa Vendola e bombarda l'Eritrea




Ciò che conta nel mondo non è di conoscere gli uomini, ma di essere al momento più bravi di colui che ci sta di fronte. Tutte le fiere e gli imbonitori di piazza ne danno testimonianza.

(Johann Wolfgang Goethe)


Ciò che non si capisce non si possiede.

(Johann Wolfgang Goethe)


Venga pur meno la memoria, se al momento buono non viene meno il giudizio.

(Johann Wiolfgang Goethe)


Quelle che qui non hanno potuto essere trasferite, ma che sono in fondo al pezzo inviato per email ai miei contatti, sono mie foto scattate durante i vari reportage che ho fatto in Eritrea durante la guerra di liberazione dai primi anni ’60 al 1993. Guerriglieri in azione, caduti, al lavoro nei campi, un ambulatorio al fronte, il villaggio di Barasole, in Dancalia, bombardato dagli etiopici, la contraerea della guerriglia. Chiedo scusa per la sfessante lunghezza del pezzo, ma forse gli argomenti lo meritavano e comunque lo si può sempre spilluccare a brani in vacanza, tanto più che, causa una mia prolungata assenza dal blog e dal paese, non vi saranno più che uno o due articoli prima della partenza. Più brevi. Credo che la parte più importante, agghiacciante, del pezzo sia quella che illustra la campagna del “manifesto” contro Libia e Eritrea in sintonia con la strategia d'intervento imperialista.
Tg 3 del 17 luglio, capitolo esteri: una sequenza marca Cia-Mossad su profughi eritrei seviziati in Libia e a rischio di deportazione verso “l’orrore della dittatura eritrea”, una pioggia di alloro e ghirlande all’icona Mandela che ha garantito la continuità della discriminazione sociale e di razza, una grandinata di lacrime di gioia per la liberazione dei “dissidenti” a Cuba, una sparata affannosamente sarcastica sul “caudillo” Hugo Chavez. Uguali e peggio tutti gli altri telegiornali. E così tutti i giornali di carta. Media che non fanno che rimestare nella fanghiglia dell’impostura planetaria, chi girandola a destra, chi facendo finta di girarla a sinistra. Dalla sinistra alla destra estrema non una stonatura rispetto ai paradigmi su cui si regge, pur sgretolandosi nell’urto di chi non si rassegna, il tempio degli dei falsi e bugiardi dell’imperialismo. Unica differenza quella tra i do di petto dei tenori e i pigolii di quelli che in seconda fila cantano in falsetto. Voce del padrone degli autoimbavagliati in irriducibile lotta contro il bavaglio del guitto mannaro e in altrettanto irriducibile fregola di servizio postribolare ai consigli d’amministrazione della sedicente “comunità internazionale”, occidentale, bianca, cristiana. E in altrettanto spasmodica attesa di riempire le terze e quarte file nelle cene elargite dal maggiordomo di palazzo, l’insetto a pois. La prima ammucchiata incoronava imperatore e corte: il guitto mannaro, la figlia, Casini, Geronzi, Draghi, Letta e second lady, l’affittacamere cardinal Bertone. Il giro successivo offriva, sulla terrazza di Propaganda Fide, l’esibizione magna-magna dei buffoni di corte: Signorini, il lecca lecca del giornalismo-bavaglio, Schifani per conto degli amici degli amici, Gasparri per l’intellettualità di destra, il foruncolo di Gelli Cicchitto, il legionario di Cristo La Russa, Matteoli intrecciato nel tango con Caltagirone, Prestigiacomo per il libero mercato dell’ambiente, Al Fano per la vespista libertà di stampa, Polverini, Masi e imbavagliati RAI vari, raccolti a corona attorno a Minzolini, felicemente autoimbavagliato da parere una mummia.





In ritardo, per la scala di servizio, e perciò doppiamente vorace, la coppia valeriamariniana per tutte le stagioni: the last lady Lella e, ormai spompato cicisbeo al seguito, il cortigiano di riserva Fausto Bertinotti. Da presidente delle Camera ad ala sinistra nella partita tra vecchie glorie della cafoneria nazionale. Vi potete immaginare la scena. Le femmine che squittiscono: Ciao caaara, sei adorabile… Pure tu, quanto stai beeene! I maschi che nitriscono: Caro Bruno, carissimo Fausto, e chi c’ammazza, a Igna’, a Maurì, a Fabrì, che te possino…
Al collega accademico Gasparri porgeva vive e vibranti scuse per l’involontaria assenza di Nichi Vendola, al momento impegnato a costruire fabbriche per fighetti da far venire utili per le primarie dell’assalto al PD, grande partito della nuova sinistra radicale, trascinato dal tiro a quattro Casini, Pannella, Fini, Saviano. Convoglio della restaurazione della sinistra, dell’ecologia, della libertà, magari con l’aiutino del neocomitato PD per la privatizzazione dell’acqua, alla faccia del milione e mezzo di firme (del resto, di questo lo Svendola è un esperto). Con sul cocchio Barack Obama. Permettete un’osservazione personale? A Fa’, m’hai cacciato da Liberazione pe’ gnente, hai offerto a li commensali ‘sta pajata de comunismo annato a male e che hai beccato? Che mo’ te fanno ballà co ‘sta pupazzona e te danno puro da magnà aggratis. An vedi come balla Fausto... Finchè a Bruno je regge er stomaco a vede che ce sta chi fa più schifo de lui… (i romani mi scuseranno).

Non ci resta che “il manifesto”
Io i giornali degli antibavaglio autoimbavagliati me li scorro in rete. Basta e avanza. E’ tutto scontato, come il comunismo da bancarella di Vendolotti. Comprare “Liberazione” è come versare una stilla di sangue in un corpo mummificato. Non ci resta che “il manifesto” e io, da qualche tempo, mi chiedo perché cazzo debba pagare il prezzo proletario di €1.30 al “quotidiano comunista” anzichè il prezzo medioborghese di €1.20 a “Il Fatto quotidiano”. Giornale, questo, di inchiesta sul malaffare e di combattimento contro il regime mafio-massonico-fascista, che sta al “manifesto” come il bazooka sta alla cerbottana (fatti salvi la questione “lavoro”, unico tema dove le parti s’invertono, due, tre della razza di Stefano Chiarini e qualche saggio esterno). “Il Fatto” è uno spasso e un’illuminazione, da Travaglio e Padellaro sulla prima, attraverso Luca Telese, Gianni Barbacetto, Olivero Beha, fino a quando non si precipita nella camera di compensazione imperiale delle pagine internazionali. Trattasi per fortuna di paginetta Cia-Mossad striminzita, mirabilmente superficiale e incompetente, dalla quale però si sprigionano, governati da Furio Colombo, i miasmi all’uranio di tutte le prodezze USraeliane. Non ci resta che “il manifesto”!

Sintonie
Davvero? Nello stesso giorno di quei telegiornali, la campagna del “manifesto”, cresciuta in giorni e giorni, paginoni e paginoni, gigantografie e titoloni, di scomposti ululati in difesa di migranti eritrei in un CIE libico, renitenti alla leva del loro paese, peraltro aggredito da tutte le parti dai colonizzatori di ritorno e dai loro ascari locali, raggiunge il diapason dell’indignazione umanitarista e del livore anti-eritreo. A fianco, l’ennesimo inno a “Invictus”, l’icona universale Mandela, dal sorriso imbalsamato sulla roboante kermesse calcistica nella quale i dissennati vuvuzele vorrebbero narcotizzare il disastro sociale di una “liberazione” dall’apartheid che non ha liberato se non una nuova consorteria di profittatori. E, sempre in sintonia con questuanti della captatio benevolentiae imperii, come il Bersani che giura all’imperatore di non volere peggiorare la situazione con un “Chavez dopo Berlusconi” e come lo Svendola che ne è la copia carbone-pulito, l’ammiccante titolo: “Censura Onu sulle libertà. Siamo come il Venezuela”. L’autore, tale Andrea Fabozzi, rispondendo a un lettore esterrefatto, che in Italia vorrebbe la venezuelana libertà di stampa, le scuole e la sanità gratuite, la lotta alla povertà e l’aumento del 40% dei salari minimi, la difesa delle minoranze, la terra ai contadini e le fabbriche agli operai, si fa topastro all’ombra della chiavica ONU ricordando che questa aveva “biasimato Chavez quanto Berlusconi” (e te pareva, per un ectoplasma con la sola funzione di legittimare le mattanze Usa e Nato in giro per il mondo). Il quadro si completa con l’immancabile, commosso plauso a un sempre più sorprendente Raul Castro, liberatore, per merito di Santa Romana Chiesa (quella del golpe in Honduras), di una cinquantina di “prestigiosi intellettuali dissidenti per la democrazia” che i tribunali sotto Fidel avevano incarcerato sette anni fa perché scoperti e dimostrati terroristi al soldo della potenza che di Cuba vuole la morte, dopo avercela seminata per mezzo secolo. Sintonie tra autoimbavagliati.

Potrebbe bastare, ma, visto che ci siamo, non priviamoci di un piccolo florilegio da un giornale che, per carità, non vorremmo veder sparire tra le fauci del guitto mannaro, ma che non cessa di sbigottirci per la sua capacità di invocare il sostegno dei lettori in nome di una catarsi implicita nella sua ragione sociale e, poi, di sincronicamente proporre temi, linee e valutazioni, in perfetta osmosi con coloro che la catarsi dovrebbe far fuori. Tutti deplorano il tirannosauro che caccia dalla gloriosissima emittente sionista, Radio Radicale, un direttore che, da classico trotzkista in transizione, ha nobilitato l’etere per vent’anni con un giornalismo di vette del mestiere come Magdi Allam, Fiamma Nirenstein e tutto il più fetido cucuzzaro dell’imbonimento goebbelsiano. Tutti deplorano e pure “il manifesto”.

Una Sebrenica all'anno leva d'intorno l'affanno
E’ il giorno dell’annuale novena per Sebrenica. La stampa che aveva lubrificato i cingoli degli sterminatori della Jugoslavia tramite bombe e carneficine etniche, sotto le insegne umanitarie ricamate a punto e croce da mosche cocchiere come Sofri, Langer, disobbedienti strafatti e cappellani militari travestiti da missionari, copre le piaghe purulente aperte dalla menzogna in quelle terra con la megabufala di un massacro mai avvenuto. Donne, anziani e bambini abbandonati a Sebrenica dall’islamonazista Izetbegovic, “difesi” da qualche centinaio di miliziani, mentre il grosso era stato ritirato, allo scopo di fornire ai bombardieri Nato, con una “strage serba”, l’alibi per la riduzione in poltiglia della Serbia e della Repubblica Serba di Bosnia, unica nazionalità renitente rimasta, furono tutti evacuati dalle forze serbe. I cadaveri riesumati a ogni ricorrenza sono di coloro che caddero in combattimento. Dei vantati ottomila (cifra adeguatamente suggestiva per analoghi messe in scena, da Sebrenica ai curdi gassati, dal Tibet allo Zimbabwe), una buona metà sono risuscitati nelle liste elettorali bosniache e hanno debitamente votato per il fantoccio nazi di Sarajevo. Sul “manifesto” Tommaso De Francesco punta a salvarsi l’anima, integrando la panzana con il resoconto, questo sì veritiero e documentato al DNA, dei 3500 civili trucidati dal caporione bosniaco Naser Oric nei villaggi serbi attorno a Sebrenica. Un colpaccio al cerchio, un colpetto alla botte. Il generale Mladic, innocente, ricercato dal Tribunale zoccolaro dell'Aja, Naser Oric mai sfiorato da quei integerrimi magistrati.

E gli Shabaab somali, forza islamica di liberazione in un paese cui la posizione geostrategica ha regalato le attenzioni criminali, di guerra e di traffici letali, della solita “comunità internazionale”, sono terroristi e pirati che “con le loro stragi lanciano messaggi di sangue”. Così, truculento, “il manifesto”. Così tutti gli altri. Ce n’è, al volo, anche per Mugabe, paese al bando della “comunità internazionale” perché insiste a sopravvivere a sanzioni genocide decretate contro l’esproprio dei latifondisti bianchi e ad andare per la sua strada: Mauro Masi , che del servizio pubblico fa la cloaca delle deiezioni dei suoi padroni, “come nemmeno in Zimbabwe”. Per dire, in affettuosa assonanza con la City: il peggio del peggio (per noi colonialisti fottuti). Sono queste sonanti sintonie con il calpestio degli anfibi coloniali che ci ingraziano il “quotidiano comunista”. Dell’ineffabile trio Giordana-Sgrena-Forti, generose stampelle a sostegno di interventi umanitari, appena un po’ troppo bombaroli, contro l’Al Qaida ante portas, dall’Iran all’Afghanistan, dal Pakistan allo Yemen, dall’Iraq alla Somalia e al Venezuela, s’è già ripetutamente detto. Ora si tratta di sostenere, come in Iraq, la strategia del nuovo comandante Petraeus nella sua brillante idea di far ammazzare gli afghani tra di loro pagando capivillaggi perché armino ciascuno la sua bella milizia. E l’afghanizzazione di una guerra persa per grazia di dio e volontà della nazione, collaudata con la vietnamizzazione e poi con l’irachizzazione dei petraeusiani “Consigli del risveglio”, o "Figli dell'Iraq". Figli rinnegati, pagati e lanciati contro i fratelli della Resistenza, astutamente rinominata “Al Qaida”, oggi abbandonati e consegnati al settarismo stragista del regime fantoccio scita. Quando non opportunamente cacciati a fucilate e autobombe giù nel girone della Giudecca, l’ultimo nell’attualissimo inferno di Padre Dante, quello in grembo a Satana, per mano di combattenti che stanno ad Al Qaida come Che Guevara sta a Osama Bin Laden.

E’ facile figurarsi il compiacimento di chi, per trafficare droga e farne trasfusione di sangue alla metropoli fatiscente, abbia letto sul “manifesto” il pezzo della rubrica “Fuoriluogo” intitolato Droga, lo zar russo che pretende di guidare il mondo. A parte il fatto che quando sei russo e stai in qualche istituzione c’è poco da fare, o sei zar, o non sei figlio di San Nicola, tale Tom Blickman, della setta di Netaniahu, si descrive atterrito dalla nomina di Yuri Fedotov a capo dell’ente ONU per la droga (UNODC). Fedotov è un diplomatico russo, ma anche, a dispetto dell’autore, stimato e prolifico autore di testi di denuncia sulla geopolitica degli stupefacenti, da sempre terza gamba, con armi e disinformazione, della tavola dei banchetti imperialisti. Nostalgico, il Blickman, delle compiacenze dei predecessori italiani di Fedotov, i prodi Arlacchi e Costa, cui nessun grosso narcotrafficante ha mai mosso rimostranze. E’ ai loro tempi che sono fiorite rigogliose le coltivazioni, produzione e rotte, a fini di spopolamento in basso e accumulazione in alto, nei paesi a controllo mafio-statunitense. Sottratto e bonificato da Myanmar, Cambogia e Tailandia il già munifico “Triangolo d’oro” (la Cia ci si pagò le “operazioni speciali” in Indocina e poi tra le giovani generazioni occidentali), ecco la Colombia, l’Afghanistan, il Kosovo, il Perù, il Messico. E ogni tanto un aereo delle compagnie noleggiate da Cia e consocia Dea si abbatte su qualche paese o isola del Centroamerica, con dentro dalle quaranta tonnellate di cocaina in sù. Fedotov e il governo russo si sono rivolti negli ultimi tempi ripetutamente a Washington, ONU, Tribunali internazionali, per denunciare il controllo e lo sfruttamento dell’oppio afghano da parte degli occupanti, ha stigmatizzato il rifiuto dei comandi Usa di procedere allo sradicamento, ne ha rivelato le complicità nel contrabbando che, condotto eminentemente attraverso la Russia (e Iran), ha fatto di un paese quasi esente da consumo di massa la tomba di trentamila morti all’anno da overdose e malanni correlati. Ebbene, il nostro Blickman ha la faccia di rampognare la Russia per la sua offensiva diplomatica in favore della fumigazione dei campi di papavero e per aver definito quella statunitense e Nato una “narco-aggressione contro la Russia e altri paesi, una nuova guerra dell’oppio” (quella precedente fu condotta da inglesi e alleati per imporre ai cinesi, fino allora puliti, la produzione, il commercio e l’uso di droga). Opina, il virtuoso dell’inversione di causa ed effetto, che la Russia voglia incolpare di quelle sue 30mila vittime non la sua ”pessima politica della droga”, ma nientemeno che i coltivatori afghani, i loro committenti a stelle e striscie, l’ONU dei Costa e Arlacchi. E, ovviamente - e qui Agnoletto, già vedovo di grandi movimenti svaporati perchè divenuti imbelli, si sente defraudato anche del suo residuo ruolo di propagandista retribuito dell’esistenza dell’inesistente Aids - se oggi per la prima volta in Russia c’è un problema Aids, la colpa per Blickman è solo del proibizionismo, mica in prima linea dell’eroina spacciata dai mercenari armati di Wall Street e rifilata a giovani russi perchè annichiliscano le loro difese immunitarie (patologia dalle mille eziologie del degrado, droga, fame, igiene, che qualcuno ha chiamato Aids e ci fa un sacco di soldi).
Un asterisco in fondo al libello, che non menziona neanche per un filo di deontologia la responsabilità degli Usa per il traffico in paesi tutti da loro controllati, ci informa che lo scaltro Blickman è dirigente del “Transnational Institute”. E si capisce perché non esprima neanche un grano di polline di dubbio sul documentatissimo ruolo di Cia e Usa e non parli di quel trilione di dollari spurgato dal sangue dei narcomassacri nelle colonie Usa Messico, Perù, Colombia, Afghanistan. Il TNI lavora in coppia con l’ente governativo Usa “Washington Office on Latin America” (WOLA). Rigorosamente antiproibizionista, nemica mortale di tutti i succedanei della droga, avvolta in bandiere arcobaleno sventolate sul destino commiserato delle “povere vittime di questa globalizzazione”, questa specie di mega-Patrignano vanta un presidente che si chiama Susan George e ci è noto sia per la facezia della Tobin Tax (Attac), sia per aver appoggiato di slancio l’assalto all’Afghanistan. Per cui non poteva mancare, nel coro imperialista umanitario, il fiancheggiamento di TNI e WOLA alle rivoluzioni colorate, dall’Iran all’Ucraina, dal Venezuela al Libano, dalla Georgia al Myanmar della martire con uffici a Washington Aung San Suu Kyi. Insomma, la maschera umana del mostro. Una roba che puzza di George Soros lontano un oceano. Brezze non dissimili spirano anche da quel Raffaele Salinari, presidente di un oggetto misterioso chiamato “Terre des Hommes”, che riesce a riempire un’intera colonna di elogi alla giustizia colombiana per aver condannato un nostro concittadino per pedofilia. Bastavano cinque righe. Il resto lo poteva magari occupare con qualche notarella sui 20mila sindacalisti, contadini, oppositori, bruciati dai paramilitari nell’inferno di questo narcocliente degli Usa. Tra Salinari e Agnoletto, per non farsi mancare nulla, svetta l’appello contro una condanna a morte in Iran. Uno della giaculatoria di appelli che imperversano sul giornale, perlopiù generati da invocatori dell’ ”unità della sinistra” che si detestano fra di loro e adorano il proprio ombelico. Le firme ve le potete immaginare, ineccepibilmente gradite ai manager delle campagne sui diritti umani nel Sud del mondo, condotte dai peggiori violatori di diritti umani della storia. Sui quali silenzio. Spiccano per probità e coerenza Fassino, el panzon Ferrara, il sofriano Marcenaro, la virago liberista e guerresca Bonino, Polito su mandato del giustiziere D’Alema, il due-pesi-due-misure Lerner (fermamente dimentico delle esecuzioni di massa in Israele), e la santa-subito Shiria Ebadi. Li supera tutti Barbara Contini. Ve la ricordate governatrice di Nasseriya e degli specialisti tricolori del tiro all’ambulanza? Oppure, peggio ancora in Darfur, dove ha dato il meglio di sé, facendo sparire fondi della cooperazione e propiziando un’altra spedizione imperialista contro un inventato genocidio?

Da D’Alema a Bertinotti, a Ingrao, a Epifani, a Obama, alla Daddario, al sansonettiano Vendola, populista al servizio della causa “io”, se mai ce ne sono stati. Con l’immarcescibile ragazza pon pon, Ida Dominijanni, che sbandiera in testa: dopo superman Obama, la Daddario, vedetta pugliese dell’emancipazione femminile tramite marchette e nastri ricattosi, fino, oggi, al putto di pongo Vendola, quello carismatico, quello che, ragazzo tra ragazzi, "sa rispondere alla domanda di politica vera, contro quella paludata e vuota, con polpi alla griglia e birre ghiacciate", fiore di una generazione che è la “base ideale di una politica riformista (appunto!!), affabulata da Obama di cui studia con puntiglio mosse e contromosse, discorsi e riforme, retorica e marketing politico”. Niente male come apprezzamento di uno che scalcia verso sinistra e annaspa verso destra. Del resto, la signora cara a Lerner pone “il desiderio” sopra ogni cosa. “E si sa, quando parte il desiderio può arrivare dove vuole”. Anche a incendiare di passione insana questa anziana signora che, potesse vantare tanti amanti fisici quanti ne ha inanellati di politici, Messalina le farebbe un baffo. Le sbandate del “manifesto” sono epiche e, non fosse per la disperata fedeltà dei suoi residui lettori, avrebbero già consegnato il giornale all’archivio noir degli amori sbagliati, a volte maledetti.

Ci si chiede quale base teorica nemmeno marxista, anche solo socialdemocratica, anche solo vagamente alternativa all’esistente di merda, possano avere le sgangherate scuffie per un acrobata da circo come D’Alema, che regolarmente precipita dai trapezi su cui vorrebbe involarsi verso le opposte sponde. Che cosa fa resistere il giornale nel suo ruolo di incrollabile sentinella nella garitta della CGIL, davanti a quello che da almeno trent’anni è diventato il Centro Benessere di padroni da rimpannucciare. Scontata, per quanto decerebrata, almeno sul piano giornalistico, è la difesa del proprio strapuntino nella “comunità internazionale” attraverso l’accanita salvaguardia di una frode di livello biblico come quella dell’11 settembre, ignorando con attento galateo deontologico lo tsunami di contestazioni della megaballa che soffia sugli Stati Uniti e su tutto il Sud del mondo. Scontato, pur nella sua davvero stupefacente insipienza ideologico-politica, la forsennata cotta per il primo Obama: non lo sostenevano forse i giovani, gli ambientalisti, i liberal, l’infallibile web? Ora quel web tace, quando non si prende a scudisciate per la cazzata fatta. Intanto, Obama è riuscito, con la sua inversione a U rispetto alla scintillante fuffa della campagna elettorale e dei discorsi epocali sulle magnifiche sorti e progressive in corso, a disintegrare totalmente il movimento d’opposizione di massa.

E’ che “il manifesto” insiste. La scena è un lago di sangue dove galleggiano i detriti umani dell’escalation obamiana in Asia, Medio Oriente USraeliano, America Latina, Africa, e gli effetti del travaso di midollo spinale dalla classe operaia e media Usa e mondiale a Wall Street. Ma “il manifesto” sa gestire microfoni direzionali e occhi di bue, che tutto il resto sprofondano nel buio, fissandoli sul protagonista. Non trovando nulla da ridire su controriforme sanitarie che gettano altri 35 milioni di destituti nelle fauci delle assicurazioni, su leggi di regolamentazione finanziaria che provocano ovazioni a Wall Street, su guerre e torture, su fascistizzazione strisciante a casa e colpi di stato fuori, “il manifesto” ci gratifica della “Lezione di Obama” . Sottotitolo: “L’analisi dei discorsi del Presidente Usa può insegnare molto ai progressisti europei” . Quella che qualunque studioso di oratoria e semantica demistificherebbe all’istante come vuota e roboante retorica da imbonitore di farlocconi, strutturalmente scissa dai fatti compiuti, qui diventa “Il caso da manuale per il linguista cognitivo”. Sentenziato che il credo politico del macellaio dell’Afghanistan è quello “dell’avvocato che ha rinunciato ai facili guadagni per difendere chi non si può difendere”, l’umorista dell’articolessa (Michelangelo Conoscenti) non lesina perle di scientifica eulogia: “Obama è un intellettuale che parla in modo raffinato arrivando immediatamente al cuore… Ha dimostrato di essere un presidente X.O (?) che sa gestire diverse modalità comunicative facendo sentire le persone esseri umani. Il suo sorriso non è di circostanza, è empatico… Utilizza le scoperte delle scienze cognitive per meglio veicolare una visione politica fortemente ancorata ai valori progressisti e dei Padri fondatori, non una di interessi personali… Riesce a catturare anche il cittadino meno attento e a risvegliare l’America solidale". Con Guantanamo, Gaza e il generale Petraeus. Con i 35 milioni di disoccupati e senzacasa generati dal suo sodalizio con Lehman Brothers e Goldman Sachs.
Voi non la conoscete / ha gli occhi belli / è l’America solidale.
Viene da vomitare.

Il meccanismo sadomaso, il culto del primo idolo che passa luccicando, che fanno infoiare il giornale appresso a Obama, soprattutto le sue ultrà femministe, si rinnova e rinfresca con Nichi Vendola. Sta, il taumaturgo di una sinistra che non rompe niente e non vede l’ora di farsi PD, alle altre presenze nel giornale come Alba Parietti sta al notturno Fuori Orario di Ghezzi. D’altronde, non s’è spicciato, Vendola, di quella SEL che ancora puzzava di partitino comunista dell’odiato Novecento e trascinava a fatica nel logo quella parolaccia: “sinistra”. Meglio, per diventare PD, le “Fabbriche”, parola tuttofare che ai padroni liscia il pelo con l’affettuoso ricordo dell’Ottocento e delle ferriere, mentre agli altri evoca la mitica figura della nobile tutablù china, a sacrificarsi per patria e famiglia, sulla catena di montaggio. Ci si becca pure qualche reduce dell’autunno caldo. Anche se, per ora, dai capannoni vendoliani si vedono sbucare solo figure operaie come Franco Giordano, Gennaro Migliore, Nicola Fratoianni, Piero Sansonetti (quello del “Forza Luxuaria!” in prima pagina e del “A me la legge sulle intercettazioni, nelle sue grandi linee piace. Non mi sembra affatto una legge illiberale, né una legge bavaglio che uccide l’informazione. Si ispira a principi garantisti e di difesa del cittadino…” (e poi chiedetevi perché ‘sto Sionetti sta da Vespa più spesso dell’’apriporta di Porta a Porta). Le interviste alla spugnosa faccia di questo molle ragazzo invecchiato (che, non scordiamocelo, resse indulgente una giunta quasi tutta di puttanieri malfattori, privatizzò l’acqua pugliese e abbassò le soglie di protezione sanitaria all’Ilva), gareggiano per baldanza deontologica con quelle di Emilio Fede al guitto mannaro. La genericità fuffarola della retorica del nuovo Cicerone è presa per il disegno del Grande Architetto per un futuro di universale felicità. E quando lo Svendola rivela che il modello di organizzazione, mobilitazione, comunicazione (depredazione?) gli viene da Comunione e Liberazione e che così ispirato si accinge a “sparigliare il centrosinistra” (non la sinistra, intendiamoci, “il centrosinistra”), magari condividendone la pariglia con Fassino, Veltroni, Letta, Bersani, D’Alema, Fioroni, De Luca… quando di queste furbate “il manifesto” fa idolatria su paginoni dopo paginoni, non di “eruzioni di buona politica” si tratta, come diceva il marketing della kermesse vendoliana a Bari e come sussulta emozinato “il manifesto”, ma di ennesima fregatura obamiana. Non è mica per una pur presente ottusità che l’attuale segretario pizzicagnolo del PD e quello più trendy in pectore sincronicamente hanno garantito al principale oltreoceano la continuità ultrasessantennale di mafia, libero mercato, sottomissione, basi e guerre: “Non vorrei che dopo Berlusconi venisse un Chavez”. Pegno pagato. Il ricambio al guitto spennato non è più solo Gianfranco Fini.

Il “manifesto” dal Darfur…
Qualcuno ricorda la Cap Anamur? No? Fate male perché si trattò della prova provata che “il manifesto”, con “Liberazione” al traino, non disdegna a volte di fare da mosca cocchiera alle peggiori trame sanguinarie e predatrici dell’imperialismo. Dabbenaggine, connivenza, inettitudine, opportunismo? Fate voi. Nell’estate del 2004 il mondo intero si commosse sull’odissea di 37 fuggiaschi da un inferno del Darfur appena inventato e lanciato dai servizi di intossicazione occidentali con l’acqualina in bocca per le risorse minerarie di quella regione. Per tre settimane la nave tedesca Cap Anamur si esibì tra Malta e Canale di Sicilia, fino ad approdare, suscitati i necessari clamori mediatici, a Porto Empedocle. Ebbene, non ci fu giornale più assiduo del “manifesto” nel lanciare la mobilitazione di tutti gli umanitari per la salvezza di quegli uomini nei cui occhi ancora si potevano scorgere le fiamme dei propri villaggi bruciati e delle proprie famiglie trucidate dalle selvagge milizie arabe al soldo del governo sudanese, i Janjawid, comandati dai generali al potere a Khartum e teleguidati dai pontefici del “terrorismo islamico”. Fu l’occasione per entrare a fanfare e singhiozzi spiegati nella campagna, poi sostenuta da stronzetti di Hollywood e dal colonialismo umanitarista del mondo intero, di satanizzazione del più grande paese africano-arabo ancora refrattario alla subalternità colonialista, ricco di petrolio e uranio e di rapporti amichevoli con la Cina.

Lasciò perdere, “il manifesto”, quando risultò che di quei 37 robusti africani in ottima salute, organizzati e “pescati” chissà dove dalla Cap Anamur, neanche uno era del Darfur, ma quasi tutti del Ghana e che di villaggi incendiati e famiglie sterminate non avevano visto neanche l’ombra. Tacque anche sulla circostanza illuminante che la Cap Anamur apparteneva a un’organizzazione tedesca di destra, capeggiata dal correligionario di Netaniahu Elias Bierdel e adoperata dal Ministero degli esteri per operazioni “speciali”. Come quando rastrellava Boat People al largo del Vietnam, ovviamente in fuga non da un paese squartato e desertificato dalle bombe Usa all’agente Orange, ma dal solito “inferno comunista”; o come quando gironzolava davanti alle coste albanesi e bosniache per raccogliere profughi kosovari non dalle bombe Nato, ma dalla “pulizia etnica” serba. Un’occhiata in rete ci rivela l’onnipresenza del vascello da “operazioni speciali” di Bierdel ovunque occorra una copertura umanitaria a porcate imperialiste: Somalia, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Corea del Nord… con profughi veri o finti, comunque strumentalizzati.

Mai neanche l’ombra di una Cap Anamur davanti alle coste di Gaza. Ammutolì vieppiù, “il manifesto”, peraltro senza autocritica mai, quando i campi dei due milioni di profughi del Darfur (Bum!) risultarono infestati da ong, tipo la francese “L’Arche de Zoé”, intima del ministro degli esteri francese e macellaio ONU in Kosovo, Bernard Kouchner, impegnate nel rapimento e commercio di bambini. Come a Haiti. Insomma la Cap Anamur non era che uno sporco arnese delle destabilizzazioni propagandistiche a fini di intervento imperiale. Una scelleratezza giornalistica, quella dei cantori della tragedia del Darfur, volta ad attribuire al “criminale Omar Bashir” (conseguentemente incriminato da un Tribunale Penale Internazionale che non si è mai sognato di puntare il mignolo su un governante di guerra occidentale) la guerra civile nel Darfur divorato dalla siccità e in cui si contendevano i residui pozzi nomadi allevatori del Nord e agricoltori del Sud. Un conflitto determinato dai delitti ambientali del capitalismo e che già negli anni ’90 avevo potuto documentare per il TG3. Sul quale si erano poi lanciati, rinfocolandola e armandola, i soliti avvoltoi dirittoumanisti di Cia, Mossad e Pentagono. Sta in Israele, chissà perché, il quartier generale della più irriducibile e sanguinaria organizzazione ribelle, Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (JEM), ultimamente impegnata a far fuori le altre fazioni ribelli che con il governo avevano raggiunto un accordo. Mi era stato facile capire, per quel che avevo girato da quelle parti, che le facce sulla Cap Anamur tutto potevano essere fuorchè darfuriane. Incontrovertibilmente del Darfur lo erano invece per gli occhiuti africanologi del “manifesto”. Che così dettero un significativo contributo, insieme agli attivissimi missionari comboniani e della Consolata, già monopolisti di istruzione e sanità nel Sudan colonizzato, perché l’operazione Darfur di Usa, Ue e Israele annebbiasse i neuroni anche del popolo di sinistra e, una volta di più, stroncasse ogni solidarietà con un popolo aggredito. Proprio come con l’Iraq, o con la Serbia.

…all’Eritrea
Ma quel silenzio del “manifesto” sulla colossale toppata (eufemismo) dei profughi “sudanesi” non era il segno di una mortificazione per l’abbaglio preso. Quando mille voci, seppure di nicchia, ma che insieme fanno un controcanto forte, smentiscono la tua bufala, se non sei in buonafede ti nascondi dietro l’albero e lasci che passi la buriana che ti ha denudato. Poi riparti. Quella del “manifesto” rompighiaccio nella sinistra delle riconquiste imperiali è forse una scelta strategica. Perchè se errare è umano, perseverare è diabolico, per cui a farci capire cosa bolle in quella redazione, restando con i saggi padri latini, repetita juvant. In un luglio affollato e malmenato da golfi messicani, catastrofi militari in Afghanistan, minacce USraeliana di armagheddon finale con una guerra nucleare all’Iran, assassinii a gogò di civili palestinesi, occupazione yankee del Costarica con 40 navi da guerra e settemila marines, sgretolamento dello Stato italiano per merito di una banda di capibastone felloni civili e militari, classe operaia marchionizzata dalle falegnamerie a Mirafiori, carnascialesco carosello su più o meno mordacchia ai media, arrostimento del vivente grazie allo stupro ambientale, e dai e dai e dai, questo catalogo di appelli all’unità della sinistra è stato capace di dedicare per metà mese quasi il 20% della sua foliazione, a partire dalla prima pagina, a una campagna finto-umanitaria e di effettivo razzismo colonialista contro Libia ed Eritrea.

Trombettiere capo il solito Stefano Liberti, con una ripetitività degna di una giaculatoria quaresimale, coadiuvato da affini e sostenuto, oggi come allora, dalla fonte Human Rights Watch, notoriamente autorevolissima perché impeccabilmente allineata dal bucaniere internazionale George Soros alle mosse geostrategiche USraeliane, un’autentico capolavoro imperialista di diritti umani pesati nella bilancia in uso a Washington e Tel Aviv. Obiettivo di seconda fila, la Libia che, di paginone in paginone, assumeva vieppiù l’aspetto del mostro concentrazionario. Un mostro che “ i ragazzi” li teneva in carcere (era un Centro di Raccolta) a Braq, in celle sotterranee (indispensabili per sopravvivere alla canicola del deserto), li picchiava e torturava sistematicamente (non s’è vista una lesione, neanche da capocciata contro lo stipite, all’atto della liberazione), li teneva chiusi per ben due settimane (sei mesi sono i tempi nei nostri villaggi vacanze chiamati CIE). Distratti, i carcerieri seviziatori non s’erano accorti che i “ragazzi” (termine sistematicamente utilizzato per pompare la compassione) regalavano a Liberti giorno dopo giorno ampi reportages sugli orrori subiti tramite… telefoni satellitari. Miracolosamente sopravvissuti a spoliazioni e sevizie. E, dopo averli liberati e forniti di permesso di soggiorno e di lavoro per tre mesi, il despota sodale di Berlusconi Gheddafi li aveva “abbandonati, in pieno deserto”, a Sebha. Ebbene Sebha è la più grande città del sud della Libia, che è poi un paese al 92% desertico.

I 205 più o meno presunti eritrei (ricordiamoci i finti darfuriani della Cap Anamur) erano stati trasferiti a Braq per essersi rivoltati nel centro di Misurata, sulla costa, e per aver rifiutati di riempire moduli di identificazione. Protestavano che erano in tigrino, la lingua del loro paese e che, così, le loro autorità avrebbero potuto identificarli, cosa sommamente pericolosa per i loro famigliari. Dovevano essere in coreano? Accomodanti, i libici gli hanno fatto firmare moduli in arabo (per loro incomprensibili) e poi li hanno liberati tutti offrendogli un lavoro. Anzi, sono arrivati a svuotare completamente tutti i loro Centri di Raccolta. Plauso ai libici, si penserebbe, invasi da mezza Africa sconvolta da disastri tutti di fattura bianca, cristiana, occidentale, ma con diritti umani salvaguardati un po’ meglio dei nostri centri di botte e tormenti di ogni genere? Ma “Il manifesto” non demorde. Da autentico micro-Kipling, Liberti contrappone l’inferno libico al paradiso italico nell’ipotesi che agli eritrei, “alla mercè di ogni sventura in Libia, morte compresa”, venga concesso l’agognato asilo politico.

I profughi di Gaza e Palestina non possono nemmeno fare i profughi, li ammazzano prima. Nessuno dei cinque milioni di fuggiaschi e sfollati iracheni dalla pulizia etnico-confessionale di Usa-Sion-Iran, s’è mai nemmeno potuto sognare ospitalità, figuriamoci asilo politico perché vittima di quella che, dopotutto, non è la democrazia ristabilita a Baghdad? Personalmente mi auguro che a nessuno di questi “perseguitati” eritrei venga concesso alcunché. Mi premono di più i palestinesi, quelli di Guantanamo e Bagram, le minoranze etiopiche di un Meles Zenawi trattato, lui sì, con guanti bianchi da Liberti. La manovra attorno a questi infelici, astuti e manovrati, è evidente: schizzare un lavoro e un soggiorno in Libia per conquistare in Italia lo status di rifugiato politico ed essere gratificati – in tutti i sensi – da palchi e microfoni da cui compiacere i protettori lanciando contumelie sul proprio paese e governo.

Eritrea delenda est
Sistemata la Libia, Liberti scarica feci sul ventilatore indirizzato verso l’Eritrea, obiettivo di prima linea. E’ sempre il modello Darfur. Profughi finti lì, espatriati per sfuggire alle leggi del proprio paese qui, presi in carico dal carrozzone umanitarista, organicamente in coda a colonne di tank e stormi di F-16, per fiancheggiare con la diffamazione le strategie interventiste dell’imperialismo. Sull’Eritrea Liberti non s’è risparmiato. Del resto erano a disposizione la solita grotta dei 40 ladroni dei servizi da cui attingere i tesori della satanizzazione del renitente alla ricolonizzazione, fino alla sua rimozione totale. Nell’Eritrea del "dittatore" Isaias Afeworki si sta come ad Auschwitz. Si affonda nella miseria, si guerreggia da mane a sera, si armano i terroristi somali, si viene schiavizzati nell’esercito a vita, carcere, tortura, stupri, atrocità d’ogni genere si consumano contro gli oppositori. Dal 1993, anno della liberazione dal colonizzatore etiopico, il paese e nella morsa di un tiranno spietato. E per forza: l’Eritrea, nell’angolo geostrategicamente più cruciale del pianeta, tra rotte petrolifere, spedizioni militari, traffici multinazionali di ogni genere, rifiuti tossici compresi, assedio a Medio Oriente e Asia, è l’unico stato nazionale sfuggito al dominio dell’imperialismo e al regime di fantocci despoti e ladroni. Nel Corno d’Africa con la colonia franco-statunitense di Gibuti, la Somalia disintegrata e alla mercè di bombe Usa, invasioni etiopiche, un regime-cliente che non governa che il suo palazzo, una forza ONU di ascari Usa di Uganda e Burundi, minacciato da una rivolta di popolo, l’Etiopia venduta ai devastatori occidentali, retta da un farabutto autoritario che lancia il popolo più immiserito della Terra in aggressioni proprie o su commissione, lo Yemen vassallo, ma scosso da movimenti di emancipazione armati da Nord a Sud, in questo nodo cruciale per le sorti del capitalismo come tollerare un’Eritrea indipendente e sovrana, fuori dal libero mercato, dalle tenaglie di FMI e multinazionali, polo politico delle forze di liberazione di tutta la regione?

Io quell’Eritrea me la sono fatta tutta, a piedi, più volte, in compagnia dei guerriglieri del Fronte di Liberazione, in lotta per l’indipendenza da feudatari medievali o realsocialisti dai primi anni ’60. Li ho visti combattere l’occupante, donne e uomini, ricostruire villaggi e città incenerite dal napalm etiopico, farsi contadini accanto ai contadini, pastori accanto ai pastori, operai accanto agli operai, maestri di scuola accanto ai maestri, sanitari accanto ai sanitari, sopravvivere per anni con un po’ di tè e un boccone di sorgo, quando il villaggio attraversato non offriva una gazzella appena cacciata. Li ho visti parlare di marxismo e antimperialismo a musulmani e cristiani. E poi ho visto l’Eritrea liberata e ripetutamente aggredita dall’Etiopia, nonostante che l’ONU avesse sancito la correttezza del confine difeso da Asmara. Ho visto rimettere in piedi un paese sbranato dal colonialismo, distrutto dalle aggressioni, assediato dal mondo, una cultura riprendere vita nuova, un assetto sociale equo ed economicamente sovrano, l’acqua potabile arrivare a tutti, sanità e istruzione liberi assicurati a ogni cittadino (e non delegati al Vaticano). Si, la gente viene mobilitata per raccolti e infrastrutture, come a Cuba, come nei paesi dove il collettivo non conta meno dell’individuale. Sì, gli eritrei sono a disposizione dell’Esercito dai 18 ai 45 anni. Ma fanno tre anni di leva, misurati per un popolo di 4 milioni e mezzo di abitanti che deve far fronte a un implacabile e armatissimo nemico venti volte superiore. Ma dai 21 anni in poi è nella riserva e viene richiamato solo in casi di emergenza nazionale. Lo stesso accade in Israele. Nulla da dire, Liberti?

Quanto alla repressione, bè se siamo d’accordo che infiltrati, provocatori, disertori debbano essere neutralizzati in un paese assediato e che le massime potenze mondiali vogliono mangiarsi vivo o morto, come lo siamo per Cuba, Venezuela, Bolivia, Gaza, , allora ci sembra compatibile che un destino nazionale di autonomia e sovranità si difenda anche da nemici interni. Fatta, comunque, la tara su tutte le fantasie di prammatica che uniscono nel coro sulla “sanguinaria dittatura” i peggiori gazzettieri Cia e Mossad di Libero, Corriere, Repubblica, Il Fatto, Nigrizia, con gli africanologi della “sinistra”. Africanologi di stampo vittoriano, che, nel solco delle efferatezze razziste degli apologeti delle spedizioni di Graziani e Badoglio, sparano boriose e indignate rampogne su un paese dove c’è il partito unico, dove non si vota se non per i governi dei centri abitati e delle terre, dove mancano campioni dell’onestà di stampa come Liberti, Pagliara, Belpietro, Sansonetti. Lo si chieda a Milosevic, o a Chavez, se aver lasciato, in piena aggressione ed eversione, il 90% dei media in mano alla piovra mediatica dell’oligarchia occidentale, gli sia convenuto. C’entra poi un eurocentrismo di stampo ariano. Un popolo esce con il sangue dalla tirannia colonialista. Ha alle spalle secoli e millenni di difesa dall’aggressore o dall’occupante, con una società fondata su strutture tribali, dove l’unico spazio politico e organizzativo fa capo alla comunità e alla persona che si ritiene più valida a governarla. Ha dovuto saldarsi in un blocco unico e senza crepe, questa società, per attingere alla libertà. Vi è stata guidata da un capo universalmente riconosciuto. E adesso, senza aver neanche annusato la rivoluzione francese, o quella russa, mai avuto idea di partiti e classi, più o meno proni a quello o a quell’altro burattinaio interno o esterno, ecco che il suo giovane Stato, inesperto, ma irriducibilmente sovrano, rifiuta la democrazia borghese che di quei partiti e di quelle classi ha fatto strumento di spartizione predatoria, di dominio assoluto e corruzione morale generale, di subalternità al padrone esterno.
Tutto questo al "manifesto" interessa poco. Lo appassiona molto di più l'analisi, degna appunto del solito paginone didascalico, dell'economista zambiana Dambisa Moyo ((21/7/10), che in lungo e largo ci spiega come l'Africa stia nella bratta, un po' per i suoi governanti corrotti, ma soprattutto perchè non ha copiato il modello - libero mercato, investimenti stranieri, deregolamentazione - che fa così splendidamente sopravvivere il resto del mondo, Usa, Italia e Cina in testa. L'intervistatrice, Linda Chiaramonte, non ha nulla da osservare. Scherziamo, davanti a una tale autorità - master a Harvard, dottorato a Oxford, dirigente della Goldman Sachs, vere scuole di lotte di liberazione e di modelli da copiare - non c'è che da inchinarsi. Pazzesco.
E’ straordinario che le nostre élites, con le mani ancora lorde di sangue e colme dei bottini di avventure coloniali passate, si azzardino, in vista di nuove mattanze predatorie, a dare lezioni di buona politica ai figli di coloro che hanno struprato. E più che straordinario che per costoro l’aiutante di campo con la trombetta e il vessillo dei diritti umani (diritti interpretati alla Obama e da riconoscere solo agli inoffensivi) innalzato davanti a fitte schiere in attesa di attaccare, bianche, cristiane, lo faccia un “quotidiano comunista”. E’ osceno.
Viva l’Eritrea!