martedì 27 novembre 2018

Armi di distrazione di massa----- IPOCRISIE, DECEREBRAMENTI, SPOPOLAMENTI

I


“La storia della nostra razza e ogni esperienza individuale sono cucite dalla prova che non è difficile uccidere una verità e che una bugia detta bene è immortale”. (Mark Twain)

https://vimeo.com/300013842 (link a una miaa intervista sulla Grecia realizzata da Patrick Mattarelli. Per aprire il link la password è Ful18vio)

Femminicidi. Non solo.
Metto le mani avanti, ricordando che ho dedicato gran parete di un mio documentario, visto da migliaia di persone, al femminicidio, massima espressione della violenza sulle donne. Se ora dico che al momento parrebbe che, schiacciati a terra e ridotti a pezzetti dall’uragano politico-mediatico sulla violenza sulle donne, noi uomini dobbiamo convincerci che, come tali, uccidiamo a gogò, ma non ci ammazza mai nessuno e che, in nessun caso, potremmo avanzare l’inaudita pretesa di essere, a volte, anche noi vittime. Non delle donne, di qualche donna. Sfido la crocefissione morale se dico che questa, come molte altre ondate di unanimismo di classe femminista, fin dagli anni della Grande Contestazione, potrebbe nutrire il sospetto di trattarsi, nell’intenzione dei noti amici del giaguaro, di grande operazione di distrazione di massa? Ho detto sospetto, non certezza. Vediamone gli spunti.

Fatta salva la sacrosanta protesta contro gli ottusi reazionari e facilitatori delle mammane che puntano a rimettere in discussione la 194 e mettere le zampe sull’autodeterminazione delle donne, abbiamo assistito a un tripudio di ipocrisia. Proprio come quella, del tutto analoga e inserita dalle note manone nella stessa strategia, che vede perorare l’accoglienza universale dei migranti e vituperare chi vi avanza qualche riserva. Come quella che nota lo svuotamento di un’Africa e di un Medioriente infestati da guerre innescate ad arte, o assegnati a multinazionali predatrici, e i relativi traffici di gente da spostare da più o meno nobili trafficanti. Svuotare l’Africa, far tracimare l’Europa mediterranea.

Un’ipocrisia che antropologicamente e socialmente è rappresentata dalla stessa categoria di persone che abbiamo visto rumoreggiare contro la Raggi in Campidoglio, anche per la privatizzazione dell’Atac e contro l’Appendino a Torino, anche per il TAV. Perlopiù donne guidate da donne. Di classe. Non vi abbiamo intravisto traccia delle donne che, come ci racconta il bravissimo Iaccarone in “I dieci comandamenti” (RAI 3), dalla Calabria e dal Sud della desertificazione sanitaria devono fare la colletta per emigrare al Bambin Gesù di Roma per trovare un trattamento oncologico al bambino, piccolo esempio di come si riducono 5 milioni di persone in totale miseria e altri 13 all’orlo della povertà assoluta.




Un’ipocrisia che, per aver convinto tre cittadini su quattro (sondaggio SWG) che siamo all’emergenza femminicidio, manco fossimo a Ciudad Juarez tra i narcos messicani (di cui nel mio documentario “Angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero”), corona la sua oceanica denuncia di piazza e mediatica con una piccola trascuratezza, però di dimensioni morali piuttosto pesanti.

Uccidere la dignità. Anche dei bambini.
E’ da molti anni che il femminismo ha abbandonato il fronte del trattamento offensivo delle donne in tv e della loro esibizione in Isole dei Famosi e Grandi Fratelli in gara tra loro e con gli uomini a chi si degrada meglio, diseducativo quanto le peggiori pratiche fasciste e in grado di contribuire alle deformazioni mentali alla base di tanta violenza fisica sulle donne. A me personalmente provoca collera mista a disgusto lo sfruttamento commerciale negli spot di bambini anche piccolissimi, ignari di quanto gli stanno facendo fare e dire, quando vengono imbeccati a dire cose false e che non pensano, insomma a prostituirsi. Perlopiù sono le madri a prestarsi a tale mercimonio, spesso per quell’ossessione della visibilità a loro negata e che oggi ci viene concessa in cambio della nostra intimità e privatezza. E dignità. Violenza delle madri sui bambini. Interessa? Sarà un caso, ma non ho visto bambini fare pubblicità nelle tv di Siria, Iraq, Libia.




Le ultime tre parole ci portano al nocciolo dell’uragano di ipocrisia cui abbiamo assistito. Il movimento delle donne è sacrosanto. E non solo in difesa della legge 194 e di altre conquiste da mantenere e raggiungere. Quello che rende l’intera operazione sospetta, oltre al manifesto intento dei manovratori di suscitare il diversivo sociopolitico della guerra donne contro uomini in quanto tali, sono la non innocente dimenticanza di tematiche ineludibilmente prioritarie per ogni rivendicazione e mobilitazione femminile, anche umana. Potremmo parlare dell’ennesima arma di distrazione di massa. Da cosa? Da un’inezia: le guerre che, dal 2011, Torri Gemelle, hanno ucciso tra i 20 e 30 milioni di persone. Donne? Non si sa quante. Eppure quando si uccide una donna, di solito la cosa non si ferma lì, ha ripercussioni più vaste, figli, famiglia, assistiti.

Mainstream: la corrente che (s)travolge
Ne sono specialisti i main stream media. La Repubblica, di cui sapete cosa ha scritto, tra le tante cose, delle guerre per i “diritti umani”. Ma anche della sindaca Raggi prima che la Procura di Roma fosse costretta ad assolverla da tutte le montature, bugie, calunnie. Martedì ha pubblicato due paginoni con le fotine delle firme illustre della catena Debenedetti. Ha raccolto tutte le sue penne più acuminate per neutralizzare le frecciate che alla stampa dell’establishment hanno indirizzato Di Maio e Di Battista dopo lo scandalo mediatico Raggi. Questo a pagina 12 e 13.Basta una pagina svoltata e, sulla 14, leggiamo “Attacco chimico su Aleppo”. Barcamenandosi tra versioni opposte quando è stato provato e rivendicato che si trattava di opera dei jihadisti di Idlib, la redattrice però si rifà: “Anche se la responsabilità del regime negli attacchi che hanno fatto più morti, come quelli di Ghouta del 2013 e poi del 2018, è stata accertata da inchieste internazionali”. E’ falso. E’ vero il contrario. Ma vallo a far sapere ai lettori di “Repubblica” e vallo a farlo ammettere alle sue penne acuminate. Si sono chieste, le manifestanti di sabato, chi è che esercita violenza sulle donne in Siria? E chi la fomenta?



Se la mandria di buoi in formazione d’assalto dà dei cornuti a un paio di asinelli, si deduce che è da molte cose che dovremmo essere distratti. Questa lungimirante pratica, che dalla tattica sta sconfinando ormai nello strategico delle comunicazioni di massa, è riconoscibile anche in certe campagne assordanti di questi nostri tempi in cui l’eterogenesi dei fini è diventata da passiva attiva, da spontanea volontaria. In volgare si chiama depistaggio. E allora proviamo a salire su una torre, un albero, una scala, una mongolfiera e guardiamo dall’alto verso l’orizzonte: constateremo quali viste ci abbia impedito l’ultima di queste campagne di massa.

Orizzonti di gloria e infamia



Gilet gialli contro il “leader progressista europeo”
In Francia, dopo appena pochi mesi di sosta dal sommovimento anti-Macron dei ferrovieri e di molti altri servizi pubblici, i francesi ci danno l’ennesima dimostrazione, a noi con gli occhi socchiusi dal sonno, di essere quella genìa che ha fatto la rivoluzione dai più radicali e lunghi effetti della Storia (non potendosi definire rivoluzione quella dei monoteismi , semmai controrivoluzione). Centinaia di migliaia di gilet gialli, un’armata di vero popolo, come oggi occorre di fronte alle depredazioni delle élites, che in tutto il paese per giorni e giorni bloccano il paese e tengono testa ai pretoriani dell’establishment, fin nel cuore del suo regno. Hanno il sostengo di 8 francesi su 10. Sono contadini, operai, genti isolate nelle periferie private di servizi pubblici, trasporti, ospedali, tribunali, scuole. Emarginati dalle gentrificazioni e dall’abbandono dei campi a favore dell’agroindustria. Popolo. Ce l’hanno con Macron, crollato al 25% dei consensi, colui che “il manifesto” in unisono con tutto l’arco dei padroni, aveva definito “leader progressista europeo”. E allora sui gilet gialli: sopire, troncare, padre molto reverendo…



In Europa, come l’Idra, è tornata ad ergere la sua orrida testa la Troika, quella della Grecia, quella dei PIGS-porci (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna e ora Italia). I suoi strumenti sono scelti, a seconda delle fasi, tra i gas asfissianti e la mannaia. E’ l’assalto al paese che, almeno nella sua componente gialla (quella verde è l’emanazione del nero), non ha fatto niente di diverso e assolutamente niente di peggio di quanto fatto da altri. Altri che, però, sono coloro per i quali i meccanismi troikisti sono stati inventati. Un paese che si vuole punito per un deficit realizzato dai predecessori. Un paese che invece si vuole annichilito perchè pretende di sottrarsi al principio che la ricchezza debba andare dal basso verso l’alto (Reddito di cittadinanza), che di conseguenza il continente debba morire di avvelenamento (No Tav, Terra dei fuochi), che si oppone alla regola storica per cui criminalità politica e criminalità organizzata debbano convivere e, alla bisogna, cooperare (“Spazzacorrotti”). Un paese che, date le circostanze, non ha fatto moltissimo, ma lo ha fatto contro i principi fondanti dell’intero sistema. Quello del neoliberismo a diktat bancario ed esecuzione burocratica che devasta la società.

Guerre? Ma dove? Con l’UE 70 anni di pace
Da sopra il nostro osservatorio, su un orizzonte quasi a tiro di schioppo, vediamo bagliori di incendi immani che inceneriscono larga parte delle vite e delle opere degli uomini. E delle donne. Sono le case custodite dalle donne che finiscono in macerie, sono donne alla disperazione che devono trovare nell’impossibile il modo per provvedere alla famiglia, alla cura, al nutrimento, alla vita. Donne vengono sequestrate, stuprate, uccise da belve mercenarie dei nostri alleati. Donne combattenti cadono nella difesa della loro terra. Coloro che plaudono ai cortei antiviolenza di tutto questo sono responsabili diretti o indiretti. Chi glielo dice? Nel giorno della grande dimostrazione contro la violenza sulle donne, qualcuna s’è accorta che in Yemen, 40mila morti e 15 milioni alla fame, una madre e i suoi cinque figli hanno seguito la sorte delle migliaia di donne e dei bambini mirati da bombe da noi costruite e vendute? Che ad Aleppo 107 civili, in aggiunta ai 350mila, metà donne e bambini, sono stati uccisi dai gas tossici sparatigli dai “ribelli” costruiti nel laboratorio Hillary-Obama? Che sono sempre le donne che, sotto una tenda in Giordania o Turchia, nella traversata del deserto, o tra le mani delle Ong, su barconi e nei centri dell’alienazione e dell’esilio devono tenere insieme quel che resta?

Donne spettro



Da tante altre vicende ostruiscono lo sguardo certe roboanti campagne da tutti condivise. Dalla scomparsa, per autodivoramento da eccesso di voracità, dei principi pretesi da ogni forza politica che vantasse nella ragione sociale la lotta per i diseredati e la redistribuzione della risorse. Forza fantasmatica, ma vociferante, che una coalizione fritto misto, ormai più mediatico-bancaria che di numeri umani, unita dalla frustrazione e dall’odio, perché priva di governo e incapace di opposizione, tenta di raffigurare in vita. Poi, da nascondere sotto le funeste previsioni di nuovi migranti da salvare, tante donne espropriate dalla loro terra, c’è l’ennesima bella figura di una Ong, dai nobili trascorsi sanitari nell’orbita dell’Impero (vedi Sonia Savioli “Ong, il cavallo di Troia del capitalismo globale”), che hanno dovuto sequestrare per impedire che ci intossicasse ulteriormente con i suoi rifiuti pericolosi.

Dogville
Ma c’è un’altra cosa che non si deve avvertire e che le stesse manifestanti e i loro corifei non avvertono e che rappresenta la violenza suprema. I cortei che calano nei centri storici di Roma, Lisbona, Londra, Atene e tante altre città, da quando è passato il rullo compressore neoliberista della Troika, non percorrono più la loro città. La loro città è scomparsa. In alcuni casi da pochi anni, in altri da decenni. Ricordate il film di Lars von Trier, Dogville? Non c’erano le case. Nicole Kidman si aggirava tra segni di case tracciate per terra, planimetrie. Il tutto era sotto controllo della mafia, che poi si portano via la donna che voleva fare del bene. Metafora agghiacciante del nostro destino, urbano e non. Impostato nell’universo parallelo di Wall Street, affidato alle cure della Troika e portato a termine dai sicari locali.



Non è cambiato nulla dal Medioevo. I gangli del potere, i tentacoli, si irradiano dall’alto verso il basso. Nel castello sta la piovra e attorno le si stringono i ceti beneficiati in cambio di condivisione e collaborazione. Il popolo, la plebe, le masse, un proletariato ormai classe di tutte le classi salvo l’èlite, più lontano sta, meno ce n’è, e meglio è. Tocca drenarlo dei mezzi per cui può restare pericolosamente mescolato al patriziato: austerity, fiscal compact, pareggio di bilancio in costituzione, banche salvate, cittadini mazziati, disoccupazione coatta. Al centro i nuovi templi: banche, istituzioni, catene commerciali grandi firme, alberghi e gli airbnb dei turismi da saccheggio o depravazione di gusto ed etica. Fuori dai maroni chi non ce la fa a reggere l’assalto, in periferia, o via del tutto. Si chiama gentrificazione. Uguale in Africa, ma in direzione contraria. Via dai campi, dalle acque, servono ad altri. Via verso le capitali, le bidonville, le Ong, i barconi, l’esilio per generazioni.

Casetta de Trastevere
A Trastevere, mia base per decenni, nel 1960 il 70% erano trasteverini dai tempi in cui c’era il porto romano. Fiumaroli, artigiani, artisti, osti, cucitrici, fabbri. Nel 1980 era rimasto il 17%. Oggi è lo zero virgola. I più fortunati stanno in zona Marconi, gli altri a Tor Sapienza, Ostia, Acilia. La proprietà immobiliare era di grandi finanziarie, assicurazioni, Vaticano. Nelgli anni ’60 l’affitto per il mio attico in Piazza Cosimato era di 40.000 lire al mese. Oggi quell’appartamento di tre stanzette e balcone costa 3.500 euro. La vista sul Gianicolo se la gode un regista americano.


Spopolare
Torno da Lisbona. Il trattamento Troika ha espulso gli abitanti antichi dal centro storico. Che è lussureggiante di griffe, mangiatoie, b&b, hotel, e pare un salsiccione riempito di turisti in fregola di cibo e monumenti. La versione Usa del caffè, un abominio, “Starbucks”, sta piazzata, larga e grassa, nella più bella stazione Liberty della città.

A Londra l’uccisione della città, London City, tramite la dispersione coatta dei suoi abitanti, è stata affidata alle Olimpiadi. Ad Atene ci sono andati giù pesante. Tagli di salari, tagli di pensioni, tagli di ospedali, scuole, tribunali, vendita di ogni cosa a tedeschi e cinesi, per ripagare un debito costruito meticolosamente dai tedeschi, soprattutto armieri. C’è ancora vita, all’osso, nei quartieri più distanti da Piazza Syntagma e, in un’aria cimiteriale, qualche fuoco fatuo di resistenza. Più di tutti hanno pagato le donne.



Terremoto, che occasione!
Una città senza i suoi abitanti, la sua cultura, la sua anima dunque, non è più una città. E’ un centro direzionale circondato da pulviscolo inoffensivo. Qualcuno fantastica di metterci quelli del Senegal, come nei borghi spopolati. La strategia èquella di Malthus. Vale per la Grecia e per l’Italia, con i rispettivi centomila giovani, costruttori del futuro nazionale, nel nome di Giotto e nella scia di Dante, di Prassitele e Sofocle, che vanno e non tornano. Rafforzano coloro che ci riducono così. E se i non consoni alle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione pensano di resistere, gli togli i treni, i pronti soccorsi, l’oncologia, l’università, i vigili del fuoco, asili, elementari, medie e licei. E quando ti si offre un’occasione d’oro come il terremoto, li lasci all’addiaccio, in tenda, nel camper, in campeggio al mare, o nelle casette in cui sui pavimenti crescono funghi, i cui boiler ghiacciano, i cui tetti crollano. Non gli ricostruisci una cippa e rimandi in grembo a Giove la decisione se le case siano agibili o no. Vedrai che alla fine se ne vanno e anziché viaggiare sul chilometro zero, fisiologico per chi lì produce e consuma, ma micidiale per la globalizzazione, da Arquata del Tronto si andrà ad Ancona all’Auchan. E il figlio a Londra.

Al loro posto, dicono, perché non africani? Impareranno Giotto e dimenticheranno i loro templi.
Nel mio ultimo docufilm, “O la Troika o la vita”, che tratta di Grecia, trivelle, gasdotti e altri crimini, il capitolo più grosso è dedicato al terremoto nel Centroitalia. Dove, dopo due anni, non siamo più al chilometro zero, ma allo zero assoluto. Quello dove non c’è vita. Quel documentario l’ho sottotitolato “Non si uccidono così anche i paesi”? Le donne, di solito, sono le ultime ad andarsene. Quando vanno loro è finita.Se ne accorgerà qualche corteo? O ci affidiamo a Mimmo Lucano?

venerdì 23 novembre 2018

A Dublino il primo convegno della campagna globale contro le basi Usa/Nato---- CONFERENZA COL BUCO



https://www.youtube.com/watch?v=XF4TXgsRYb8&fbclid=IwAR1SJQ8GrHY3pvUN5Vhk-iQmyS3orEBsdCJTnXqff7N5bTtftoipPqwNYo0 (link allo streaming della prima giornata di lavori della Conferenza internazionale di Dublino. Il mio intervento, che indico solo perché me ne è stato chiesto verbale che non ho, va da 1.39’05 a 1.52’13)

Questo non un “report”, come quelli smart chiamano una relazione, un rendiconto, un rapporto, un ragguaglio. Questo cerca di essere un racconto, oggi si direbbe una narrazione, un po’ impressionistico, di quanto si è svolto a Dublino, nei giorni 15-18 novembre, alla “Conferenza internazionale contro le basi militari USA/NATO”. Per motivo di voli prenotati, mi sono perso la seconda metà dell’ultimo giorno, quando hanno parlato altri delegati italiani. Ne lascio in calce il riassunto che ci ha trasmesso Marinella Correggia.


Mezzo secolo di passi
Per tre giorni mi sono aggirato nelle sale della prima conferenza della Campagna Globale contro le basi Usa/Nato e, negli intervalli, tra i palazzi neoclassici irlandesi che hanno visto la gloriosa insurrezione di Pasqua del 1916, prodromo alla liberazione dal colonialismo britannico, con appesa al collo la targhetta-passi che diceva “International Conference against US/NATO military bases”. A casa, poi, l’ho appesa al braccio di una lampada, a fianco di un’altra dozzina di targhette simili che riportano a eventi non dissimili, alcuni lontanissimi nel tempo: Congresso del Popolo a Sabha, Libia, Convegno in Difesa dell’Umanità a Caracas, L’Avana tante volte contro l’imperialismo, Belgrado, Hanoi, Kyoto, Gerusalemme, Khartum, Asmara, Baghdad, Algeri per uno dei famosi Incontri Mondiali della Gioventù e degli Studenti… Se rifletti su cosa ne è venuto allora, su come si stava a fianco dei vari paesi in lotta, Vietnam, Iraq, Venezuela, Cuba, Palestina, Serbia, qualunque ne fosse il governo, e a come siamo finiti oggi, meticolosamente attenti a non comprometterci con chi risulterebbe non politicamente, democraticamente, corretto, ti viene il magone. Ha vinto il né-né nato tra Sarajevo e Porto Alegre, i celebrati Forum Sociali che schizzavano Hugo Chavez. E dato che passi ha il significato sia di lasciapassare che di passo al plurale, ecco che il passi di questa conferenza potrebbe anche alludere ai passi fatti in questi anni. Tanti, perlopiù sul posto.


Irlanda, una storia contro
Non so, nell’Europa di Bruxelles (sede UE e, dunque, Nato), quale altro paese avrebbe ospitato, con concorso di parlamentari, ministri e autorità dell’intelletto, un incontro come questo, vigorosamente contro le potenze dell’imperialismo, compresa quella accanto all’Isola di Smeraldo, contro la loro dependance militare (non solo) UE, contro l’enorme menzognificio con il quale queste forze della guerra e del dominio intossicano l’universo mondo. Trecento delegati di oltre 35 paesi, dai più diversi angoli del mondo, e abbiamo battezzato l’impresa proprio nel segno della rivoluzione irlandese (ahinoi non compiuta, con il Nord tuttora ostaggio del colonialismo), in presidio davanti al General Post Office, dove il patriota Tom Wolfe e il marxista James Connolly, nel 1916, accesero la miccia della liberazione. Oggi davanti a questo monumento della libertà, al posto della statua dell’ammiraglio Nelson, eretta dai britannici e fatta saltare dall’IRA, si erge e penetra nel cielo un’infinita cuspide d’acciaio, una specie di balzo della volontà  verso l’impossibile…
 


Sussurri e grida
Al netto degli inevitabili, sempre generosissimi, tipi un po’ particolari, logorati dall’impegno di decenni per la Causa, vano ma irriducibile, degli immancabili lanciatori di slogan desueti e di rabbiosissima foga retorica, a spese di dati e contenuti, la conferenza ha registrato interessanti contributi, inedita informazione, promettenti punti tematici da sviluppare tutti insieme. Molteplici le partecipazioni di peso, individuali e di organizzazioni. Ne cito quelle che mi sono sembrate le più significative: Consiglio Mondiale della Pace, Alleanza per la pace e la neutralità (Irlanda), Coalizione contro le basi militari Usa all’estero (USA), Codepink (USA), Congresso Canadese per la Pace, International Action Center (USA), Okinawa Peace Action Center (Giappone), Veterani per la Pace (USA), Comitato per la Pace (Turchia), Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza (Palestina), WILFT, Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà, oltre a decine di altre realtà. Dell’impegnativa ed eccellente organizzazione va dato merito a Bahman Azad, iraniano, rappresentante del Consiglio Mondiale della Pace presso l’ONU, sobbarcatosi con esili forze in una’impresa che, con tutti i chiaroscuri, resterà incisa nella storia dei movimenti contro la guerra.

Della trentina di interventi programmati, trascurando quelli, spesso anche più stimolanti, dalla platea nelle sessioni plenarie per domande e risposte, cerco di trarre i contenuti più significativi e condivisi. I nostri ospiti, parlamentari e militanti irlandesi come Roger Cole, coordinatore dell’Alleanza per la Pace e la Neutralità, e la  giovanissima deputata Clare Daly, esponenti di un popolo che ha alle spalle una resistenza di 300 anni, ancora non vittoriosa per sei delle sue contee, con una misura di sofferenze e atrocità delle peggiori inflitte al mondo dal colonialismo-imperialismo anglosassone, hanno saputo trasmettere un’idea e un sentimento di lotta che non cede al tempo e alle sconfitte. L’apertura degli interventi è stata di Aleida Guevara. La figlia del Che ha riproposto un messaggio antimperialista e internazionalista di una Cuba che a molti, oggi, sembra più iconica che attuale. Gli irlandesi hanno insistito sull’occupazione colonialista del Nord e su quella imperialista di Shannon, fuoco delle loro lotte, aeroporto diventato negli anni un’enorme base di transito Usa, dalla quale passano le migliaia di soldati e i rifornimenti per le truppe di stanza in Europa.


Mi sono parsi di particolare significato gli interventi del greco Tsavaridis, impegnato sul meccanismo della UE quale strumento economico-giuridico di promozione della Nato che oggi, in una Grecia resa inoffensiva dalla Troika, vanta più basi Nato e israeliane in rapporto agli abitanti di qualunque altro paese; quelli dei vari relatori latinoamericani, tutti concordi nel denunciare la controffensiva continentale delle presidenze Obama e Trump all’avanzata dei movimenti e Stati emancipatori. Controffensiva reazionaria attuata tramite strangolamenti economici, colpi di Stato, minacce d’invasione e la massiccia penetrazione delle Chiese evangeliche, missionari del colonialismo come lo furono quelli cattolici nei secoli passati. Non poteva essere trascurata Guantanamo, da 115 anni base Usa e carcere della tortura per presunti terroristi nel corpo vivo di Cuba. Da lì, come dalla Colombia delle 7 basi Usa nei confronti del Venezuela, molti temono possa presto partire un’invasione.

Mal d’Africa

A partire da un rappresentante del Congo, gli africani hanno illustrato il ruolo di AFRICOM, il nuovo comando Usa che vanta sue presenze militari in ben 52 paesi sui 53 del continente. Rivelatrice l’informazione dataci sul genocidio del Ruanda negli anni ‘90, passatoci come eliminazione dell’aristocrazia Tutsi per mano degli Hutu, quando la verità dell’operazione, istigata dagli Usa, ci dice il contrario. I Tutsi hanno poi invaso il Congo dando vita a una delle più lunghe e spaventose guerre “civili” del continente, mirate a tenere il paese in ginocchio a vantaggio delle multinazionali dei minerali, in ispecie del Coltan, grazie al quale l’industria elettronica statunitense si è garantita ricchezze e dominio senza precedenti.
Curiosamente il sudafricano Matlhako, apprezzando come positiva la riconciliazione tra Etiopia, paese infestato da basi Usa e israeliane, ed Eritrea, fino a ieri unico paese del continente senza presidi militari stranieri, ha trascurato la recente installazione ad Assab, città portuale eritrea, di una grande base degli Emirati Arabi dalla quale parte l’aggressione allo Yemen, rendendo un paese, già avamposto dell’antimperialismo, complice del genocidio yemenita di Usa-UK-Francia-Arabia Saudita-UAE. 

Del resto, uno si sarebbe aspettato qualcosa di più anche sull’incandescente focolaio di tensioni e appetiti che è l’intera regione del Corno d’Africa, con al centro, sullo stretto di Bab el Mandeb, dal quale passano 25mila navi all’anno e il 40% del petrolio mondiale, le basi militari di sette paesi, compresa l’Italia, addensate nel minuscolo Gibuti. La Somalia in rivolta dei Shabaab contro il regime fantoccio di Formajo, malamente garantito dalle forze mercenarie dell’Unisom e dai bombardamenti, essenzialmente sui civili, degli Usa; l’operazione Ocean Shields che, col pretesto della lotta ai pirati, assicura alla Nato il controllo delle coste africane e dell’Oceano Indiano, con relativi diritti di pesca ai danni dei locali; e la drammatica questione delle acque del Nilo, disputate tra Etiopia, che ne detiene il rubinetto grazie alle dighe dell’Impregilo, Sudan ed Egitto.


E’ il Corno, dopo la Siria e l’Afghanistan devastati dalle guerre imperiali, l’area che fornisce il maggior numero di migranti diretti in Europa. Fenomeno naturale o gigantesca operazione imperialista, con il concorso delle Ong, mirata a privare il continente più ricco di risorse delle generazioni che dovrebbero costruirlo e garantirne l’autodeterminazione, per far posto alle predazioni multinazionali neoliberiste? Argomento nemmeno sfiorato.

La Libia? Roba passata
Al delegato africano, Marinella Correggia di NO War e del sito “sibialiria”, ha posto la questione, assurdamente trascurata, della guerra e della distruzione della Libia. Nella risposta è stato perlomeno riconosciuto come le menzogne con cui si è giustificata l’aggressione oscuravano la necessità, per i colonialisti, di impedire la valuta unica, fuori dal dollaro e dal CFA francese, programmata da Gheddafi per l’Africa, nonché una guerra condotta tramite mercenari reclutati dal terrorismo jihadista. Pochi accenni. Comunque, alla Libia e a Marinella è andata meglio che alla Siria e a me, come vedremo.

L’armata della Diarchia Merkel-Macron
Visto che la spesa di 6 trilioni di dollari con la quale gli Usa, con i serventi al pezzo Nato, hanno alimentato le guerre bushiane, obamiane e trumpiane, grazie al pretesto dell’11 settembre 2001, e hanno sostenuto un’economia fondata sul complesso militar-industriale, non offre sufficienti margini di profitto agli europei, ecco che l’euro-biarchia Merkel-Macron ha lanciato la proposta di una forza armata tutta europea, separata dalla Nato, ma, dati i rapporti di forza per i prossimi decenni, a essa inevitabilmente subordinata. Il tema è stato affrontato da molti relatori, al punto da diventare centrale per le mobilitazioni programmate, in particolare quella di Ramstein, la più grande base Usa in Germania, per il 2019. Nello stesso anno, il 4 aprile, 70 anni dalla fondazione della Nato, si conta di allestire una grande manifestazione internazionale a Washington, auspicabilmente con ricadute anche nei singoli paesi e al quartiere generale Nato di Bruxelles.
E’ stato notato come si debba con urgenza aprire un altro fronte, quello contro l’abbandono da parte di Washington del trattato INF. Accordo sul bando dei missili nucleari a medio raggio contro i quali a suo tempo ci facemmo rompere le teste dalla polizia quando li cacciammo da Comiso e che Trump vorrebbe installare nuovamente in Europa, come sempre “contro la minaccia russa”, ma anche per ribadire, di fronte alle tentazioni autonomiste di Merkel e Macron, che il dito sul grilletto resta quello a stelle e strisce.
Ho avuto due occasioni per intervenire. L’una, programmata, dal palco, la seconda dalla platea dopo gli interventi sulla Palestina, la terza negata dalla moderatrice afroamericana che non aveva gradito la mia precedente contestazione ai dimentichini relatori sulla Palestina. Avrebbe dovuto occuparsi dell’Africa, della Libia taciuta. Ci ha pensato Marinella.


E l’Italia…Itachè?
Ho titolato questo pezzo “conferenza col buco”. Un buco e alcune voragini, per la verità. Il buco era, nella giusta attenzione al riarmo e all’avanzata del militarismo in Europa, Africa, America Latina, la totale disattenzione al Mediterraneo dove un’Italia, dal ruolo strategico incredibilmente sottovalutato, ospita, per ragioni di colossale portata strategica, un decimo delle circa mille basi Usa sparse sul globo. Il mio tentativo di rimediare, in circa 13 minuti, a questa svista condivisa da tutti, in tutti ha infatti suscitato stupore e interesse all’approfondimento. Nulla sapevano delle quasi 100 basi Usa/Nato, alcune segrete perfino al parlamento, tra Aviano e Sigonella, passando per Ghedi, le 60-90 bombe atomiche B61, Vicenza Dal Molin, Camp Darby, i comandi Usa e alleati di Napoli, la 6. Flotta a Gaeta, la Sardegna martoriata dai poligoni utilizzati per esercitazioni a fuoco e esperimenti  delle industrie di esplosivi di tutti i paesi Nato e Israele. Nulla parevano ricordare di come queste basi fossero state decisive per lo smantellamento della Jugoslavia, la distruzione della Serbia, i bombardamenti di Libia e Siria, la proiezione militare da Sigonella con droni e forze speciali in Africa e Medioriente. Nulla sapevano del MUOS a Niscemi che, con altre tre stazioni satellitari, controlla, coordina e muove la forze Usa in tutto il mondo. E neanche sapevano delle straordinarie lotte condotte, nell’isolamento nazionale quasi totale, dai siciliani, dai sardi e dai vicentini, contro questa manomissione dei loro territori e l’uso che se ne fa per obiettivi di devastazione e morte.

Tanto meno avevano cognizione della filiazione Nato “Stay Behind”, da noi “Gladio”, garante del ruolo sussidiario dell’Italia anche nel suo ruolo di laboratorio del terrorismo e delle relative stragi ogni qual volta la rotta della “portaerei” ancorata nel Mediterraneo minacciava di deviare dal corso assegnato, sia per instabilità interne, sia per sbilanciamenti di governo (vedi Aldo Moro).

Le voragini cognitive, appresso a quelle che hanno inghiottito Russia e Cina, nazioni che pure dovrebbero essere oggettivi e inevitabili referenti della campagna, che si vuole globale,nel contrasto ai guerrafondai e alle basi che questi paesi accerchiano, riguardano la cronica e apparentemente insuperabile questione dei diritti umani e della democrazia nella formulazione con la quale ce li vendono coloro che ne sono i massimi violatori e che è tragicamente condivisa da una sinistra pacifista tale solo nelle intenzioni. Immaginiamo una cittadella medievale. In alto la fortezza cui spetta ospitare i difensori della comunità, tutt’intorno le case dei cittadini. Arriva l’esercito nemico e attacca la fortezza che custodisce le ricchezze della comunità. I difensori si affannano a creare ostacoli all’avanzata nemica, trincee e fossi davanti alle mura, spingarde e olio bollente sugli spalti, ponti levatoi sollevati, porte rinforzate. Chiedono agli abitanti delle case di accorrere in aiuto, per propria difesa e per rafforzare la resistenza. Ma questi indugiano, restano alle loro finestre, da dove lanciano rimproveri, riprovazioni, deplorazioni, reprimende, fin anatemi contro l’esercito attaccante. Cui non gliene cale per nulla. E le porte della fortezza stanno per cedere.


Siria, non aprite quella porta
Sessione sul Medioriente che finisce con l’essere sessione sulla sola Palestina. Dopo una serie di lunghi interventi sulla tragedia palestinese, iniziati con il “focolare ebreo” di Balfour in Palestina e arrivati agli accordi  fasulli di Oslo e stragi e sevizie odierne, tema ormai del tutto sdoganato in tutti i settori e, dunque, per quanto da sostenere sempre, universalmente condiviso, se si prescinde dallo “Stato degli ebrei” e relativa lobby, ho potuto chiedere ai relatori, un irlandese, Medea Benjamin di Codepink, una parlamentare del Knesset e un emigrato palestinese, cosa ci potessero dire della guerra alla Siria, all’Iraq, delle minacce di guerra all’Iran. Alla domanda è seguito uno sparuto applauso. La risposta si è dipanata tra espressioni di pietra, attimi di sospensione e imbarazzo, con i due palestinesi che si guardavano tra loro con aria interrogativa , la già effervescente Medea della fervida solidarietà agli oppressi palestinesi (ma anche reduce da cantonate su Aleppo ed Elmetti Bianchi) come rintanata in se stessa. Finalmente l’irlandese acciuffa il silenzio per la coda e prorompe in un inno ai diritti umani, alla democrazia, alla società civile, con sonoro sottinteso che di tali valori non è certamente portatore il presidente siriano Assad e, per la proprietà transitiva, neanche Milosevic, Chavez, Saddam e Gheddafi: “Noi stiamo con i movimenti di massa, non con leader autoritari”…conclude a petto in fuori, trascurando che alle ultime elezioni, accreditate corrette dagli osservatori Onu, l’80% dei siriani aveva votato per Bashar el Assad. Inezie.

Ormai privato del microfono, gli grido “Gli israeliani, di cui denunciavi le atrocità su Gaza, bombardano pure la Siria un giorno sì e l’altro pure e Nato/Usa ne occupano un terzo! Perché non ne parli? Non è Medioriente? Non è guerra imperialista?”. L’espressione dell’irlandese è implicita nel colorito carminio e nello sguardo a dardi: “Sciò, via, come ti permetti?”. Ma sul palco già si parla d’altro, mentre nell’aria aleggia il ricordo di una vecchia sciagura: “Ne con la Nato, né con Milosevic”. E s’è visto come è andata.

Egemonia e paralisi

Più tardi l’iraniano del Consiglio Mondiale della Pace, l’ottimo Bahman,  e il greco Hiraklis mi offrono comprensione e sofferte attenuanti: “Se si apre quella porta, succede il finimondo e l’unità va in pezzi”. L’egemonia ce l’hanno ancora i né-né e il rischio di mandare tutto, quel poco che c’è,  in frantumi la rafforza. Una combattente di antica data contro le guerre, Gina Nellatempo, ha lamentato in un suo scritto la dissoluzione di ogni vera, forte, mobilitazione contro la guerra. Tra le cause  che ha dimenticato di elencare credo sia prominente la nostra incapacità di sostituire, a quella del né-né, l’egemonia dello schieramento, chiara e inequivocabile, dalla parte dell’aggredito, chiunque esso sia, non pretendendo, una po’ razzisticamente, di imporre moduli di società da noi pretesi superiori. Il carnefice essendo sempre quello. Il peggiore di tutti. Aleida Guevara ha avuto l’astuta improntitudine di chiedere alla platea chi avesse meno di trent’anni. Si levarono quattro mani. I detentori di quelle mani vennero da Marinella e me, nell’intervallo, a dirci che su Siria e Libia stavano con noi e che sorvolare su Siria, Libia e altri paesi, prima ancora che di opportunismo, di ottusità eurocentrica e perciò inconsapevolmente colonialista, è segno di nebbia morale.

Il comunicato finale della Conferenza dice tra l’altro: “Consideriamo che le circa 1000 basi USA/NATO dislocate nel mondo e che costituiscono i pilastri del dominio imperialista globale di Usa, Nato e UE e la principale minaccia alla pace e all’umanità, debbano essere tutte chiuse. Le basi Nato sono l’espressione militare degli interventi nelle vite di paesi sovrani, al servizio degli interessi finanziari, politici ed economici dominanti e in chiara violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”.

E’ stata una buona conferenza, a dispetto di certi “buchi”. La voce contro la macchina di distruzione e morte è stata levata forte e chiarissima. Le scadenze future dovrebbero vederci crescere. Ed è stato per molti di noi un vero e proprio sollievo, dopo tanto agitar di femminismo, populismo, razzismo, xenofobia, LGBTQ, patriarcato, violenza maschile, diritti umani, matrimoni e adozioni gay e altri depistaggi, muoverci in un vento che portava parole antiche e giovani come non mai: imperialismo, basi, Nato, militarismo, resistenza, lotta, crimini di guerra, multinazionali, capitalismo, sovranità, internazionalismo, popoli, élites, plutocrazia, ricchi e poveri, dominanti e dominati. Perfino rivoluzione.

Da Marinella Correggia
1) intervento di Fulvio sulle basi militari, 
2) la delegazione del Comitato No guerra No Nato ha proiettato il video sempre sulle basi militari e sul ruolo vergognoso dell'Italia a codazzo Usa, ed è intervenuta in plenaria
3) la Wilfp con Giovanna Pagani ha insistito nella riunione fra gli europei sulla necessità di coinvolgere gli ambientalisti stabilendo il netto ecopax (e sono d'accordissimo dal...1991, soprattutto quanto alla faccenda clima e guerre) 
4) Presente in rappresentanza del Comitato contro la guerra di Milano, Giampiero Tartabini  ha lanciato a titolo personale l'idea che, come a Okinawa, la presenza delle basi sia sottoposta a referendum
5) Giovanna Vitrano che ora vive a Dublino ma ha lavorato con i No Muos ha parlato appunto della lotta in Sicilia e anche dei vari arresti e vessazioni che ha subito
6) la sottoscritta ha ricordato brevemente (fingendo di fare una domanda... era il momento delle questions&answers, non ce n'erano altri!) il punto di svolta della guerra Nato alla Libia, e durante i sette mesi di  bombe il silenzio del movimento per la pace (compresi credo la grande maggioranza dei 300 presenti, salvo negli Usa) e il ruolo egregio dei paesi dell'Alba, un vero riferimento. 

Questo solo sulla presenza italiana
Ovviamente chi era presente potrà dire meglio di me

lunedì 19 novembre 2018

Wikileaks. Per FNSI: “Wikichè?” ----- LIBERTA’ DI STAMPA E LIBERTA’ DI PAROLA.

Riecco l'articolo sparito


“Tre cose non possono essere nascoste a lungo: la Luna, il Sole e la Verità”. (Wikileaks)
Fulvio e Julian: si parva licet componere magnis
Il personale è politico, si diceva qualche lustro fa e tanto lo hanno preso sul serio quelli contro cui il concetto era diretto da aver ridotto il nostro personale, ora detto privacy, a setaccio per il quale precipita nel raccoglitore CIA, NSA, piattaforme digitali e nostri servizi, ogni bruscolino della nostra vita. Parto comunque da quel meme per compiere il passaggio da una mia esperienza privata a quella di portata generale, internazionale, planetaria ed epocale di Julian Assange, il detenuto da sei anni in quell’isola di Montecristo che è l’ambasciata dell’Ecuador a Londra.
Loro erano stati i segretari dell’Usigrai, sindacato di sinistra dei giornalisti RAI e poi sono stati e sono segretari della Federazione Nazionale della Stampa, il nostro sindacato. Loro sono Roberto Natale e Beppe Giulietti. Loro raccontavano di essersi dati molto da fare per farmi assumere al TG. Io credo che a favorire il mio passaggio da occasionale interprete simultaneo in Rai, nei tempi del mio ostracismo professionale dovuto alla direzione di Lotta Continua (senza pentimenti alla Sofri), a giornalista dell’azienda, sia stato Piero Badaloni, conduttore di Italiasera e poi di Uno Mattina, ottimo alla macchina, meno in video, che aveva apprezzato i miei trascorsi professionali e ignorato quelli politici.
Comunque, ai tempi in cui ricorsi al sindacato per ottenerne protezione dei miei diritti conculcati da Fausto Bertinotti mediante cacciata su due piedi da “Liberazione”, c’era Roberto Natale, poi opportunamente transitato a portavoce di Laura Boldrini presidente della Camera. Lui era il comandante della guardia pretoriana del giornalismo italiano, io ero men che niente, inviato di un giornaletto fastidioso, ma sotto l’egida di un colosso dei salotti. Da questo rapporto di forze venne che Natale mi ascoltò compunto, prese appunti su tutte le violazioni di legge e contratto attribuibili al gestore di quella vescica che era diventata RC, e mi congedò: “Vediamo cosa si può fare”. Cioè niente, una cippa, come si vide poi. Neanche poi una telefonata per dire: “Fulvio, mi dispiace…”


La remontada dei signori
Tutto questa sproloquiale e solipsista premessa per arrivare, lungo una linea di sequitur logici e coerenti, a Julian Assange. Ma prima di Assange tocca occuparci della libertà di stampa come da noi concepita, percepita, rivendicata. Negli ultimi giorni l’Italia è stata percorsa da un brivido. I giornaloni e le televisionone hanno intravvisto il sol dell’avvenire (quello loro), l’aurora della decenza che ritorna, il crepuscolo dello sbandamento barbarico. A Torino per il TAV e contro l’Appendino, a Roma contro la Raggi, per strada contro i razzisti di regime, era tornata a farsi sentire la voce dei buoni e giusti. Una voce interclassista: la madamina torinese con la badante filippina, la gentildonna pariolina con il suo dogsitter, la crème de la crème sorosiana insieme al profugo siriano con la bandiera della Siria quando era marca dell’impero francese. Poi, spruzzata di prezzemolo politico, ma rigorosamente apartitico: Fassino, Gelmini, Orfini, tutti e 13 i radicali (testè scornati dal flop della privatizzazione Atac), tanta Confindustria, tanta Coop rossa, un bel po’ di Lega, Zanotelli, le Ong, Pappappap…Insomma, la vera bella gente. “Una spallata al governo”, “Una sfida per la modernità”, “Roma dice basta”, “Torino dice basta”, così la Grande Stampa, tutta quanta, anche quella piccina tipo “il manifesto”, o “il Foglio”, uniti dalla causa, da Soros e da Sofri Adriano.

Intorno all’ideale progressista delle Grandi Opere, in piazza del Campidoglio a Roma e in piazza Castello a Torino, come per l’export della guerra in Siria, delle sanzioni in Iran e dei migranti dai loro paesi, è rinata finalmente “l’Alternativa”. E, grazie alla componente meno ostica, anzi forse addirittura amica, del governo, insieme al TAV potremo celebrare la resurrezione di tutto il resto: Terzo Valico, Gronda, Pedemontana, Mose, Nuova E45, Nuova Aurelia, aeroporto e tunnel di Firenze, F35 e, hai visto mai, magari anche l’indimenticato Ponte sullo Stretto. Roba che costa il doppio di quanto necessario per affrontare il dissesto idrogeologico, le frane, le alluvioni, il crollo dei ponti, i morti, ma ci collega all’Europa, vuoi mettere. Incontenibile euforia, a dispetto dell’infame taglio delle pensioni d’oro e dei furti alla rendita dei pochi a favore del reddito dei tanti, all’orizzonte del Frejus e delle bocche di porto tornano a luccicare i talleri.
C’è stato qualche contraccolpo. La sindaca Raggi assolta dall’ennesima accusa tirata per i capelli dell’instancabile Procura di Roma e il tonitruante flop del tentativo dei radicali di consegnare i trasporti romani a gente che gli sembrava non fosse stata sufficientemente beneficiata dalle precedenti amministrazioni. Per la privatizzazione dell’ATAC avrebbe dovuto votare almeno il 33% degli aventi diritto. Ha votato meno della metà. A dispetto della ventina di autobus mandati al rogo e del superattivismo della Procura. I radicali, e dietro di loro i Parnasi, Caltagirone, Buzzi, il Rotary, che avevano schiamazzato sotto Marc’Aurelio, non avevano capito che i romani avevano capito cosa trent’anni di privatizzazioni prodiane avevano inflitto al paese e alla legalità.

Libertà come sei cambiata
Quasi quasi penso che non eri tu
(Stefano Rosso “Libertà”)


Torniamo al filo conduttore, la libertà di stampa così ferocemente conculcata dalle ricorrenti grandinate di (cinque) stelle. A cosa avevano fatto riferimento, Di Maio e Di Battista quando, meditando sui nostri giornalisti, hanno parlato di sciacalli e meretrici? Stabilito che nei main stream media, quasi tutti editi da imprenditori che li utilizzano come insegne dei propri diversi negozi, non si muove foglia che l’editore non voglia, i dioscuri pentastellati avevano tratto il loro giudizio da un semplice raffronto. Quello tra l’assoluzione della Raggi e la sobria obiettività con cui le sue vicende giudiziarie erano state trattate da chi nella presunzione d’innocenza crede come alla lacrime della madonnina di gesso di Civitavecchia.
Ci soccorre ancora una volta il mirabolante archivio di Marco Travaglio, alla rinfusa da Repubblica, La Stampa, Corriere, Libero e Messaggero.
“Il bivio della Raggi, ammettere la bugia o rischiare il posto… Virginia Raggi si avvicina al suo abisso…Mutande verdi di Virginia…Patata bollente… La fatina e la menzogna, il deja vu di Mani Pulite, Inseguita dallo schianto dell’ennesimo, miserabile segreto… per garantirsi un serbatoio di voti a destra…spunta la pista dei fondi elettorali, della compravendita dei voti, dei finanziamenti occulti…La sua storia riguarda l’epopea di Berlusconi con le Olgettine… nel Campidoglio il piacere dell’omertà…Il malgoverno da cancellare…”. Come contrappasso c’è, nello stesso giornale e nello stesso numero, la pagina vignettara con gli inguardabili sgorbi di Stefano Disegni, che riserva lo stesso rispettoso trattamento a ben tre bersagli del suo “hate cartoon”: Virginia, Bonafede, Di Maio. Per costui è un’ossessione, lo fa ogni settimana con la stessa monocorde passione, stavolta per iscritto, del fratello Furio Colombo. Collaboravo a una rivistina diretta da questo Disegni ( mai nomen fu meno omen). Me ne cacciò quando da Belgrado scrivevo “meglio serbi che servi”.Tout se tien.

Raggi, non solo
Insomma, per come questa stampa paludata (nel senso di palude) ha massacrato la Raggi per due anni, attribuendole più nefandezze che a Messalina e, andando sul generale, per come questa nostra grande stampa (piccola, “manifesto”, compresa) secerne un ininterrotto flusso di odio (già, i famigerati hate speech!) e diffamazione per chiunque non stia ai desiderata e alle maniere dei di lei padroni, vicini e lontani, quanto hanno detto Di Maio e Di Battista è poco più di una tiratina d’orecchi. Agli scapaccioni dovrebbe pensare l’Ordine dei giornalisti, o la Federazione della Stampa, o Ong del buon giornalismo come Articolo 21. E vedremo più avanti come e a chi li impartiscono.
Vi ho fatto perdere tempo e ho sprecato spazio. Torniamo al quid. Che è Assange, la Federazione della Stampa e la libertà di stampa per la quale si battono a petto nudo, contro il ritorno del fascismo, le migliori e più acuminate penne della nobilissima professione.


Julian Assange è un giornalista australiano di cui sapete che ha fondato WikiLeaks nel 2006 e da allora lo dirige insieme a un gruppo di collaboratori in tutto il mondo. Wikipedia lo descrive così:
Wikileaks (dall'inglese leak «perdita», «fuga [di notizie]») è un'organizzazione internazionale senza scopo di lucro che riceve in modo anonimo, grazie a un contenitore (drop box) protetto da un potente sistema di cifratura, documenti coperti da segreto (di Stato, militare, industriale, bancario) e poi li carica sul proprio sito web. WikiLeaks riceve, in genere, documenti di carattere governativo o aziendale da fonti coperte dall'anonimato e da whistleblower.[2]
Il sito è curato da giornalisti, attivisti, scienziati. Comunque i cittadini di ogni parte del mondo possono inviare (sono anzi invitati a farlo) materiale «che porti alla luce comportamenti non etici di governi e aziende» tenuti nascosti.
Senza Assange, buio pesto
Ad Assange il mondo deve alcune delle più rivelatrici verità su complotti, intrighi, crimini, inganni, menzogne dei governi delle maggiori potenze occidentali. In particolare, i documenti da lui diffusi hanno rivelato quali criminali motivazioni hanno innescato le guerre, a partire da quelle all’Iraq. Se l’opinione pubblica ha potuto sfuggire in parte al gigantesco menzognificio con cui il Potere e i suoi agenti mediatici conducono la loro politica di dominio, rapina, guerra, repressione, lo deve all’incredibile coraggio e alla fenomenale abilità di Assange e della sua organizzazione. Come lui, negli Usa Chelsea Manning, ex-soldato che s’è fatta 6 anni di prigione per aver rivelato pubblicato i documenti di Wikileaks e rivelato le nefandezze compiute in Iraq; e Edward Snowden, la gola profonda (whistleblower) dello spionaggio planetario NSA, fortunatamente rifugiato a Mosca. Nel 2010 Wikileaks pubblica 251mila documenti confidenziali o segreti del Dipartimento di Stato Usa. Come mai prima, il re è nudo.
Parte un processo per spionaggio e la richiesta di estradizione
Inseguito dalla montatura di un magistrato svedese con un’accusa di stupro, poi rivelatasi falsa e ritirata, Assange è dal 2010 a Londra dove lo costringono agli arresti domiciliari alla luce dell’accusa svedese e in attesa di estradarlo negli Usa. Nel 2012, nell’imminenza dell’arresto, si rifugia nell’ambasciata dell’Ecuador, paese che sotto il presidente Rafel Correa è entrato a far parte dell’alleanza bolivariana antimperialista dei popoli latinoamericani messa in piedi da Hugo Chavez, Daniel Ortega, Evo Morales e Fidel Castro. Vi aderirà nel 2009 anche l’Honduras del presidente Zelaya, poco dopo rovesciato da un sanguinoso colpo di Stato allestito dalla coppia Obama-Hillary Clinton.
A fare il giornalista, il giornalista, la paghi


Julian in quell’ambasciata da 6 anni è ospite e, oggi, recluso come fosse al 41 bis. A Correa è succeduto Lenin Mancuso, che ha riportato l’Ecuador nell’alveo delle repubbliche delle banane ligie a Washington, al Pentagono e alle multinazionali. Ha addirittura sbattuto in un carcere verso la fine del mondo il vicepresidente di Correa e suo che pora è al 22° giorno di sciopero della fame. Via via la vita di Julian si è fatta più intollerabile. A partire dal divieto di ogni contatto esterno che non sia con i suoi legali, al taglio dei collegamenti telefonici e internet, alla cancellazione per fino di quei momenti “d’aria” in cui poteva affacciarsi alla finestra o al balcone a vedere stralci di vita, un pezzo di cielo, il sole. La sua salute psicofisica ne risulta menomata, mentre gli viene addirittura negata l’assistenza medica.

Certi giornalisti vanno torturati
Ultimamente, grazie a un personale sistema d’allarme, è riuscito a sventare un’irruzione dall’esterno, probabilmente finalizzata a un tentativo di sequestro da parte dell’autorità britanniche che, ripetutamente, gli hanno promesso l’arresto e, agli statunitensi, l’estradizione. Nel giorno dell’irruzione, l’ambasciata gli aveva bloccato le visite dei legali e di sua madre. Quel giorno è saltata anche la videotestimonianza sulle sue condizioni di sepolto vivo, che Julian avrebbe dovuto dare a un tribunale di Quito. Angherie senza fine. Vera e proprio tortura. Nel processo per spionaggio rischia una scelta tra ergastolo e pena di morte. Il tentativo d’irruzione da parte di ignoti è stato preceduto dall’allestimento di ponteggi sulla facciata dell’edificio diplomatico. Sui tubi sono stati poi applicati apparecchi di sorveglianza puntati, però, non verso l’esterno, ma verso l’interno e le finestre. Se ne deduce che la vita di Assange, oltre a essere compromessa dalle feroci condizioni in cui la si costringe, è in pericolo 24 ore su 24. L’unico contatto lasciatogli con il mondo è un gatto, cosa sulla quale ironizzano i suoi colleghi di professione. Nessuno fa più le polizie della sua stanza, neanche per asportare le deiezioni del gatto.

Il primo ministro australiano, Scott Morrison, un altro di quei governanti che hanno messo i destini del proprio paese nelle mani degli arbitri e degli arbitrii di Washington e Wall Street, ha respinto le ripetute richieste degli avvocati e famigliari di Julian di garantirgli i diritti e la protezione che spettano a ogni cittadino australiano.
Wikileaks e Assange hanno fatto più di qualsiasi altro individuo o organizzazione per garantire ai cittadini il diritto di conoscere la realtà, in particolare quella delle macchinazioni e dei delitti dell’Impero: dai crimini commessi dai militari ai retroscena della campagna elettorale di Hillary Clinton e ai milioni di dollari pagati dai sauditi a Hillary in cambio dell’autorizzazione alla vendita di armi per 80 miliardi; dai sistemi di spionaggio e di hackeraggio della Cia e dell’NSA ai nuovi programmi di sorveglianza e alle interferenze degli Usa nei processi elettorali di altri paesi, fino ai complotti di deputati laburisti contro il segretario del partito Jeremy Corbyn. Ha salvato Snowden da un carcere a vita, se non peggio, aiutandolo a fuggire a Hong Kong e poi a Mosca. Da Wikileaks abbiamo saputo che per un suo discorso, Goldman Sachs ha pagato alla Clinton 675.000 dollari, cifra che non può che essere considerata una tangente.
Presstitutes
Con eccezionale abilità e coraggio fino alla temerarietà, visto il mondo in cui opera, Assange ha fatto ciò che ogni giornalista dovrebbe ambire di fare. E’ per questo che coloro che oggi si stracciano le vesti per la definizioni date da Di Battista e Di Maio di quella parte della categoria che vede il suo compito nel dare soddisfazione al proprio editore impuro e “multi task”, non si sono mai lontanamente avvicinati all’enormità di questa offesa, persecuzione, repressione della libertà di stampa. Assistiamo a ridicoli flashmob di un sindacato di giornalisti e associazioni di supporto contro il poco e l’inadeguato che questi due politici hanno espresso sulla categoria la cui qualità la stessa, imperiale organizzazione Reporters Sans Frontieres, ha dovuto classificare al 46° posto nel mondo. Flashmob, ma neppure pigolii, mai verificatisi, per esempio, alla falcidie che ikn queste settimane le piattaforme di Silicon Valley vanno facendo delle voci non intonate.

I flashmob di Giulietti e amici

Ma non c’è un giornale, un tg, una trasmissione radio e tv che abbia speso una sola parola in difesa di Assange e di questo assalto all’arma bianca contro un simbolo della dignità e della necessità del giornalismo in quanto tale. E’ questa omissione, più ancora che la parossistica ipocrisia con la quale vengono satanizzate le sacrosante – e, ripeto, insufficienti - accuse di Di Battista e Di Maio (negli Stati Uniti è da anni che si parla di “presstitute”, prostitute della stampa), a dare la misura di come sia ridotta la professione in Italia. Con poche eccezioni, perché oltre al codardo oltraggio, funziona il servo encomio, funziona un rapporto di lavoro impostato sul precariato, lo sfruttamento, la sottomissione. Aspettiamo il braccialetto elettronico.
Nel corso di una lunghissima carriera mi è capitato di pubblicare su media main stream, come su organi antagonisti. In Italia, Regno Unito, Francia, Germania, paesi arabi e latinoamericani. Sono dovuto arrivare a respirare lo Zeitgeist di una gestione della mia categoria che strepita contro chi ne denuncia l’innegabile degrado in occasione di un episodio lampante come quello del bombardamento di infamie sulla Raggi e mi ritrovo frustrato perché manca ancora chi solleva il velo sulla distorsione ontologica della realtà su tutto quanto riguarda la nostra esistenza: dalle guerre ai popoli, alle guerre sociali, alle guerre a comunità e ambiente. E manca chi riesca ad affermare che il sindacato sta lì per difendere il più debole dei suoi associati, non il più forte di questi e dei suoi editori. E’ qui che si ricongiunge al grandissimo Assange la mia modesta persona, di cui all’inizio.
Forse almeno provare a riavvicinare i giornalisti all’ ubi consistam di chi vuole raccontare le cose alla gente, con una legge sul conflitto d’interesse tra pagina stampata e complesso edilizio, tra talk show e trafficanti di carne umana e con la cancellazione di sussidi a organi parassiti, come previsto dal governo, potrebbe essere un inizio.
Intanto grazie ad Alessandro Di Battista per avermi citato tra i giornalisti liberi. Qualcuno, riferendosi a quelli non menzionati da Dibba, li ha considerati da lui iscritti tutti in una lista di proscrizione. Non scherziamo, quella la fanno coloro che usano la difesa della libertà di stampa per negare la libertà di parola.