lunedì 7 marzo 2016

BERTA CACERES, nel segno del Che



“Svegliamoci, svegliamoci, umanità! Non c’è più tempo, le nostre coscienze siano scosse alla vista dell’autodistruzione fondata sulla depredazione capitalista, razzista e patriarcale! Bertha vive!”  (Olivia, Berta, Laura, Salvador, figli di Bertha Caceres, leader indigena e internazionalista, uccisa a Tegucigalpa)

Giustificato forse dal precipitare sempre più travolgente di accadimenti gravissimi, di portata epocale, in Medioriente, Africa, Europa, sento però sulla coscienza il peso di aver trascurato da tempo un paese e un popolo a me carissimi e di cui avevo vissuto e raccontato le vicende a partire dal colpo di Stato del 2009 con cui l’imperialismo yankee ha voluto distruggere la sua rivoluzione e rimetterlo in ginocchio (docufilm “HONDURAS, IL RITORNO DEL CONDOR”).

Un peso piombatomi addosso come un colpo in pieno petto alla notizia dell’assassinio di Berta Càceres, compagna e amica, grande, eroica, imperterrita, leader indigena e nazionale dell’Honduras. Combattente per la liberazione del suo popolo a partire dai primi anni ’90, quando fondò il COPINH, Consiglio delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras. Leader del popolo in resistenza con rinnovata determinazione dopo il golpe organizzato dagli Usa e, specificamente, da Hillary Clinton, Segretaria di Stato con  Obama, nel 2009. Un brutale, sanguinoso colpo di Stato che rovesciò il legittimo governo del presidente Manuel Zelaya. Un presidente che, avendo guardato alle esperienze di liberazione dal giogo colonialista nordamericano del Venezuela e degli altri Stati progressisti latinoamericani, aveva osato tirare il paese fuori dalla condizione di reietta repubblica delle banane, tagliare le unghie alle multinazionali e all’oligarchia locale che ne erano i sicari e avvicinarsi ai paesi antimperialisti e socialisti dell’A.L.B.A.. Un colpo di Stato sostenuto e approvato. nel suo svolgimento sanguinario e nel suo seguito stragista. dal primate cattolico, cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, per questi meriti poi messo da papa Bergoglio a capo della Commissione per la Riforma della Chiesa. Nientemeno.
    


Alla serial killer Hillary Clinton, oggi salutata come la candidata democratica alla presidenza che eviterebbe agli Usa il destino del degrado reazionario prospettato da Trump, va imputato anche l’assassinio di Berta che, pure, da poco era stata insignita del prestigioso Premio Goldman, il Nobel ambientalista, Dopo l’assassinio, celebrato con le sue fragorose risate, di Muammar Gheddafi, linciato dai suoi mercenari, dopo quelli di tutte le guerre sollecitate o condotte da questa belva umana, dopo le migliaia di uccisi o fatti scomparire dalla repressione dello Stato gangster honduregno, fatto nascere da Washington per simulare il ritorno alla democrazia dopo il colpo di Stato. Usurpatori che, rimosso e deportato Zelaya, soffocavano la formidabile resistenza popolare, protrattasi per mesi, in un bagno di sangue,

Attraverso elezioni fraudolente, condotte sotto la minaccia delle baionette dei golpisti, Washington installò al potere i suoi sicari, prima Porfirio Lobo Sosa e poi Juan Orlando Hernàndez, espressione degli interessi neocoloniali yankee garantiti  dall’oligarchia compradora honduregna. Una mezza dozzina di famiglie miliardarie, capeggiate dai famigerati Facussé, che nel passato avevano spolpato il paese e collaborato con le più feroci dittature apparse in Centroamerica, potè tornare all’antica collaborazione con le multinazionali nella comune depredazione del poverissimo paese: monoculture della palma d’olio, devastazioni minerarie, disboscamenti, centrali idroelettriche, sfruttamento del petrolio, espulsione di popolazioni dal loro habitat ancestrale. Le stesse che avevano collaborato con i gangster Usa alla creazione dei tagliagole Contras per abbattere la rivoluzione sandinista in Nicaragua. Una delle operazioni più scellerate dell’imperialismo, affidata al campione degli squadroni della morte, John Negroponte. Esatto, proprio il datore di lavoro del giovane Giulio Regeni, poi spedito al Cairo e vittima di una manovra di diffamazione dell’Egitto.

Berta Caceres è stata ammazzata a casa sua, all’una di notte del 2 marzo, da sicari del regime e delle imprese che combatteva. Il fratello è stato ferito. Rimagono orfani, insieme a tutto un popolo, e non solo nella sua componente originaria, i quattro figli, Olivia, Bertha, Laura e Salvador. Avevo incontrato Berta tante volte, sia per le interviste che poi ho inserito nel docufilm “Honduras, il ritorno del Condor”, sia per stare insieme a discutere delle prospettive della rivoluzione honduregna, con altri amici del Fronte della Resistenza che avevano ospitato me e il collega Marco. Ci eravamo precipitati in Honduras pochi giorni dopo il golpe, il 29 giugno del 2009, e ci siamo rimasti per settimane, registrando per il nostro documentario lo svilupparsi dello scontro tra i golpisti e, poi, i loro successori “eletti” e una resistenza popolare che giornalmente scendeva in strada a sfidare la ferocia dei militari e dei loro squadroni della morte negropontiani, i “Tigre”.

Della direzione di questa resistenza di popolo, Berta fu, a mio avviso, la protagonista prima, accanto a tante altre figure di sindacalisti, politici dell’opposizione, attivisti dei diritti umani, dirigenti e masse indigene. Da esponente delle rivendicazioni dei settori indigeni, i più esclusi e deprivati, assurse subito a leader nazionale contro il golpe e poi contro la dittatura travestita da democrazia. Era tra i dirigenti del Fronte la personalità ideologicamente più matura, più consapevole delle implicazioni del golpe nel contesto della nuova offensiva Usa contro le esperienze antimperialiste e socialiste del grande movimento di emancipazione della “Patria Grande”. Quella offensiva che, con la caduta dell’Argentina in mano all’estrema destra filo-yankee, con la sconfitta parlamentare del chavismo in Venezuela, con i tentativi di destabilizzazione in Ecuador e Boilivia, aveva avuto il suo preludio nel golpe honduregno.

Percorsi, grazie alle indicazioni e ai contatti fornitimi da Berta e da altri militanti, come Lorena Zelaya, il paese da cima a fondo, dalle comunità afro-latinoamericane depredate del loro habitat naturale per far posto agli insediamenti turistici di lusso (da quelle parti si svolge l’oscenità dell’ “Isola dei famosi”), alle vaste terre boschive dell’Ovest e del Nord, terra del popolo Lenca  e di Berta.

Ovunque si incontravano realtà sorte sotto la breve presidenza di Zelaya e a cui la resistenza al golpe aveva dato ulteriore impulso, a dispetto della repressione che vedevamo diventare ogni giorno più  brutale e cruenta, con intere comunità sottoposte a coprifuoco, irruzioni, rastrellamenti, arresti e processi arbitrari, spesso costrette alla fuga e all’esilio. Strutture della resistenza su vari piani, dell’organizzazione campesina per la coltivazione e commercializzazione in comune dei prodotti, della formazione autogestita di scuole per esclusi e analfabeti, una formidabile radio dei Lenca a la Esperanza, fonte di informazione alternativa locale e internazionale, motore delle mobilitazioni per opporsi alle incursioni dei repressori. Una radio che il regime sabotava, chiudeva ogni due per tre e che tornava ogni volta a trasmettere, addirittura, con l’impianto sigillato, dai computer nella selva.

Da giornalista di strada, sulle vie percorse dalle persone a piedi, le vie della liberazione, l’esperienza dell’Honduras è stata una delle più belle, incoraggianti: la capacità di un popolo di dire la sua contro tutto e contro tutti, di un popolo da niente, ignoto e ignorato dal mondo, con meno soldi in tasca dell’ultimo scugnizzo, fuori dalle cronache e dai racconti dei viaggiatori, però pieno di musiche e di colori, ricchissimo di cuore e di mente su una terra saccheggiata e desertificata dai predatori alla ricerca di oro, che sia legname, minerale, acqua, zolla, una terra da riportare alla vita, da restituire ai suoi diritti e ai suoi frutti umani. Con  questo popolo de piè, in piedi, come dicono da quelle parti, abbiamo cantato i canti del riscatto cubano, latinoamericano, indigeno, consumato i pasti nelle mense dei volontari impegnati nel contrasto agli affamatori, ingoiato negli occhi e nella gola i gas degli sguatteri in divisa del padroncino gaglioffo locale e del padrone cannibale di fuori, schivato le pallottole d’acciaio rivestite gentilmente di gomma. Ed è perenne il ricordo di quella grata, al secondo piano di una scuola elementare, da cui usciva un coro di bimbi e pioveva in strada sulle colonne degli sgherri di regime che davano la caccia ai manifestanti: “Nos tienen miedo porque no tenemos miedo”, ci temono perché non li temiamo, uno slogan che dal 2009 continua a risuonare in tutto l’Honduras.

Il COFADEH è l’associazione per i diritti umani che fin dagli anni che precedettero la svolta progressista e democratica di Zelaya, sosteneva le vittime dei regimi totalitari installati da Washington e servi della famigerata multinazionale United Fruits e ne denunciava e perseguiva legalmente i colpevoli. Berta Caceres mi presentò Berta Oliva, che la dirigeva. Una piccola donna pulsante di energia, di passione e indignazione. Era la vedova di un giovane militante assassinato negli anni ’90. Quando andammo a intervistarla trovammo una folla di donne in attesa, quale ferita dalle percosse degli sbirri, quale con un figlio ingiustamente carcerato, quale con la casa distrutta dai paramilitari paralleli alle forze della dittatura. Le pareti di tutte le stanze erano tappezzate di immagini di vittime del prima e del dopo-Zelaya. Centinaia, quasi tutte giovani, moltissime donne. Le due Berta, Oliva e Caceres lavoravano di conserva, insieme ad altre donne erano l’avanguardia della resistenza. Come si poteva constatare in altre parti del continente che si era messo in cammino, la nuova America Latina anticapitalista, antimperialista e antipatriarcale, era donna.

Erano passate alcune settimane dal golpe e, a Tegucigalpa, piazze e strade davanti all’ambasciata Usa erano ininterrottamente presidiate da folle calate dai borghi poveri sulle colline, mentre la grande via che dall’Università portava al centro era bloccata dalle barricate degli studenti. Incontrai Berta Caceres nella sede del sindacato, quartiere generale del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare (FNRP), dove le varie organizzazioni riunite nel Fronte preparavano azioni di contrasto ai golpisti e poi ai loro successori pseudo-democratici ed elaboravano il programma per una nuova assemblea costituente, richiesta principale del movimento. Ricordo le parole di quella che mi era subito apparsa come la leader più matura, con la più attenta preparazione ideologica e la perfetta consapevolezza dei mandanti dell’attacco al suo paese e a tutta l’America Latina, dei loro strumenti e obiettivi. Una militanza indigenista e femminista che, però, si inseriva,  senza sterili settarismi, nel contesto dello scontro in corso tra popoli, capitalismo e imperialismo.

La nuova costituzione dovrà sancire i diritti della donna, diritti politici, economici, sociali. Il diritto all’autodeterminazione riproduttiva, cose che in nessun modo l’attuale costituzione riconosce. Abbiamo avuto compagne e compagni che sono morti nella lotta per questi diritti
Noi siamo discendenti dei popoli indigeni che hanno compiuto la più grande resistenza alla conquista. Questo non è mai stato riconosciuto, mai compreso, neppure dalla sinistra. L’imperialismo e la destra non si riposano. Li abbiamo sopravalutati e siamo rimasti come in letargo. Nella crisi generale del capitalismo, loro hanno bisogno delle nostre risorse, la biodiversità, il petrolio, la nostra cultura, i nostri saperi ancestrali. Perciò non rinunceranno. Ed è questo il tempo in cui il movimento sociale di sinistra, antimperialista, deve consolidare e rafforzare il suo processo di emancipazione. Deve essere una risposta non solo locale o regionale, ma internazionale, globale, contro il capitalismo”.

Ho poi di nuovo visto Berta nel bel mezzo di una manifestazione davanti all’hotel in cui l’OSA stava cercando di mediare, chiaramente sotto direzione Usa, per far passare il processo elettorale. Bertha, diversamente dalla componente sindacale del Fronte, non credeva alla possibilità che sotto l’oligarchia, che aveva preso il potere con la violenza, istruita e diretta dagli yankee rintanati a Palmarola, nella più grande base Usa del Centroamerica (la cui chiusura era stata ventilata da Zelaya), alle forze dell’emancipazione potesse essere riconosciuta la vittoria elettorale. Difatti da lì a poco, la farsa elettorale allestita dai golpisti confermava l’assunto che, con una destra fascistizzante e filo-Usa al controllo, nessun’alternativa di sinistra avrebbe mai vinto elezioni.  Ecco cosa la mia telecamera strappò a Berta, mentre in un caffé ci stavamo riparando dai gas.

Come popolo abbiamo il diritto di opporci con ogni mezzo a chi ci reprime, di porre condizioni ai tiranni. Vogliamo abbattere i dittatori, non vogliamo l’impunità per gli assassini del popolo honduregno. Non riconosciamo elezioni che sono solo un circo politico inteso a legittimare questo golpe. Non sarebbe solo tradire il popolo honduregno, ma tutte le lotte di emancipazione in questo continente e nel mondo”.

La coscienza internazionalista di questa grande rivoluzionaria latinoamericana e indigena, dovrebbe far riflettere le tante sinistre o pseudo-tali delle nostre parti il cui internazionalismo si è ridotto allo scimmiottare e riecheggiare i modelli interpretativi della realtà forniti dai poteri dell’oppressione e rilanciati da opportunisti e falsari autoproclamatisi difensori di diritti umani. Diritti umani che con quelli per  cui ci si è battuti e ci si batte in Honduras non hanno niente da spartire. Forte di questo retroterra politico e culturale, Berta non condivise la successiva decisione del Fronte, sostenuta dalla componente sindacalista e contrastata da quella indigena e studentesca, di mutarsi da movimento unitario e polifonico di massa in partito politico, “Libre”, e di concorrere alle elezioni del 2013. Promosse, con la sua organizzazione e altre, la continuità e l’intensificazione della lotta di massa e della costituzione di poteri alternativi sul territorio e in tutti gli ambiti della vita pubblica, per impedire allo Stato autoritario di consolidarsi.

Libre”, capeggiato dalla moglie di Manuel Zelaya, Xiomara, perse le elezioni grazie a brogli scandalosi, dimostrati e denunciati anche da organismi internazionali.  E il paese ripiombò in mano a un’oligarchia spietata nello sfruttamento e nella repressione, ma fortemente sostenuta ed elogiata  da Washington. L’Honduras divenne la prima tappa della megaoffensiva condotta dall’imperialismo contro i governi e i popoli latinoamericani che si erano sottratti alla mordacchia militare ed economica di chi aveva sempre considerato il subcontinente suo cortile di casa e fornitore gratis di materie prime. Il modello da moltiplicare era il Messico, consegnato, con la cosiddetta “guerra alla droga”, alla militarizzazione contro ogni forma di dissenso, al narcotraffico delle stragi e al saccheggio delle multinazionali. Il Messico del “Nafta”, trattato di “libero” scambio con gli Usa, precursore del TTIP con cui Washington e Wall Street intendono incatenare l’Europa  a una totale subalternità.

Le multinazionali tornarono a infierire su territori, comunità, risorse. La repressione ha reso l’Honduras il paese in cui si viene ammazzati di più al mondo. Soprattutto ambientalisti, difensori dei diritti umani, militanti indigeni, quadri dei movimenti sociali. In un’impunità che rasenta quella del Messico e riguarda il 92% dei delitti contro civili. Uno dei progetti più devastanti e offensivi con riguardo a uno stato di diritto e alla sua sovranità, fu quello, sponsorizzato da imprese Usa e avvallato dal regime, di creare una serie di città-modello su terre sottratte ai loro abitanti. Insediamenti di lusso, fortini dell’élite, totalmente esclusi dalla giurisdizione civile, penale e amministrativa dello Stato, dove plutocrati USA avrebbero potuto installare le proprie residenze e i propri business, liberi da ogni condizionamento legale, sociale, ambientale. Un TTIP in miniatura.

Negli ultimi tempi la battaglia di Berta e del Copinh si era andata concentrando sulla difesa dei territori ancestrali degli indios Lenca, nel nord-ovest boschivo del paese, dove le multinazionali, con il sostegno della Banca Mondiale, procedevano a disboscamenti, costruzione di grandi bacini e dighe, centrali elettriche, spesso finalizzate ad alimentare devastanti interventi minerari. Tutto con conseguente esproprio violento dei contadini e cancellazione delle loro comunità. Berta, a dispetto di costanti minacce di morte, di violenze contro i suoi attivisti, di arresti sotto false pretese, si mise a capo anche di questa lotta. Riuscì a sventare un progetto di diga e centrale idroelettrica costringendo alla ritirata la Sinohydro, massima impresa mondiale nella costruzione di dighe.

Ultimamente il Copinh e Berta si battevano contro la privatizzazione del Rio Gualcarque, terra sacra agli indigeni,  e contro la costruzione della diga di Agua Zarca, sempre in territorio Lenca. Il vice di Berta, Tomas Garcia, impegnato nelle stesse lotte, era stato ucciso nel 2013. Ma Berta era andata avanti. Fino  a quando la vendetta degli stupratori della sua gente e del suo paese non ha raggiunto anche lei. Ammazzato con una fucilata, proprio nei giorni in cui ero lì, anche Walter Trochez, giovanissimo, ma stimatissimo difensore dei diritti umani e gay. Intanto l’Italia onorava l’Honduras con il campione GLBT Vladimir Luxuria che vagolava per l’Isola dei Famosi con le mutande di Valeria Marini in testa. Titolone di “Liberazione” in prima pagina: “Forza Vladimir!” E’ la nostra sinistra..

Abbiamo perso una combattente senza pari dello schieramento antimperialista, una donna forte, intelligente, buona. L’Honduras ha perso una sposa, una madre, una figlia. Noi piangiamo Berta insieme al suo paese orfano e ne grideremo il nome contro l’ambasciata dell’Honduras a Roma. Là dove non vedremo di certo i bravi pacifisti e nonviolenti, impegnati a protestare contro l’Egitto e contro l’uccisione di uno che lavorava con tale John Negroponte,  comandante di squadroni della morte e massacratore del popolo che Berta difendeva. Coincidenze e contraddizioni della storia. Ci rimane solo di sperare che l’invocazione dei figli di Berta, citata in apertura, venga raccolta. Non solo dagli honduregni, ma dal popolo che Berta considerava il suo, quello che nel mondo viene calpestato, si alza de piè, non s’arrende. Un altro fiore dell’America Latina ci ha dimostrato come i/le Che Guevara non muoiono mai.



6 commenti:

Anonimo ha detto...

Sono "rivoluzioni" destinate a fallire perché non troncano le opposizioni capitaliste. Senza "violenza" posta rivoluzioni non si fa molta strada.....


Ludovico

Anonimo ha detto...

Mi dispiace dirlo e mi illudo pensarlo, ma fino a quando le masse popolari dell’america latina non si slegheranno dal condizionamento della cultura cattolica-biblica-evangelica e di tutte le varie degenerazioni che essa ha contribuito a ramificare nel continente, mai saranno realmente slegati da washington e quindi dall’europa colonizzatrice. Sono altresì convinto che Ratzinger abbia messo fine all’istituzione Chiesa così come Bergoglio abbia colto al volo il progetto di ‘umanizzazione’ di quella che è stata la più feroce macchina da guerra e il più oscuro supporto psicologico all’annientamento di tutto ciò che non era ‘occidente bianco’. Quello che da qui leggiamo come chiesa, là e non solo, si traduce in Pontifica Università Cattolica e collegi di varia ispirazione soprattutto Bon Bosco, The Church of Jesus Christ of Latter-day Saints i cui leaders, bianchi, si muovono tra partito repubblicano u.s.a. e business vari dalla forever living alle piantagioni ecologiche di copertura a multinazionali come deichmann che fondono business e teologia del ‘recupero’ . Nelle ultime elezioni in Giamaica la chiesa avventista del 7° giorno garantirà il ponte con Ted Cruz così come con chiunque vinca le elezioni statunitensi garantiti dalla david panton capital holdings, ex marito della combattiva e non più sprovveduta miss mondo. La ‘nuova chiesa’ è riuscita ben a separare le masse popolari da quelle realmente indigene, e questo è un bene, frazionando la popolazione semplice tra chi ce l’ha fatta e chi ce la può fare, ad uscire dalla povertà, in cambio di un tenore di vita illusorio e sempre comparato agli standard delle genti ‘bianche’, come se quello fosse lo snodo della libertà e della giustizia. Le valutazioni militanti ed estremamente avanzate rispetto al livello di conflitto occidentale vengono risucchiate nella necessità della chiesa di fare breccia nel disagio e nelle problematiche che essa stessa ha prodotto negli ultimi secoli (intervento di Stedile alla faziosa internazionalista dei popoli in vaticano). La voglia di occidente sta sgretolando l’america latina in fazioni ben finanziate e illuse per l’ennesima volta di potersi appropriare delle armi del nemico, ma il fine dell’egemonia bianca è sempre la terra e le risorse, oltre a giardini dove passare vacanze e pensioni. L’accondiscendenza delle presidenze della speranza chavista post-castrista è inevitabilmente regolata dalle propensioni popolari, stordite da internet e globo tv. Ma se piccola è la resistenza, grande sarà la vittoria.

Anonimo ha detto...

Mi scuso, volevo dire post-rivoluzione.

Le affermazioni di Dezzani sul Tuo conto sono una sbrodolata ipercomplottista ed il soggetto, pur bravo analista, non ne è nuovo. Se leggesse i tuoi interventi capirebbe che sei un meraviglioso, inguaribile e romantico rivoluzionario, il cui romanticismo porta a volte, forse, a fidarsi troppo del movimento spontaneo. L'insistenza di Dezzani e la sua incrollabile certezza del Tuo "doppiogiochismo" meriterebbero una denuncia, senonché mi viene da chiedere con quale criterio un giudice borghesuccio potrebbe dirimere la questione.....Che Guevara si è fidato dei contadini boliviani, che pare abbiano fatto la spia. Non era sicuramente un doppio giochista. Dezzani odora di sovranismo da lontano un miglio....

Con affetto e stima ( da non ricambiare per il mio filo post-stalinismo....)

Ludovico

alex1 ha detto...

Un bell'articolo su questa protagonista, nella giornata dell'otto marzo che le democratically correct preferiscono dedicare a personaggi perfettamente funzionali al sistema, come la Hillary Rodman (la quale, nonostante la mal celata misandria, si fa chiamare con Il cognome del marito), la rancorosa Boldrini, pronta a santificare ogni donna che denuncia un uomo ex marito ex compagno, nel segno del "tutto il potere alle donne" (ma quali donne? Quelle possibilmente giovani e di buona famiglia che fanno propri i valori occidentali del carrierismo e dell'individualismo) e delle tante associazioni antiviolenza e LGBT che di questa donna coraggiosa e pronta ad affrontare sacrifici, che denunciava le storture e lo sfruttamento delle risorse naturali ai danni delle comunita' locali da parte delle compagnie occidentali, cosi lontana dai desideri illimitati trasformati spesso in "diritti civili", non saprebbero bene cosa farsene. Amaro ma vero, una Chico Mendes del centro America, con la speranza che possano nascere altre. E che riescano a sensibilizzarne qualcuno in piu'anche da noi.

Anonimo ha detto...

Bravo Fulvio! Sei un "combattente" dell'informazione. Purtroppo la massa ama le favole e non comprende chi spiega l'amara verità. Ma noi dobbiamo "restare umani". Un abbraccio. Mauro.

Anonimo ha detto...

Grazie Fulvio per informare quello che accade nell'Honduras, veramente è poco paragonato con la realtà, quella è guerra!