venerdì 15 gennaio 2010

AL QAIDA: DA BUFOLA A PANDEMIA IMPERIALISTA. Ma Obama no, non è Bush. E' peggio.













QUESTO E' MORTALMENTE LUNGO. IN COMPENSO C'E' TEMPO. PER UN PO' NON CI LEGGEREMO. SONO IN GIRO PER HONDURAS E AMERICA LATINA FINO AL 10 FEBBRAIO. QUE VOS VAYA BIEN!
YEMEN
Resistenza è la liberazione dello spirito e la sfida alla gravità. Resistenza significa combattere per la speranza, è la lotta per la bellezza. Resistenza è fare delle nostre parole un paesaggio, è vestire lo scenario con suoni che ricordano un linguaggio familiare. Resistenza non è soltanto combattimento, è anche per evocare sentimento, trasformare la rabbia in parole, mettere in parole la rabbia, dare forma a significati e viceversa.
(Richard Jones, “Un pugno di poesia”)

MEDIA SINISTRI
Permettiamo che le più atroci menzogne esternate da prostitute politiche e morali vadano incontestate. Bugie infinitamente riciclate dai media commerciali finchè non si in sediano come verità nella coscienza pubblica. Non seppelliamo le nostre teste nella sabbia, peggio: le seppelliamo nel nostro ano collettivo. Che ve ne pare della vista?
(Charles Sullivan)

Un tempo a nessuno era consentito di pensare liberamente. Ora è permesso, ma quasi nessuno ne è più capace. Ora la gente vuole pensare solo ciò che pensa si debba pensare. Considera ciò libertà.
(Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1926)


Più avanti una decostruzione della montatura dell’attentato sull’aereo per Detroit e sulla conseguente escalation della “guerra al terrorismo”. Prima qualche notarella “di costume”.

Sono quelli che la madornale panzana dell’attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit l’hanno inghiottita, rigurgitata e diffusa ai propri lettori (non tutti creduloni come s’immaginano), senza curarsi minimamente della valanga di dubbi, contestazioni, dimostrazioni al contrario, fatti occultati ma scoperti, prove, lanciata in rete da un esercito di analisti, investigatori, ex-agenti segreti, studiosi di esplosivi, soprattutto d’Oltreatlantico. Coerenti, questi silenziatori di pistole fumanti. Perché sono anche quelli che in nove anni di smantellamento della teoria ufficiale sull’11 settembre, con implicita chiarissima indicazione delle origini interne dell’attentato di “Al Qaida”, con l’abbagliante verifica del cui prodest nell’assalto al mondo musulmano e nella disintegrazione dei principi democratici e giuridici nazionali, non hanno trovato di meglio che sbertucciare come “paranoici” le migliaia di contestatori raccolti nel “Movimento per la verità sull’11 settembre”.
Sono quelli che, con un entusiasmo degno di miglior causa, hanno avvallato – e insistono, alla faccia del ridicolo la sterminata diffusione - ormai onnipresenza ovunque si tratti di abbattere la mannaia USraeliana – del fantoccio Al Qaida, degradando in “terrorismo islamico”, con il cristallino spirito internazionalista connaturato a certi “giornali comunisti”, l’insorgere di interi popoli e masse popolari contro governi pirata, imperialismo, ricolonizzazione, fame, devastazione ambientale. Sono quelli che non hanno saputo, voluto, recepire, a proposito della grottesca e criminale campagna sulla pandemia del virus H1N1 (45 milioni di vaccini acquistati dai complici del ministero della sanità ai banditi farmaceutici coperti dall’OMS, 184 milioni di euro spesi, 35mila fessacchiotti spaventati ad arte vaccinati), esprimere l’alito di un sospetto sull’ennesima ricorrenza di una speculazione sulla paura e sulla collegata sperimentazione di decimazioni di massa tramite vaccini, perlopiù non testati. Sono quelli che al sorgere del sole obamiano dall’orizzonte bancario, petrolifero, farmaceutico, agroindustriale, di mercato predatorio, militarindustriale, hanno inneggiato alla nuove era di pace, pluralismo, dialogo, rispetto, inaugurata dal bel chiacchierone di Chicago con a fianco “l’angelo” Hillary Clinton.

E ancora oggi il buon Tommaso De Francesco, sotto lo straziante titolo “Alla guerra con dolore”, esonera e accarezza il Grande Illusionista, strappandoci lacrime di commozione sul povero Obama costretto ai genocidi dai cattivoni dell’establishment e che, perdio, “No, non è come Bush”! L’inviato nei Balcani, ancora dopo anni di inoppugnabili rivelazioni che i serbi in Kosovo non avevano fatto nessuna “pulizia etnica”, ma che da quella dell’UCK-USA-UE si erano difesi, invano, riferendo dei pogrom albanesi contro i serbi residui, blatera di contropulizia etnica. Oggi ci sciorina questa scenetta alla Margherita Gautier sull’Obama che annuncia l’assalto allo Yemen, la sua quinta guerra in un anno: “Obama ha raggiunto stancamente la tribuna… e ha parlato in modo quasi indeciso, se non impacciato, infastidito con l’espressione di un volto dolente. L’immagine stavolta era il contenuto”. E sapete qual’era il contenuto? L’annuncio di uno nuovo tsunami assassino sull’ennesimo paese islamico e mediorientale da frantumare, lo Yemen, agevolato da quell’opportunissimo pastrocchio combinato dal ragazzotto nigeriano Abdul Mutallab sull’aereo della Northwestern. Per non lasciare margini alla manovra, si prometteva anche di sminuzzare ulteriormente la Somalia, “sodale Al Qaida” degli yemeniti, nonché di riservare futuri trattamenti analoghi ai nuovi paesi dell’Asse del Male: 13 musulmani – viva lo Scontro di civiltà (noi ce lo giochiamo con il nostro Kombinat governativo Mafia-Ku Kux Klan a Rosarno) – e Cuba. Cuba! Con 50 anni di guerra economica, terroristica, biologica, propagandistica contro l’Isola e i terroristi pluriassassini confessi Posada Carilles e Orlando Bosch che scorrazzano di bisca in bisca a Miami, questo Necromonarca si permette di dare del terrorista a Cuba!

Ebbene, caro Tommaso De Francesco, quando l’arnese di Wall Street proclamato “santo subito” dalle tue colleghe femministe, passa dalle due guerre di Bush, Iraq, Afghanistan, alle cinque sue, Iraq (110milamercenari, 50mila soldati in permanenza nelle 12 basi e un governo burattino di lestofanti), Afghanistan, Pakistan, Somalia, Iraq, con in lista d’attesa quel che resta dei 14; quando riesuma le glorie yankee dell’Operazione Condor in America Latina, grondanti del sangue di milioni, con colpi di Stato, riuscito in Honduras e tentati in Venezuela, Bolivia, Paraguay, sette basi d’assalto e di smistamento droga in Colombia, altre nelle Antille olandesi, flotte d’attacco addosso alle coste del Cono Sud, destabilizzazioni con finti movimenti di diritti umani o secessionisti dall’Iran a tutta l’America Latina; quando lancia l’offensiva africana istituendo l’Africom per istituzionalizzare quanto già stanno facendo le milizie fantoccio e le proprie “forze speciali” in combutta con quelle israeliane per la distruzione del continente; quando straparla di chiudere Guantanamo e non la chiude; quando conferma la pratica brigantesca dei rapimenti della Cia con destinazione prigioni della tortura; quando compie la più grande macelleria sociale dai tempi della crisi del ’29, scaricando le efferatezze dei suoi sponsor su milioni di disoccupati; quando fa passare per storica riforma sanitaria un ulteriore fetta di mercato regalata alle assicurazioni private e l’esclusione anche da questo “beneficio” di 35 milioni di persone; quando a Copenhagen proietta l’umanità intera – animali compresi – nell’estinzione prossima ventura, rifiutando qualsiasi misura di salvezza dalla catastrofe incombente, per salvaguardare le piscine di latte di asina in cui sguazza un ventesimo della popolazione umana… quando fa tutto questo diventa osceno mimetizzare la propria collusione oggettiva dietro alle “grandi, generose, elevatissime aperture che il presidente nero ha offerto ai musulmani al Cairo, ai latinoamericani a Trinidad, agli africani nel Ghana”. Una volta di più le chiacchiere stanno a zero e puzzano d'imbroglio come carogne.

Quando uno cammina come un papero, nuota come un papero, fa quà quà quà come un papero, è un papero. Ha voglia quella roba catto-eurocentrica di Lettera 22 di strizzare gli occhi, in ambivalenza bipartisan, a destra e sinistra, deplorando gli “eccessi militari” degli occupanti in Afghanistan, ma contrapponendogli truffaldini sondaggi dei trombettieri embedded BBC che, in un paese all’80% sotto controllo della Resistenza, vorrebbero dare il 71% a coloro secondo cui il paese sotto Karzai, Usa e Nato “va nella giusta direzione”, il 68% a coloro che ritengono positiva la presenza delle truppe straniere, e la maggioranza delle vittime civili, non ai massacratori quotidiani con droni e F16, ma nientemeno che ai “terroristi”. Senza pudore Emanuele Giordana sul “manifesto”, per il quale, come per le colleghe Sgrena e Forti, Al Qaida è la parola più gustosa e più frequente, non vede che terroristi di Osama bin Laden e di Mullah Omar ovunque in Afghanistan vi sia chi è incazzato con gli stragisti trafficanti di oppio a stelle e strisce che stuprano il paese. Alla stessa maniera si era proceduti In Iraq, dove una resistenza antimperialista e antisionista indomabile (e recentemente nuovamente in grande spolvero), veniva esorcizzata in Al Qaida, onde criminalizzarla anche gli occhi dei pochi che ancora parlavano di partigiani e di Resistenza. Stefano Chiarini, che ha insegnato al colto e all’inclita, da quelle stesse pagine, chi è terrorista, chi è Al Qaida e chi è partigiano della liberazione, gira ormai come una trottola nella sua prematura tomba.
Dalla costola di Obama, Bonino.
In questo senso una papera che più papera non si può, è la candidata unitaria di tutte le sinistre alla presidenza della Regione Lazio. Si tratta di un progresso: dall’ amante di transgender, alla transgender vera e propria. Transgender della politica. Strizzati i successi su divorzio e aborto come limoni, si è mutata nell'altro genere: quello che, da Obama fino ai nostri guitti mannari, pratic diritti umani, sociali, ambientali piuttosto anomali, a partire dalla lotta referendaria all’articolo 18, passando per il neoliberismo manu militari, fino alle incessanti cospirazioni “transnazionali” per frantumare paesi disobbedienti all’Impero, mobilitandone le degenerazioni reazionarie, etniche e religiose (Dalai Lama e co.). e fino al sostegno alle mattanze belliche USraeliane con corredo di ascari nostrani. Logico che per una Bonino, che sta a Israele come l’avvocato Ghedini sta a Berlusconi, si infervori un sionista come l’editorialista di Repubblica, Mario Pirani. Sta nel suo. Ma che noi si debba vedere quel nostro caro giornale transitare disinvolto dalle adorazioni per Bertinotti, a quelle per D’Alema, Obama, Vendola, fino a Bonino, cioè a quanto di più micidiale si innesti sottocute nella sinistra, beh, non ci sono parole. Definire costoro sinistra, o anche solo ossimorico centrosinistra, è come dare dell’ islamico al dipartimento Cia-Mossad “Al Qaida”. Piccolo, ma significativo simbolo di servilismo coloniale è la traslitterazione del termine, che in arabo si pronuncia come lo scrivo io – Al Qa’ida – in Al Qaeda, assoggettandosi alla grafìa inglese che pronuncia “i” la “e”. Se poi uno ha sentito cantare Julio Iglesias, arriva anche a sillabare “Al Quaeda”. Pensare che furono gli arabi a insegnare Socrate e Archimede a nostri antenati più svegli di noi.

Tra gli ultimi episodi di un giornalismo organico all’editore imperiale di riferimento, oltre all’entusiastica partecipazione alla deformazione in “Al Qaida” della sacrosanta e felice proliferazione universale di renitenti a regimi corrotti, venduti e oppressivi e al loro sistematico padrino USraeliano, c’è l’indefettibile adesione all’interpretazione di atti terroristici dalle luccicanti impronte digitali USraeliane come operazioni islamiche. Commovente è stato in questi giorni lo sforzo dell’onnipresente lobby ebraica per scovare dietro agli ultrariconoscibili lavoretti assassini di Mossad e Cia, sospetti, elementi, alla fine “prove”, di un’origine opposta, cioè nemica, del fattaccio. Anni fa rifulse l’esempio dell’assassinio di Rafik Hariri, primo ministro libanese, di chiara matrice Mossad, e attribuito dal rullo compressore mediatico-giudiziario alla malvagia Siria da estromettere dal ruolo di garante e difensore del Libano arabo.

Così oggi, fatto saltare in aria uno scienziato nucleare iraniano, ravanando tra dati spuri o remoti, si riesce a trovargli un’antica firma sotto un appello alla democrazia e, addirittura, una partecipazione a un convegno internazionale nientemeno che alla presenza anche di tecnici israeliani. Conclusione: "il luminare della ricerca per il nucleare civile iraniano è stato fatto fuori dai suoi stessi datori di lavoro per i suoi nobili propositi democratici e filoccidentali". Peccato, poi, che un gruppuscolo mercenario monarchico, l’Iran Royal Association, abbia avuto l’intemperanza di rivendicare l’attentato. Peccato, perché la sede dei nostalgici dello Shah è Washington. Come quella del Dalai Lama, di Aung San Su Ky e di tutti gli altri terminali esterni della piovra Usa.
Figurati se qualcuno, tra questi formidabili analisti e investigatori geopolitici, si preoccupa di tirar fuori dal debordante cassetto della rete la fenomenologia planetaria degli omicidi mirati israeliani. Bastava dare un’occhiatina all’Iraq, dove l’intera classe intellettuale e professionale a cui incombeva il benessere e il progresso del paese – accademici, scienziati, sindacalisti, artisti, medici, tecnici di qualsiasi branca – è stata sterminata da squadroni della morte israeliani. Squadroni della morte e guerrieri della bassa intensità guidati da esperti israeliani anche in Honduras e in tutta l’America Latina. Nomi e cognomi sono noti e addirittura vantati. Rischiando, per i più avveduti, il depistaggio sul botto mossadiano di precipitare nel ridicolo, si è ricorso al riscaldamento di una zuppa, già scoperta avariata: l’Iran si starebbe segretamente rifornendo dal Kazakistan di uranio purificato, confermando così le sue aspirazioni alla bomba. Grande fantasia, questi creativi Cia-ssad. Già, proprio come come con Saddam, che rimasto con quattro cannoni arrugginiti sovietici, avrebbe organizzato per un suo arsenale nucleare una spedizione di uranio arricchito dal Niger. Cioccolatino tossico incartato dal nostro Sismi e offerto in pegno d’amore alla Cia. Che, quella volta, se ne disfece subito perché troppo rozzo, addirittura per chi aveva preteso che torri fatte saltare da fondo a cima sotto gli occhi di mille camere, fossero crollate per l’impatto di aerei.

Quello che non ci hanno detto di Abdul Mutallab e dell’ennesimo prodigio del “terrorismo islamico” targato Cia-ssad.
Passiamo all’episodio yemenita. Quanto sopra è semplicemente propedeutico e omogeneo a come, piatti come sogliole, i media “antagonisti”, quanto meno “critici”, quanto ancor meno “riluttanti”, si sono offerti a questa sequenza di balle a giustificazione della distruzione di altri paesi, per loro sfiga collocati in irrinunciabili zone strategiche per il dominio imperialista. E’ anche occasione per stringere sempre più il cappio totalitario della paura-sicurezza sulle proprie popolazioni. Umar Faruk Abdul Mutallab, si è detto da tutti, era incomprensibilmente passato per le maglie dei 16 enti d’intelligence Usa, del MI 6 britannico e del solitamente infallibile Mossad. Si sono perse tra i puntini che, per Obama come esattamente prima per Bush, “i servizi non hanno saputo collegare” le innumerevoli segnalazioni sulle sue liaisons dangereuses con “gli estremisti” yemeniti, ovviamente di Al Qaida, dalla funzionale segnalazione del papà, tycoon nigeriano in combutta d’affari con Israele, ai rapporti inglesi, alle intercettazioni Cia. Non si è sufficientemente scandagliato il suo passato indubitabilmente sospetto perché “giovane”, “istruito”, “borghese”, “globale”, “studente nelle nostre università” e dunque molecola di quel nuovo organismo terroristico che alligna ovunque, non solo nelle gole dell’Afghanistan o tra le macerie irachene, ma addirittura vicino o dentro casa nostra. La peste è tra noi, non solo nera e non solo con kefiah o turbante. Ora anche quella che scrive queste cose in internet. Per la maggiore soddisfazione anche di Maroni e dei despoti in fieri o in atto che fanno crescere le loro fortune dal fertile terreno della paura collettiva, coltivata come un fiore. Così, esattamente come con l’11 settembre, di cui valanghe di anticipazioni, da parte di chi evidentemente non era stato informato sul modus operandi, si sono abbattute su Casa Bianca e Langley, senza che nessuno si avvedesse che grandinava. E’ il modo più spiccio per soffiar via anche solo l’ombra di una perplessità su auto-attentati troppo smaccatamente faciloni: ogni dubbio viene vanificato dallo scaricamento della colpa su servizi “che non hanno saputo collegare i puntini”. Poi, passata la festa, gabbato lo santo: qualche straccetto vola, i soliti, i fidati, rimangono. E il “manifesto” può titolare “A CACCIA DI AL QAIDA”, anzi di “Al Qaeda”, mentre in una colonna a fianco lamenta, in coro con Obama, “l’eterno problema del coordinamento dei servizi”. Tutti se non d'amore, d'accordo.

Ma vediamo un po’ di fare le pulci, che spetterebbero a tanti altri propugnatori del “giornalismo vero”, alla storiella di Umar Faruk, quella che ha consentito agli Usa di estendere alla penisola arabica e alle opposte sponde somale (domani anche eritree) il modello israeliano di pulizia etnica, costruzione di muri, assassini mirati, bombardamenti di civili, punizioni collettive e sorveglianza totale. Prima di salire sull’aereo per Detroit, con a bordo le 300 persone con la cui morte infiammare gli spiriti bellici nordamericani ed europei, testimoni vedono Mutallab, privo di bagagli, al check-in, accompagnato da un elegante signore di “aspetto asiatico” che, lamentando la mancanza di passaporto del “giovane profugo sudanese”, da un addetto dello scalo – che è sotto la solita fittissima sorveglianza di una ditta israeliana ! – ottiene i consenso all’imbarco, pagando in contanti, al momento, con 2.800 dollari.

Senza passaporto! Sotto gli occhi degli scagnozzi israeliani! Mentre sta in una lista di sospetti di legami col terrorismo che vieterebbe il suo imbarco su qualsiasi aereo dell’occidente atlantico. Non aveva il passaporto, Umar Faruk, ma era ancora valido il suo visto per gli Usa, mai cancellato nonostante si trovasse su quel famoso elenco. Miracoli della distrazione? Come quella che permise al giovanotto di entrare in Olanda senza passare per la dogana, cosa impossibile se non coperta da un servizio segreto.

Ma il bello capita sull’aereo. Testimoni vedono – e raccontano – un uomo che, dieci file dietro a quella di Mutallab, si alza, attiva la sua videocamera un attimo prima che il nigeriano inizi la sua dissennata operazione. Qualcuno sapeva. Qualcuno dava il segnale di via al soggetto operativo, costui probabilmente un Manchurian Candidate teleguidato e inconsapevole – “assente” come lo hanno definito i passeggeri - di quanto gli stavano facendo fare. Quanti film ce l’hanno spiegato. C'era qualcuno che sapeva anche di non rischiare la propria disintegrazione insieme a quella dell’aereo. Un altro deus ex machina come quello del check-in di Amsterdam, o delle dogane di quell’aeroporto, di tutti quelli che si sono accesi i sigari con i rapporti dell’intelligence. E neanche un sedile bruciacchiato. Poiché, secondo l'ultimo esperto di congegni esplosivi, quei 50 grammi di esplosivo PETN cuciti nelle mutande al massimo avrebbero potuto provocare una fiammata da bruciare a Mutallab poco più dei peli del pube. Altro che aereo e 300 vite polverizzati.

L’FBI che, nel corso delle indagini – subito supportate da rivendicazioni di Al Qaida, ovviamente genuine come quelle dell'Al Qaida irachena che provenivano da un server di siti porno del Texas – ha cambiato versione quattro volte. Non ha mai interrogato l’asiatico di Amsterdam, né i passeggeri che avevano visto il “guardiano” dell’attentatore, E, davvero drammatico, non ha tenuto in alcun conto la scoperta, incontrovertibile, che al congegno del confuso terrorista mancava il detonatore. Per cui, al di là di sfiammeggiare, non sarebbe mai potuto esplodere e arrecare danno all’aeromobile. Sono voragini nella versione ufficiale, pari a quelle spalancate dalle più semplici delle domande nel rapporto del Congresso sulle Torri Gemelle. Voragini enormi, ma strette come la classica asola, impenetrabili, per chi coltiva le abitudini di cui alle seconda delle citazioni in testa. E c’è anche la classica ciliegina in cima al gelato di fuffa: una foto di Abdul Mutallab con una bandiera di Al Qaida. Prodotta dalla stessa impresa che si era fatta notare per aver realizzato con il photo-shop falsi sfondi a immagini di terrorismo. Siamo ai livelli, oltreché degli attentati di New York e Londra, del povero Richard Reid, il bombarolo con le scarpe imbottite di cosa non si è mai saputo, o dei famosi dieci aerei tra Londra e gli Usa da abbattere con lo shampoo, in un’estate che vedeva Tony Blair in gravi angustie per le rivelazioni sugli incontri con Bush in cui si elaboravano falsi pretesti per attaccare l’Iraq.

Poi c’è l’elemento “umano”, l'aspetto psico-sociologico. Ci si chiede di credere che un giovane fortemente privilegiato, nel fiore degli anni, vissuti su una via imbottita di Mercedes e Ferrari, nel quartiere più “in” di Londra, in pieno edonismo occidentale e niente affatto sotto la ferula di imam della jihad, viene subitaneamente preso dall‘urgenza di immolarsi per uno scontro di civiltà che nessun musulmano – se non idiota o mercenario – ha mai voluto e che invece costituisce la ragione d’essere del tardo capitalismo necrofago. Ci si chiede di credere che i 40 miliardi di dollari spesi dal 2001 dal contribuente Usa per la sicurezza del trasporto aereo, non siano sufficienti. E ci si chiede, spudoratamente ma anche umoristicamente di credere che tutto l’ambaradan allestito ora a vessazione dei passeggeri, con i fascistoidi, ma remunerativissimi, bodyskanner di ditte israeliane (ordini per tre milioni di dollari), serva a garantirci spostamenti tranquilli. Già perché quelli della jihad solo agli aerei mirano. I treni, le corriere, gli stadi, i teatri, le chiese, i monumenti, li snobbano, li lasciano ai buzzurri del nostrano Kombinat mafia-regime e alle sue stragi di Stato. Secondo il fanatico ultradestro Joe Lieberman, senatore Usa ma rappresentante israeliano, e addirittura il 70% dei cittadini statunitensi, avanguardia intelligente del resto del Nord del mondo, c’è da crederci e c’è da portare subito la democrazia in Yemen. Assolutamente. E c’è da andare a picchiare altri musulmani collocati là dove all’Occidente serve far girare il timone della sua flotta pirata.

Sotto il naso degli yemeniti passa l’80% del tossico sangue che fa camminare lo zombie capitalista. Da un lato c’è lo stretto di Bab el Mandeb che apre verso il Mar Rosso e l’Occidente, senza dover passare per il remoto Capo di Buona Speranza. Dall’altro, si è sentinella dello Stretto di Hormuz e del Golfo che stanno tra i due massimi produttori di petrolio del mondo, penisola arabica e Iran con bacino del Caspio. Di fronte, con incastrata la base franco-statunitense di Gibuti, già tracimante armigeri Usa e francesi, si affacciano due paesi da sistemare: l’Eritrea sovrana e impertinente, che neanche lo sbirro etiopico è riuscito a domare. E la Somalia, che infastidisce perchè avviata a essere liberata da una forza nazionale islamica, rischiando di cessare di essere un non-Stato e una zona franca per traffici di armi, droga e rifiuti, come la vuole l’Occidente fin dalla caduta di Siad Barre e dalla sconfitta del patriota Farah Aidid che nel 1991 aveva spedito a calci il fantoccio yankee dai suoi padroni Usa e sodali italiani (cosca Craxi-Forte). Da qui si controlla il Mar Arabico, il transito verso l’Oceano Indiano e il brezinskiano “cuore del mondo”, l’Eurasia di Caucaso, Caspio, repubbliche islamiche, Russia e Cina. Lo Yemen è l’ombelico strategico del pianeta. Ed è anche la sponda meridionale del più vasto oceano di petrolio del mondo. Pare che pure la sua periferia desertica custodisca riserve di idrocarburi superiori a quelle saudite. Vuoi che gli apprendisti dello stregone israeliano non ci piazzino una bella Al Qaida? E che subito l’uomo adorato dalla-cara-a–Lerner (“a morte i razzisti, salvo se israeliani”) - Ida Dominijanni e comparielle/i, scatenasse ferro e fuoco sui civili del Nord dello Yemen, ancor prima della bruciacchiatura di Mutallab: due missili, 100 donne e bimbi inceneriti. Tutti Al Qaida.

Ci vogliono ulteriori motivazioni per chi del cannibalismo umano e ambientale ha fatto la propria pratica di relazione con coloro che stanno fuori dai salotti, dai comandi, dai consigli di amministrazione? Forse sì. Per esempio il precipitare di Obama, per le sue malefatte, sotto il 50% del gradimento pubblico, proprio come Bush prima dell’11 settembre. La necessità di aumentare gli stanziamenti militari alla cifra record di oltre 708 miliardi di dollari, oltre un trilione se si includono le spese collaterali e occulte. E questo alla faccia di milioni di disoccupati e ridotti in miseria. Come buona ragione per proseguire l’opera di Bush non c’è male. No, Obama non è Bush. E Berlusconi non è Craxi. Macchè. Sono peggio.

E dagli allo Yemen
Ho vissuto nello Yemen al tempo della divisione tra un Sud, passato da colonia britannica alla rivoluzione socialista, e un Nord che un presidente illuminato, Ibrahim El Hamdi, tentava di mantenere nella scia del migliore nasserismo. In entrambi i segmenti una popolazione tra le più fiere e combattive del mondo arabo, da sempre a fianco di palestinesi e iracheni. Già allora, fine anni ’70, l’Arabia Saudita brigava per conto suo e dell’Occidente a dividere il paese, sobillando la stessa minoranza zaidita scita, oggi chiamata col nome di un leader, Al Houthi, allora contro quel governo che si rifiutava sia alle mire espansionistiche saudite, sia alla normalizzazione che ha visto quasi tutti i paesi arabi piegarsi via via ai piani neocoloniali dell’imperialismo-sionismo. El Hamdi fu fatto fuori da un sanguinario burattino degli Usa, tale generale Al Ghashmi, poi a sua volta defenestrato da un personaggio altrettanto obbediente, ma meno impresentabile, il primo ministro Ali Saleh, da allora presidente e corrotto tiranno del paese riunificato nel ’90. Ne feci le spese pure io, colpevole di essere stato onorato dell’amicizia di El Hamdi e di aver scritto cose irriguardevoli nei confronti dei golpisti su Repubblica, L’Espresso e The Middle East. Espulso su due piedi.
Ma gli sciti di Saada, nel Nord, ci avevano preso gusto a osteggiare governi centrali che più che mai li relegavano in un abbandono e un sottosviluppo perenni, stavolta contro gli interessi di sauditi e relativi sponsor i quali, invece, si erano accomodati con il malleabile satrapo di Sanaa. Da qui la rivolta Houthi, la risposta stragista di Riad e l’inalberarsi di tutto l’Occidente contro questo nuovo focolare di “Al Qaida”. Al Qaida nella Penisola Arabica, con tanto di sigla AQPA, come già l’Al Qaida nel Maghreb, AQM, Al Qaida nel Sahara, Al Qaida nell’Iraq, Al Qaida in Afghanistan, con analoghe sigle, insomma ovunque la bulimia necrofora del Pentagono volesse piazzare le ruote del carro di guerra che tira l’economia delle élites. Compresa Al Qaida in Italia, dove quelle ruote girano già, ma devono crescere e correre di più. Cosa automatica al tempo in cui nessuno osa più ricordare la parola d’ordine della madre di tutte le liberazioni: Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia.

Al Sud, nell’ex-Repubblica popolare, amica dell’URSS, le istanze progressiste non si sono mai esaurite e hanno prodotto ripetuti episodi di guerra civile con il Nord. Oggi, alla contestazione armata degli sciti si unisce, anche con figure di punta presenti in entrambe le lotte, quella nuovamente secessionista del Sud, già forte di numerosi successi contro il governo centrale e responsabile del memorabile attacco all’incrociatore Usa “Cole” nel 2000, pedissequamente attribuito… a chi? Indovinate un po’. Si prospetta in questo popolo, che tiene alla sua sovranità e indipendenza come pochi altri, al suo arabismo tanto da essersi sempre trovato al fianco di palestinesi e iracheni (e l’Iran non c’entra niente, ma ce lo fa entrare per forza la frenesia israeliana di arrivare finalmente alla deflagrazione finale), la congiunzione tra forze di opposizione islamiche e laiche-socialiste. Una situazione da allarme rosso per l’Impero, intollerabile. E da provocare crisi di isteria in coloro che usavano la clava un po’ floscia dei palestinesi di sinistra per dare addosso a Hamas.

C’è lì un presidente come Ali Abdallah Saleh, che controlla poco più della provincia intorno alla capitale e che, per mantenersi in sella, deve guardarsi da tutti i lati: là le pressioni Usa per l’irachizzazione dello Yemen, qui una popolazione che, esclusa la banda di faccendieri e notabili che col capobastone condivide il saccheggio della più povera nazione della regione, nella sua stragrande maggioranza rifiuta la presenza di militari, basi, contractors Usa e promette di combatterla fino all’ultimo uomo. Due giorni fa, le 157 più autorevoli personalità religiose del paese hanno promesso una jihad totale all’eventuale invasore Usa, credibilissima alla luce di un antimperialismo d’annata, ma anche del secolare odio per gli espansionisti della ottenebrata monarchia saudita. E subito l’ondeggiante e traballante Saleh, accettato il contributo Usa in intelligence e materiali (150 milioni di dollari obamiani dal niente di Bush), denuncia due episodi di seguito che vedono la cattura di provocatori presunti Al Qaida collegati a cellule israeliane. Mentre il suo ministro degli esteri, sventolando cataste di “terroristi” uccisi, catture di capi Al Qaida e quant’altro, dice agli statunitensi che sbavano intervento: “Statene fuori, ci pensiamo noi”. Cerchiobottismo di prima classe.

La maggioranza degli yemeniti ha meno di trent’anni, campa di agricoltura di sussistenza e di un po’ di pesca (le rendite petrolifere finiscono in alto), e non ha nessuna prospettiva di un futuro di riscatto. Nel 2009 la disoccupazione stava, ufficialmente, al 40%. Il paese muore di seta ed è disabilitato dalla mancanza di infrastrutture. Basterà l’entità sintetica inventata e gestita dalla Cia, Al Qaida, a disinnescare e sopprimere questi bisogni e le astanze che ne sorgono? Basterà l’effetto farfalla per cui un pantalone prende fuoco su un aereo per Detroit e missili piovono sullo Yemen? Basterà per una bella pace dei morti?

C’è anche l’effetto farfalla di un Obama che deve distrarre un suo elettorato sbigottito, alleati perplessi e popoli furibondi, magari con il “disastro naturale” di un terremoto sterminatore a Haiti. Sarà pure un disastro naturale, chissà, ma le condizioni perché arrivasse quell’apocalisse sono state tutte meticolosamente fabbricate da Obama e da suoi predecessori durante due secoli. La disumanizzazione con spaventose dittature, i Duvalier cari a Madre Teresa, il ripetuto intervento violentatore con la rimozione di capi di Stato usciti dal seminato delle multinazionali, l’occupazione definitiva con un contingente ONU dalla solita obbedienza Usa e che ha raso al suolo i quartieri della miseria, Cité Solei, decimandone gli abitanti, hanno preparato il banchetto del sisma. Non si è astenuto proprio nessuno dal plotone di esecuzione che doveva giustiziare Haiti per aver avuto la sfrontatezza blasfema di fare la prima rivoluzione di neri nel continente e di fondare la prima repubblica nera libera, nel 1802.
Due cicloni poco prima avevano già fatto migliaia di morti. Gli stessi cicloni abbattutisi su Cuba non ne hanno fatto neanche uno.

Gaza: fuffa e ciccia.
Chiudo con uno sguardo un po’ più a Nord, Cairo-Gaza-Tel Aviv, là dove i gironi degli assassini e degli ignavi stanno lavorando per far sparire la Palestina in un buco nero cosmico.

Mi ero iscritto anch’io alla spedizione della “Gaza Freedom March” di Capodanno. Poi è venuto fuori, con rammarico per i tanti bravi partecipanti in ottima fede, che tra gli organizzatori principali c’erano le squinternate femministe americane di Codepink, reduci dall’approvazione dell’occupazione Usa in Afghanistan, “purchè Obama non aumenti gli effettivi”. Per l’Italia, Un Ponte per, collateralista degli occupanti in Iraq con la farsa delle Simone, frequentatore di arnesi del collaborazionismo e diffamatore di Saddam, nonché Action for Peace, avventatasi all’ultimo momento, tirata dall’ego mongolfierico di Luisa Morgantini. Quei non-violenti cari all’ANP di Abu Mazen e che ogni anno invocano il “dialogo” tra carnefici e vittime con una marcetta a Gerusalemme di quattro pacifisti israeliani e internazionali. E mi sono cancellato. Se non fosse stato per i pressanti impegni, schizzati da tutti gli altri, pacifisti compresi, per Honduras e America Latina, sarei andato volentieri con la fenomenale terza spedizione di 500 attivisti più 250 camion di aiuti, del deputato britannico George Galloway. Quello che spera che i palestinesi facciano come gli ebrei del ghetto di Varsavia.
Mentre i 1.400 della spedizione non-violenta si facevano bloccare e picchiare pacifisticamente dagli sbirri di Mubarak al Cairo, e nessuno al mondo ne ha parlato, i compagni di Galloway, dopo un mese di andirivieni, nel porto egiziano di El Arish si sono scontrati a sangue per due giorni e due notti con quegli sbirri, imponendo alla fine di passare ed entrare a Gaza. Già l’altra volta, quando c’eravamo anche noi, avevano sfondato a cazzotti le barriere della polizia. Alla concessione bastarda di Mubarak di far entrare a Gaza solo una piccola frazione dei volontari, Galloway e gli altri 500 avevano risposto “o tutti o nessuno”. E hanno vinto, a forza, non levando in alto le mani e neppure mettendo fiori nei loro cannoni.

Provocatori, direbbe qualcuno di tradizione togliattiana, o qualche cultore della “società civile”. Già, provocatori proprio. Provocatori di una crisi di consenso per il tiranno-vassallo egiziano. Crisi che già rumoreggia da tempo all’ombra delle piramidi e che, con l’eventuale massacro, a due passi da Gaza, di sostenitori internazionali della vita, ma anche della resistenza dei “fratelli palestinesi”, avrebbe subito una pericolosa accelerazione. Mubarak non se l’è potuta permettere, a dispetto delle furibonde pressioni USraeliane. Bravo Galloway. Al notabilato della marcia dal Cairo resta la vergogna di aver accettato l’offerta, cucinata da Codepink con la First Lady egiziana, di far entrare un’ottantina dei 1.400 e tutti gli altri a farsi fottere. Insieme a Codepink ha accettato la mongolfiera. Cosa non si fa pur di presenziare. Lo sdegno degli altri, forse uno strisciante senso di sputtanamento storico e, soprattutto la frustata in faccia data con toni morbidi dai dirigenti palestinesi del Movimento per boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, primo Omar Barghuti, hanno affossato la fellonia. Ci facciamo sempre riconoscere.

domenica 10 gennaio 2010

USA-HONDURAS-AMERICA LATINA: lo scontro finale e il nostro silenzio




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E’ di certe nature umane odiare la persona cui si è fatto del male
(Tacito)
Il desiderio di resistere all’oppressione è impiantato nella natura dell’uomo
(Tacito)
Un terribile crimine è stato commesso per l’iniziativa cinica di alcuni individui, con la benedizione di molti altri e nell’acquiescenza passiva di tutti.
(Tacito)


Abissale, stupefacente, suicida il silenzio, l’indifferenza che, tranne poche eccezioni – PdCI e manifesto – con cui la sinistra, addirittura l’informazione tutta, ha occultato e dunque seppellito un avvenimento drammatico e foriero di incalcolabili conseguenze, come il colpo di Stato fascista in Honduras. Golpe allestito da Obama, l’uomo del “change”, dai militari gorilla e dall’oligarchia honduregni, poi presentato come evoluzione “democratica” dopo le elezioni-farsa tenute sotto le baionette degli quadroni della morte, con la minaccia di licenziamenti e persecuzioni, ma disertate da due terzi dei cittadini. Era successo la stessa cosa sotto Reagan in Cile. Ci ricordiamo degli scioperi della CGIL, del blocco delle navi cilene, del boicottaggio, dei cortei, presidi, picchetti, di “Armi al MIR”, quando Pinochet ammazzò Allende e il Cile? Meglio non specificare cosa ci sarebbe da dedurne. Un'altra caduta del nostro internazionalismo e antimperialismo. Ci occupiamo più di Myanmar che di un continente fratello a quattro secchi d’acqua e otto ore di volo da qui. Una terra che per molti è “il Continente della Speranza”. Forse ignorato perché implicita misura della nostra astenia.

Il golpe di Roberto Micheletti, presidente fellone del Congresso, istigato tra falsi arricciamenti di naso di Obama e poi confortato dal suo assenso, dopo finti negoziati di pace e di riconciliazione sceneggiati dalla Clinton e dall’Organizzazione degli Stati Americani (di netta obbedienza yankee), e stato poi sacralizzato con elezioni gestite dagli stessi militari che, usciti dalla base Usa di Palmerola, hanno compiuto il golpe sequestrato il legittimo presidente Manuel Zelaya, lo hanno deportato in Costarica e poi assediato nell’ambasciata brasiliana fino ad oggi. Da questo voto-truffa è uscito vincitore Porfirio – Pepe- Lobo, esponente dell’ultradestro Partito Nacional. Primo provvedimento: l’uscita dall’ALBA, l’Alternativa Bolivariana delle Americhe lanciata da Hugo Chavez con la partecipazione di nove paesi del Cono Sud e dei Caraibi. L’entrata nel concerto progressista e rivoluzionario dell’ALBA , insieme alla cancellazione di tutti i provvedimenti di emancipazione sociale, indipendenza nazionale, limitazioni alle multinazionali, è stato, alla fine di tre anni di mandato di Zelaya, il fattore scatenante, la classica goccia, per l’intervento pinochettista di Washington e delle famigerate “Dieci Famiglie” di feudatari e speculatori che controllano il paese di 7 milioni e mezzo di abitanti. Il più povero, perché il più depredato, delle Americhe, dopo Haiti.

Questa è la brutta notizia. Quella buona è enorme ed è rappresentata dalla straordinaria Resistenza che il popolo honduregno, pur decimato negli anni’70 e ’80 dai Contras che Reagan lanciò a sterminio dei sandinisti del Nicaragua e delle sinistre honduregne, ha saputo mettere in piedi e mantenere in piazza, in ogni parte del paese, durante tutti i mesi di dittatura e stato d’assedio fino ad oggi. L’ultima grande manifestazione di centinaia di migliaia a Tegucigalpa si è svolta, a dispetto degli assassini mirati, dei desaparecidos, dei sequestri di persona, delle torture, della soppressione dei diritti civili, il 7 gennaio scorso. Le decine di movimenti sociali e sindacali che hanno composto fin qui il Frente Nacional de la Resistenza al Golpe de Estato, con un inusitato ruolo di punta delle donne, si sono ora dati per programma una lotta di lunga durata che veda il consolidarsi di un soggetto politico democratico anticapitalista, antimperialista e anti-oligarchia, nella prospettiva di uno scontro decisivo in vista delle prossime elezioni presidenziali.

L’ignavia di tante forze che si proclamano antimperialiste è tanto più grave se si pensa che i fatti dell’Honduras rappresentano, nell’analisi di tutti i più qualificati commentatori, come anche apertamente nelle campagne propagandistiche degli Usa, il primo episodio di un ritorno all’Operazione Condor, la sanguinaria strategia kissingeriana per imporre in tutta l’America Latina, attraverso feroci dittature, un libero mercato controllato dalle proprie multinazionali, a rapina delle risorse continentali: petrolio, gas, agroindustria, minerali, legname, acqua, biodiversità, immigranti schiavi di stampo rosarniano. E a gestione monopolistica della droga. Sette basi in Colombia, con il corollario di forze speciali Usa, come al solito immuni da incriminazione per ogni genere di delitto, per la guerra elettronica e di bassa intensità (affidata a esperti israeliani), in ispecie contro il Venezuela; nuove basi militari nelle Antille olandesi, sempre ad accerchiamento del Venezuela, capofila con Cuba della spinta rigeneratrice latinoamericana; addestramento di paramilitari colombiani all’intervento di sostegno a destre fasciste (già impiegate in Honduras); attentati alla vita di presidenti progressisti come Evo Morales in Bolivia e Fernando Lugo in Paraguay; movimenti secessionisti e destabilizzanti allevati in Bolivia, Ecuador, Nicaragua; violazioni dello spazio aereo cubano da parte degli Usa e irruzione di paramilitari colombiani; riattivazione della IV Flotta Usa che con portaerei e cacciabombardieri scorrazza nelle acque latinoamericane. Il presidente venezuelano Chavez parla di “tamburi di guerra” e, se non ce la fanno con le solite rivoluzioni colorate, gli Stati Uniti ritroveranno gli strumenti dei colpi di Stato, dei regimi fascisti e della guerra. Lo sostengono senza pudicizie democratiche, i più qualificati rappresentanti repubblicani al Congresso e al Senato. E Obama non ha mai smentito nei fatti di essere arnese, volente o nolente, del Pentagono.

La gran parte degli Stati latinoamericani, fatta eccezione per Colombia, Perù e Cile, ha disconosciuto le elezioni in Honduras e non riconoscono il nuovo regime. Il presidente brasiliano Lula si è erto a difensore di Manuel Zelaya e delle rivendicazioni delle masse honduregne. Il fronte del Sud è vasto, forte e determinato. Gli Stati Uniti sono impegnati in cinque guerre antislamiche: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, e, a ulteriore espansione dell’intervento, si inventano Al Qa’ida nel Maghreb, nel Sahara, nella Penisola Araba e in Somalia, dappertutto. La partita è aperta. Purchè ci stiamo anche noi.

Il golpe e la Resistenza in Honduras, i riflessi su tutta l’America Latina nel nuovo docufilm di Fulvio Grimaldi “IL RITORNO DEL CONDOR”, che dal 16 gennaio al 7 febbraio verrà presentato in tutta Italia con la partecipazione dell’autore e di Esly Banegas Avila, dirigente del Fronte della Resistenza al Colpo di Stato in Honduras e presidente del Sindacato dei contadini nel Nordovest dell’Honduras (visionando@virgilio.it)

mercoledì 6 gennaio 2010

Usa-Honduras-America Latina: IL RITORNO DEL CONDOR







E' uscito il mio nuovo docufilm



"Usa-Honduras-America Latina: IL RITORNO DEL CONDOR"



dvd, 70'.

(Vedi nella colonna dei documentari)

PER ORDINAZIONI O PRESENTAZIONI CON L'AUTORE, SCRIVETE A QUESTO INDIRIZZO EMAIL: visionando@virgilio.it

Con il colpo di Stato e la dittatura in Honduras, gli Usa hanno lanciato la loro controffensiva contro i movimenti e governi di emancipazione e liberazione in America Latina, ma hanno subito incontrato una stupefacente resistenza di popolo con, nel caso dell'Honduras, un straordinario ruolo di punta delle donne. Con le sette basi militari e la totale colonizzazione della Colombia, la riattivazione della IV Flotta di guerra, l'accerchiamento del Venezuela bolivariano anche dal lato delle Antille Olandesi, le nuove basi in Panama e Paraguay, le cospirazioni secessioniste in Bolivia, Ecuador e Venezuela, i tentativi di colpi di stato anche in Paraguay e Bolivia, le forze speciali israeliane e statunitensi imperversanti nel continente, è iniziata la battaglia finale per il recupero del "cortile di casa" (petrolio, risorse minerarie, legno, pascoli, manodopera a basso costo, biodiversità, acqua), che per il mondo è il "Continente della speranza". Lo scontro è tra socialismo del XXI secolo e assassini del pianeta.




Usa-Honduras-America Latina
alla battaglia finale
IL RITORNO
DEL CONDOR
di
FULVIO GRIMALDI
Il ritorno del Condor. Il racconto del colpo di Stato effettuato in Honduras contro il presidente progressista Manuel Zelaya dai militari agli ordini dell’oligarchia honduregna e degli Stati Uniti. L’inizio di un’operazione Condor 2, con la quale Washington si propone di rinnovare i nefasti dell’operazione Condor degli anni ’70 che installò Pinochet in Cile e altre sanguinarie dittature in America Latina. Una controffensiva statunitense, con nuove basi militari in Colombia e manovre di destabilizzazione in tutto il Cono Sud, per strappare ai governi e movimenti progressisti e rivoluzionari quello che Washington considera il suo “cortile di casa”. L’irriducibile resistenza del popolo honduregno e dei popoli latinoamericani.

Fulvio Grimaldi. Giornalista, scrittore, inviato di guerra ex-Rai i cui docufilm sullo scontro tra popoli e imperialismo non verranno mai trasmessi dalla Rai. E’ il quarto documentario sul “continente della speranza”, dopo “Cuba, el camino del sol”, “Americas Reaparecidas”, “Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador: l’Asse del Bene”. Si affianca ai suoi popolari lavori di controinformazione su Balcani, Iraq, Libano, Palestina – ultimo “Araba fenice, il tuo nome è Gaza” – e ai libri sugli stessi argomenti e sulla crisi della Sinistra italiana.

Produzioni VisioNando-Roma – visionando@virgilio.it – tel/fax 06 99674258
Dal 16 gennaio al 7 febbraio Il Circolo di Italia-Cuba della Tuscia organizza, insieme ad altri circoli e strutture, un tour italiano di una dirigente del Fronte Nazionale della Resistenza al Colpo di Stato in Honduras, nel corso del quale verrà presentato anche il nuovo documentario "Il ritorno del Condor". Per i dettagli potete telefonare ai rispettivi recapiti.

16 gennaio: Sesto S. Giovanni – Lotta e Unità (http://www.blogger.com/), Silvano, 349 6952474
17 gennaio: Segrate –CSA Baraonda (http://www.blogger.com/, Diego, 3398848530
18 gennaio: Bergamo – Circolo Italia-Cuba (http://www.blogger.com/), Francesco 3343554273, 0352650597

19 gennaio: riposo a Verona

20 gennaio: Verona – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/), Paolo,
347 4898012
21 gennaio: Udine – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/) Leonardo 3388715738, Walter 3383130544
22 gennaio: Venezia – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/), Giuliana, 3358115235
23 gennaio: Trieste – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/) Alma, tel. 349593527, 040813633

24 gennaio: Cremona, Italia-Cuba e Associazione America Latina ( http://www.blogger.com/), Laura 3475128394, Fabio


26 gennaio: Volterra - Italia-Nicaraguita, (mhtml:%7BF0617929-008B-45D7-8F00-44C71AB0F192%7Dmid://00001426/!x-usc:mailto:nicaragua@sirt.pisa.it http://www.blogger.com/) Gaea, Gianni, 3402802463, 3475094298 rispettivamente
27 gennaio: Firenze, CSA Camilo Cienfuegos a Campi Bisenzio, Giuliano Ciapetti (http://www.blogger.com/), 3923042288, e Siena (http://www.blogger.com/) 3333789156

29 gennaio: Ravenna – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/) , Giuliana Liverani, 3492878778
30 gennaio: Senigallia – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/), Albinella, 3333806715
31 gennaio: Bologna, Italia-Nicaragua, Manuela (http://www.blogger.com/) 3282192233, Toni 3479152380


2 febbraio: Roma – Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/) , Marco, 3394242915
3 febbraio: riposo
4 febbraio: Napoli, Centro Culturale La Città del sole, Ciro (mhtml:%7BF0617929-008B-45D7-8F00-44C71AB0F192%7Dmid://00001426/!x-usc:mailto:redportiamerica.it@gmail.com mhtml:%7BF0617929-008B-45D7-8F00-44C71AB0F192%7Dmid://00001426/!x-usc:mailto:antimp_na@hotmail.com), 3335030697, 0815490585

5 febbraio: trasferimento

6 febbraio: Bracciano- Circolo di Italia-Cuba (http://www.blogger.com/: http://www.blogger.com/) Sandra, 3393245665, 06 99674258