domenica 28 ottobre 2018

TAPPARE LA VITA O TAPPARE IL TAP



Quando i 5 Stelle stavano dove era giusto stare
Nei percorsi, nelle ricerche e nelle denunce dei miei più recenti documentari – Fronte Italia-Partigiani del Duemila, “L’Italia al tempo della peste” e “O la Troika o la vita” (trailer e selezioni nel mio sito) – mi sono ripetutamente ritrovato a fianco esponenti, attivisti, rappresentanti eletti del M5S. Più loro che di qualsiasi altro partito. E’ un dato di fatto sul quale potete sbertucciarmi quanto volete, ma è un dato di fatto. Che si trattasse del TAV in Valsusa e del Terzo Valico, della base di guerra MUOS statunitense a Niscemi, del TAP e in genere della devastazione ambientale e sociale provocata dal’ossessione fossile. E se il referendum contro le trivelle, seppur mancando per poco il quorum, aveva conseguito una maggioranza schiacciante degli anti-trivelle, il merito ne è andato in gran misura a chi con le sue mobilitazioni di massa ne aveva favorito l’esito, i 5 Stelle. In particolare, attivisti ed eletti 5 Stelle hanno accompagnato e istruito me e la coautrice dei film, Sandra, negli approfondimenti sul terremoto nelle Marche e nel Lazio (quelli che grazie al TAP verranno squartati in coincidenza con le aree più sismiche), al punto che senza la loro conoscenza-competenza-passione non ne saremmo mai venuti a capo. Al punto che ne è fiorita un’amicizia rigogliosa in profondità e nel tempo.

Questi amici mi hanno espresso stamane rabbia, delusione, frustrazione, dolore. La stessa dei disperati e mortificati che in Puglia erano stati mandati in massa in Parlamento sull’onda della loro adesione ai No Tap. Una rivolta di testa e di pancia, come è giusto sempre che sia, contro quanto questo governo ha deciso su una delle più nefaste, sporche e letali delle Grandi Opere. Grandi Opere, cioè grandi devastazioni, ruberia, mafiosità. Altrettante battaglie dell’epopea guerresca condotta contro l’Italia, le sue comunità, il suo ambiente, la sua salute, il suo futuro, dai terminator che hanno governato nell’ultimo mezzo secolo, con apoteosi cementificatrice ed avvelenatrice al tempo degli ultimi predecessori dell’attuale governo. Quelli dello “Sblocca Italia”.

Quelli che se la godono quando il governo rovina un altro po’ l’Italia
Lo ripeto ancora una volta: questo non è il “mio governo”. Intanto non lo potrebbe mai essere finchè vi fosse un capobastone come Salvini. Uno che anziché per la coda in Italia, la tragedia emigrazione dovrebbe prenderla per la testa, in Africa, dove viene organizzata da chi la pensa proprio come lui in termini di depredazione neoliberista. Uno cui la decapitazione di un movimento di massa sacrosanto come quello No Tap ha fatto secernere la stronzata: “Così gli italiani avranno più gas a minor prezzo”. Per trovare un governo che vorrei mio, dovrei tornare al 1870 e a Parigi, ai primi Soviet, a Cuba finchè c’era il Che, al Burkina Faso di Thomas Sankara. Ma poi, vai a vedere. Ma di questo governo so, con granitica certezza, che è mille volte peggio chi lo bombarda giorno e notte di fiele e menzogne, a partire da quel sinistro “manifesto” in osceno  orgasmo davanti al TAP che si farà, solo perché passa con i cingoli, oltreché su territorio, acqua e aria, su integrità e forza politica dei 5 Stelle. E so anche che questo governo ha provato, sta provando e sta facendo cose, magari pochine, magari timide, ma che per quelli di prima, da Andreotti ad Andreotti, da Amato a D’Alema, da Prodi a Renzi, sarebbero stati anatema, rovesciamento dei paradigmi, obbrobrio per le fratellanze, vittoria del Maligno.


A testate contro il tram
Per cui, con tutte le ragioni vedute, apprezzate o respinte, sostengo e penso che chi si proclama dalla parte degli sfruttati e offesi, dei dominati, dovrebbe sostenerne le ragioni buone, anziché gareggiare con i dominanti a chi meglio vitupera proprio quelle (perché evidentemente dalla parte degli sfruttati e offesi proprio non sta). Per cui, quando il Movimento 5 Stelle, componente fino a voto contrario ancora preponderante nella maggioranza, alla faccia di cementifici, asfaltifici e capannoni cari alla Lega, si precipita a testa bassa e senza casco contro il tram in arrivo, lasciandosene maciullare e sgomberandogli la via al massacro di San Foca, del Salento, del Centroitalia sismico sgarrato dal gasdotto, della Padania bucherellata dagli stoccaggi  in regione sismogenetica, io sto con i miei amici 5 Stelle che piangono e urlano. E con nessun’ altra ipocrita prefica.
Tantomeno con quegli emuli di Sisifo che, giorno dopo giorno, edizione dopo edizione, articolo collaborazionista dopo articolo consociativo, si devono affannare a  risospingere in vetta e in bella vista la testatina “quotidiano comunista”, mentre  inesorabilmente gli rirotola giù, sepolta da 15 pagine che quella testatina la negano.


Penali, ma decchè!
Mi dimostreranno che ho torto, ma non credo alla storia delle penali multimiliardarie che ci raderebbero al suolo. Credo che abbiano la stessa funzione ricattatoria di quelle altre penali che ci avrebbero lasciati tutti in mutande se solo avessimo osato strappare ad Autostrade SpA la greppia della concessione. Penali dimostrate inesistenti. Dalle parti di Melendugno, con le telecamere, siamo stati ripetutamente. E così anche tra i boschi allora integri e le montagne ancora non sfregiate, tra Liguria e Piemonte, del Terzo Valico. Terzo Valico (dopo due sottoutilizzati) dove alcuni già pluri-inquisiti per malaffari di ogni genere insistono a volersi intascare quei 6,5 miliardi per far arrivare una terza, inutile, ferrovia da Genova a… Tortona: opera indispensabile ai collegamenti europei e transeuropei!


Tra gli ulivi orrendamente amputati, sradicati, imbavagliati, che ricordano le immagini di soldati mutilati, fasciati da bende insanguinate, abbandonati nelle trincee della Grande Guerra, ho incontrato ragazzi, cittadini, consapevoli che attorno a questi cantieri di lamiere e filo spinato, sotto le bastonate delle forze dell’Ordine Costituito e i cingoli dei loro blindati, si giocavano quanto ancora sfuggiva al saccheggio del mostro capitalglobalista. Come a Genova del G8. Come ad Aleppo. Come a Gaza. Come a Caracas.


Gianluca Maggiore, portavoce del Movimento No Tap, Marco Potì, sindaco ormai da sempre, da quando importa, di Melendugno, due autentici eroi della resistenza umana , di quelli beato il paese che ce li ha, parlano a lungo nei documentari citati. Insieme ad accademici, militanti, geologi. E tutti hanno tutte le ragioni del mondo, tecnico-scientifiche, morali, legali, legittime, biologiche. Perfino geopolitiche. E Conte e Di Maio ciurlano nel manico quando ci piazzano davanti il paravento delle penali da 20 miliardi. Esibissero i documenti a prova delle stesse. Neghino che, come si è visto nel caso del Ponte Morandi, le inadempienze, le malefatte, trucchi e frodi dei concessionari, le infiltrazioni mafiose all’origine, i calcoli errati, le attestazioni false, possano costituire materia di contestazione.

Ciò che non ti dicono: mica finisce in Salento
In ogni caso ci sono ragioni ancora più stringenti. Quelle per le quali si sono ribellate le popolazioni lungo tutto il percorso tracciato per quel dannato gas, inutile a noi (il consumo previsto dal noto liberalizzatore Bersani anni fà si è ridotto di metà, altro che TAP), catastrofico per l’ambiente, altamente lucrativo per chi lo vende all’estero. Coloro che si sono mangiati la parola data alla Puglia e all’ambiente, alle rinnovabili e all’onestà, com’è che non ti dicono niente su quello che viene dopo la spiaggia e la macchia di San Foca? Mica finisce lì il TAP. I giganteschi tubi, sempre a rischio di rottura ed esplosione, come avvenuto anche da noi,  accompagnano sottoterra, fedelmente, la faglia sismica che ogni tanto fa saltare per aria l’interno d’Italia. Ogni qualche chilometro sorgerebbe un mostruoso impianto di decompressione o ricompressione del gas, o come diavolo si chiamano. Poi il gas finisce in una demenziale concentrazione di impianti di stoccaggio nella bassa padana, una dozzina nel raggio di pochi chilometri, a portata di sassata da centri abitati e cascine, su terreni agricoli desertificati, dove un tempo vivevano e lavoravano migliaia di famiglie. E non gli 8 addetti, otto, dei singoli megaimpianti. Impianti che sparano il gas in arrivo nelle cavità del sottosuolo dalle quali un tempo si estraeva altro gas e poi lo risucchiano per venderlo ad austriaci, tedeschi, croati, olandesi. Il tutto, particolare non da poco, anzi, drammatico, in zona notoriamente a rischio sismagenetico, cioè dove c’è probabilità di grossi sgrulloni sismici (vedi mappa). Che ce l’abbiano messi apposta lì?  O solo perchè già c’erano i comodi buchi fatti da Enrico Mattei sessant’anni fa?



Dove c’è terremoto, ci vuole un gasdotto
A proposito del gasdotto Snam dal Salento a Tarvisio e dei grappoli di stoccaggi in Padania, quelli sicuramente possono essere bloccati prima di procedere. Mica c’è un trattato internazionale presuntamente inibitore! E se, alla luce dei rischi mortali al territorio e alla gente, dell’ulteriore spintone idrocarburico al cambiamento climatico che ci annega e arrostisce tutti, i motivi per bloccare tubi e depositi ci sono, tanti e poderosi, perché Di Maio, Conte e Toninelli non bloccate quelli? I signori del TAP facciano pure il loro tubo dall’Albania al fondomare davanti al Salento. Non essendoci proseguio, si dovrebbero fermare lì. E nessuno pagherebbe penali. E, forse, vedendo l’utilità di un tubo transasiatico che si ferma là dove sguazzano bagnanti e che non ha dove e perché andare oltre, forse lo stesso TAP si direbbe: ma chi me lo fa fare… E Salvini si accontenti delle bombolette di gas che sicuramente gli regalerebbe Putin.


Sono gli Usa che ce lo chiedono
Andiamo, governo Conte-Di Maio, c’eravate tanto simpatici (e ci voleva poco, dopo Renzi, Gentiloni, Calenda, Gelmini, Alfano, Verdini, Orfini e caravanserraglio vario). Ditecelo che lo volete/dovete fare perché ve l’hanno ingiunto, per bocca di Trump, i gestori della distruzione del mondo per via climatica e bellica. Siete andati a Washington, vi hanno detto che il TAP è strategico per il processo di inchiavardamento dell’Europa agli Usa, perché fotte i russi e il loro gas tanto più economico e vicino (che dici Salvini, amico di Putin?) e perchè elimina da un mondo da mondializzare a stelle e strisce le ubbie sovraniste di un paese da quattro soldi.

Per imporre al cammino dell’umanità l’handicap di un pianeta dalle ossa rotte e dal sangue avvelenato, per eliminare dalla scena chiunque si frapponga al rullo compressore del necromillenarismo, questi hanno bisogno di controllare ogni sorgente e ogni arteria, fino all’ultima venuzza, dell’energia, civile e militare, fossile e nucleare. L’hanno fatta pagare a Libia, Siria, Iraq, Somalia, Yemen, a milioni di vite e dai e dai. Vuoi che si lascino privare di un tubo solo perché intossica un po’ di colonizzati e guasta un po’ di spiagge e monti? Poi, se rimarrà ancora qualcosa, prima che debbano trasferirsi su un altro pianeta, o in un Eden bunkerizzato sottoterra, vorranno appropriarsi anche delle rinnovabili.

Eppure… eppure io me li ricordo, i Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista, quando dicevano “ma di questa cazzo di Nato cosa vogliamo fare”. Io c’ero. E mi sono sentito contento di essere italiano. Bello sovranista, sotto cinque stelle.





sabato 27 ottobre 2018

DONNE DALLA PARTE GIUSTA - DONNE NON MANIPOLATE



Per chi capisce l'inglese, oltre quello dei vernacolari monoglotti, che però ci sparano smart, glamour, fashion blogger, okey, happy hour, ecco il video della "marcia delle donne contro la guerra" svoltasi a Washington davanti alla Casa Bianca. Tra tanti depistaggi verso manifestazioni strumentali, come quella propagandata da noi per oggi sabato "contro il razzismo" (mica quello vero che spoglia l'Africa e rade al suolo il Medioriente) dai detriti di una sinistra fattasi autentica destra (vedi il manifesto), strumento imperialista della distrazione di massa dai diritti alla pace, al lavoro, alla sovranità, verso i "diritti civili", ecco una manifestazione che colpisce il nervo scoperto del nostro tempo delle mistificazioni. Viva queste donne di cui a a destra (cioè a "sinistra"-centro-destra) non sentirete un bisbiglio.

Women’s March on the Headquarters of War:

The Full Video Report

Consortium News videographer Netra Halperin has produced a full video report of Sunday’s Women’s March on America’s center for planning and executing war.

https://consortiumnews.com/2018/10/23/cn-video-womans-march-on-the-headquarters-for-war-the-full-video-report/

mercoledì 24 ottobre 2018

In margine a Khashoggi --- JACK THE RIPPER, UNA SINEDDOCHE



Jack the ripper, Giacomo lo squartatore, ricordate, è il personaggio reale che sbudellava donne, prostitute perlopiù, nel quartiere londinese di Whitechapel, di cui si mormorava potesse essere un altissimo membro di Casa Reale, allora retta, nel massimo fulgore della gloria ed espansione del suo impero, dalla regina Vittoria. Non si mai saputo, voluto sapere, chi il serial killer fosse. Anche oggi, specie da noi, sono pochi i colletti bianchi che finiscono davanti al giudice, e pochissimi che vadano dietro le sbarre. Figuriamoci, allora, i colletti di sangue blu. Jack divenne lo spunto per una letteratura gialla che si premurò di seppellire nelle fatiscenze e tra le stamberghe da gentrificare di Whitechapel la torbida e imbarazzante crepa  in una società borghese i cui cantori, salvo eccezioni tipo Dickens e Oscar Wilde, la celebravano come l’apoteosi della vicenda umana. Una specie di “fine della storia”, come cent’anni dopo la riprese Fukuyama  per sancire che nulla ci sarebbe potuto essere al di là del capitalismo neoliberista e mondialista voluto dalla finanza, interpretato dai neocon e attuato da Clinton, Obama, Blair, nanetti da giardino a Bruxelles, facilitatori e influencer  locali vari.

La parte per il tutto: uno, due, tanti Jack the ripper
Sineddoche è la figura retorica più diffusa. Quando si usa la parte per il tutto. Per esempio dire “bevo un bicchiere”, “Palazzo Chigi dichiara”. Alcuni lo sapevano, altri meno, ma i tanti che hanno illustrato le imprese di Jack the ripper, in libri, film, teatro, fumetti, hanno disegnato la sineddoche della società di allora e di oggi, una società che ha sbaragliato, con i metodi e strumenti di Jack, a volte metaforici a volte no, ogni pensiero e ogni assetto che non fossero quelli unici. Jack è la parte per il totale di questa società. Una società che stava costruendo  il suo edificio del potere, oggi giunto al completamento, con i mattoni fatti delle  ossa e cementati col sangue di un’umanità  il cui mattatoio era la sua stessa casa. Casa senza finestre e senza uscite.  Jack si è moltiplicato all’infinito: capitalismo, vuoi liberale, socialdemocratico, vuoi nazifascista, colonialismo, imperialismo, neocolonialismo in forma di emigrazione. La guerra di Jack contro le donne di Whitechapel che esprimevano una condizione umana determinata da povertà e ingiustizia, era la guerra contro chi lacerava il quadro della buona società borghese trionfante. La lacerazione dell’ipocrisia andava lacerata. Squartata, appunto. E nessuno avrebbe mai dovuto e potuto scoprire e punire lo squartatore.

Jack non va in galera
Nessuno scoprirà e punirà mai quel Jack the ripper  che, nella sede diplomatica saudita di Istanbul, ha ucciso, squartato e seppellito il giornalista del Washington Post e membro del settore dell’élite saudita spodestata, Jamal Khashoggi. Ognuno utilizzerà la prodezza dell’infante, Mohammed bin Salman, detto MBS, per riformattare i rapporti di forza all’interno del circuito dei Global Jacks the rippers (per coloro che di inglese sanno smart, fashion, glamour, start up, street food, è plurale). Alla Davos saudita, dopo l’ovazione in piedi tributata al Jack padrone di casa, fresco fresco del sospetto granitico di aver ordinato l’affettamento del disturbatore, sono stati conclusi affari per 50 miliardi. Erdogan, bue che dà del cornuto all’asino, con le sue centinaia di giornalisti in carcere e le decine di migliaia di statali, avvocati, magistrati “infedeli” cacciati, fa finta di indagare sul Jack saudita, ma non  lo menziona, si limita di tenerlo per il bavero perché l’egemonia sull’Islam sunnita (nonché sul mercenariato jihadista) sia suo e dei suoi Fratelli Musulmani piuttosto che dei wahabiti e salafiti del Golfo. Pensino a massacrare sciti tra Yemen, Saudìa, Bahrein e Libano e non rompano. E sulla Siria decidiamo noi.

Il processo a MBS si ferma lì. Del resto, non si è ancora visto all’orizzonte, come non si era visto a Scotland Yard 120 anni fa chi indagasse seriamente sul Ripper,  il temerario che se la sentirebbe di redarguire un fronte di Jacks che, tra idrocarburi, armamenti e internazionale tribale, costituisce una delle pietre miliari nella marcia verso il mondo uno e trino: banca, armi e genocidi. Il mondo dove ci promettono – e il pecorame sinistro-destro conferma -  albeggia la vera democrazia.


Per un attimo, Trump ha sollevato il ciglio sullo smembramento di Khashoggi, ma l’ha istantaneamente riabbassato, parlando di “fatto malavitoso”. S’è ricordato che il 18% di tutto il petrolio mondiale è saudita, pulito, a basso costo, mentre quello suo, di scisto, costa un botto e fa schifo. Ha anche pensato che, se lo Jack saudita non si compra quelle armi per 100 miliardi, altro che vittoria alle elezioni di medio termine, con qualche decina di migliaia di operai in strada e l’intero complesso militar-industriale, che tiene in piedi la baracca economica a stelle e strisce, già seccato perché quando Trump incontra Putin non gli spacca la faccia, che gli scatena contro l’armageddon finale.

O con Jack, o squartati da Jack. O zitti.
Quanto poco gli importi di mettersi a tavola con Jack, pur di guadagnare punti nei confronti dei bari che fanno saltare consolidati accordi anti-olocausto nucleare (quelli che noialtri, a costo di parecchi bozzi da manganello in testa per cacciare Cruise e Pershing da Comiso, contribuimmo a far concludere da Reagan e Gorbaciov), lo ha dimostrato ai suoi sostenitori anche Putin. Non era passato quel battito di ciglio di Trump, che il salvatore della Siria già si presentava da MBS con in mano un piatto pieno di S-400, ultimo grido di difesa anti-aereo (difesa contro le cento squadriglie di MIG 17 degli Houthi yemeniti, evidentemente). Quello venduto anche a turchi e indiani, ma negato ai siriani.
E che nel mondo dei Jack, se non puoi stare a tavola con loro, conviene almeno star zitti su quanto sbranano e divorano. Come ha ben capito il governo Salvimaio quando si è ben guardato neppure dal sollevare quel ciglio alla Trump, o alla Merkel e, tanto meno, di porre un freno al flusso di armamenti dall’Italia, via Riad, in capo ai 18 milioni di yemeniti che la fame e il colera da blocco saudi-statunitense non hanno ancora stroncato.


Jacks sull’Honduras
E’ un mondo di Jacks. C’è un Jack a Tegucigalpa, Honduras, ennesimo spurgo del colpo di Stato voluto da Obama e organizzato da Hillary contro un presidente amico degli anti-Jack del Venezuela, che costringe il suo popolo a togliersi dai maroni per lasciare il posto a multinazionali dell’estrazione e della palma d’olio (rivedetevi questa prodezza hillariana nel docufilm: “Il ritorno del Condor”. Ci trovate, tra grandi lotte di resistenza, anche la mia intervista alla grandissima Berta Cacares, trucidata dal regime). E c’è un Jack a Washington che dai paesi dell’America Latina non vuole saperne di affamati e assetati, ma di essere da loro nutrito e dissetato a forza di oro, legname, chimica, hamburger e petrolio. Quanto siano sineddoche questi Jacks, lo dicono i 20 assassinati al giorno a Tegucigalpa, il più alto tasso di omicidi del mondo da quando hanno spazzato via Zelaya, presidente eletto dal popolo, ma nel paese dei padroni delle banane. Va così, nel mondo dei Jacks.

C’è un altro Jack in questa storia che non si sa se sia concepita contro Trump, o a suo favore. E’ uno che campa assassinando nazioni. Circola la voce che la partenza da San Pedro Sula, nel Nord dell’Honduras, delle prime centinaia di marciatori verso gli Usa e poi l’afflusso in San Salvador e Guatemala di altri disperati di questi paesi da sempre sotto l’anfibio Usa, fino ad arrivare ai 7000 sul confine col Messico, si siano svolti sotto gli auspici e con il concorso di George Soros. L’amico di tutti i migranti che lasciano il posto alle multinazionali e il nemico di tutti coloro che vogliono restare a casa e farselo loro il proprio paese, ci avrebbe messo la zampa per inguaiare da destra (lo sradicamento-spostamento di popolazioni è operazione di destra, mondialista) l’odiato presidente che la bufala cosmica Russiagate non è ancora riuscita a disarcionare.




Resta da vedere se il calcolo è azzeccato. Chè se quell’ondata, magari ingrossata dalle vittime messicane dei narco-Jacks che hanno preceduto Lopez Obrador alla presidenza del Messico, si dovesse infrangere contro il muro tra Texas e Chihuahua, o lo dovesse addirittura superare, sai la psicosi razzista che si solleverebbe tra i diseredati nordamericani, gli esiti potrebbero essere due. O Trump ci guadagna, perché da sempre minaccia blocchi e chiusure alle torme che vorrebbero invadere il paese del benessere e, spaventata dall’ondata centroamericana, la gente si rifuggirebbe nel voto repubblicano; o ci rimette perché, pur tuonando e promettendo sfracelli, non riesce quell’ondata a fermarla sul nascere,  a dispetto di tutte le leve di dominio di cui gli Usa godono in quella regione.

Dal mattatoio Honduras alla discarica di Tapachula
Ai disperati in marcia verso il “sogno americano”, manipolati o meno che siano da uno dei tanti Jack che incombono da secoli sui destini del continente, non dice bene. Prima di arrivare a Ciudad Juarez, davanti al Texas, saranno selezionati dai narcos, bastonati, sequestrati, uccisi da questi, quando non dalle maras, angariati e rinchiusi da queste o quelle forze dell’ordine, spiaggiati sui due lati del fiume Suchiate, in Honduras o Messico, a rimediare un po’ di lavoro e un po’ di alcol. Li ho visti lì, alcuni da anni, sotto tetti di cartone, instupiditi dall’attesa, dal niente, dalla dissipazione di ogni prospettiva. Con loro, su pneumatici di camion, ho attraversato il Suchiate, li ho visti attendere da un’eternità il treno buono per il nord, arrampicarvici, caderne per la stanchezza, morire. Soprattutto li ho visti finire nell’immensa discarica di Tapachula, a lavorare sotto caporali frugando tra i rifiuti. Donne del Guatemala, lì da anni, rosicchiate dalla tubercolosi, con i figli nati prima, ma anche lì, che si grattavano la scabbia. Ho raccontato tutto in “Messico: angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero”. Scusate  lo spot.



Tra i tanti che lacrimano dai loro salotti al seguito dei marciatori honduregni ci  sarà qualcuno che, anziché parlare di accoglienza, lì solo un po’ più sanguinaria della nostra tra i pomodori, parlasse di partenza coatta. Come quella dalla Nigeria imbrattata dal petrolio dell’ENI  (di cui il “manifesto” pubblica i paginoni promo redazionali), o come quella  dalle terre rubate agli indigeni per  i quali Berta Cacares si è battuta contro l’olio di palma degli avvelenatori. E  che dicesse che quella partenza è dovuta ai Jacks di cui, nel nostro emisfero, si accettano tutti i corollari culturali e geopolitici. Potrebbe essere una bella sineddoche. Ma non la vedo.

Mi fermo qui. Dei Jacks in gessato, whiskino a portata e porte girevoli sempre in funzione tra Bruxelles e Goldman Sachs e tutti i padroni - privati e paperoni ! - delle agenzie di rating che stabiliscono chi deve vivere e chi morire, inorriditi dal cambio di direzione che i flussi hanno preso in Italia, anziché dal basso verso l’alto all’incontrario, mettendo a rischio tutto il bello schemino realizzato assieme ai Jacks americani da settant’anni in qua, parleremo un’altra volta.














mercoledì 17 ottobre 2018

Informazione, Di Maio, Calabresi: la pagliuzza e la trave ----- LIBERTA’ COME SEI INVECCHIATA, QUANDO PASSI NON TI RICONOSCO PIU’




E’ lungo. Va bene che siamo nell’era veloce dei tweet, delle frasi semplici, del chat, dei periodi senza subordinate. Ma talvolta fa pure bene al cervello fare uno sforzetto. Come aille ginocchia quando cammini anziché stare seduto in tram affondato nel cellulare.

Un quartiere può ben essere paragonato a un albero. Se forte e bello, o sbilenco e stentarello dipende dal terreno in cui affonda le radici. Trastevere era un albero forte, grande e bello, con le fronde e i rami che per millenni hanno protetto e coperto i suoi abitanti. Genti di varissimi colori, ma che Trastevere trasteverizzava, lo ricambiavano curandone il suolo, potando ed accrescendo, a misura di necessità. Stefano Rosso era l’uccellino nato tra quelle fronde e che ne abitava i rami, gli dava voce. Suonava la chitarra e cantava le sue canzoni, tra le più belle e significative del cantautorato degli anni felici. Non ha voluto altro pubblico che noi, quelli che lo andavamo ad ascoltare a Piazza Santa Maria, accrocchiati sulla fontana intorno a lui. Non aveva mai un soldo, Stefano, non ci teneva ai quattrini. Ogni tanto mangiavamo un piatto di pasta da me e poi giù con le chitarrate. Quando l’albero, maltrattato da turbe di colonizzatori, ha incominciato a seccarsi, Stefano, il suo usignolo, era già diventato famoso. Non se n’era neanche accorto. Era rimasto sul ramo di quell’albero, ancora a cantare, a impollinarne le fioriture sempre più rade. E’ stato l’ultimo canterino a volar via, l’ultima foglia a caderne, nell’inverno del nostro scontento. E con lui è volata via la poesia e la profondità. Poi l’albero, millenario come gli ulivi che vanno spazzando via in Puglia per far spazio alla modernità, è marcito ed è crollato. Suggerirei a chi legge questo pezzo, di tenersi sullo sfondo la dolce amarezza di Stefano: (www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=42666)  



Sì, viaggiare (fuori, dentro, con e contro i media)
Nel primo tempo, quello del Vaffa, i 5 Stelle si astennero dal mescolarsi tra le anime morte, ma esuberantemente ciarliere, dell’informazione-comunicazione-intrattenimento-rintronamento, specie televisivi. Fecero bene a tirare un frego tra loro, che parlavano alla gente nelle piazze e in rete (ahimè solo per chi la frequentava), e coloro che le arrangiavano attraverso i canali consolidati del totalitarismo comunicativo. Nel secondo tempo, maturati, iniziarono a mescolarsi, con un certo occhio alla selezione. E fecero bene, giacchè ovunque apparissero e con chi, disintegravano l’interlocutore. Nei supplementari, oggi, si mescolano con chiunque, vanno dappertutto, anche da Barbara D’Urso. E non so se fanno bene, anche Renzi l’aveva fatto, davanti alle stesse ginocchia nude, d’attrazione e distrazione (che poi se uno le toccasse finirebbe alla garrota) della stessa intervistatrice, celebrante della star di turno. Forse gli tocca, giacché tutti, dappertutto, ne parlano e nel 99,9% dei casi male. E visto che sei al governo e ti ha messo lì la nazione, tocca rispondere. Sennò resta muto anche chi  li ha eletti. E questo, in democrazia, non dovrebbe andar bene.



Inesperti e indisciplinati, non avvezzi alle buone regole, come sono tutti quelli che arrivano da fuori e in ritardo, i 5 Stelle a volte rispondono male. Senza neanche coprirsi la bocca. E tutti lo vengono a sapere e siccome quelli che gestiscono l’informazione, da sinistra a destra, li hanno in uggia, potete immaginare lo tsunami di riprovazione e damnatio memoriae, praesentis et futuri che gli arriva addosso. Uno tsunami che ha a disposizione tutti i venti per potenziarne la forza devastatrice: tv, stampa, metà dei social, i chierici, i laici benpensanti, gli amici del bar che guardano la Juve e le comari che festeggiano la gravidanza di Meghan e danno retta a Gramellini.

Al contadino non far sapere…
La differenza è che, quando non parlano attraverso i canali che qualcuno ha sancito istituzionali, anche se rispondono a privatissimi magnati del soldo, del mattone, del farmaco, questi formidabili catoni parlano di nascosto. Sono i casi in cui il teleobiettivo, o l’orecchio, o lo sguardo puntati non sono sotto loro stretto controllo. Parlano fitto fitto coprendosi la bocca. E non è per infastidire l’altro con l’alitosi. Qualunque sia il lezzo emanante dalle parole. Lo hanno imparato anche i calciatori che, bisbigliandosi trovate tattiche, o suggerendosi di spezzare le tibie a quello lì, pensano di fregare l’avversario. O magari  lo spettatore tv perché non sappia della combine.


Così è successo che Di Maio, quello più cornuto nella coppia di governo, secondo  gli illibati che c’erano prima, perché non fa smargiassate, o cose palesemente riprovevoli da ogni punto di vista, ma qualcuna  di quelle che questi avrebbero dovuto fare e non si sono mai sognati e per questo sono stati messi dietro la lavagna, ha detto sulla stampa ciò che tutti sanno. Nulla più. Quando è uscito un DEF in tutto e per tutto simile a quelli fatti prima, ma stavolta in odio al babbo UE, alla mamma BCE, alla zia FMI e al curato e con provvisioni non per due dozzine di ricchi, ma per qualche milionata di pezzenti sul divano, al maremoto forza 10 che gli si è sollevato contro, Di Maio è sbottato in “terrorismo mediatico”. Ha addirittura osato riferire che, come i dati ahinoi da tempo denunciano, la carta stampata perde lettori e anche Repubblica. Non sarà mica perché i lettori, più che leggerla, hanno mangiato la foglia?  Ma come si permette, il parvenu! Quello delle gazzose allo stadio San Paolo!

Ha preso la per lui inusuale penna, Mario Calabresi e, a nome di tutti i vilipesi, ha vergato su tre paginoni del suo giornale, “la Repubblica”, membro dell’oligopolio “Stampubblica” (Stampa, Repubblica, Secolo XIX e gazzettini associati, più L’Espresso), formatosi in nome del pluralismo e dell’ editoria pura, una catilinaria che, a confronto, quella del povero Cicerone contro il reo difensore delle libertà repubblicane pare la reprimenda della mamma per togliere i gomiti dalla tavola. Prima uno squillo di trombe: “Noi continueremo a raccontare la verità”, Poi un rullo di tamburi: “Quell’ossessione per Repubblica dei nuovi potenti”. Dove per “potenti” non credo abbia inteso né Debenedetti, né Berlusconi, né Cairo, né Caltagirone che, tra loro, hanno per le mani tre quarti dei media significativi di questo paese. Nè è probabile che abbia pensato a chi a Bruxelles, Francoforte, Parigi, Berlino e Washington mette i suoi poveri mezzi e poteri a disposizione della vendetta di coloro che il 4 marzo sono stati spodestati da una banda di barbari. E neppure, come adombra tremando il direttore di Repubblica, dovrebbero essere, Putin e Trump, stavolta in coppia alla Bonnie and Clyde?  Quei “potenti” del Calabresi restano l’enigma della fase.

Il resto dell’articolessa, come l’arguto Sergio Saviane chiamava le opere che per lui non meritavano altra qualifica, è un frenetica successione di spazzolate, un vorticoso impazzare di “Folletto”, un ripetuto passaggio in lavatrice della coda, per eliminare il sale che Di Maio gli aveva schizzato sopra. “Campagna con i giornali e contro Repubblica in particolare ogni giorno più ossessiva e più aggressiva…vogliono liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode… peccato che tu, grillino, possa solo ascoltare, al massimo commentare o votare in un sondaggio e se i voti non sono quelli desiderati in un attimo spariscono…chi insiste nel fare domande (ai grillini) disturba, mette in evidenza contraddizioni, errori e furbizie, deve essere messo fuorigioco… si sono chiesti (i grillini) come possiamo provare a imbavagliarli, indebolirli, mandarli fuori strada?....Hanno preso di mira la nostra pubblicità (i grillini), un trucco delle aziende per comprare i giornalisti, hanno reso immorale la pubblicità… nemmeno Berlusconi arrivò mai a tanto (bum!)… sterilizzare qualunque critica al ministro (grillino). Infatti, nella storia della Repubblica non s’era mai visto nessun governo così indenne da critiche e così universalmente magnificato.

Se non basta Hitler, ecco la Stasi

 
Modello Stasi


Messo il paese sull’avviso contro la dittatura dei potenti, razzisti, xenofobi e populisti che sprigiona dai primi cinque mesi del governo salvimaio, soprattutto “maio”, chè con il “salvi” in comune già c’erano sensi liberali e liberisti, capannoni lombardoveneti, Saia e Toti, banchette vernacolari varie. Poi il giornale dei Debenedetti  dà una sistematina anche alla dittatura d’antan, tanto per far notare l’accostamento. Due pagine dell’illustre storico (?), Pietro Citati, dedicati a Hitler. Cito: “Falsi miti. Non sapeva far nulla, non lavorava, amava smisuratamente la madre, pensava di essere un artista. Poi scoprì di avere una vera passione, l’odio e un unico talento: saper parlare” . Insomma, un Fuehrer mammone, un po’ coglione, in fondo nient’altro che uno spurgo d’odio. Un po’ come i grillini? Il ricorso a Hitler vi pare un po’ scontato, abusato? C’è sempre la Stasi, la CIA cattiva della Germania Orientale, con i suoi spaventosi metodi di coercizione e punizione. La Stasi è’ quella, per Faenza sul “Fatto Quotidiano” , come per Ciccarelli sul “manifesto” (uno resosi icona della credibilità quando ha spernacchiato alcune migliaia di scienziati, tecnici, testimoni, che mettevano in discussione la versione ufficiale delle Torri Gemelle), che stanno copiando i 5 Stelle quando al reddito di cittadinanza uniscono 8 ore di “lavoro forzato” socialmente utile e misure perché i 750 euro vadano a Pinocchio e a Geppetto e non finiscano in bocca al gatto e alla volpe

Libera stampa in libero Stato
Sul  “manifesto” Marina Catucci, già scatenata agit prop di Hillary Clinton, nota esultatrice  su cadaveri violati, dedica un paginone con fotona a un  gruppetto di teenager rivoluzionarie anti-Trump ben individuate, che tutte lamentano la perdita di Hillary e Obama e si dichiarano pronte alla guerra contro l’oppressione delle donne, delle minoranze, dei LGBTQ, contro negazionisti, misogeni, omofobi, razzisti. E anche contro la libera disponibilità di armi che provoca il “mass shooting” nelle scuole americane. Bravissime, Soros esulta.


Legittimo. Legittima la scelta delle notizie da dare e non dare. Forse legittima, ma non deontologica la scelta di NON dare neanche un trafiletto alla Marcia delle donne sul Pentagono nel fine settimana 20-21 ottobre, organizzata da Cindy Sheehan, madre di un soldato ucciso in Iraq, diventata la più nota militante antiguerra degli Usa. Ai tempi di Trump, ma anche di Hillary e Obama. E neanche una notiziola sul convegno internazionale contro la Nato a Dublino dal 16 novembre con la partecipazione di rappresentanti di 120 nazioni e centinaia di organizzazioni anti-guerra. E neanche un accennino alla manifestazion di massa programmata contro il prossimo vertice Nato a Washington il 4 aprile prossimo, per il quale si raccolgono adesioni dal mondo. Legittimo occultamento. Un po’ meno legittimo quando si esibisce la testata “quotidiano comunista”.

Legittima la scelta di Repubblica, del manifesto e di tutti gli altri, di giudicare l’Egitto preda di una dittatura. Legittima, ma sospetta quando si dice di arresti e non di terrorismo Isis dilagante, che uccide civili e funzionari a gogò, brucia chiese copte, tiene in scacco il paese. Legittimo esigere la verità sull’uccisione di  Giulio Regeni, ricercatore italiano. Ma legittimo anche, nello sceverare ogni minimo particolare dell’accaduto, occultare che il ragazzo era lì per sollecitare progetti anti-regime, che era stato bruciato da un suo interlocutore e, soprattutto, che era stato alle dipendenze di una ditta di spionaggio angloamericana diretta da ceffi come l’inventore dagli squadroni della morte, Negroponte, l’ex-capo dello spionaggio britannico, McCollin, e il protagonista del Watergate David Young?  Un pensierino su chi poteva aver combinato il pastrocchio, chiaramente anti-egiziano e anti-italiano, no? Giornalismo d’inchiesta?

Luci intermittenti sulla realtà
Santificare le Ong delle migrazioni e celare che sono finanziate dallo speculatore e destabilizzatore internazionale George Soros? Definirlo filantropo e  perdersi il dettaglio (vero “manifesto”?) del furto di miliardi a Italia, Regno Unito e Tailandia (dove, se ci va, lo sbattono al gabbio per sempre), cui in combutta con agenti locali quali la Regina, Draghi e Andreatta, ha demolito la valuta nazionale facendo arrivare sul mercato degli amici una produzione industriale a prezzo di saldo? Non aggiungere che c’è la manina di Soros in ogni porcata fatta a Stati sovrani, tipo golpe e rivoluzioni colorate, da Kiev a Managua? Modello BBC, standard aureo quanto il New York Times delle armi di Saddam, che, dopo aver attribuito alla provocazione dell’IRA la strage della domenica di sangue di Derry perpetrata dai parà di Sua Maestà, solo dopo trent’anni si è rassegnata a un’inchiesta imposta a furor di popolo e di testimoni (compreso il sottoscritto), ma solo per spostare la colpa del crimine, dal governo che l’aveva ordinato, all’ intemperante testa calda  al comando dei militari (nessuno dei quali è ancora, 46 anni dopo, è finito sotto processo).


Perché, di Stefano Cucchi finalmente restituito alla verità  dalla confessione di un carabiniere che ha denunciato i suoi colleghi nell’Arma nei secoli fedele, quanti dei nostri innumerevoli  talk show di approfondimento giornalistico hanno parlato? Nessuno, salvo Porta a Porta. E quanti degli eminenti giornaloni, così arruffati dalle maldicenze di Di Maio, hanno istantaneamente rivelato ai loro lettori che quelli del Ponte di Genova erano i Benetton? Nessuno. Il nome uscito dopo giorni e giorni e nascosto in fondo alla foliazione. E il processo alla trattativa Stato Mafia del PM Nino Di Matteo? E la sentenza che inchioda una classe dirigente al connubio con la mafia nella più orrenda campagna di attentati mai vista in Europa? Tutti zitti tranne il Fatto Q.Fin qui siamo agli occultamenti, detti “legittima scelta delle notizie da dare e non” a un volgo che rischia di essere composto da zotici “deplorables”.

C’è la notizia che non lo è, c’è quella falsa, quella occultata, quella travisata, quella opportunamente collocata.  Ma c’è anche il come queste notizie si danno, lasciando da parte i commenti, tutti ovviamente legittimi. Quando le fonti di informazioni che tratteggiano in nero i nemici dell’Occidente sono “anonime, sicure, affidabili,  diplomatiche, di intelligence, di organi altrui, sono i “si dice” e sono avvolti in condizionali come parrebbe, avrebbe, sarebbe”, si tratta nel 90% dei casi di propaganda, spazzatura. Tenetevi il 10%, vagliatelo e rovistate piuttosto in rete. Lì qualche barbaglio di luce lampeggia.  Per il come basta un esempio. Quello del vilipeso quotidiano di Calabresi-Debenedetti che con grande enfasi titola “Centri impiego flop, 2 milioni di richieste, 37mila posti trovati, ogmni sede va per conto suo, sono falliti i tentativi di coordinamento…” Uno legge e si dice: cazzo, anche su questo i grillini hanno toppato. Bersaglio centrato. Da nessuna parte c’era scritto che tutto il disastroso ambaradan era il frutto di decenni di quelle politiche governative, sostenute da “Repubblica” (Amato, Dini, Prodi, D’Alema, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) , in cui il lavoro non  lo si doveva proprio trovare. Come si sarebbe fatto, senza disoccupati, a tenere a bada “l’odio” degli occupati a strozzo e a ore/giorni?

E poi ci sono i tempi. A occhio e croce, nel TG del mio ex-collega al TG3 Luca Mazzà, le proporzioni sono queste: 20% a due esponenti del governo, 25% all’opposizione di destra (PD), 25% a quella di destra-destra, con la sfilata sui tacchi di Bernini, Gelmini, Carfagna e le epifanie di Berlusconi e Tajani, richiamati da Mazzà in vita, 10% alle micro-opposizioni di Meloni, Grasso, Fratoianni e Fassina. A ognuno di questi si strappa l’immancabile 1% che corona la politica con Bergoglio e Mattarella. Il quadro statistico è questo.

Dati AGCOM
Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

“pluralismo politico/istituzionale sul servizio pubblico televisivo”

Minutaggio complessivo, tra interviste e notizie date in terza persona, che Tg1, Tg2, Tg3 e Rai News hanno riservato alle diverse forze politiche nel periodo 1 - 30 settembre 2018 .


Partito
Politico


Tempo
dedicato

Quota elettorale
marzo 2018

Movimento 5 stelle


4 ore e 44 minuti

32,7 %

Lega


5 ore e 39 minuti

17,4 %

Partito Democratico


15 ore e 16 minuti

18,7 %

Forza Italia


12 ore e 14 minuti

14 %

Nota Bene: sommando il tempo dedicato alle due forze che compongono la maggioranza di governo si arriva a un totale di 10 ore e 23 minuti, contro le 27 ore e 30 minuti di PD+FI.

Tutto questo fa parte della strategia dell’informazione come concepita ai tempi in cui i voti li danno Reporters Sans Frontieres che dalla Cia ricevono un guiderdone annuale. Poi c’è la tattica, quella delle notizie fieramente false, la famigerate fake news che, per la Boldrini e diversi legislatori d’Occidente starebbero tutti in rete. E qui non c’è che nuotare per non affogare. Vado alla rinfusa, ‘ndo cojo, cojo: troll russi contro Mattarella, penali miliardarie se cancelli il Tav o cacci Autostrade, Foa, neopresidente Rai, ha scritto un libro che spiega come falsificare le notizie a servizio dei governi (vero il contrario), gli amanti della Raggi, il Ponte Morandi è crollato perché il M5S ha bloccato la Gronda, Assad, come si sveglia, spara armi chimiche sui civili, la Casaleggio è tutt’uno con la Spectre….

Dalla censura ai tabù

Apoteosi della nostra libertà di stampa, d’espressione, di critica RAI 3 ha coronato quanto con  tanta forza ha rivendicato il direttore di Repubblica e, con lui, tutti i paladini schierati davanti al castello delle nostre libertà, minacciate e aggredite dal feroce Saladino. Sabato 13 ottobre, “Le parole della settimana”, programma buonista ultrà di Gramellini. A troneggiare sul proscenio tre sommi sacerdoti  della nostra corretta informazione; lo stesso Gramellini, Enrico Mentana (standard aureo del giornalismo tv) e Andrea Vianello. In collegamento skype, Diego Fusaro, filosofo marxista: presenza diversa e divergente, ma di notevole appeal  per il feticcio Audience, garanzia di pluralismo e benevola tolleranza pur verso chi ti è odioso. Nei pochi secondi  che gli sono stati concessi, Fusaro era subito riuscito a solleticare la sensibilità pluralistica, la fedeltà ai principi costituzionali della libertà d’opinione dei tre luminari del giornalismo democratico, citando Heidegger e, con lui, spernacchiando un’informazione che nasconde la realtà dietro chiacchiere, pettegolezzi, allusioni, fonti mai dichiarate, “si dice”, falsità conclamate. Bufale a gogò, aveva denunciato, tipo gli avvelenamenti dei russi, o le armi di distruzione di massa, cui si sono inchinate, e le hanno propagate, tutti i più prestigiosi media della democrazia occidentale. 

Stava per dire che gli hate speech, discorsi dell’odio, attribuiti h24 a chiunque non si trovi a suo agio nei tempi correnti,  sono proprio di coloro che accusano l’intero mondo fuori dal loro salotto Luigi XV di non fare che discorsi dell’odio, che in scena si percepisce una certa agitazione. Poi, come fosse un ectoplasma spento da qualcuno, Fusaro sparisce nella foschia dello sfumato. Che peccato, Skype interrotto, ghignano i commensali del pasto nudo dell’informazione. E la Federazione Nazionale della Stampa, con la succursale  Articolo 21, presenti in ogni piazza in cui si celebri la verità, da Regeni alle Ong di Soros, il giorno dopo non poteva mancare a denunciare la soppressione della libertà d’espressione perpetrata da…. Luigi Di Maio.

Ci rimane pur sempre la satira. Rai 3 e Tg3, quelli detti “Kabul” quando c’ero io, magari danno solo tre volte lo spazio alle opposizioni di quello che danno al governo (proporzioni invertite rispetto ai governi precedenti), noblesse oblige, perchè stare con gli oppositori oggi fa fico, ma mantengono in vita addirittura Blob. La satira! Quella che graffiava tutto e tutti, senza sconti per nessuno, ma con il piatto della bilancia sempre pencolante dalla parte del più sfigato, di quello fuori dall’ordine perbene delle cose, quello in basso. Con un occhiolino di complicità verso chi disturbava  E sui supponenti e protervi rovesciava quell’orrido blob che usciva dal cinemino di Piccadilly Circus. Come è missione della satira. Anche oggi fa così, anche oggi sbertuccia  i potenti e accarezza i deboli. Pensate, sulla kermesse del PD in Piazza del Popolo ha messo la canzone “I comunisti della capitale, è giunto alfin il dì della riscossa….”. Ma non era satira, non era ironia. Era l’omaggio commosso del giullare del re ai partigiani della nuova resistenza. A Renzi, Martina, Del Rio, Calenda, Zingaretti e Franceschini. Ecco dove era arrivata la trave di Calabresi per estirpare la pagliuzza di Di Maio.


Diceva quel destraccio di Leo  Longanesi: “Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi”. Faceva dire Orson Welles a Humphrey Bogard: Questa è la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente' -