giovedì 23 giugno 2016

RISPOSTA SUI 5 STELLE





Chiudo per qualche tempo il blog a causa di altri impegni (ma leggerò regolarmente i vostri commenti e, se del caso, risponderò) con questa lettera che un mio amico e interlocutore ha indirizzato al quotidiano dei morti viventi. La considero una risposta come meglio non avrei potuto scriverla io, semplice, efficace ed esauriente, a tutti coloro che, con toni vari ma con argomenti sostanzialmente uguali e, a mi avviso, anche un po' consunti, mi hanno rimproverato il sostegno - ragionato e legato ai fatti e agli sviluppi - al Movimento 5 Stelle.
Ciao a tutti.



Amici de 'il manifesto'
mi dispiace dirlo ma la sinistra di Fassina ed Airaudo non ha avuto il coraggio, nel voto di ballottaggio, di dare indicazione di voto a favore delle due candidate del M5S, Raggi e Appendino,  più vicine alla sinistra, basti pensare alla loro opposizione alle olimpiadi, alle grandi opere ed alla Tav e sostenitrici del No al Referendum, ed ha perso l'occasione, anche se a posteriori ininfluente sul risultato, di contribuire al cambiamento e dare un segnale di opposizione al PD  . Gli operai, i giovani, le parti più deboli e povere dei cittadini, a Roma e Milano, tra il PD ed il M5S hanno scelto le candidate del M5S, la sinistra si é astenuta. Non si é astenuta invece la sinistra di Rizzo a Milano che ha dato il suo appoggio al PD diventando probabilmente determinante per la vittoria di Sala.
SI é molto critica nei confronti del PD ma tra PD e M5S o non si schiera o sostiene il PD . Capisco che ciò accade perché se Fassina ed Airaudo avessero dato indicazione di voto per il M5S, SI sarebbe andata in pezzi, ma questo é un segno della sua debolezza ed inadeguatezza.
Il PD di Renzi non é di sinistra,ma non lo é mai stato in quanto partito neoliberista e filoatlantico, fin dai tempi di Prodi e Treu, con le privatizzazioni e la precarietà del lavoro, a D'Alema, il bombardiere della Serbia, a Bersani, sostenitore di Monti, delle liberalizzazioni e della guerra libica,  a Renzi che porta avanti il programma della destra, meglio di Berlusconi. Manca ancora solo l'attuazione delle gabbie salariali, la cancellazione dei contratti nazionali e l'adesione al Ttip. Se il PD continua a sopravvivere é solo per la sua rete di potere e per il sostegno di quelle generazioni di anziani, come la mia ,che un tempo votavano PCI ed ora credono illusoriamente che votare il PD significhi votare a sinistra, e lo vedo bene qui a Savona.        
 A mio parere, la sinistra e quegli intellettuali che insistono nel dialogo con il PD e considerano il M5S eterodiretto e di destra, sembrano prigionieri della loro storia, non hanno preso atto dei cambiamenti avvenuti nella società, non hanno fiducia nei giovani e criticano il M5S ma non sono capaci di creare una vera forza di sinistra. 
Con quale forza si vuol cercare di cambiare l'attuale politica italiana ed europea ? 
Cordiali saluti
Ireo Bono-Savona

AFRICA - L'OTTAVA GUERRA DEL NOBEL PER LA PACE. E LO SCOGLIO ERITREA

“La storia della specie e ogni esperienza individuale trasudano prove che non è difficile uccidere una verità e che una bugia ben raccontata è immortale”. (Mark Twain)

La libertà è stata perseguitata su tutto il globo; la ragione è stata fatta passare per ribellione; la schiavitù della paura ha reso gli uomini timorosi di pensare. Ma tale è l’irresistibile natura della verità che tutto ciò che chiede, tutto ciò che vuole, è la libertà di apparire” (Thomas Paine, 1791)

“E’ mai concepibile che una democrazia che ha rovesciato il sistema feudale e ha sconfitto sovrani possa arretrare davanti a bottegai e capitalisti?” (Alexis de Tocqueville)

Cari corrispondenti, questo è l’ultimo pezzo per parecchie settimane. Un po’ sarò fuori, un bel po’ sarò impegnato nella realizzazione del documentario che abbiamo girato in Africa e in Eritrea e che spero porterà in giro per l’Italia, a partire da ottobre, una buona dose di verità su quanto ci deformano e manipolano in vista della riconquista coloniale del continente e della sua avanguardia nel Corno dì’Africa.  Comunque ci continueremo a incontrare nella posta.


 C’è una resistenza, addirittura un’avanguardia? Regime change!
Si parte con una campagna di demonizzazione del leader e del suo regime. Si attivano per la bisogna Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontieres, Medicins Sans Frontieres, Soros, house organs coperti, come “il manifesto”, Ong del posto o, in mancanza, del circondario. Cotti ben bene i neuroni di un’ampia opinione pubblica trasversale, ci si prova con una rivoluzione colorata. Se localmente difettano le basi materiali, umane, come nel caso dell’Eritrea, se ne inventa una esterna, della dissidenza in esilio, possibilmente a Washington e in mancanza di massa critica si fa un fischio alle presstitute e i media sopperiscono. Se poi tutto questo non fa vacillare il reprobo, valutata l’ipotesi di un approccio da dietro col sorriso, alla cubana, vietnamita o iraniana, e trovatola impraticabile di fronte all’ostinazione dell’interlocutore, si passa alle maniere forti: sanzioni per ammorbidire ogni resistenza popolare, suscitare lacerazioni sociali e malumori nei confronti dei vertici  che preparino il terreno all’intervento armato. Diretto, perchè condotto con istruttori, armamenti, finanziamenti e forze speciali proprie, ma occultato dall’impiego visibile e teletrasmesso di sicari surrogati, tipo Isis o nazisti di Kiev. Nel caso in esame, etiopici.

martedì 21 giugno 2016

L'IDRA A NOVE TESTE - FALSE FLAG DA ORLANDO A LONDRA, DA PARIGI A BRUXELLES, HOOLIGANS RUSSI, DOPING RUSSO, ANACONDA 16, AL NUSRA...Ma poi c'è Roma (non solo), che non ha fatto la stupida stasera e ha scelto le stelle più brillarelle che cià...


S’ode a destra uno squillo di tromba, da sinistra risponde uno squillo. C’è Orlando, c’è Londra, ma c’è anche un controcanto, per ora a macchia di leopardo, non tanto contro l’Idra, che però resta sullo sfondo, quanto contro le sue mille testoline velenose locali. La luce in fondo al tunnel manda lampi di collera e di volontà, quali quelli che si sprigionano dalla fantastica lotta dei francesi contro il moloch terrorista Hollande-Valls, ormai lunga due mesi e vai, alla faccia di campionati europei, psicosi della paura, stati d’assedio e brutalità polziesche; o dall’insurrezione di massa degli insegnanti messicani coontro un riforma della scuola del tipo renziano “La Buona Scuola”, partita dalla solita Oaxaca e affrontata dal narcoregime di Pena Nieto con 12 morti, 25 scomparsi, decine di feriti, che sta mobilitando altri settori sociali, si allarga a tutto il Messico (70mila nella capitale) ed è una sorprendente risposta, nello Stato del NAFTA (vedi TTIP), al ritorno del Condor Usa sull’America Latina.


In Iraq e Siria le forze popolari e dei governi legittimi stanno ricacciando nelle caverne, dove Cia e Mossad li hanno addestrati, i subumani usati dall’Impero e dai suoi vassalli per cancellare popoli e civiltà. Un incoraggiamento per noi, con le nostre 90 basi Usa e Nato che infettano il territorio e che stiamo vincendo contro quella più criminale di tutti, il MUOS in Sicilia, arriva da Okinawa: dopo l’ennesimo stupro e l’ennesimo assassinio perpetrato da delinquenti Usa in uniforme, 80mila persone in marcia contro le basi Usa che dal 1945 violentano l’isola giapponese.
Non il meno peggio, il meglio su piazza
Da noi i lampi di luce ci arrivano nel travolgente voto amministrativo che sderena gangster, mafiosi e giocolieri e apre una strada nuova, illuminata dallo sfolgorìo di 5 stelle. Tutta da percorrere, questa strada, e da vedere come. Ma intanto la muraglia è sfondata e dal varco la strada si snoda. Restare spocchiosi ai lati, piagnucolando sui vecchi distintivi arrugginiti, denunciando voti che verrebbero da destra (conta per cosa si vota e colme i voti verranno usati!), è puro onanismo. Quel che conta è che, con i 5 Stelle, milioni di italiani hanno detto NO, quasi ovunque su temi veri di sinistra, all’organismo marcio del consociativismo e dell’inciucio, che è il posto di blocco dove ci hanno fermato i gangster e i bankster.

mercoledì 15 giugno 2016

VELINARI E BISCHERI



Datemi qualche ora in più e proverò a dire qualcosa di non insensato sul parallelo attacco alla libera Eritrea da parte dell’esercito etiopico e della Commissione del Diritti Umani dell’ONU a Ginevra e poi sulla mega False Flag di Orlando in Florida. Per ora torniamo su Regeni e su chi ciurla nel manico.

Né-Nè
Nel Comitato No Guerra No Nato di cui faccio parte si è sviluppata in questi giorni una polemica da me innescata e che riguardava l’eterna questione dell’equidistanza, volgarmente né-né, per alcuni irrinunciabile valore. Questione per la prima volta scaturita ai tempi della guerra contro la Serbia, da me raccontata sotto le bombe su Belgrado, e in cui avevo definito la variegata folla di pellegrini a Sarajevo, tra disobbedienti di Casarini, rifondaroli e sinistri tutti, sedicenti nonviolenti e realtà ecclesiali varie, in quel modo: quelli del né con la Nato, né con Milosevic. Quelli puliti e intonsi alla finestra, freschi di Mastrolindo, senza macchia.

E’ una genia che si ripresenta in tutte le occasioni in cui tocca prendere la scomoda e compromettente decisione di schierarsi: né con i Taliban, né con Saddam, né con Gheddafi, né con Assad  e, specularmente, né con gli Usa e con la Nato. C’era stato un antecedente, né con le BR, né con lo Stato, ma era falso, non c’entra niente perché lì si negava l’adesione a due facce della stessa medaglia. Come se oggi si dicesse né con Obama, né con Al Baghdadi, né con Trump, né con Killary. Come quando il Gasparazzo di Lotta Continua giustamente decideva né con il padrone., né con il sindacato. Tautologico.

Il né-né si è consolidato e istituzionalizzato. Ha trasceso vecchi accostamenti a pesci in barile, cerchiobottisti, panciafichisti. Da una base di gentildonne e gentiluomini perbene che volevano restare tali e compatibili con l’ambiente in cui vivevano, si è allargato ed è cresciuto fino a vertici un tempo impensabili. Si è costituito in organizzazioni, partiti, Ong, pubblicazioni, agenzie. Per un attimo ne è diventato luminoso portavoce addirittura Berlusconi. Ricordate quando azzardava “non (più) con Gheddafi, non (ancora) con la guerra”?

La polemica partiva da una piccola agenzia di notizie, house organ del Partito Umanista (sì, esiste ancora) che nei suoi bollettini, tra una condanna della guerra alla Siria, una rampogna alla Nato, un rimbrotto al golpe della malavita brasiliana contro Rousseff, ti inserisce quatto quatto una sfilza di calunnie e bugie sull’Eritrea del “dittatore Afewerki”, una repulsa dell’omobofo e autoritario Putin, qualche dubbio sulla democraticità di Assad, una condivisione della rivoluzione color Cia in Iran contro il despota Ahmadinejad e, un piantarello sulla Grecia scassata, o su indigeni latinoamericani in estinzione e, sistematicamente, la riproduzione delle manovre affidate dal Dipartimento di Stato, o dalla Cia, o da Soros, a Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontieres.

Così veniamo a sapere di Regeni “trucidato dal regime egiziano”, ma non del suo lavoro al servizio di spioni e serial killer internazionali; del Darfur, ma non delle operazioni di destabilizzazione del Sudan; di Karadzic e delle sue colpe per Srebrenica (massacro inventato e a lui attribuito); del “tiranno” Mugabe, presidente dello Zimbabwe (e dell’ultimo paese, insieme ad Algeria e Eritrea, che non ospita truppe e multinazionali Usa e latifondisti bianchi); addirittura dei poveri Tartari della Crimea, oppressi e repressi dagli “occupanti” russi…...

Camaleonti
Di Ong e agenzie come questa sono pieni gli scaffali imperiali. Sei attirato dallo zuccherino del pacifismo, della condivisione della sorte di aggrediti, dalla condanna di guerre e tiranni e poi te ne torni a casa intossicato dal nocciolo di cianuro che alla zolletta era stata infilato da Amnesty o HRW o NED o Freedom House o Soros. Si chiama “savianismo” ed è l’evoluzione del né-né. Prende il nome da uno scrittore che se la prende, facile facile, con  il personaggetto de Luca, governatore della Campania, per poi poter impunemente iscrivere il personaggione De Magistris tra i seguaci di Hamas, intesi come i barbarici persecutori dell’amato Israele e Hugo Chaves tra i peggiori caudillos latinoamericani  Con il né-né  ti paravi il culo non stando né di qua, né di là e restavi a galla. Con il savianismo fai un passo avanti. Non stai né con la camorra, né con Hugo Chavez, ma con la camorra ti sei costruito un piedistallo dal quale, riconosciuto eroe, puoi tuonare contro Hugo Chavez o Luigi De Magistris ed essere credibile poiché sono credibili coloro che hanno un piedistallo. Come mettere su un piatto della bilancia un moscerino e sull’altro un caimano, ma la bilancia è certificata.

Ultimamente Il fenomeno è dilagato ed è diventato pericolosissimo. Pericoloso per chi, ammaestrato da battesimi, cresime, catechismi ed oratori, si compiace di farsi gabbare. Non dai grandi media, che si sanno e si ammettono di regime. Con un grano di sale in zucca e  l’occhio non troppo catarattizzato, di Stampa, Messaggero, Repubblica, Corsera, vari tabloid scandalistici come questi, dei Tg e degli altri media di regime, si percepisce la natura di trombette e tromboni, zufoli e organi e si vede bene chi, di spalle, dirige la musica. Di questi giornali si dà per scontata l’ottusa disonestà intellettuale, non ci si sprecano soldi, per capire dove vanno a parare basta sbirciarli in rete. Vale anche per la tivvù.

Poi ci sono i giornali di opposizione a seconda. Dunque farlocchi. Ma pericolosi. Più avanti leggerete come due dei più illustri si siano rivelati patetici velinari  rimasticando, ognuno in forma leggermente reinventata, la stessa velina centrale su Regeni.

Sono questi due giornali, strepitosamente savianei, che compro e leggo da capo a coda. Uno è il “manifesto”  che, per quanto tenuto in vita dalle pere pubblicitarie di compagni sostenitori come Enel, Eni, Telecom, Coop e, per quanto venda meno del marronaro all’angolo, insiste a rappresentare un vociante grumo di sedicente e secredente sinistra. Gli rimane, dunque, una capacità di sgambettare un bel po’ di gente illudendola di accompagnarla verso il sol dell’avvenir. L’altro è “Il Fatto Quotidiano”, che va fortissimo e ha un gruppetto di  giornalisti  di varia tendenza, ma di penna acuminata e ben condotta. Sono i due unici quotidiani da edicola che passano per essere “altro”, “contro”, “alternativi”. Infatti ci danno giù alla grande contro Berlusconi, prima, e ora contro Renzi. Poi si passa alle pagine estere e si scopre che siamo davanti a due portentosi esempi di savianismo.

Dicesi savianismo la conquista di un piedistallo di credibilità e fiducia nel settore sociale genericamente opposto al potere esistente attraverso la critica condivisibile alle sue più evidenti manifestazioni negative, per poi indirizzare quella fiducia e quella credibilità a sostegno delle grandi operazioni strategiche, eminentemente internazionali, quelle che poi contano davvero e decidono il destino di tutti. Abbiamo così  questi due giornali d’opposizione che conducono una fiera lotta contro, oggi come oggi, il regime Renzi e in difesa degli strati che da quel regime sono colpiti, impoveriti, esclusi, repressi. Coinvolti fino all’indignazione e all’entusiasmo nelle filippiche contro Expo, le trivelle, le spedizioni libiche, il Jobs Act, i voucher, gli stupri dei cementificatori, il ladrocinio delle Grandi Opere, Banca Etruria di papà Boschi,  passiamo dalle veementi intemerate della redazione interni, dalle cose di casa, agli esteri, dal calcetto del bar ai Mondiali. E qui giocano quelli che ti risolvono la partita, i Colombo, i Gramaglia,i Rampoldi, i Di Francesco, gli Acconcia, i Battiston, i Celada…

Ed è qui che si gioca la partita. Sei certo che ti hanno detto delle sacrosante verità, contro il conformismo, contro il senso comune, contro le balle del Giglio Magico. Trovi conferma dell’affidabilità del tuo comunicatore anche quando ti dice che la spedizione Nato contro la Libia ha prodotto solo disastri, magari dimenticandoti che qualche anno prima l’aveva sostenuta, se non con le bombe, con la denuncia degli “spaventosi delitti” di Muammar Gheddafi. Quindi, vasellinato da tanta autonomia giornalistica, la bevi con gusto anche quando ti rifila una società civile afghana che si sente protetta dagli occupanti Usa, o una Forza d’Intervento francese che salva il Mali dal jihadismo terrorista, o un dittatore carceriere e torturatore come Afewerki in Eritrea, o una Hillary Clinton che, comunque, è mille volte meglio di Trump, o un Pannella che stava dalla parte dei popoli oppressi e di un Dalai Lama vertice sublime di umanità, o un Regeni, per niente ambiguo collaboratore di spioni e masskiller angloamericani, anzi combattente per il riscatto degli operai schiacciati dallo stivale del Pinochet egiziano, o un Putin che sevizia le candide Pussy Riot e scatena la rediviva GPU contro gli omosessuali, o quel Kim Yong Un che fa sbranare lo zio dai cani, o la santa subito per meriti Usa San Suu Kyi, o Fratelli Musulmani che da Levante a Ponente innalzano i vessilli della democrazia sulle macerie del dispotico nazionalismo laico. Sempre allineati e coperti sotto i vessilli finto-umanitari del depistaggio, della mistificazione, dei trampolini di guerra HRW (Soros), Amnesty (Dipartimento di Stato), Reporters Sans Frontieres (Cia).

O, la cosa più oscena e al tempo stesso rivelatrice della sotterranea complicità con il mostro, l’avallo dato a tutti gli attentati terroristici, anche quelli più scopertamente di Stato, le più eclatanti False Flag (vi eccelle “Il manifesto”), con contemporanea criminalizzazione o ridicolizzazione degli analisti non omologati, i famigerati “complottisti”. Non ammettendo, neanche davanti a una mole inconfutabile di contestazioni, prove, testimonianze, documenti, quello che qualsiasi professionista della comunicazione dovrebbe coltivare come principio fondamentale: il dubbio.  L’unilaterale assegnazione della verità alle fonti ufficiali per nesso logico comporta la condivisione delle ragioni che i mandanti traggono dal terrorismo, dal loro terrorismo, per condurre guerre di sterminio, assassinare migliaia di persone extragiudizialmente, trasformare le proprie apparenti democrazie in Stati di polizia e in demolizione dei diritti umani veri. Con il che si rasenta il tasso di criminalità degli stessi Stati terroristi.

Ed ecco che, prendendoti per il verso dei diritti umani e della democrazia, ti hanno beccato. E non ti sei manco accorto che ingurgitavi dolci e tossici sciroppi cripto-Nato. Perché nel tuo piccolo domestico ti puoi anche permettere di sbraitare.Tanto ci sono le misure di controllo e di isolamento. E’ sulla grandi questioni, quelle che dai piani alti calano a mannaia sulle turbolenzucce dei seminterrati, che non devi sgarrare.

Un piedistallo d’oro umanitario, tempestato di diritti civili e GLBT, circondato dal tripudio delle genti, per farne calare le zozzerie del menzognificio imperiale. Che sono quelle che contano. Giacchè, povero bischero, puoi pure, in coro con questi scaltri velinari, abbaiare quanto vuoi contro il ciarlatano zannuto dell’Arno, sbertucciare la virago idiota che fa il ministro, scoperchiare zuppiere di mota politico-mafiosa servita per pranzo a palazzo, scoprire carogne fetecchiose in mezzo agli scranni delle istituzioni. Ma quel che conta è che, così addomesticato da tanta bella denuncia e indignazione, hai il cervello spalancato all’ingresso della cavalleria pesante: quella delle cose del mondo.

Due giornali, una velina
Due dimostrazioni eclatanti di questo assunto le ho trovate giorni fa nelle cronache identiche, ma differenziate nella confezione, che due giornali, che si dicono distantissimi, tanto da ignorarsi pervicacemente perché concorrenti sul medesimo bacino, hanno pubblicato sullo stesso argomento. Trattavasi con ogni evidenza di velina distribuita agli organi “amici” dalla centrale alla quale non si può dire di no. E riguardava un nervo scopertissimo del corpo imperiale: Giulio Regeni.
C’era stato un contraccolpo inaspettato e al limite della catastrofe per l’ordito imbastito tra Israele e Occidente allo scopo di far saltare l’Egitto, il suo ruolo sulla scena mediorientale e mondiale, i suoi rapporti con partner preziosi, come un’Italia affamata di energia di cui l’Egitto si è scoperto fornito in abbondanza.  Già si era riusciti a tagliare gran parte dei convenienti rifornimenti di gas russo e iraniano a Italia ed Europa (South Stream, Turkish Stream, gasdotto Iran-Siria-Mediterraneo), reimponendo l’esclusiva delle multinazionali anglosassoni e francesi. Figuriamoci se ci si poteva permettere che l’Italia approfittasse anche dell’enorme giacimento egiziano, dando essa già fastidio con i gasdotti arabi libico e algerino sotto controllo ENI. 

Botta fatale di Cambridge
A Cambridge il pellegrinaggio della procura di Roma, affiancata per la giusta carica mediatico-emotiva dalla famiglia Regeni, ha sbattuto contro le alte mura medievali dell’ateneo. I professori dell’augusto college si sono valsi della facoltà di non rispondere. Come mai se, come famiglia Regeni e gazzettieri di mezzo mondo giurano e spergiurano da mesi, il giovane aveva eseguito un compito assegnatogli dai suoi docenti di esplorare natura e comportamenti dei sindacati egiziani cosiddetti “indipendenti” e di questo gli fosse stato fatto pagare il fio dal “Pinochet del Cairo”? Che non fosse quella la missione? Che fosse un’altra, magari imbarazzante, magari inconfessabile? Magari quella di una struttura diversa, forse parallela, forse sinergica, forse no?

E’ tradizione consolidata che i servizi britannici traggono ampi rincalzi dagli istituti in cui l’élite, anche internazionale, alleva la sua classe dirigente. Ma stavolta tale dato risulta confermato da una circostanza assolutamente rilevante e rivelatrice, tanto che tutti gli apologeti di Regeni combattente e martire, e ovviamente i suoi professori di Cambridge, più o meno coinvolti, ma certamente al corrente, come anche coloro che avrebbero il dovere professionale di accertarsi e comunicare ogni dettaglio della vicenda, pervicacemente la occultano. Un mezzo grammo di buonafede, oltre a un filino di deontologia, avrebbero dovuto indurre costoro a chiedersi e a chiedere all’universo mondo che cosa mai avesse fatto Regeni, primo, nell’università del New Mexico, nota per le sue vicinanze all’intelligence Usa e, secondo e soprattutto, perché poi avesse proseguito quella formazione lavorando dal 2013 al 2014 per Oxford Analytica, una gigantesca rete di spionaggio privata con sedi a Oxford, Washington, New York e Parigi e 1.400 collaboratori nel mondo. Impresa diretta da tre allarmanti figuri che proprio per niente si conciliano con l’immagine che la voce del padrone, regolarmente ospitata anche dal “manifesto” e dal “Fatto”, i giornali “alternativi”,  ha voluto proiettare: David Young, reduce dal carcere per il Watergate di Nixon, Colin McColl, ex-capo del Mi6, l’intelligence britannica per l’estero, e John Negroponte, ricordato in Centroamerica e Iraq per i suoi squadroni della morte.
Da mesi il coro regeniano si affanna a fantasticare tra speculazioni e certezze apodittiche. Ultima quella di un Regeni caduto vittima di faide tra servizi di sicurezza rivali. Pian piano lo sfortunato e azzardoso giovanotto finisce sul retro del proscenio, mentre vengono proiettati sullo schermo le nefandezze del presidente egiziano, automatizzato in mandante, se non in esecutore. La lotta del governo e delle forze di sicurezza contro il terribile dilagare del terrorismo dei Fratelli Musulmani, spodestati dalla presidenza da una rivoluzione popolare, con gli inevitabili arresti e le inevitabili condanne di chi fa stragi di poliziotti, soldati e civili, diventa nella narrazione di Amnesty, manifesto, Il Fatto, una repressione di oppositori rispetto alla quale la Turchia o l’Arabia Saudita eccellono quali protagonisti dei diritti umani.

Ora nel pesante contraccolpo di Cambridge, nel quale il non-detto  delle autorità accademiche, intime di Regeni, diventa un colossale detto su una sceneggiatura del tutto diversa e talmente imbarazzante per i britannici da non potersi, appunto, dire. Con in più la totale assenza di smentite sull’ipotesi, tuttavia circolata, da noi e anche all’estero, del nerissimo retroterra spionistico dell’italiano e quindi della crescente credibilità dell’ipotesi che, più o meno ignaro, dai suoi padrini sia stato sacrificato per dare a una poderosa provocazione contro l’Egitto di Al Sisi (e contro i suoi rapporti economici con Italia, Russia, Cina e altri concorrenti dei capintesta Nato) la copertura di un giovane schierato con sindacati e democratici. Perfetto. Se solo da là dietro non emergesse Oxford Analytica  combinata con il ritrovamento del corpo torturato nel giorno degli accordi Cairo-Roma. Il che, insieme all’evidentissimo cui prodest derivato dalla speculazione sulla vicenda,  rade al suolo l’idea di una responsabilità del regime egiziano, solo a pensare quali sventure gliene sono venute.

Due personaggi in cerca d’autore
Ed ecco che in redazione arriva una velina che deve parare il colpo sia dell’eloquente riserbo di Cambridge, sia delle misteriose telefonate intercorse tra Regeni e suoi interlocutori britannici alla vigilia della scomparsa e su cui si è subito steso un chiassoso silenzio. Velina uscita dalle centrali dell’operazione Regeni come dimostrato da come l’abbiano pubblicata, ognuno manipolandola secondo la chiave ritenuta più opportuna, il Fatto e il manifesto.

Il nocciolo del depistaggio sta nella scoperta di intrighi e rivalità tra servizi di intelligence egiziani, con uno civile dalla parte di Al Sisi e l’altro (ce n’è anche un terzo, tra coloro che son sospesi) militare in mano ai suoi rivali. Non si può affermare, ma si implica che il secondo abbia buttato il cadavere mutilato di Regeni tra i piedi dell’odiato presidente. Dunque l’ennesima fantasticheria, stavolta intesa a rappresentare un Egitto dilaniato da forze, ovviamente tutte orripilanti, interne al  regime, con un Al Sisi debolissimo e sul punto di precipitare e, quindi, per conseguenza logica, il terrorismo sanguinario dei Fratelli Musulmani riabilitato a civile interpretazione della rivoluzione democratica del 2011. Cosa che viene utile anche per sostenere i Fratelli Musulmani libici di Al Serraj e i tagliagole e scuoiatori di neri di Misurata.

Il bello è vedere come il rispettivo redattore abbia colorito la velina ne Il Fatto e nel manifesto. Il Fatto Quotidiano scopre l’immancabile ma affidabilissimo “anonimo” in Turchia, dove Travaglio può permettersi di spedire un inviato che ne viene relazionato da un presunto leader dei Fratelli in esilio a Istambul, tale Amr Darrag. Nel meno abbiente manifesto, dove Chiara Cruciati  è la nuova pasionaria dei  bombardamenti su Al Sisi da parte della Fratellanza, visto che il suo fan Acconcia è passato a sostenerne la versione Nato in Libia, si fa ricorso a un meno prestigioso “anonimo”: un “attivista egiziano che per ragioni di sicurezza chiede di non essere identificato” . Comprensibile no? Mica vogliamo buttarlo tra gli zoccoli del Satana Al Sisi!

Anonime entrambi, le fonti dei due organi cripto-Nato, e dunque credibili. Sia quando danno per scontato che il nobile militante per gli oppressi e sfruttati Regeni sia stato liquidato dal regime, qualunque testa dell’Idra l’abbia materialmente fatto (entrambi concordano con l’attribuzione del delitto alla NS, National Security che, sentendosi scavalcata dall’intelligence dell’Esercito, si sarebbe vendicata facendo trovare accanto al corpo di Regeni – ucciso da chi? – una coperta militare. Mostruosa astuzia, non vi pare?).
Per il resto è tutto un guazzabuglio di intrighi di palazzo da far invidia a Macbeth, nel quale, con un expertise da far invidia a un Le Carré all’apice della forma, si descrive una specie di rettilario di gruppi, enti, caporioni, che di reale non hanno nulla, ma di virulenza propagandistica anti-egiziana quanto serve ai riconoscibilissimi nemici di questo ultimo grande Stato arabo unito, indipendente e perlopiù ora ricco di risorse energetiche più di tutti quelli che si affacciano sul Mediterraneo.

In sostanza si tratta di un tentativo per sostenere, con le solite illazioni e accuse basate su assolutamente nessuna prova, testimonianza, evidenza, i colpi di coda dello schieramento Regeni: la proposta, grottesca, di una commissione d’inchiesta parlamentare e, addirittura, la richiesta dei genitori al parlamento europeo di rompere con l’Egitto. Sullo sfondo, la solita soluzione per tutti i paesi che non marciano al passo del 4° Reich: sanzioni genocide e poi bombe. Qui c’è di sicuro un morto ammazzato. Non si sa da chi. Tutt’intorno, lungo alcuni meridiani e paralleli, sono sparsi milioni di morti ammazzati. Com’è che nessuno esige gli stessi provvedimenti contro gli assassini di costoro che, in questo caso, sono noti e confessi? Forse perché questi sono del 4° Reich? 

La sovrapposizione dell’anonimo turco e dell’anonimo egiziano è tale da sembrare concordata tra Travaglio e la direttrice dsel “quotidiano comunista” Norma Rangeri: Dobbiamo lanciare questa velina, tu come la metti? Io pensavo a un Fratello Musulmano scappato in Turchia, vittima di Al Sisi come Regeni… Bè, io a Istanbul non ciò nessuno, però un attivista egiziano perseguitato da Al Sisi va bene uguale….

I due quotidiani di cui citiamo le imprese sono pericolosi. Ti prendono per i capelli e ti trascinano con sé e contro i notabili domestici fino a pagina tot. A quel punto sei bell’e cotto e finisci fiducioso nella palude della politica estera, ti bevi secchiate di poltiglia  pensando che sia rum cubano e manco ti accorgi che i caimani ti asportano fette di cervello. L’uno vanta fuoriclasse della penna, l’altro ti seduce con l’orizzonte tracimante di “nuovi soggetti politici” che faranno rinascere la sinistra (una volta D’Alema, una Obama, una Bertinotti, una Cofferati, e poi Tsipras, Landini, Fassina, Corbyn, Sanders, … 

Intanto ti rifila quattro paginoni che ti raccontano un’Asia dove i cattivi veri sono i Taliban e i cinesi, un inserto redazionale (non pubblicitario) in cui mozza le gambe ai NoTriv raccontandoti quanto sia divertita e abbia imparato una scolaresca in viaggio-premio tra i pozzi dell’Eni in Basilicata (poi sigillati dal magistrato perché corpo del reato), una stroncatura per eccesso operaista del film “I, Daniel Blake” con cui Ken Loach ha trionfato a Cannes e, per contrasto, un’esaltazione della regista Cia Kathryn Bigelow e del suo spot Cia sull’Iraq “Zero Dark Thirty”, un’irrefrenabile avversione a russi, cinesi, 5Stelle e a tutti quelli che stanno sul cazzo all’imperialismo, una smodata passione per quinte colonne come curdi e Fratelli Musulmani, dire peste e corna di Trump cosìcchè ne risulti rigenerata Hillary, per finire con il sempreverde Asor Rosa che, invadendo gran parte della foliazione, insiste a ripeterci che o ci si salva con il PD e con il centrosinistra, migliore dei mondi possibili, o è la fine.

E’ la fine. Come volevasi dimostrare.

giovedì 2 giugno 2016

ALLONS ENFANTS!





“Non temere il nemico, che può solo prenderti la vita. Molto meglio che temi i media, poiché quelli ti rubano la verità e l’onore. Quel potere orribile, l’opinione pubblica di una nazione, viene creato da un’orda di ignoranti, compiaciuti sempliciotti che incapaci di zappare o fabbricare scarpe, si sono dati al giornalismo per evitare il Monte di Pietà.” (Mark Twain)

“Una stampa cinica, mercenaria, demagogica finirà col produrre un popolo altrettanto spregevole.” (Joseph Pulitzer)

Le fenomenali lotte insurrezionali in Francia, dove si sta applicando la lezione latinoamericana dell’attacco allo Stato capitalista di polizia attravero il blocco dello Stato da parte di tutte le categorie che lo fanno funzionare, meriterebbe un trattamento approfondito e su vasta scala, anche per neutralizzare l’omertà della nostra tremebonda classe politica e dei nostri media asserviti. Omertà con il regime francese che si esprime attraverso l’arma di un silenzio quasi assoluto su quanto da settimane va succedendo in quel paese. Essendo noi quelli dove un prefetto può ridurre d’imperio da 24 a 4 ore uno sciopero dei trasporti, senza che il sindacato sollevi un sopracciglio, sapendo adeguatamente della Francia e dei suoi scioperi ad oltranza, potremmo scoprire che non è detto che i giochi col padrone – che sia Renzi, Boccia, Camusso, Juncker, Draghi, Obama – si debbano sempre fare secondo le regole loro.

Ho trovato in rete il documento in calce che fa un interessante confronto tra la nostra situazione e quella francese.
Credo che l'autore dello scritto,fidandosi del potenziale di lotta dei lavoratori italiani, pur sottolineando la diserzione dei loro rappresentanti storici, sindacali e politici, trascuri un dato importante: la passivizzazione dei settori sociali che una successione di governi al servizio del grande capitale finanziario transnazionale è riuscita a produrre. Uno degli strumenti più efficaci , dopo la creazione dello Stato della Sorveglianza Totale e della paura, è stato il depistaggio dalla contraddizione principale, quella di classe, quella del rapporto di forza tra padrone e lavoratore, tra sovrano e suddito, tra dipendenza e sovranità, all’obiettivo totalizzante dei – pur validi – diritti civili, unioni di fatto, GLBTQ, adozioni  Molto importante è poi un dato storico, metapolitico: in Francia resiste un forte senso patriottico in difesa della sovranità dello Stato, che in passato, a partire da De Gaulle, aveva determinato il rifiuto dell'ingresso nell'apparato militare della Nato e poi aveva prodotto lo straordinario NO al referendum sui trattati UE.

In Francia, perciò, mi sembra esserci un terreno più propizio per l'opposizione a provvedimenti di repressione e desertificazione sociale (le 45-50 ore di lavoro settimanali, i contratti aziendali a discapito di quelli nazionali di categoria, la totale flessibilità e il potere assoluto di licenziamento) che la gente percepisce essere la componente francese di un piano transnazionale di trasferimento della ricchezza dal basso in alto, di liquidazione della sovranità popolare e statale, di distruzione progressiva dei diritti e delle libertà democratiche, che hanno per mandanti i tecnocrati non eletti di Bruxelles, Wall Street e la Nato. Cioè forze esterne e prevaricatrici. Fenomeno già riscontrato in tempi recenti quando, facendosi forza della minaccia terroristica, opportunamente coltivata da Charlie Hebdo in poi, Hollande ha tentato di bloccare, con arresti preventivi alla Mussolini, le manifestazioni contro la farsa del COP21 sul clima. E non gli è riuscito.


 Schiacciare la società per far passare il TTIP (e la Nato)

C'è un'altra considerazione che probabilmente è stata fatta dai dirigenti delle lotte francesi e da gran parte della società. Le misure sociocide ordinate a  Hollande e Valls dalle centrali sopra nominate sono il preludio al TTIP, il trattato di libero scambio UE-USA, Nato economica, che, come sappiamo e come validi parlamentari del M5S denunciano con forza, è inteso a radere al suolo le costituzioni europee, le salvaguardie di lavoro, ambiente, salute, sovranità, conquistate in decenni di lotte e a sottometterci agli interessi delle multinazionali Usa. Una consapevolezza che in altri paesi europei sembra già più matura, viste le manifestazioni in Germania, 250mila a Berlino, 90mila a Hannover, seguite non malamente da Roma con 30mila. In Francia si è capito che i gravissimi provvedimenti di ordine pubblico - militarizzazione della società, stati d'emergenza, caccia alle streghe per oppositori - adottati con il pretesto degli attentati terroristici (su cui aleggiano ombre nerissime), nelle intenzioni dei loro esecutori e mandanti (esterni) servono proprio a impedire che, contro il dumping sociale e la riduzione della democrazia a mero involucro formale, si possa manifestare una grande e duratura opposizione di massa.

Il fatto che questo progetto sia stato messo in crisi in Francia, e addirittura in Belgio, da una vera e propria insurrezione popolare, di tutte le categorie del lavoro e con l'appoggio (Nuit Debout) di altri settori sociali, pur più volatili, ma ugualmente colpiti (prima di tutti quelli dell'lstruzione), potrebbe significare che nè un terrorismo utilizzato come alibi per lo Stato di polizia, nè un concerto mediatico omologato alle strumentalizzazioni e falsificazioni di regime, hanno avuto ancora partita vinta.

C'è da augurarsi  che questa storia non vada a finire come lo scontro tra i minatori britannici e la Thatcher, Lady di uranio impoverito, antesignana con Reagan di una guerra di sterminio interna e mondiale. Questi formidabili francesi hanno nel DNA il seme del 1989, di Robespierre, della Comune. I britannici del Brexit,  dei minatori e, forse, di Oliver Cromwell. E il nostro di seme, quello del ’48, della lotta partigiana, del '68, dove s’è nascosto?

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La Francia e noi. 5 brevi riflessioni


Clash City Workers | clashcityworkers.org

27/05/2016

Al momento in cui scriviamo quest'articolo, la Francia è bloccata: le manifestazioni e gli scioperi settoriali e generali contro il progetto di riforma del diritto del lavoro si contano a decine e non accennano a finire.

Lo sciopero delle raffinerie ha lasciato a secco la maggior parte dei distributori di carburante, e quello delle centrali nucleari rischia di lasciare senza corrente il paese. Nel frattempo il governo ricorre ad una sorta di fiducia per blindare il provvedimento, mostrando contemporaneamente deboli segni di apertura al solo scopo di smontare una protesta enorme, la cui grandezza però non riesce ad attraversare le Alpi: sui nostri giornali, infatti, nessuna traccia. Sui social, intanto, decine e decine di lavoratori si disperano: perché loro sì e noi no? Per evitare di cadere in spiegazioni di ordine antropologico su una presunta "incapacità" degli italiani a mobilitarsi, proviamo a condividere alcune riflessioni, allo scopo di capire tutti insieme una cosa semplice: solo chi non lotta perde, e solo chi si arrende in partenza è sconfitto.

1. i sindacati francesi e quelli italiani. L'OCSE riporta, per il 2013, una percentuale di lavoratori iscritti al sindacato pari al 7,7% in Francia, a oltre il 37% in Italia. La CGT, principale sindacato francese, paragonabile anche per storia politica alla nostra CGIL, nel lavoro privato conta l'1-2% di iscritti al massimo. Del resto anche i numeri italiani vanno ridimensionati, dal momento che degli oltre cinque milioni di tesserati dichiarati dalla CGIL per il 2015 quasi tre milioni sono pensionati, quindi non fanno parte della popolazione attiva. La copertura sindacale, invece, ovvero la quantità di lavoratori coperti da contrattazione collettiva, si aggira tra l'80% e il 90% in entrambi i paesi; sempre al di qua e al di là delle Alpi vigono norme simili sulla rappresentanza, quantificata sulla base del numero di iscritti e dei risultati elettorali delle diverse sigle. Insomma, la differenza fondamentale risiederebbe nella maggiore debolezza dei sindacati francesi rispetto a quelli italiani, dovuta al minor numero di iscritti. Ma è l'unica differenza?

2. lotta e concertazione. I sindacati francesi, a differenza di quelli italiani, non "cogestiscono" insieme ai padroni il mondo del lavoro. Tra le cause non vi è solo la relativa debolezza, ma anche il fatto che in Francia la legge, storicamente, è più "forte" della contrattazione: i sindacati e le associazioni padronali, nei contratti di categoria, possono "deliberare" su molte meno cose rispetto all'Italia, e hanno quindi meno poteri. Inoltre in Italia i sindacati più grandi gestiscono direttamente fondi pensione, CAF, siedono nei cosiddetti organismi bilaterali, nel CNEL, hanno insomma un ruolo che va ben oltre la rivendicazione e il conflitto, un ruolo anzi che vede questi ultimi due aspetti minoritari. A cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80 sia in Italia che in Francia una buona parte del mondo sindacale – in Italia la CGIL, in Francia la CFDT, simile alla CISL – ha abbracciato la linea della "compatibilità" con gli interessi dei padroni; l'Italia, però, è andata molto oltre, e i sindacati più grandi hanno progressivamente rinunciato alla lotta in cambio di un maggior potere di cogestione nel mondo del lavoro. Risultato: benché in linea con tutti i paesi industrializzati, le ore di sciopero sono calate molto più in Italia che in Francia. Nel 2008, secondo l'ILO, in Francia si è scioperato quasi il doppio che in Italia, e anche nel 2010, confrontando diversi studi, in Italia abbiamo fatto circa un milione di ore in meno di sciopero. Perché? Lo abbiamo appena detto: così come dei sindacati coinvolti (complici) nella gestione del lavoro hanno interesse a scioperare il meno possibile, allo stesso modo dei sindacati più deboli, come quelli francesi, hanno interesse, per questione di sopravvivenza e di appeal, ad assumere posizioni più radicali e a portare avanti le rivendicazioni con maggior determinazione. Va aggiunto, inoltre, che proprio per assecondare le esigenze "soporifere" dei nostri sindacati, negli ultimi 25 anni circa le leggi sullo sciopero in Italia sono diventate molto meno permissive e più severe.

3. Non c'è più niente da fare? Per nulla, anzi: dopo aver elencato alcuni degli elementi che rendono oggettivamente più difficile la lotta in Italia, ricordiamoci quanto è stato difficile, per i padroni, portare a casa il risultato. 13 anni ci sono voluti per cancellare l'articolo 18; un quindicennio circa per riformare le pensioni; ancora oggi, in alcune grandi aziende, il Jobs Act è stato disapplicato grazie alla forza dei lavoratori, che hanno pressato i loro rappresentanti sindacali. Ancora oggi si strappano notevoli aumenti salariali e si fanno cancellare licenziamenti, come nella logistica; ancora oggi i lavoratori in lotta ottengono di essere assunti dal pubblico e non essere più precari. Non c'è da disperarsi, quindi, né da pensare che altrove si vince magari perché gli altri "hanno le palle" e noi no: queste sono frasi di merda che abbiamo sentito dire da diversi sindacalisti per giustificare il loro opportunismo o inettitudine. La verità è che molto spesso i lavoratori che vogliono lottare devono scontrarsi prima col sindacalista, poi col padrone: due nemici al posto di uno! Tutto sta, invece, nel rendersi conto di quali sono i nostri punti di forza, da valorizzare, e le nostre debolezze da superare: il resto verrà facile, tanto finché ci saranno schiavi ci saranno rivoltePer capire queste cose, guardiamo di nuovo a quello che succede al di là delle Alpi.

4. Notti in piedi, giorni in sciopero! Ha fatto tanto scalpore, e giustamente, il movimento di occupazione delle piazze che sta coinvolgendo centinaia di migliaia di cittadini francesi, un'ondata di partecipazione democratica che ha rotto il clima di isolamento e paura che era seguito agli attentati di Novembre. Nell'analizzare l'efficacia delle proteste, rendiamoci conto però che la loro principale forza sta nel gioco di sponda che sono riuscite a costruire con le mobilitazioni dei lavoratori. Ne hanno rilanciato e generalizzato i contenuti, sollevando la molteplicità di temi e problemi che si intrecciano a quelli dello sfruttamento nel luogo di lavoro. Sono così riusciti a dare risonanza e legittimazione alle forme di lotta più dure, dai cortei agli scioperi ai blocchi. Lotte spesso difficili da portare avanti, ma in grado di far paura realmente ai padroni e di toccare i gangli del potere. I lavoratori dei trasporti, dell'energia, della logistica, della meccanica, dei servizi pubblici, della grande distribuzione, per citare i principali settori essenziali della società contemporanea, quando decidono di astenersi dal lavoro, e di farlo in modo da creare un danno – quindi senza preavviso, il più a lungo possibile, etc etc – iniziano a fare una danno, crescente di minuto in minuto, alla sola cosa che interessa ai padroni dopo ma forse più della loro stessa vita: le loro tasche. Non solo: quando l'astensione dal lavoro rende un paese ingovernabile, chi governa quel paese è costretto ad intervenire perché il controllo gli può sfuggire rapidamente di mano. La risposta repressiva è sempre possibile, ma certamente non facile come quando una protesta non comporta nessun disagio; inoltre uno sciopero in un settore strategico – ad esempio i trasporti – è in grado di moltiplicare il danno: tutti i settori che sono infatti collegati ai trasporti vedranno i loro guadagni diminuiti a cascata! Il potere dei lavoratori è enorme, ed è necessario ricostruire la consapevolezza della nostra forza.

5. Il punto debole delle lotte in Francia (e in Spagna, Grecia, Portogallo…). Prima o poi questa lotta finirà, portando a casa un risultato proporzionato all'intensità del combattimento che, crediamo, sarà positivo, qui ed ora, per i lavoratori francesi. Possiamo dire però da ora che non risolverà il nodo centrale, quello contro il quale si sono scontrati, negli scorsi anni, anche i lavoratori di altri paesi, e anche noi. È evidente, infatti, guardando il succo delle riforme in atto in Europa, che la direzione dei padroni è unica: farci lavorare più tempo, pagarci di meno, licenziarci quando vogliono. Il Jobs Act andava in questa direzione, la legge El-Khomri va in questa direzione, la riforma in discussione proprio in questi giorni in Belgio va in questa direzione, l'unica possibile per i padroni oggi. L'attacco è lo stesso, ma la risposta è stata sempre separata: oggi, ad esempio, il punto debole dei francesi...siamo noi! Una nuova stagione di lotte in Italia, ad esempio contro il Jobs Act, significherebbe riaprire il conflitto in un paese che, ancora oggi, è uno dei giganti mondiali della produzione di merci, il secondo paese produttore in Europa dopo la Germania. Unire le lotte e le vertenze dei lavoratori in Italia significherebbe alzare enormemente il livello di conflitto in Europa. Il secondo paese produttore è, ovviamente, un sorvegliato speciale: non è un caso che da noi lottare è diventato così difficile, i sindacati così corrotti, la sfiducia così generalizzata. Ma niente, nella società, è incontrovertibile, soprattutto quando si parla di lavoro. Il meglio che possiamo fare, quindi, è generalizzare il conflitto; parlarci tra lavoratori; liberarci dei sindacalisti inutili, codardi e corrotti ricostruendo le nostre organizzazioni e dandoci nuovi rappresentanti; individuare dei temi generali – la cancellazione del jobs act, ad esempio – e concentrare le lotte su obiettivi unitari; guardare a chi lotta fuori dai nostri confini, o a chi lo fa qui da noi senza essere nato in Italia, come ad un fratello, non ad un nemico. La vittoria di un singolo lavoratore in un qualunque paese del mondo è una vittoria per tutti noi!