sabato 30 gennaio 2016

NO NATO, UN BEL PASSO AVANTI

Aver messo i piedi nel piatto nazionale (e internazionale) dell’indifferenza e della complice sudditanza nei confronti del North AtlanticTreaty Organization è merito del Comitato No Guerra No Nato che ha raccolto e cercato di dare espressione unitaria e istituzionale alle mobilitazioni che, non da ieri, sono state portate avanti da avanguardie e comunità in Sicilia (No Muos), Sardegna (No Nato), Vicenza (No Base Usa), Friuli (No Base Usa) e anche in Val di Susa (No Tav contro la militarizzazione del territorio e del mondo). Aver raccolto queste istanze, come espresse anche in una legge di iniziativa popolare depositata in Parlamento fin dal 2008, e averle interpretate in termini di messa in discussione del Trattato e della sua applicazione, se non dell’immediata uscita dell’Italia (e dell’Europa), quanto meno nell’esame dell’ipotesi e della fondamentale rivendicazione della neutralità del nostro paese, è una grande merito dei parlamentari Cinque Stelle. Tanto più che succede in coincidenza con uno Stoltenberg (forzando un po’: Montagna degli stolti, nomen omen), maggiordomo Nato con il logo SS tatuato sulle natiche, dalla Nato scovato in qualche manicomio criminale, che aveva appena finito di intimarci di spendere di più per agire e perire di guerre e di atomiche. Bella risposta, quella del 29 gennaio a Roma.

giovedì 28 gennaio 2016

ASSASSINO A CHI? MEMORIA DI CHE?
A margine, l’Isis rivisitato


Iran, vituperio delle genti e della memoria
Preceduto e accompagnato, dall’arrivo alla partenza, dalla campagna d’ordinanza di vituperi e diffamazioni, ordinata dalla coppia israelosaudita, il presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha suscitato l’entusiasmo di coloro che le sue aperture all’Occidente faranno partecipare al banchetto offerto da un mercato di 80 milioni di dinamicissimi abitanti. Ho fatto esperienza diretta e recente dell’Iran (vedi il docufilm “Target Iran”) e dubito che quel popolo intelligente, progredito e fiero, abbia accolto con grande soddisfazione tali “aperture”. Con Ahmadinejad, il governo aveva promosso le classi popolari, rafforzato l’antimperialismo, sviluppato infrastrutture e tecnologia, tagliato le unghie ai ceti famelici, quelli che nel 2009, con la famigerata “rivoluzione colorata”, avevano minacciato di riportare il paese ai nefasti filoccidentali dello Shah, il più spietato dei tiranni, e il più amato in Occidente. Il cedimento al ricatto delle sanzioni che, nelle promesse di Obama e Hillary Clinton, dovranno ritornare non appena l’Iran sgarri dalla retta via “moderata” e inoffensiva (e in parte sono già state rinnovate col pretesto dei missili balistici), ha privato il paese della tecnologia nucleare. Tecnologia rigorosamente civile, con l’arricchimento dell’uranio al 20% (ora ridotto all’inutile 3%), essenziale per energia e medicina, ma assolutamente insufficiente per l’uso militare. Che del resto l’Iran non aveva mai contemplato, avendo firmato il trattato di Non Proliferazione Nucleare (diversamente dall’ipernuclearizzato Israele) ed emesso fatwe contro l’arma atomica.

venerdì 22 gennaio 2016

Gay fa fico e polonio fa Putin

Una mia foto di Bloody Sunday sulla facciata della prima casa di Derry.

Altro che le sette piaghe che si abbatterono sul faraone per castigarlo, secondo l’invenzione biblica, della persecuzione del popolo ebraico (che da quella parti non c’era mai stato, ma che già allora andava costruendosi sul concetto di persecuzione e liberazione). Le sette piaghe, tra aerei a lui abbattuti o il cui abbattimento è a lui attribuito, denunce di doping, poi allargatesi all’universo mondo, demonizzazione in quanto omofobo, mandante di omicidi di giornalisti, massacratore di civili in Siria e via fantasticando, il presidente russo le ha da tempo superate. E chi non riesce a farsi una ragione di non essere più l’unico decisore delle sorti del mondo e, anzi, di essersi visto messo dietro la lavagna da un maestro che la sa e la fa infinitamente più lunga, sta dando fuori di matto. Perché per arrivare, dopo 10 anni di giri intorno alla faccenda, a fare di Putin il mandante “probabile” dell’omicidio al Polonio 10 del dissidente Litvinenko, bisogna aver pensato che l’opinione pubblica mondiale è rimbecillita al punto da accettare l’aberrazione giuridica di una sentenza di colpa emessa per “probabilità”. E nel caso dei media italiani, in questo succoso caso capitanati dalla lobby ebraica, il pensiero è fondato. A dispetto della risate omeriche che nei tempi dei tempi si perpetueranno di meridiano in meridiano sulla creatività dei magistrati britannici.

mercoledì 20 gennaio 2016

MANIFESTAZIONI: chi sfila, chi marcia, chi ci marcia




“Apparentemente una democrazia è il luogo dove si tengono numerose elezioni a elevati costi, senza contenuti programmatici e con candidati interscambiabili”.(Gore Vidal)

“Preferisco i vinti, ma non potrei adattarmi alla condizione di vinto”  (Curzio Malaparte)

Il 16 gennaio, 25° anno dall’inizio dell’annientamento della nazione irachena, abbiamo manifestato a Roma e Milano e in qualche altro posto. Parlo di Roma. Qualcuno ha detto tremila. Forse. Comunque pochi e totalmente privi di slogan, cioè di partecipazione politica audio. Ha sopperito un tonante sound system e qualche orchestrina ambulante. L’età media era alta e la dissonanza tra i vari spezzoni pure. Dissonanza vigorosamente manifestatasi già nella fase preparatoria, caratterizzata da dispute, mediazioni su mediazioni, dissociazioni. C’era chi pensava di inserire nella piattaforma un riferimento ai “ribelli” siriani e all’impegno di difendere (quindi portare) “democrazia” dappertutto, dando implicito credito alle valutazioni di coloro che la “democrazia” la esportano radendo al suolo chi ne dovrebbe beneficiare. Peggio, essendo la democrazia che si conosce e di cui si auspica la difesa quella totalmente finta, è implicito che là fuori, in Siria, Iraq e via deprecando, di democrazia non ce n’è.

giovedì 14 gennaio 2016

IL MIO IRAQ. E QUELLO DEGLI ALTRI. 16/1/2016, 25 anni dall'inizio dell'olocausto


In Siria e in Iraq le forze patriottiche sono all’offensiva.
Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)
E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).
Una partita con tre campi da gioco
In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni  dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”.  Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.

martedì 12 gennaio 2016

QUANTI PICCIONI CON UNA FAVA DEL SULTANO!




Ma che mira, il bombarolo pazzo
Il despota bombarolo Erdogan, che fa squadra con i suoi affini di Israele e del Golfo, soddisfatto dell’esito elettorale che attribuisce al botto da 98 morti di Ankara, allestito
nell’ ottobre 2015, ci ha rifatto a Istanbul. 10 morti almeno, di cui la maggior parte tedeschi. Si potrebbe nurire il sano sospetto, essendo questa squadra di proprietà della più grande organizzazione criminale di autobeneficenza del mondo e della storia, quella che esprime le sue voglie attraverso lo strumento USraeliano, che l’attentato di Istanbul oggi abbia mandanti. Mandanti operativi in costante escalation, dall’11 settembre ai fatti di Colonia e delle altre città europee sincronizzate.

Piccione siriano
Sono vari e belli grossi i piccioni che con una sola fava lo psicopatico ha raccattato.
Ha fatto circolare la voce, appena due ore dopo il fatto, altro che le confusionarie agenzie di Cia, Mossad, o Mi6!, che l’attentatore era un siriano. E chi sono i siriani cattivi, secondo l’illuminato sultano di Ankara?  Ovvio il riferimento a quelli di Assad, che Erdogan si cura da 5 anni di far sparire, in diretta, o tramite surrogati. Piccione siriano, come quello che hanno cercato di beccare con i gas tossici di Est Goutha, fino a quando non sono risultati fornitura turca ai jihadisti.

Piccione PKK
Poi però, senza che fosse accantonata la prima, è spuntata la paternità anche  di un terrorista PKK. Abbrivio alla continuazione del genocidio curdo in Turchia e in Siria. Piccione curdo. Terzo sicario, l’Isis. Come già ad Ankara. Beh, è comprensibile. Toccava pur far qualcosa per nettare l’immagine del regime dalle zozzerie di cui si era coperto a forza di nutrire le belva Isis, di berne, venderne e trasferirne in Israele il petrolio rapinato a mano armata in Iraq e Siria. Neppure i più strabici occhi del mondo avevano potuto chiudersi sull’evidenza della copaternità di Erdogan in merito alla prole da lui partorita e della quale è stato ingravidato dal solito Spirito Santo in versione a stelle e strisce e stella di David. Il piccione Opinione Internazionale preso è quello a cui gli attentatori di Ankara e Istanbul hanno offerto il digestivo “Erdogan non c’entra niente con l’Isis, la storia dei miliardi da petrolio rubato è una bassa insinuazione, anzi l’Isis magari l’ha fatta Assad e ora ci vuole uccidere”. Foglia di fico a forma di piccione. Turco.

Deutsche Taube
Ma forse, stecchito, in piazza c’è un altro piccione. Magari colpito con i colpi di una doppietta. Prima Colonia e campi d’intervento urbano vari, dove si è fatto capire che i profughi così generosamente accolti potevano essere addestrati a punire Angela Merkel. Castigare l’allieva troppo cresciuta in Europa e in Atlantico, per i suoi troppi giri di valzer con l’Est e il suo gas, per le sue timidezze rispetto alla chiamata alle armi in Medioriente e Ucraina, per le sue riserve (o almeno quelle di suoi numerosi presidenti di Land e dei 250mila che in rappresentanza di un popolo, hanno marciato a Berelino) sul trattato-capestro con gli Usa, TTIP. Il secondo proiettile l’hanno sparato a Istanbul, mirando ai tedeschi – nel senso di Merkel - del giro turistico all’ombra della Moschea Blù. Forse per tenere nei suoi lager, sotto ferula Isis, i milioni di siriani di cui si vuole svuotare il paese per popolarlo di turchi, israeliani e multinazionali occidentali, i 3 miliardi donati dall’UE all’orco e futuro socio turco, su proposta Merkel, non bastano. E qui parliamo del piccione tedesco.

La tavola della Grande Abbuffata è apparecchiata. Stasera cena a base di colombe. Non un posto a tavola hanno aggiunto, ma uno strapuntino, anche per lo Stenterello di Firenze. Fin qui si era limitato a far la piantina di Ficus sul avanzale di Goldman Sachs. Da quando si è messo a battere i piedi davanti a Merkel e a raccomandarsi a papà Obama, un posticino a tavola e un po’ di pelle di piccione non glieli nega nessuno.

I falsi di Madaya
Dunque a Madaya si andava scoprendo il solito giochino False Flag della denuncia di un assedio governativo siriano a 40mila abitanti morenti o morti. Una controinformazione ancora balbettante, ma robusta in rete, ha saputo mettere in crisi l’operazione. Vennero le prove ONU, della Croce Rosas, se non anche di Damasco, che l’Isis occupante non lasciava entrare i rifornimenti da mesi, quel che faceva entrare lo accaparrava e, consumatone il fabbisogno, ne contrabbandava il restante. Occorreva qualcosa di drammatico per ribaltare il contraccolpo. Ci hanno pensato le emittenti di Qatar ed Emirati, Al Jazeera e Al Arabiya. Così Madaya stuprata da anni dall’Isis, diventa Madaya uccisa dal suo governo.

Le foto in alto, diffuse ai media dalle solite agenzie umanitarie, come Avaaz, dovrebbero rilanciare, in questa fase di stanca, di avanzate siro-russe, di cedimenti diplomatici Usa alla prospettiva di altri due anni di Assad, sono l’ultima, ormai stereotipata, riedizione della vulgata del “Dittatore che bombarda il proprio popolo” (una pianta carnivora che si ciba anche di pacifisti). Sono opera di chi non ne vuole proprio sapere di ritardare, passando a soluzioni soft, l’incenerimento di Siria e Iraq, nel quale poi spera di trovare ossa da spolpare. Il pensiero non ci mette molto a correre verso la Casa di Saud, Qatar,Tel Aviv, Ankara, presidi neocon oltremare.


Le foto in alto sono tutte dei falsi. Le trovate in internet, ma luoghi e nomi sono altri. La bambina rinsecchita è stata fotografata in Giordania tre anni fa ed è perfino apparsa sulla TV Al Arabiya nel gennaio 2014. Accanto c’è la sua immagine di oggi. L’altro bambino è stato fotografato a East Goutha. Poi quell’uomo inscheletrito, vittima dell’assedio siriano a Madaya, ma in effetti un rifugiato fotografato in Europa nel 2009. Starebbe morendo di fame a Madaya l’altro bambino. Peccato che sia stato fotografato a marzo 2014 nel campo profughi palestinese di Yarmuk, pure sotto occupazione terrorista. E’ la stampa, Bellezza. E’ la stampa, cretino chi abbocca.

sabato 9 gennaio 2016

VOCI DALLA FOGNA - Colonia, Madaja, Nordcorea, Mafia-PD e Quarto a 5Stelle

VOCI  DALLA  FOGNA
Colonia, Madaja, Nordcorea, Mafia Capitale PD e Quarto a 5 Stelle


La rete fognaria che ci scorre sotto ai piedi e riceve escrementi e rifiuti dal mondo di sopra e la migliore allegoria del nostro sistema mediatico e delle sue deiezioni. Vale per tutta la stampa e tv dell’Occidente, ma da noi non scarica neppure quelle occasionali verità cui è assegnato il compito di coprire il tanfo paralizzante della cloaca. Se ne è avuta una manifestazione concentrata in occasione dello scarico, particolarmente tossico in questi giorni dell’imminente assalto colonialista alla Libia, preparato alla bisogna dagli sfracelli dell’Isis e dei loro padrini Fratelli Musulmani a Tripoli e Misurata, con parallela decimazione, qui, di spopolati dalle nostre bombe e dai nostri mercenari islamisti, dei quali, per un attimo, si è vantata l’umanitaria accoglienza.

lunedì 4 gennaio 2016

LA TRIMURTI DEL TERRORE: ISRAELE, TURCHIA, ARABIA SAUDITA



Se insisti a concedere scuse, finisci col dare la tua benedizione al campo degli schiavi, alle forze della codardia, a giustizieri organizzati, al cinismo dei grandi mostri politici. Alla fine consegni i tuoi fratelli”. (Albert Camus)

Stati conquistati abituati alla libertà e al governo delle proprie leggi possono essere dominati dal conquistatore in tre modi diversi. Il primo, è distruggerli; il secondo è che il conquistatore ci vada e vi risieda personalmente; il terzo è di consentirgli di continuare sotto le proprie leggi, assoggettati ai tributi e di crearvi un governo dei pochi che mantengano l’amicizia con il conquistatore”. (Nicolò Machiavelli)

La trimurti del terrore in Medioriente, Israele-Turchia-Arabia Saudita, sta alla triplice del dominio mondiale, USA, UE, sionismo, come il papa sta alla SS Trinità. Nella strategia, la prima obbedisce alla seconda, nella tattica ogni tanto ne diverge. Quello che sta succedendo in questi giorni in Medioriente va inquadrato nella prima ipotesi, o nella seconda? Questo è il problema. A loro volta le due triadi sono gli strumenti del Grande Inganno Planetario, noto anche come Dollaro, l’entità suprema che, nel nostro piccolo, negli anni ’70 delle stragi e del terrorismo di Stato, avevamo definito il Grande Vecchio. Il cataclisma innescato dai mostriciattoli di Riyad e che minaccia l’apocalisse rispetto alla quale quella di San Giovanni potrebbe sembrarci una scaramuccia, è iniziativa propria, autoctona, o esegue un mandato superiore?  Ce lo diranno gli sviluppi.

Intanto atteniamoci ai fatti sul terreno. La decapitazione e crocefissione del massimo clerico scita in Arabia Saudita, insieme a quella di altri oppositori della petrodittatura, fatti passare per Al Qaida che, poi, paradossalmente, è una creatura spurgata dal grembo tossico dello stesso regno in concorso con Cia e Mossad, è in prima istanza un’operazione diretta a sventare il poker d’assi calato sul campo da Putin. Il progetto di riordino del Medioriente, formulato dall’israeliano Oded Yinon nel 1981 per sventare la minaccia di una Nazione Araba che, riunendo i vari Stati liberatisi dal colonialismo, ponesse sulla scena mondiale un nuovo, formidabile attore, dotato di numeri, volontà, petrolio e paradigma sociale alternativo, risponde certamente agli obiettivi comuni dei soggetti sopra elencati. E’ sul metodo che divergono. Se sia meglio il fosforo bianco che incenerisce subito, o l’uranio che uccide nel tempo.

Cuba e Iran, come affrontati da Obama nella fase terminale del suo mandato, rappresentano il metodo soft, quello in cui certi poteri economici si ripromettono il dominio globale attraverso la corruzione e l’addomesticamento di avversari gradualmente omologati al proprio modello. Israele, Arabia Saudita, Turchia e altri poteri economici USA-UE, come il complesso militarindustriale, di cui sono espressione politica i neocon (Hillary compresa), puntano all’annientamento tout court. Nel loro caso prevale anche un’altra considerazione: l’urgente necessità di liquidare un dissenso interno gravido di potenziale insurrezionale: palestinesi qua e oppositori interni là. Come anche  di superare una crescente crisi economica. La soluzione di questa è vista nel controllo del petrolio tutto, ovunque si trovi, sangue che fa battere il cuore del capitalismo imperialista. Alla faccia della farsa allestita a Parigi, con i fuochi fatui del COP21, e della stessa sopravvivenza di tutti quanti (tanto, per i furbi della negazione del mutamento climatico, il rischio non esiste e, se esistesse, lo superano i miracoli tecnologici delle geo-ingegneria).

Perché la riduzione forzata del prezzo del petrolio, se era diretta inizialmente a sfiancare protagonisti energetici  concorrenti, come Russia, Iran e Venezuela, a lungo andare ha minato anche la tenuta sociale, economica e dunque politica, di chi l’ha promossa. Ed ecco che chi molto petrolio ce l’ha, come i sauditi e annessi subalterni del Golfo, chi non ne ha, ma se lo fa pompare dai vassalli curdi, nel caso di Turchia e Israele, ha preso l’abbrivio ed è partito alla conquista del resto. Grazie all’Isis, forse oggi più saudita-turco-israeliano che statunitense (gli Usa vantano l’autosufficienza energetica), in Iraq, secondo detentore mondiale di riserve, Libia, terzo, e Siria, produttore minore, ma strategicamente irrinunciabile per le vie del petrolio, le cose si stavano mettendo bene. Prima che arrivassero i russi .

Poi c’è l’Iran, per la trimurti mediorientale nemico pubblico numero uno. Washington e Tehran hanno trovato un modus vivendi che si pensa possa favorire gli Usa nel loro tentativo di isolare ed assediare la Russia e, al tempo stesso, consentire, grazie all’attuale presidenza di Rouhani, espressione dei ceti altoborghesi filoccidentali, la penetrazione e manomissione delle multinazionali nordamericane. L’Iran, come Cuba, mette in gioco quanto il predecessore di Rouhani,  Ahmadinejad, aveva realizzato a favore di un’equa distribuzione della ricchezza, della crescita politica e sociale delle classi popolari, del ruolo geopolitico.  Ma per Arabia Saudita e Israele, che da anni strepitano contro l’accordo sul nucleare, e per la Turchia, che è arrivata addirittura alle mani con la Russia, abbattendo il  cacciabombardiere Su-24, è lampante che un Iran rientrato nei giochi rappresenta l’inizio di un possibile processo di marginalizzazione del proprio potere contrattuale rispetto al resto del mondo. Il gioco è d’azzardo,  ma confida nel fatto che, alla resa dei conti riuscirà perché, nella scelta, gli Usa e i poteri che ne fanno uso militare, escatologicamente, non avranno… scelta.

La sanguinaria impennata dei sauditi, oltretutto in crescente difficoltà in Yemen dove, nonostante gli stermini bombaroli e l‘affamamento di tutto un popolo, nononstante l’impiego di mercenari Blackwater colombiani, americani e francesi, non riescono ad aver ragione delle forze patriottiche a egemonia Houthi (sciti), punta a portare alle estreme conseguenze lo scontro confessionale tra sciti e sunniti. Lo schieramento scita di Iran, Iraq, Siria, Yemen, Hezbollah, con le popolazioni scite insofferenti e sempre più insorgenti in Bahrein e nella stessa Arabia Saudita, grazie all’intervento russo  si è collocato stabilmente nella metà campo dell’avversario. Al quale non è rimasto che puntare ai rigori. Sperando di poter far tirare dal dischetto anche il contravanti statunitense, convinto dal dato oggettivo di giocare in una squadra da sempre amica, piuttosto che trasferirsi in una in cui non può essere certo di essere bene accolto. Hai visto mai che torni Ahmadinejad, o uno come lui.

Insomma siamo al redde rationem. Sauditi, turchi e israeliani vogliono giocarsi il tutto per tutto e forzare gli Usa e i padroni del dollaro a rinsaldare, nell’Armageddon, gli antichi e comprovati vincoli. Il passo è lungo. E definitivo. Più lungo, forse, della gamba. Resta da vedere quanta carica antimperialista resta nell’Iran di Rouhani, quanta determinazione e tenuta avranno i russi, se il gioco sunniti contro sciti riuscirà a coinvolgere masse sufficienti per un rogo generale, ora che Baghdad, Damasco e i loro alleati stanno riducendo l’incendio Isis a grigliata sotto la pioggia.. E resta da vedere a quale dei suoi referenti in alto, ai suoi burattinai, darà retta Obama.


Chiudo con una nota su quanto vanno farneticando certi gazzettieri, dall’abisso della loro ignoranza, o allineamento alla vulgata del divide et impera, sul presunto, storico e ontologico, conflitto sciti-sunniti. Prima che il colonialismo nel mondo arabo e, più recentemente, il generale Petraeus in Iraq, cospirassero per suscitare quella divisione, sciti e sunniti, sui documenti di identità, nei certificati di nascita e matrimoniali e nell’anima, non avevano scritto la confessione. C’era solo scritto iracheno, siriano, arabo. Tutt’al più musulmano. 

domenica 3 gennaio 2016

NAZIONE ARABA


Giorni fa si sono visti messaggi in rete dati sul sostegno all'Isis da parte della popolazione araba a Mosul. Dati che intendevano convincerci che, dopotutto, l'Isis è bene accetto tra le popolazioni invase. Si tratta, con evidenza solare, di dati propagandistici e grotteschi per chiunque avesse anche solo una limitata conoscenza, sul posto, degli arabi e della loro anima.
Ora sul Fatto Quotidiano, a firma Guido Rampoldi (ex-Repubblica, uno informato, ma impostato malamente su balle imperialiste), esce qualcosa di più attendibile. Riguarda l'intero mondo arabo che a che fare con l'Isis e, prima, con Al Qaida (di cui Rampoldi accredita l'autenticità, autodeterminazione e autogerminazione).
Li riporto per rettificare certe illusioni seminate dal nemico. Sono tratti da un sondaggio di ben altra competenza e correttezza: 18.311 interviste - non quattro a Mosul - in 12 paesi dell' "Arab Opinion Index 2015", con margine d'errore 2-3%.
Solo il 7% degli arabi ha dell'Isis un parere favorevole, o anche solo in parte favorevole. Un arabo su due, più astuto di Rampoldi, lo considera il prodotto di potenze straniere, come già accadde con Al Qaida e Osama bin Laden. Il 72% ritiene che "nessuno abbia il diritto di dichiarare infedeli i seguaci di altre religioni".
Mentre, per merito delle forze patriottiche irachene e siriane, con il supporto di Iran e Hezbollah e a dispetto dei continui rifornimenti della Coalizione Usa all'Isis e dei bombardamenti sulle truppe patriottiche in avanzata e a dispetto di curdi e turchi che cercano di arginare la vittoria degli aggrediti, si profila la sconfitta militare del cosiddetto Stato islamico, ne è già pienamente consumata la disfatta culturale: il progetto di un'Umma integralista frazionata tra i vari staterelli che l'imperialismo ha progettato di far nascere dalle divisioni nazionali formulate da Sikes-Picot nel 1915.
A questo proposito va contrastato il discorso di vari utili idioti pacifisti e di sinistra, come di amici del giaguaro proni all'imperialismo, secondo cui quei confini erano arbitrari e si farebbe bene a ridisegnarli lungo linee tribali, etniche, confessionali, alla maniera della balcanizzazione.
Quelle configurazioni di nazioni multietniche e multiconfessionali furono, sì, imposizioni arbitrarie, funzionali al controllo colonialista. Ma, primo, servirono a superare un'arcaica e imbelle struttura tribale, come faceva gioco agli imperi precedenti, romano, bizantino, ottomano, italiano (vedi la Libia di Gheddafi, ora rispedita nel Medioevo). E, secondo, nella successiva lotta di liberazione dal colonialismo e di resistenza a sionismo e imperialismo, quei popoli "diversi" forgiarono un'unità ideale, ideologica, politica, culturale. Unità che rispondeva poi, in buona parte, al loro lontano retaggio geografico, culturale e storico. Solo la Siria, che organicamente racchiudeva anche Libano e Palestina, fu divisa in tre pezzi. Detto con pieno rispetto per le poi maturate istanze nazionali dei palestinesi, anche queste con radicata legittimità storica.

E se questi elementi strutturali e strutturanti non bastassero, credo che la storia di gran parte d'Europa, frazionata in mille contee e principati fino all'Ottocento, ci insegna a riconoscere come formativa e legittimante di una nazione la volontà dei popoli che vi si riconoscono. E su questo, per quanto riguarda gli Stati arabi che si sono dissanguati nel contrasto a sionismo e imperialismo, non credo vi possano essere dubbi.

sabato 2 gennaio 2016

16 gennaio, Roma, nel 25° dell'attacco all'Iraq: con l'Iraq, con tutti i popoli aggrediti, martirizzati, che resistono

Il 16 gennaio varie forze anti-guerra manifesteranno a Roma contro le guerre in corso. Alcune piattaforme sono del tutto inadeguate, altre altamente equivoche. La guerra diventa una realtà astratta, senza genitori. Molte guerre vengono dimenticate: Jugoslavia, Afghanistan, Ucraina, le aggressioni israeliane a Libano e Gaza, addirittura qualcuno s'è scordato della Siria. La nonviolenza assurta a imperativo categorico e dogmatico getta indecenti ombre sulla resistenza di popolo in Siria, Iraq, ovunque si eserciti la criminalità imperialista. Il testo del Comitato No Guerra No Nato che qui accludo rappresenta a mio avviso il corretto atteggiamento con cui partecipare alla manifestazione del 16 gennaio. 

https://vimeo.com/150178826 Questo è il link che porta al mio docufilm “IRAQ, GENOCIDIO NELL’EDEN”, girato in Iraq durante l’embargo degli anni ’90. Gli altri miei dolcufilm sull’Iraq sono: “CHI VIVRA’, IRAQ!” e “UN DESERTO CHIAMATO PACE”, ottenibili scrivendo a visionando@virgilio.it.

Come e perché il Comitato No Guerra No Nato partecipa alla manifestazione del 16 Gennaio contro la Nato
— Venticinque anni fa, nelle prime ore del 17 gennaio 1991, iniziava nel Golfo Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la guerra contro l’Iraq che apriva la fase storica che stiamo vivendo.
Questa guerra, preparata e provocata da Washington, veniva lanciata nel momento in cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stavano per dissolversi il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Approfittando della crisi del campo avversario, gli Stati Uniti rafforzavano con la guerra la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo.
La coalizione occidentale, formata da Washington, inviava nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 % statunitensi, agli ordini di un generale Usa. Per 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuava, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciavano oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipavano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, lanciavano l’offensiva terrestre. Essa terminava il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.
La guerra del Golfo fu la prima guerra a cui partecipava, sotto comando Usa, la Repubblica italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della propria Costituzione. I caccia Tornado dell’aeronautica italiana effettuarono 226 sortite, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense.
Nessuno sa con esattezza quanti furono i morti iracheni nella guerra del 1991: sicuramente centinaia di migliaia, per circa la metà civili. Alla guerra seguiva l’embargo, che provocava nella popolazione più vittime della guerra: oltre un milione, tra cui circa la metà bambini.
Subito dopo la guerra del Golfo, gli Stati Uniti lanciavano ad avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana» (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, agosto 1991).
La Nato, pur non partecipando ufficialmente, in quanto tale, alla quella guerra, mise a disposizione le sue forze e le sue strutture. Pochi mesi dopo, nel novembre 1991, il Consiglio Atlantico varava, sulla base della guerra del Golfo, il «nuovo concetto strategico dell'Alleanza». Nello stesso anno in Italia veniva varato il «nuovo modello di difesa» che, stravolgendo nuovamente la Costituzione, indicava quale missione delle forze armate «la tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario».
Nasceva così la strategia che ha guidato le successive guerre sotto comando Usa – contro la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011, la Siria dal 2013 – accompagnate nello stesso quadro strategico dalle guerre di Israele contro il Libano e Gaza, della Turchia contro i curdi del Pkk, dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla strategia Usa/Nato, dall’uso di forze neonaziste per il colpo di stato in Ucraina funzionale alla nuova guerra fredda e al rilancio della corsa agli armamenti nucleari.
Su tale sfondo il Comitato No Guerra No Nato ricorda la guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli.
Noi non mettiamo tutti sullo stesso piano. Questa guerra viene dall’Occidente. Il terrorismo viene dall’Occidente. La crisi mondiale viene dall’Occidente.
Tutti coloro che hanno firmato l’appello di questo comitato, e che ne condividono l’analisi e gli scopi, sono invitati a partecipare alla manifestazione romana del 16, e alle manifestazioni che verranno realizzate nei centri minori di ogni parte d’Italia, con queste precise posizioni. Noi chiediamo a tutti i cittadini italiani di unirsi a noi nella richiesta di un’Italia neutrale.
Comitato No Guerra No Nato