lunedì 30 luglio 2018

Il prezzo è lo Yemen? PACE NEL CORNO D’AFRICA. E GENOCIDIO Quale segno dare alla riconciliazione Etiopia-Eritrea





Fulvio ciao,
come stai?
ti volevo chiedere se scriverai sull'accordo di pace tra Eritrea e Etiopia?
Come la vedi? Mi fido molto del tuo giudizio (e di pochissimi altri)
Un caro saluto e un abbraccio,
(firma)

Un amico e ottimo giornalista, con un blog, una testata giornalistica registrata,  che è tra le migliori sulle questioni internazionali, mi invia questo messaggio all’indomani della notizia dell’incontro tra i leader di Etiopia ed Eritrea che ha messo fine a oltre mezzo secolo di inimicizia, guerra, tensione e aveva costretto il piccolo vicino del gigante del Corno d’Africa a una condizione di no guerra-no pace che, unita alla criminali sanzioni USA-UE, aveva pesantemente danneggiato la nostra ex-colonia. 

Credo che la fiducia assicuratami dal collega sia da ricondurre alla mia condivisione, giornalistica e di vita, dei destini dell’Eritrea fin dai lontani giorni della sua trentennale lotta di liberazione dal colonialismo etiopico supportato alternativamente dagli Usa e dall’URSS. Dalle cronache di guerriglia negli anni ’70, alla diffusione di una verità alternativa a quella dei media colonialisti e imperialisti nei successivi decenni, in Italia e nel mondo, fino al docufilm realizzato due anni fa in Eritrea insieme a Sandra Paganini e che si proponeva di opporre una verità storica ed attuale a una sempre più intensa campagna di diffamazione di questo popolo e della sua leadership, essenzialmente innescata dalla sua posizione anticolonialista, di indipendenza da condizionamenti militari, economici, sociali e culturali dell’ormai virulentissimo revanscismo colonialista.



Questo film  è stato tradotto in inglese e francese, ha circolato in Italia ed Europa, ha ottenuto il consenso delle comunità della diaspora eritrea, ha entusiasmato tantissimo pubblico italiano e credo abbia messo una bella zeppa sul rullo compressore della criminalizzazione politico-mediatica, alimentata soprattutto dall’ingigantimento del fenomeno dell’emigrazione eritrea (in buon parte etiopica travestita, per altra parte determinato della situazione imposta dalle sanzioni e dall’aggressione etiopica), fondata su pull factor dell’automatica concessione agli eritrei del diritto d’asilo. Non si svuotano così anche i paesi delle proprie energie migliori? In particolare paesi appetiti dal Pentagono e dalle multinazionali per risorse e posizioni strategiche. Per l’Eritrea la collocazione sullo Stretto di Bab el Mandeb, crocevia tra Est e Ovest, Sud e Nord.


L’articolo richiesto che mi affrettai a scrivere e per il quale sono stato ringraziato, lo trovate in www.fulviogrimaldicontroblog.info . E’ intitolato: “Pacificazione nel Corno. Bye bye Eritrea. LA STELLA DELL’AFRICA NEL BUCO NERO DELLA NORMALIZZAZIONE? Cambia la geopolitica nel nervo scoperto del mondo. Ma non è uscito sul sito di  chi me lo aveva richiesto. Perlomeno io non ce l’ho trovato. Timore di irritare gli eritrei? Disperdere qualche illusione?  Gliene ho chiesto spiegazione, perché mi pare difficile che quel sito applichi censure, per quanto problematica possa essere la questione e il trattamento da me riservatole, soprattutto alla luce della successiva pubblicazione  di un articolo firmato Daniel Wedi Korbaria, esponente autorevole della comunità eritrea di Roma, di segno geopolitico per niente problematico, comprensibilmente entusiasta della pace raggiunta e in polemica con i detriti mediatici che insistono a masticare amaro su questi sviluppi e a valersi dell’emigrazione eritrea per continuare l’opera di diffamazione. Un articolo del tutto privo di analisi dell’enorme mutamento in corso e delle varie conseguenze di portata locale e internazionale e  che ne potrebbero risultare. Il che mi risulta sospetto.


E’ aperto a chiunque il giudizio se sia più credibile un giornalista che da oltre mezzo secolo ha seguito il tema appassionatamente e con impegno di tutte le sue risorse umane e altre, o un portavoce della rappresentanza diplomatica. Il pezzo di Wedi Korbaria (“Perché quelli di ”aprite i porti” vogliono la guerra in Africa?”) assegna la responsabilità della crisi etiopica-eritrea all’inimicizia del TPLF, Organizzazione della regione del Tigray, da molti anni al potere ad Addis Abeba e ora sostituita dal nuovo premier Oromo, Abiy Ahmed. Quindi elenca una serie di giornalisti, definiti immigrazionisti e nostalgici del conflitto, che su Radio anch’io  hanno commentato il superamento della crisi con i soliti stereotipi sulla “dittatura eritrea e la fuga dei giovani”. Tutto giusto. Salvo il finale un po’ vittimistico, poco consono a un popolo fiero come gli eritrei, in cui l’autore si lamenta del fatto che qualunque cosa gli eritrei facciano, vengono definiti cattivi: “Se chiediamo giustizia e pace siamo cattivi e se dopo vent’anni la otteniamo e festeggiamo, lo stesso siamo cattivi”.  C’era un lavoro, di pochi di noi, che stabiliva meglio chi fossero i buoni e chi i cattivi.

Qualcuno la finirebbe di crederli cattivi se avesse potuto vedere il mio documentario e ascoltare il mio racconto. Ma questo è stato impedito dallo stesso Wedi Korbaria, alias Sillas, quando tono e argomenti del film e dei miei interventi non parevano più in sintonia con l’Eritrea che ora si è andata raffigurando. Vediamo quale, giacchè della pace siamo tutti contenti, in Vietnam come in Palestina, in Nicaragua come in Siria. Ma crediamo necessario anche vedere termini, circostanze, condizioni, prospettive. Sono quelle che avevo cercato di analizzare nel pezzo chiestomi da Ale. Intrecciandole anche a un mio vissuto eritreo, quanto mai esplicativo.

Da un giornalista e autorevole rappresentante eritreo, su un sito della rilevanza di quello in oggetto, ci si sarebbe aspettati qual cosina in più su uno sviluppo epocale, sul piano geopolitico, come su quello sociale, economico, militare, come quello del riavvicinamento tra Asmara e Addis Abeba.

Etiopia ieri. Oggi?
Dai tempi dell’imperatore Haile Selassiè fino a tutti i governi successivi delle etnie Amhara e poi Tigrina, con l’intervallo filosovietico del “negus rosso” Mengistù, il gigante del Corno (100 milioni di abitanti) è stato il presidio degli interessi coloniali in Africa Orientale. Per questo è stato armato, lanciato ripetutamente contro i disobbedienti Somalia ed Eritrea (4 milioni), rimpinzato di aiuti occidentali, saccheggiato senza freni dalle multinazionali, derubato delle sue terre migliori, devastato nel territorio da costruttori di dighe, laghi, strade come la Salini Impregilo, seviziato dalle minoranze al potere, tremebonde soprattutto davanti alla maggioranza Oromo, in preda ad oligarchie feudali vendipatria e sanguinosamente repressive. Il paese era ed è costellato di basi e presidi statunitensi e israeliani. Nei suoi campi profughi si coltivavano terroristi da infiltrare in Eritrea.

Ora è arrivato il nuovo primo ministro. Ha liberato prigionieri politici, ha promesso democratizzazione e pluralismo, rispetto delle tante minoranze, pace, amicizia, sviluppo con l’Eritrea. In cambio della fine di una situazione che costava agli eritrei serenità e prosperità possibili, ha ottenuto da Isaias Afeworki,  capo della guerra di liberazione e dell’Eritrea fino ad oggi, l’accesso al mare nei due porti eritrei, Massaua e Assab. Magnifico, chi potrebbe obiettare? Ma forse ci si dovrebbe domandare: che ne sarà dei rapporti dell’Etiopia con i suoi storici padrini, padroni, sponsor, armieri, finanzieri, ladri di terre fertili. La democratizzazione interna si estenderà a un equilibrio meno subalterno con le potenze coloniali, a un ruolo meno attivo di bastone nei confronti di chi l’Occidente vuole bastonare, a un più dignitoso rapporto di forze, consapevole dei bisogni e desideri della popolazione, del loro habitat e meno delle cricche dirigenti, con donatori, finanziatori, investitori?


Eritrea ieri. E oggi?
E l’Eritrea come ne uscirà da questo abbraccio, dal quale si è saputa sottrarre per tanti anni restando in vita e, anzi, fornendo agli africani, come la Libia di Gheddafi, quel modello di indipendenza, giustizia sociale, ecologia, antimperialismo che era stato stroncato quando lo proposero i Lumumba, i Sankara, Nkrumah, Nyerere, Mugabe, Kenyatta, Gheddafi….? Sarà ancora il Davide della vittoria della giustizia e della libertà se dovesse ripresentarsi un Golia del sopruso e dell’asservimento? Domande drammatiche, domande legittime che non trovano spazio nell’intervento dello scrittore eritreo. E sanno i santi nel paradiso africano, quelli che sopra ho nominato e tutti coloro che si sono sacrificati per quell’Africa, quanto siano cruciali e urgenti.

Su questo futuro, tutto da definire e decifrare, si stende però già oggi un’ombra. Riuscii a interessare la Commissione Esteri dei Cinque Stelle al Senato, nella persona della senatrice Ornella Bertorotta e dei suoi collaboratori, alla questione eritrea. Cosa non facile di fronte all’aria che tirava contro quel paese nelle aule alte e basse del parlamento, ma realizzato grazie alla disponibilità e intelligenza di quei miei interlocutori. Erano in vista parecchie iniziative parlamentari a rettificare un atteggiamento improntato a pregiudizio, ignoranza, servilismo Nato.

Poi arrivò la notizia che Asmara aveva concesso agli Emirati Arabi Uniti (UAE) una base militare ad Assab, l’uso e l’ampliamento di porto e aeroporto. Bertorotta e io chiedemmo conferma o smentita all’ambasciata. L’ambasciata smentì.

Ma presero a circolare notizie sempre più documentate. Fotografie aeree e satellitari confermarono gli impianti. Aerei e navi da guerra contro lo Yemen. Le smentite cessarono. Si parlò di un affitto di lunghi anni a questa presenza militare straniera. Presenza invasiva di un regime di satrapi, proprietari feudali del loro paese, strettamente alleati all’Occidente, intimi dell’Arabia Saudita, specie ora, nella fase espansiva e militarista dell’erede al trono Bin Salman, partner di Israele nella destabilizzazione del Medioriente e nella frantumazione dei suoi paesi sovrani, indipendenti e laici.


Una pace pagata con il sacrificio dello Yemen?


Intanto si andava compiendo l’olocausto dello Yemen per mano proprio dei sauditi e dei loro partner UAE, invasori della parte meridionale del paese e delle isole. In partenza con bombardieri e truppe proprio da Assab, che sta lì, comodamente di fronte. Facile per i missili su donne, bambini, quelli di cui si continua a parlare quando su barconi, ma non qui. Yemen, dal quale anni prima ero partito in barca, con alcuni dei rifugiati eritrei della Dancalia che rientravano nelle zone liberate dopo essere state accolte e protette, anche nella dirigenza operativa, dal governo yemenita. Presidente, Ibrahim El Hamdi. Un grande arabo, amico dell’Eritrea.. Ucciso dai gentiluomini, nostri alleati e fornitori, del Golfo.

 Houthi, movimento di liberazione nazionale dello Yemen

Nel docufilm “Eritrea, una stella nella notte dell’Africa” c’è un capitoletto sullo Yemen, paese bellissimo, popolo intelligente, depositario di una civiltà architettonica tra le più pregiate della Storia, ospitale e dignitoso quanto gli eritrei, nel quale ho vissuto per due anni. Ne racconta la feroce frantumazione, il vero e proprio genocidio, l’eroismo di chi si è ribellato contro una successione di regimi dispotici e subordinati a Riyad e a Washington. Nel nome della libertà e della giustizia. Come gli eritrei nei trent’anni della loro lotta e dopo. Del resto tutti i 90 minuti del film sono, dal generale al particolare e dal particolare al generale, la storia raccapricciante dell’imperialismo nel mondo e nell’Africa.

Sconveniente, ora come ora? C’è chi non vuole infrangere lo specchio? Come con Cuba che ha aperto agli Usa, ha privatizzato metà della sua economia, a messo a fare aranciate e biscotti mezzo milione di dipendenti statali divenuti liberi imprenditori?  Meglio restare illusi? Primum vivere (deinde philosophari). Ma allora non chiamiamolo rivoluzione e socialismo.
Di colpo gli eritrei d’Italia, con il portavoce media, hanno bloccato una tournee di rappresentazioni che aveva coinvolto migliaia di persone. Copia inglese del documentario è stata consegnata al presidente Isaias Afeworki. Che non si è fatto sentire. E pensare che quando, due anni fa,  era stato visto da alti rappresentanti del paese se ne era annunciata la programmazione al Cinema Impero, al centro di Asmara. Ma questo era prima di Assab.

Il film continua a girare, presto sarà ovunque sui social. E percuoterà il silenzio dei tanti con una domanda ineludibile. Dove va l’Eritrea? Voglio saperlo anch’io. Mica le ho dedicato cinquant’anni di vita per niente.
 
Al Congresso dei giovani eritrei, 2016



mercoledì 25 luglio 2018

L’Intendance suivrà: un “quotidiano comunista” per la guerra e la lotta di classe dell’Impero --- QUINTA COLONNA





Cari amici, stavolta sono davvero lunghissimo. Era necessario. E’ la mia resa dei conti personale, ma spero anche di molti di voi, con un giornale e un gruppo che ha segnato la storia politica e culturale italiana dell’ultimo mezzo secolo: “il manifesto”, sedicente “quotidiano comunista”, nel quale la parola comunista ha assunto connotati rovesciati rispetto all’uso comune. E’ una storia lunga, piena di episodi, personaggi, eventi, illusioni, disvelamenti, divenuta però via via più trasparente. La trasparenza di un infiltrato  imbolsito, che ha perso l’abilità mimetica dei suoi maestri. Ma gli illusi ci sono ancora. Diamogli una mano.

 Se una minoranza vuole dominare deve agire per vie occulte, tramando, cospirando, pretendendo, ingannando. I suoi peggiori nemici saranno quelli che denunciano il complotto”.  (Aldous Huxley)

“Il modo più efficace per distruggere popoli è negarne e obliterarne la comprensione della propria storia”. (George Orwell)
La grande maggioranza dell’umanità si accontenta delle apparenze, come se fossero realtà, ed è spesso influenzata più dalle cose che sembrano che da quelle che sono”. (Nicolò Machiavelli)

Nostalgie amorose di Tommaso Di Francesco
“Linea notte” è quel ruscelletto di notiziole e opinioncelle d’ordine del TG3, spesso bruscamente alterato nel suo andazzo dall’epifania di una specie di convulsa menade da New York, che il mio ex-collega Mannoni, detto Mannoioni, conduce, tra un borborigmo e l’altro, indice di stomaco prospero ma non pacificato, con il placido compiacimento di chi poco sa, ma molto si fida degli ospiti. Accuratamente selezionati, ovvio. Ha una funzione salutare: ti tira giù piano piano le palpebre mentre Morfeo ti mette in assetto di dormitorio i neuroni.
Quasi mai, ma nella notte del 20 luglio 2018 sì, succede che un qualche neurone mezzo assopito venga elettrizzato da un’emissione audiovisiva fuori dal tran tran sulla rana e sulla fava. Ed è stato come un extrasistole nel pacioso elettrocardiogramma del fine giornata di regime. C’era l’ospite Tommaso De Francesco (non proprio giornalista da Pulitzer o poeta da Nobel) che, insieme all’ex-trafilettista di critica tv, Norma Rangeri (mi apostrofò per averla turbata con la messa in onda di scimmie fatte esplodere da scienziati vivisezionisti), oggi dirige il “manifesto”. Dopo la tirata di prammatica della menade scapigliata per non avere Trump sputato in un occhio a Putin, diffusasi con un’ola in tutto lo studio, TDF, che nella sinistra redazionale rappresenterebbe l’ultrasinistra, aveva concluso col botto, soffuso di rimpianto amoroso: “E pensare che prima c’era una linea di governo di sinistra, con Obama!”.
Fine del torpore. Neuroni tutti in piedi e in marcia. Mi sono alzato e me lo sono appuntato. Non che ne fossi stupitissimo. Come mostrerò, il “manifesto” ormai stupisce solo per i transfert con cui dà del fascista a chiunque non sia d’accordo con lui o, peggio, gli rubi il mestiere che esso millanta(vedi foto di Grillo). Ma la sintesi era lapidaria, abbagliante, agghiacciante. Al re, o piuttosto allo spolvero-stivali del re, erano stati levati anche gli slip.

Obama, un’eccellenza di sinistra
Ma come? Obama, quello del Nobel per le guerre di Bush ereditate e moltiplicate per tre? Quello dell’uso universale dei droni e delle forze speciali Usa in 133 paesi per assassinare soggetti che, sospetti, meritano esecuzioni extragiudiziali? Quello dei colpi di Stato in Honduras, Ucraina, Paraguay e della rivoluzioni colorate per regime change ovunque agli Usa andasse di sovvertire situazioni sgradite, con il relativo seguito di massacri civili, devastazioni sociali ed economiche? Quella della coppia dell’orrore Barack-Hillary che, fatto squartare Gheddafi, ha ridotto il più prospero Stato africano a un tana per tutti i criminali del colonialismo e poi si è avventato sulla Siria, dopo avere fatto dell’Afghanistan il più lungo carnaio delle guerre moderne? Quello che ai più feroci e ottusi proprietari di popoli della storia ha commissionato, addestrato e armato i più sanguinari e psicopatici terroristi mai visti sul pianeta, mercenariato per completare i genocidi delle bombe e della fame, eseguire gli attentati dei servizi, provocare lo sradicamento di popolazioni a fini di nuovi ordini mondialisti? Quello che aveva definito il Venezuela  una minaccia mortale alla sicurezza americana e ne aveva scatenato la teppa assassina e i sabotatori economici? Quello, quello, quello?  Per quanto potrei andare avanti?
Proprio quello che poi, alle briglia dei cavalieri dell’Apocalisse che lo avevano ingaggiato, doveva riprodursi nella forma femminile di una megera corrotta, trafficona, al soldo dei sauditi, malversatrice perfino degli strumenti del suo dicastero, dallo sghignazzo orgasmatico per il Gheddafi tritato, cui “il manifesto” dedicò la più appassionata delle sue campagne elettorali.

Vabbè, direte che ormai TDF e il suo giornale contano poco. L’insediamento cui diceva di far riferimento non c’è più. Si aggira alla ricerca di qualcuno, tipo PD, cui far da stampella di sinistra. “Linea Notte” la vede a occhi socchiusi il circolo degli anziani insonni di Mannoioni. Il “manifesto” sta in edicola per grazia dell’establishment: 1,3 milioni di contributi pubblici, come il contiguo “Foglio”, e altri milioni dai potentati del capitalismo, ENI e ANIA (Associazione Nazionale delle Assicurazioni), di cui non si vergogna di far passare veline come fossero suoi articoli, Elettrici, Grande Distribuzione, Banche. Forse qualcun altro? Certo che i piagnistei per collette di salvataggio sono cessati. Ma a George Soros quel giornaletto piace. Come al giornaletto piacciono tutti i facilitatori di deportazioni che a Soros sono debitori. E poi ha una storia, ha fatto opinione. Molti ci hanno creduto. Lasciar perdere? Solo dopo questo articolo.
Scuola di giornalismo. Comunista?
Una certa frequenza con il “manifesto” e i suoi giornalisti (grande scuola di giornalismo libero: pensate a Annunziata, Riotta, Maiolo, Barenghi…) l’ho avuta. Ci ho perfino scritto qualche articolo. TDF, per esempio l’ho incontrato ai tempi in cui lui era “l’altra voce” sulla distruzione di Jugoslavia e Serbia. Scriveva dure cose sull’aggressione Nato, ma poi concludeva con la formula che univa guerrafondai di destra e infiltrati di sinistra, quella dell’ “ultranazionalismo del sanguinario despota” (Milosevic), avvallava le false flag alla Srebrenica, seppe viaggiare in prima classe con energumeni dell’antigiustizia come Cassese e Del Ponte, quelli  dell’infamia su Slobodan Milosevic e insulto e carcere ai patrioti Mladic e Karadzic.
Perplessità sul “quotidiano comunista” di non si è mai capito bene quale comunismo (quello di Ingrao che faceva il broncio a tutti, ma mollava quelli che gli correvano dietro, quello dell’incoronazione del piddino zingarettiano, quello alla Gorbaciov, Eltsin, Berlinguer, Bertinotti, Marcos, Tsipras, Casarini, Obama, Hillary, Clooney?) le ho avuto fin dagli intergruppi del post-’68. Non c’era verso che quei raffinatoni non raccomandassero cautela, prudenza, sopire, troncare, nello scontro che si andava facendo decisivo con il padrone.” La rivoluzione non russa” . Nemmeno quel rumore deve fare.

Togliattiani, ma via dall’URSS!
Del resto, che quel “russa” fosse aggettivo, anzi nome,  e non verbo, era chiaro fin dall’inizio della famosa uscita e radiazione dei pur rigorosi cunctatores togliattiani, sotto la guida di un Savonarola che lanciava il sasso, ma sistematicamente nascondeva  la mano. Non è che il PCI di Togliatti-Longo e poi Berlinguer (quello del balzo, armi e bagagli, in una caserma Nato e nel mafio-clerical-capitalismo DC, vedendo gli sviluppi, fosse poi tanto ostico per linea politica o ideologia. Si trattava di calmierare un po’ i tumulti degli esagitati ’68-’77 e, soprattutto, si trattava di entrare da vivandiere (l’intendance suivrà) nella lunga marcia contro l’orripilante URSS di Stalin e poi del dopo Stalin e poi di tutti i russi e, come mai prima, di Putin, lo “zar” ricostruttore, fino all’appassionato  apporto alla russofobia di oggi. Insomma un implicito schieramento con l’Uccidente, un’opzione geopolitica strategica, una scelta di campo. La “sinistra imperiale”.
Ciò che univa gli scissionisti antropologicamente e culturalmente, era già di per sé esplicativo. Indubbiamente teste d’uovo raffinate, con Valentino Parlato, un po’ da anticamera a prendere cappelli e bastoni, ma garante della benevolenza della Banca d’Italia. Usciva dal quadro e, credo a sua insaputa, dallo schema strategico, una penna brillante, tagliente, sempre sul pezzo, di cui vorrei sapere valutazioni che purtroppo non può più darmi: Luigi Pintor.  Garanzie, invece, decisive per la linea vennero da una delle dieci tribù perdute di Israele. ma riscoperte kazare nel Caucaso, Rossanda e Castellina.
Quest’ultima, mia avvincente e convincente collega a Paese Sera, ma con l’imprimatur dell’alto PCI, per cui arraffava tutti i servizi più prestigiosi. In un convegno rimase basita quando le spiegai che Milosevic non era proprio un dittatore. Haidi Giuliani aveva appena sentenziato che Massimo d’Alema, assistente macellaio della Serbia, era stato il migliore presidente e ministro della Repubblica. Luciana mi presentò la stessa faccia da ictus neuronico di Toti, governatore FI, quando a “Matrix” gli spiegai che grattacieli non cadono a piombo se colpiti sul fianco da apparati di alluminio. E poi, visto che allora il privato era assolutamente politico, Lucio Magri lo praticava in intima fusione con la contessa Marzotto, massima salottiera, al tempo stesso, della borghesia delle sfere e della borghesia che commiserava il proletariato. Della Castellina tardiva rimane la transizione dalla rivoluzione non russa, prima alle armate LGBTQ dall’utero noleggiato di Vendola e, poi, nientemeno che all’allegra brigata Kalimera al retzina, andate a festeggiare Tsipras sul procinto di infilare nel corpo del popolo greco il più gigantesco cetriolo mai confezionato dalla Troika. Infine, salto di qualità della serie da incendiari (?) a pompieri: Bersani, D’Alema, Grasso….Fratoianni. Ma non è che nomi e sigle contino. Quello che in tutte le sue autocronache conta è il pronome: io.


La vestale, Sofri, le BR
Vestale del fuoco sacro, celebrata dal colto e dall’inclita, dagli altri e da sè, radicalissima e chichissima  entità dell’iperuranio marxiano, definitasi “ragazza del secolo scorso”, mi fa venire in mente per come è vista dai suoi estimatori (di nuovo si parva licet componere magnis), Flavia Giulia Elena, Augusta dell'Impero romano, concubina dell'imperatore Costanzo Cloro e madre dell'imperatore Costantino I. Quello dell’”In hoc signo vinces”. I cristiani la venerano come sant'Elena Imperatrice. Giustamente santa per come promosse un pensiero unico imperiale, culminato con la rimozione dei vecchi dei e di chiunque di pensieri ne avesse più d’uno. Pensiero unico, fisso, granitico e immunizzante per il sistema, ad esempio, quello della difesa dell’”album di famiglia” dei BR, tutti ineluttabilmente sinceri combattenti comunisti, anche se facilitatori della più tragica regressione politico-sociale del dopoguerra, anche se liberi di ciondolare su schermi e giornali per continuare a raccontare balle che coprono la Repubblica delle Stragi. Pensiero unico, amorevole, quasi orgasmatico sull’innocenza di Adriano Sofri, condannato e ricondannato, socio in tipografia e amico di famiglia del rampollo Cia a Roma, propagandista dei tagliagole islamisti sguinzagliati dalla Cia in Cecenia, inventore di bombe sulle donne al mercato di Sarajevo, poi provate dall’ONU lanciate dall’islamofascista Nato Izetbegovic, ambiguo gazzettiere sui peggio strumenti di ottundimento mediatici di ogni carnefice della verità. Pensiero unicissimo per cui, puoi anche aver sollevato dall’inedia  qualche milione di esseri umani, dato dignità ed emancipazione a tutti, se non ti dici comunista sei una chiavica antidemocratica.
La perplessità. diciamo così, che qua avessimo a che fare con chi ciurlava nel manico, si consolidò via via in dubbio e poi in sospetto e infine in certezza. Soprattutto lungo la strada della geopolitica segnata da una fenomenale inversione ad U, prima nascosta da qualche corteo di operai, poi del tutto evidente, rivendicata. Pietre miliari della disvelazione di chi fossero i cospiratori che davano del complottista a chi intravvedeva false flag, provocazioni, macchinazioni e infiltrati. Memorabile l’articolo qualche lustro fa, di un Roberto Ciccarelli, ora ovviamente impegnatissimo contro il governo fascista gialloverde,  che, pensando anche a me (si parva licet…), modesto riproduttore in rete delle dimostrazioni, prove, testimonianze, tecnicalità  sulle falsità della versione governativa degli attentati alle Torri Gemelle, sullo sfondo del PNAC (Nuovo Secolo Americano) e delle cinque guerre da trarne, già programmate dai cospiratori neocon, aveva riempito un paginone di contumelie, irrisioni, sberleffi, a chi avesse messo in dubbio la megagalattica panzana. Era caduto uno del branco sconfinato di asini. E pensare che l’Italia è il paese di Piazza Fontana, di Bologna, del Ros di Mori, della P2, di Borsellino e Falcone, di un premier quasi ventennale che faceva local quel che Obama e Bush facevano global.


Un paese venduto alla criminalità organizzata? Pensiamo ai naufragi…
A questo proposito non esagero a definire travolgente l’entusiasmo con cui il “manifesto”, in perfetta sintonia con i media di cosca, loggia, ‘ndrina, banca e Nato, ha accolto e esaltato le motivazioni delle recenti sentenze sui delinquenti e vendipatria che hanno triturato il paese e i suoi cittadini, a forza di assassini, stragi, corruzione al midollo,  nell’unità nazionale mafia-Stato, quella sancita tra Usa e nascente Repubblica e mediata da Patto Atlantico e Piano Marshall. Alle decine di paginoni del Fatto Quotidiano (atlantista di merda, ma per questo meritevole) con i dati giudiziari dai quali i crimini di alto tradimento di vertici politici, governativi e giudiziari uscivano con l’evidenza della mela di Newton, il quotidiano principe di ogni opposizione nel nome del popolo azzannato, derubato, ferito, se l’è cavata con un trafiletto di lato. Poi più nulla. Occorreva spazio per ridicolizzare il decreto “Dignità” di Di Maio. E per l’ennesima speculazione su qualche vittima in mare.
Terrorismo? Tutto vero
Del resto l’avallo disciplinatissimo del “manifesto” a tutti gli episodi della strategia terroristica di restaurazione totalitaria in Europa e Usa, anche i più spudoratamente scoperti, anche se smascherati in ogni dettaglio da prove, testimoni, circostanze, da Charlie Hebdo agli avvelenati Skipral, dai gas nervini di Ghouta alle bombe serbe sul mercato di Sarajevo, si affiancava sistematicamente alle impronte digitali  Cia, Mossad, Mi6 o DGSE eliminate dalla scolorina. Non si poteva dare che quest’esito nella struttura, quando in quella che, secondo il catechismo marxista, era stata sovrastruttura, per la sinistra rinata imperiale anche culturalmente divenne struttura: al centro i diritti civili, detti anche umani, LGBTQ e quant’altro si facesse strano (purchè non generasse), eterologo, uteri in affitto, monogenitorialità; ai margini i predatori delle delocalizzazioni  e quei quattro sfigati ai cancelli (toccava dirne tuttavia, noblesse oblige); al centro Porto Alegre, lo zapatismo, l’indigenismo a prescindere e il bolscevismo del bilancetto partecipativo, ai margini l’intruso Chavez che vagheggiava il socialismo del 21° secolo e propugnava antimperialismo.
Imperialismo? Obsoleto. Chiamiamolo globalizzazione
Antimperialismo ? Perché c’era ancora l’imperialismo? Ma il subcomandante Bertinotti, venerato ospite del giornale, non l’aveva espulso dalla Storia (in pieno rilancio bellico Usa) insieme alla violenza, anche di quegli esagitati dei partigiani (Congresso di Venezia, 2005)?  Al centro, struttura, è il fenomeno naturale, epocale, fisiologico, inarrestabile, delle migrazioni, il diritto ad andare altrove, l’obbligo di accogliere, 500 milioni di persone in movimento sono la nuova classe, ai margini il diritto di starsene a casa propria, lo jus soli in patria, lo svuotamento ad arte dei paesi del Sud, ricchi delle risorse necessitate dall’accumulazione capitalista e il loro trasferimento a fare altrove massa disidentificata, destoricizzata, deculturizzata, assimilata tra pomodori e spogliatoi, defuturizzata. E magari cacciata di casa dall’ennesima guerra. Però contro l’ennesimo turpe violatore dei diritti umani. 

Al centro la struttura della rivolta democratica delle masse civiche, “società civile” (leggi Ong dei diritti umani, USAID, NED, Soros, università e sanità della Chiesa, il Bergoglio, connivente dei generali argentini, che non fa mancare la parola ispirata al momento giusto) contro il despota che turlupina il popolo a forza di miglioramenti sociali, istruzione e salute assicurati, mentre soffia sui roghi dell’omofobia, dell’integralismo, impone veli, schiaccia sotto i cingoli bravi Fratelli Musulmani strage-dotati, non gradisce l’omologazione universale del mondialismo in soggetto blasonato multiculturale perché ormai a-culturale.  Ai margini, anzi al rigattiere, le già “buone cose di pessimo gusto”, come la sovranità nazionale, gli orridi sovranisti, il retaggio dell’affanno di generazioni in secoli e millenni per segnare il pianeta in un certo modo, tanto da riconoscervisi e rassicurarvisi nel confronto e nello scambio con gli altri. Si chiamava internazionalismo. 
Struttura è l’Hilton uguale a Haiti e a Berlino, Auchan che ammazza salumieri e fruttaroli a Bangkok come nella mia Tuscia, l’Italia di Briatore e Farinetti a radere al suolo borghi e ulivi, gli Andreatta, Amato, Prodi, Bersani, D’Alema (tutti da recuperare in quanto LeU), Renzi  che, sotto diktat FMI-BCE-Wall Street, ci hanno fregato la produzione e l’hanno mondializzata, costringendo a inseguirla all’estero 100mila giovani italiani all’anno, rimpiazzati in Amazon da altrettanti africani che, secondo Boeri, ci pagheranno le pensioni. Intanto il “manifesto” sfotte il governo che cerca di rimediare alla catastrofe Ilva, evitando un po’ di cancri e di senzalavoro, e di ridarci una compagnia aerea di bandiera che la sinistra ha sventrato, mentre ce l’hanno perfino  il Buthan, il Burundi, le Antille, l’Afghanistan….
Alias: la cultura dell’1%
Otto uomini, ci dicono, possiedono la ricchezza di metà dell’umanità. L’1% è più ricco di tutti gli altri. E’ questa la struttura economica. Per “Alias”, inserto culturale del “manifesto”, l’1% che sa  e il 99% plebeo che vagola nell’ignoranza sono la struttura culturale. Significativi parallelismi. Vagamente feudali.
Già, struttura, sovrastruttura, si confonde un po’ tutto. Magari si intersecano, si integrano, non è più chiaro come una volta. Prendete “Alias”, in cui esponenti della tribù scrivono di esponenti della tribù, rinnovando vittimismi e autoassoluzioni a distrazione di massa da quanto si va mondializzando. Perlopiù è una foliazione di una supponenza arzigogolata e astrusa, alla ricerca tra nicchie dell’iperspecialistico e oceani dell’ovvio, tutto inteso a imporre allo smarrito lettore di media conoscenza e intelligenza che lì, sopra di lui,  c’è ben altro, ma inaccessibile, sublime, non da te. Tu sei al di  là del varco, la larghezza dello jato tra te e la conoscenza resta insuperabile. A noi Spinoza nell’interpretazione dello sciamano tibetano, a te la fiera del fumetto.
E questo, dal punto di vista della classe, mi pare proprio una struttura del “manifesto”. Ma sono sovrastruttura o struttura le sontuose marchette all’industria del videogioco, con grande frequenza e appassionata libidine sciorinate da Federico Ercole?  Parlare di turgido barocco è inadeguato, di efflorescente rococò minimalista non basterebbe nemmeno arrivare al primatista dell’iperbole eulogica, Gianbattista Marino (Napoli 1569-1615), quello dell’”Adone” , per le spirali di commossa celebrazione in cui avviluppa qualsiasi prodotto, fosse il più nero, sanguinario, brutale, spaventoso, devastante, apocalittico, violento, quelli che comunque vinci quanto più elimini umani, mostri, insomma nemici (Il 90% di quelli di cui scrive). Insomma arabi, siriani, afghani, gente scura.

Dal videogioco  di Alias ai Blackwater d’Iraq
E se è vero che difficilmente si trova bambino e adolescente americano, e poi occidentale, che non riceva, a forza di un’adolescenza di smanettamenti, l’imprinting di questa corsa alla disumanizzazione e alla normalizzazione delle atrocità (per cui Abu Ghraib e Isis) che premiano chi uccide e distrugge e ne vede il riflesso nobilmente materializzato negli psicopatici che sparano nelle scuole, nei 50 milioni di morti delle aggressioni USA dal 1950, nei 7 milioni dopo l’11 settembre sotto Bush-Obama, nei poliziotti da Obama trasformati in Robocop con licenza ammazza-negro, nei Blackwater del tiro al piccone sui ragazzetti, nei tagliateste Isis che incendiano i vivi e negli F35 su Vietnam, Afghanistan, Libia, Siria, Iraq, ovunque il Pentagono metta in pratica videogiochi, se è vero tutto questo, cos’è il lavoro di Alias e di Federico Ercole? Sovrastruttura culturale o struttura di guerra di classe? Lui la chiama creatività e libertà d’espressione.  E’ facilitazione dell’utilizzatore finale. Non basta per parlare di quinte colonne?
 

La geopolitica dei diritti umani: Nicaragua, Afghanistan
Vogliamo controprove dello srotolamento di un incrollabile tappeto rosso ideologico, per quanto liso e sbrindellato dalle inevitabili contraddizioni tra il millantare e l’essere, che questa gente ormai da molti decenni, ma mai con la protervia di questi ultimi anni clintonian-obamian-mattariellian-eurocentrici, improntati allo strumento colonialista-migratorio del globalismo capitalista, stende sotto le ragioni degli ammazza-popoli e ammazza-nazioni? Pensate alla cacciata della brava Geraldina Colotti da reporter di denuncia del golpe strisciante Usa in Venezuela e al successivo cerchiobottismo tra “opposizione e regime”. O alla davvero oscena criminalizzazione del Nicaragua di Ortega e del FNSA che resiste alla sedizione di una conventicola di Ong di Soros e USAID, pretaglia diocesana revanscista, teppismo di angiporto, jeunesse doree dell’istruzione Opus Dei, import di teppisti delle guarimbas venezuelane, con esclusione rigorosa di ogni voce che non sia di questo classico armamentario Cia. Errori degli Ortega, del FSLN? Certamente. Paragonabili allo sterminio sociale di 16 anni di colonialismo neoliberista, fame, emigrazione, epidemie e 50mila morti da complotto reaganiano Contras (gestito dall’inventore degli squadroni della morte centroamericani e iracheni, John Negroponte, quello per cui lavorava Giulio Regeni)? Il Nicaragua tolto di mezzo, l’unico canale tra gli oceani sotto controllo Usa, Venezuela, Bolivia, Cuba assediati, Argentina, Brasile, Ecuador, Honduras recuperati. Bel regalo geopolitico ai nuovi Cortés e Pizarro dell’America Latina. E sul milione in piazza il 24 luglio a sostegno del governo(foto)? Zitti e mosca.
Vogliamo parlare dell’Asia, della guerra e occupazione che Usa, Nato, noi, conduciamo da 17 anni contro il movimento di liberazione nazionale che, indubbiamente, sono i Taliban, belli o brutti che siano, ma che per gli esperti del “manifesto”, Battiston e Giordana, sono rispettosamente i “barbuti” o i “turbanti neri”? I cattivi. Di un’occupazione feroce, degli eccidi da droni e bombardieri uccidentali si parla poco. Tanto meno del diritto umano fondamentale di lottare per la liberazione con ogni mezzo, molto meno affascinante del diritto al matrimonio gay. Tanto meno della produzione record di oppio che diventa eroina nel mondo che dalla morte genera soldi e di cui l’occupazione è garante e facilitatrice dell’export (Kosovo). Buonissima è la “società civile”, quella contro il burka, che fa marcette per la pace, proprio nelle fasi in cui i Taliban vanno all’offensiva in tutto il paese e mettono gli invasori con le spalle al muro. Uguale, il “manifesto”, anche per la Siria, laddove si trattava di lacerare il tessuto multietnico e multiconfessionale dello Stato laico unitario promuovendone la frammentazione tramite pulizia etnica operata dai curdi di Usa, Israele, Saudia. Santi patroni e bocche della verità del quotidiano, Amnesty International e Human Rights Watch, professionisti della sofferenza inflitta agli amici dell’Occidente, entrambi, con personale e ordini del giorno, all’orecchio del Dipartimento di Stato.

Forza, gente, muoversi! Migrare è vita!
Ovviamente, di quella che in vista del globalismo dispotico transnazionale e antisovranista è, accanto all’uniformizzazione finanzcapitalistica, alla frammentazione degli stati unitari e ai regime change da guerre e sedizioni (il “manifesto” ha addirittura plaudito a quella che dell’avventuriero CIA che ha unito l’Armenia filorussa all’Azerbaijan amerikano, origine di quel TAP che San Mattarella è andato indebitamente a promuovere tra fasti Nato lì e in Georgia), lo strumento centrale dell’adattamento del pianeta al nuovo ordine: lo sradicamento e trasferimento organizzato di popoli dei quali si liberino le ricchezze e di cui usare a fini di riequilibri sociali e demografici. Nessuna gigantografia spezzacuore, nessuna alluvione di lacrime pietose, nessun parossismo di ipocrita indignazione, nessuna più fetida manipolazione di Ong ascare della tratta, scaraventatici addosso come bombe su Dresda, ha mai suscitato tra gli hilleriani del giornale una riflessione sui modi  e perché degli abbandoni di casa di chi in ogni caso andava a star peggio.
Gli orrori dei lager libici, sicuramente non case di riposo, sono ormai quasi tutti sotto osservazione di entità ONU. Ma restano inferni dello stupro, della tortura, dell’assassinio, della spoliazione di ogni bene del migrante. Guai a rimandarceli!  Abbiamo visto ripetute immagini di persone ammassate in capannoni e volti dietro a sbarre. Ci sono passate decine di migliaia di persone, moltissimi con cellulari, anche satellitari. Possibile che non si sia mai riusciti a video o audio-documentare un solo episodio di atrocità? Le immagini di gente urlante, frustata, risalgono all’immediato dopo-Gheddafi, quando i vincitori così trattavano gli immigrati neri. Quei due milioni che in quella Libia avevano avuto lavoro, casa, decoro. Poi sappiamo che non ci si imbarca senza quei 5000-7000 dollari per il negriero della lunga filiera. Ma come, ti stuprano e poi ti mandano via con i soldi? Con quei soldi che in qualsiasi paese africano ti avrebbero assicurato una sorte migliore di qualsiasi ipotizzabile in Italia? Avrò torto, ma il gioco sulla pelle di queste genti da manovrare è talmente sporco che ogni sospetto è lecito.
Daje al governo di destra!
Questo non è il governo dei montagnardi, semmai siamo agli Stati Generali del ‘79, con però un sacco di gente del Terzo Stato arrivata ex novo. Ma questo è il primo governo, da quelli lontani dello Statuto dei Lavoratori e del divorzio, dei Consigli dei Delegati, dei sindacati cazzuti, che osa alzare un ciglio sull’opera degli Andreotti, Amato, Treu, Bersani, Tremonti e sguatteri BCE vari. Al netto dell’ossessione cibernetica dei Casaleggio (viva il faccia a faccia in eterno!), delle ruspe, pacchie e dei “da papà” di Salvini e dei suoi tipacci, qui c’è qualcosa di inedito: un ministro che denuncia Maidan, riconosce la Crimea russa, sfida le sanzioni e prova a stoppare la congiura del buonismo sociocida. Un altro prova a mettere qualche zeppa sotto il rullo compressore di ogni diritto del cittadino, lavoratore e non, e del popolo sovrano. Non s’era mai visto. Ma l’opposizione da “sinistra”  del “manifesto” ha una virulenza della stessa intensità con cui va a pescare nella palude PD un qualche detrito non del tutto putrefatto per rivestirlo di abiti decenti..
Parlare di paradosso all’ombra della testatina “quotidiano comunista” diventa ingenuità. Il termine va letto nel suo contrario. Ho qui una pila di numeri e vado alla rinfusa, ‘Ndo cojo, cojo. Tra gli avventati Di Maio e Salvini e il “prudente” Tria, con Tria: “prima vengono i conti” ; aumentare le pensioni minime: un miraggio; bloccare la fusione di Anas e FS che regala il trasporto nazionale ai parassiti dell’Anas,un azzardo; rivedere la svendita dell’Ilva a chi la paga poco e la fa inquinare  per altri lustri: traditori, dicevano di chiuderla!  Parlamentizzare ogni provvedimento Nato e le basi, sottraendoli ai soprusi  delle giunte militari: ma non volevano uscirne?  Trump minaccia di passare sopra l’Iran come Truman su Hiroshima? Sì ma quelli sono pasdaran, corrotti, pericolosi, falchi.  A Helsinki Trump (al di là del suo barcamenarsi tra pistola alla tempia del partito della guerra e guizzo pacifista) e Putin se ne escono sorridenti, gentili e senza menarsi e far menare il mondo? Più acido di un Bolton, Pompeo, Hillary, Condoleezza Rice, McCraig, il manifesto titola: “un tentativo di distrazione dal Russiagate (bufalona indimostrata ma debitamente avallata) e della figura rimediata a Helsinki con Putin”. Il Partito della Guerra non la poteva mettere meglio.

Distensione, dialogo, pace? Via dalla mezzanotte del botto? Maddai!
E questa è davvero clamorosa. Il “manifesto” fianco a fianco con gli accoliti hillariani-Cia, pentagonali, neocon, talmudisti e wallstreetiani del Torquemada Russiagate, Mueller, che non riesce a trovare un’ombra di interferenza russa nelle elezioni presidenziali, pur sapendola lunga sulle ingerenze della sua FBI  in tutte le elezioni del mondo dal 1945 in qua. Urlano all’alto tradimento, raccolgono firme, annunciano processi, esigono impeachment e incarcerazioni, la patria venduta al nemico, il distruttore della nazione alla Casa Bianca, l’isterismo del complesso militar-industriale che intravvede all’orizzonte una nuvoletta nera sul suo dominio dell’economia americana e mondiale grazie ai conflitti. Il dialogo è nequizia, picchiarsi a morte è bene. Tanto più che di questo zar, che insiste a farsi eleggere sotto lo sguardo di osservatori internazionali, non c’è per niente da fidarsi: imbroglia il suo popolo dicendolo assediato dagli schieramenti occidentali e fa finta di democrazia non offrendo mai alla libera stampa immagini di teste di manifestanti spaccate come succede nelle libere Francoforte, Genova, New York, Parigi. Poi chissà cosa fa alle Pussy Riot!
Dimmi con chi vai
Il bocconiano Boeri annuncia cavallette e piogge di rane contro il Decreto stoppa-precariato, fa il Mago Otelma per la gioia di Confindustria? Mattarella interferisce sulle scelte del governo? L’UE e lo sbronzone Juncker, porto franco lussemburghese per tutti i manigoldi evasori, scaricano sull’Italia gli effetti collaterali della spoliazione dell’Africa, ma è “l’Italia che si isola dall’Europa”? Saviano, eroe dell’antipopulismo a stelle e strisce, dà del ministro della malavita? Radio B92 di Belgrado fa parte del circuito CIA “Free Europe” ed è pagata da Soros? Le Donne in nero di Belgrado ringraziano Madeleine Albright? I Fratelli Musulmani conducono una guerra a base di stragi contro lo Stato egiziano?  Il governo cancella il bavaglio alle intercettazioni? Toninelli mette sottosopra il TAV? Tsipras mette la Grecia a disposizione di Netaniahu e compiace Usa e UK cacciando diplomatici russi? Skipras avvelenati da russi in fuga? Disaccordo tra Di Maio e Confindustria? Con Davigo, star populista, il CSM va a destra (con Legnini-Napolitano era lo scudo di Di Matteo, Ingroia, De Magistris, Robledo, Woodcock…)? In Libano l’UNHCR, quello della Boldrini, si oppone al rimpatrio dei siriani che vogliono tornare nelle terre liberate?  Con chi sta il “manifesto”? Magliette e mani rosse in piazza di chi non ha mai levato un sopracciglio o messo una maglietta per i non emigrati da sotto le macerie libiche e siriane, sulle croci dei mercenari jihadisti e neppure per le centinaia di ammazzati dal cancro, uomini e bestie, dai giochi di guerra nei poligoni sardi. Magliette rosse dei Radicali. Basta questo.  Con chi sta “il manifesto”?

Sta con gli ordini di servizi, detti stampa, di De Benedetti, Elkan, Boccia, Caltagirone, Berlusconi.  Quelli latrano contro gli abominii gialloverdi, il “manifesto” ringhia e abbaia. Via la censura poliziesca sulle intercettazioni?  Daspo a vita ai corrotti pubblici? “Pura propaganda”.. Più che le quattro cose buone fatte dal nuovo governo, eminentemente 5 Stelle, ci da conforto e speranza la misura incontrollata della collera padronale.
Ogni giorno mi dico: ma basta quel titolo. Sabato, per esempio, “Niger, dove l’Europa prepara la nuova guerra ai migranti”. Niger e tutto il Sahel sono colonia franco-Nato-americana. Ci hanno messo un po’ di Isis e hanno picchiato i Tuareg perché ci fosse la scusa per militarizzare tutto. Bloccare migranti? Figurati, anzi. Per scavare uranio, oro, metalli, petrolio, hanno espropriato, cacciato, bruciato, ucciso. Il “manifesto” parla di “guerra ai migranti”. Non di guerra all’Africa, qui come ovunque, perché produca più migranti.
Il segno sul XXI secolo della ragazza del secolo scorso
Ma, amici, tutto questo è poco, se ci ricordiamo di quanto ha impresso su quel giornale, con eleganza di eurotacco coloniale, la più prestigiosa, la più onorata, la più vetusta dei marabut che hanno dato vita all’impresa “il manifesto”. Al debutto dell’aggressione jihadista promossa dai Fratelli musulmani del Golfo e dalla Cia, poi guerra stragista franco-Nato, al paese più prospero ed equo (ONU) del Continente, al leader che aveva riscattato un popolo dal colonialismo genocida italiano e dal servilismo alla corona britannica, che aveva iniziato l’affrancamento del continente dal sottosviluppo, dalla spoliazione e dall’intrusione del nuovo colonialismo, Rossanda dai salotti di Faubourg St. Honoré s’indignò grandemente perché il giornale aveva un po’ tergiversato sugli abominii  da attribuire a Muammar Gheddafi. Ignoranza? Arroganza colonialista? Odio antisemita dell’eurokazara per il semita arabo Gheddafi? O semplicemente Quinta Colonna?

Richiamò all’ordine i co-infiltrati del ’69 e agognò il precipitarsi, dal “mondo libero” ovviamente, di combattenti sul tipo Brigate di Spagna, in sostegno ai rivoluzionari democratici rivoltatisi contro una famiglia di tiranni e grassatori. Ottenebramento da arteriosclerosi, coppe di champagne in eccesso? No amici, coerenza di un’operazione di lunga gittata, che ha segnato fortemente cinquant’anni di collateralismo terribilmente manipolatorio, razzisticamente eurocentrico, intimamente neolonialista. I succedanei di oggi degli iniziatori hanno perduto, come tutta la categoria, l’abilità di travestimento e mimesi. Si sono rivelati faciloni. Come quelli delle false flag, sempre più rozze. Quel là dato da Rossanda nella primavera araba di Libia ha dissipato ogni nebbia. Ha collegato il suo auspicio alla risata trionfale di Hillary Clinton sul cadavere martirizzato del Gheddafi sventrato. Due donne, due femministe, due ingiurie tremende a entrambe le categorie.Il cerchio si chiude. Quinta colonna.