sabato 20 settembre 2008
GLI USA GIOCANO A MONOPOLI, I RUSSI GIOCANO A SCACCHI, LA SINISTRA GIOCA A NASCONDINO.
Questo è un articolo di Mondocane fuorilinea di qualche tempo fa. Ma credo che mantenga una certa validità a fronte dell'imperversare dei media e delle Condoleezze bugiardi.
CARTA D’IDENTITA’
Scrivi!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è il numero cinquantamila.
Ho otto figli
E il nono arriva dopo l’estate.
Ti arrabbierai?
…
Scrivi!
Sono un arabo. Ho un nome senza titolo.
Paziente in un paese
dove la gente è furibonda.
Le mie radici
sono affondate prima della nascita del tempo
prima dell’aprirsi delle ere
prima dei pini e degli ulivi
prima che crescesse l’erba
…
Scrivi!
Sono un Arabo.
Avete rubato i frutteti dei miei avi
e la terra che ho coltivato
insieme ai miei figli.
Ci avete lasciato niente
tranne questi sassi.
Lo Stato vorrà anche questi
come ci è stato detto?
Perciò!
Scrivi in cima alla prima pagina: ricordo che è
Non odio la gente,
né la invado. il
Ma se mi affamano “L’ASSE DEL
la carne dell’usurpatore sarà il mio cibo. Cuba, Venezuela,
Guardati…
Guardati !
Dalla mia fame (
E dalla mia ira.
(Mahmud Darwish, 1941-2008)
Il silenzio che uccide chi lo pratica
Prima di parlare del suicidio collettivo operato dall’intera brigata di puttane
che lavora al servizio dei poteri criminali nel lupanare bipartisan sinistra-destra dell’informazione occidentale, ho voluto citare alcuni versi, allora da me così tradotti, di un componimento del 1964 del poeta nazionalpopolare (nel senso più eletto del termine, come Gramsci, come il Che) palestinese, scomparso pochi giorni fa. Nessuna delle diverse, attente e generose, associazioni di solidarietà con la Palestina ha dato vita a qualche pubblica manifestazione di ricordo e cordoglio, alla lettura delle sue meravigliose e laceranti poesie. Nessuna ha diffuso la notizia, ha raccontato l’uomo, la sua opera, ha allestito una cerimonia. Figuriamoci gli antimperialisti che si erano spesi – e bruciati - per l’orrido Sion-Veltroni nelle amministrative, i partiti… La stessa assenza di fronte alla più grande operazione di solidarietà militante e di sfida ai carcerieri nazisionisti mai compiuta: lo sbarco ad agosto dei 44 attivisti internazionali del Free Gaza Movement, con le loro due imbarcazioni Free Gaza e Liberty, sulle coste del campo di concentramento da un milione e mezzo di detenuti chiamato Gaza; la loro temeraria e e diciamo pure eroica navigazione con i pescatori palestinesi, decimati a fucilate per aver tentato di contribuire alla sopravvivenza della loro gente, oltre i limiti abusivi imposti dal boia israeliano perché donne, uomini e bambini di Gaza o sentano la ragione della schiavitù, o crepino. Nessuno – neanche le associazioni palestinesi, forse perché Gaza è governata da Hamas? - ha accompagnato la storica spedizione di rottura del più feroce blocco mai imposto dopo l’embargo iracheno, almeno con informazioni e manifestazioni d’appoggio, nei ben due anni di preparativi in collegamento con il notissimo International Solidarity Movement, nella sua rischiosa navigazione, nelle sue traversie in mare (il sabotaggio elettronico, le minacce di morte). E i partiti che si dicono comunisti, dov’erano quando si è trattato di sostenere la più pericolosa, coraggiosa, giusta e vincente azione di lotta contro la fucina mondiale del razzismo e del genocidio? E, rimanendo nello stesso ambito dei temerari leoni della sinistra, avete sentito, da parte delle associazioni serbe e filo-jugoslave, un solo guaito di solidarietà, una sola riga di rettificazione dell’inganno mediatico, una sola obiezione alle complicità del “manifesto” e di “Liberazione” con la canea antiserba, a proposito della cattura di Radovan Karadzic e della sua consegna ai boia dello pseudo-tribunale Usa dell’Aja? Una sacrosanta difesa di quest’uomo satanizzato (non solo con la truffa di Sebrenica) al pari di Milosevic e vittima di un’inversione della colpa che basterebbe un minimo di memoria storica per sputtanare?
La regola è la prudenza. Don Abbondio è sempre incinto.
Kalachnikov, pallottole e poesia
Si chiamava Mehdi – e non sopravvisse al Settembre Nero del terrorista al servizio
dei colonialisti, Hussein di Giordania - colui che mi lesse per la prima volta le poesie di un Mahmud Darwish appena spuntato alla notorietà e, subito, portabandiera spirituale della Resistenza. Era informato Mehdi, conosceva e amava Lenin e i poeti. Era il capo della nostra base. Rileggemmo poi a turno tutti noi, palestinesi, italiani, inglesi, egiziani, francesi, “Io sono un arabo”, tante volte, superate le ore dell’addestramento, del confronto politico, dell’aggiornamento informativo, nell’attesa notturna delle incursioni, in quelle
caverne-avamposto dei monti sopra Ajeloun. In fondo alla valle luccicava un Giordano ancora puro, quasi biblico, non depredato e immerdato dagli abusi dell’occupante.Tra le nostre grotte di creta e il fiume, banani, ulivi, orti e contadini curvi su povere ricchezze. Ricchezze desertificate dalle bombe ogni qualvolta i fedajin violavano il falso confine del Giordano, muro di contenimento, allora d’acqua, inciso dal predatore-invasore nel corpo arabo vivo. E sapeste quanta motivazione, quanta ragione davano ai Kalachnikov dei fedajin i versi di Darwish! Kalachnikov e poesia: rabbia, giustizia, coraggio. E amore.
Versi di Darwish inanellati nella collana di saggezza, ricordi di soprusi, lezioni di storia e di lotta, visioni del futuro che Mehdi, comandante nel Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, ci appendeva alle orecchie, all’ora in cui l’orizzonte a est, oltre il fiume, si faceva violetto come di sangue rappreso, nei mesi dei nostri avamposti di grotta. Kalachnikov e poesia dall’inverno all’estate 1970, prima del Settembre Nero: Marx, Fanon, Lenin, il Che, Fidel, Brecht, Majakovsky…
Prima arabi, poi palestinesi
Perdonate l’excursus personale, sono i ricordi più belli della mia camminata. Quelli che hanno rischiarato tutti i sentieri, da allora a sempre. Scriveva il poeta: “ Sono un arabo”, non “sono un palestinese”. Perché il primo conteneva il secondo e lo faceva più grande. Oggi questo fondamento e orizzonte della liberazione lo si è spento.Si è separato, isolato. Solo di Palestina è accettabile parlare. Appena accettabile. La Palestina, ricordava George Habash, massima voce strategica della Resistenza, è una costola del movimento di liberazione e rinascita nazionale arabo. Solo in questo contesto vivrà e vincerà. Oggi qualcuno grida “Palestina libera”, nessuno grida “Iraq libero!”, “Arabi liberi”! E’ più facile. Ma non fa bene ai palestinesi. All’imperialismo-sionismo sta molto meglio così..
La fetida carogna
L’apocalisse mediatica non ha risparmiato nessuno, dal Mar Nero fino al tramonto estremo. Hanno tuffato la guerra del Caucaso nell’inchiostro che l’abominio occidentale secerne come un pus che tutto contamina, e ne hanno tratto un mostriciattolo deforme, capovolgimento e parodia della realtà. Tutti. Chi con maggiore accanimento, chi funambulando penosamente in equilibrio sulla corda tesa tra complicità e acquiescenza. Con l’ex-rivoluzionario, ex-pannelliano, ex-bombarolo neocon, Adriano-Fregoli-Sofri, che da “Repubblica” e dalla fetecchia Cia “Il Foglio”, espelle il solito merdoso sciocchezzaio da pseudointellettuale di regime che lo mantiene in bilico tra i picchi paralleli della futilità e dell’abominio (ci vuole un suo compare di iperegotismo e masturbatorie elucubrazioni, come l’ex-canterino Ivan della Mea sul “manifesto”, per esaltare questo miserabile plaudente alle bombe sui serbi, palestinesi, iracheni, afghani…). Si sono tutti, da “Libero” al “manifesto”, fatti trombettieri davanti e valletti dietro il rullo compressore della cosiddetta “comunità internazionale”. Hanno raccattato le deiezioni della propaganda e l’hanno sparata contro gli indifesi cervelli del mondo, realizzando una lobotomizzazione generale. “Comunità internazionale” costituita da una minoranza infima non solo dell’umanità, di cui pretende di rappresentare un sesto, ma dei propri popoli. E’ il solito nocciolo perverso, bianco, cristiano, che da duemila anni s’avventa su paesi e popoli per succhiarne il sangue e sbranarli. Cinque miliardi di latinoamericani, africani, asiatici, ma anche bianchi cristiani scampati a roba come la CNN o il “manifesto”, non sono “comunità internazionale”. Non contano un cazzo. E’ per questo che vecchie carogne come il barboso fondatore di un grosso giornale, girando con il lumicino non del nudo Diogene, ma di palazzo De Benedetti, non trovano più l’ opinione pubblica?
Compatto, il sistema mediatico della “comunità internazionale”, cioè della criminalità politico-economica organizzata, ha presentato il conflitto tra Georgia, Ossezia del Sud e Russia come rovesciato allo specchio. Un farabutto, golpista grazie alla solita “rivoluzione colorata”, Saakashvili, della serie di delinquenti messi dall’imperialismo a capo delle nuove colonie per destatalizzarle e mafizzarle, scatena un’armata di sgherri armati e addestrati da USraele (non c’è regime fascista o fascistoide al mondo che non goda dell’assistenza dei nazisionisti) contro un paese, un popolo, un’etnia che non hanno voluto farsi imporre la secessione golpista dalla Russia dei primi anni ’90. Nel giro di 24 ore compie una strage spaventosa, rade al suolo la capitale e costringe alla fuga 30mila ossetini (cui non verrà mai dedicata una parola o una pagnotta della solidarietà internazionale). La Russia reagisce in difesa di cittadini della sua nazionalità e, come tutte le mosse di Putin da quando ha rimesso in piedi lo Stato e la società russa dopo lo sfacelo Eltsiniano, si attiene rigorosamente al diritto internazionale, rispetta la popolazione civile nelle terre georgiane dove ha ricacciato in quattro e quattrotto l’armata Brancaleone che, al pari di quella che due anni fa invase il Libano, era messa su e guidata dagli israeliani e, al pari di quella, vide castigata la sua protervia con beneficio della pace. Stop, almeno momentaneo, al cannibalismo territoriale e alle pulizie etniche dell’imperialismo occidentale, con giusta soddisfazione dello schieramento antimperialista, con indiscutibile consenso a Putin-Medveded, mercatisti quanto vuoi, diffamati universalmente al di là di ogni realtà, ma barriera salvifica contro il Gozilla euro-israelo-statunitense. Primo, lungamente atteso altolà, dopo lo tsunami genocida su Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Granada, Panama, Nicaragua, Libano.
Il riflesso antisovietico, anticomunista, antirusso.
E la sinistra, e il “manifesto”? Imbarazzo in soffitta della prima, ansimante equilibrismo tra una tradizione visceralmente antisovietica e antirussa (figlia diretta e oggi del tutto incongrua di uno storico anticomunismo) e l’abbagliante evidenza del gangsterismo dell’aggressore e dei suoi mandanti. L’inviato se ne rimane per tutta la guerra rintanato all’ombra di Saakashvili, piagnucolando alla Sgrena sulle traversie della popolazione di Gori e Tblisi. Il commentatore, Astrit Dakli, costretto dall’enormità della sproporzione tra attacco criminale e legittima ed equilibrata difesa ad accantonare la sua proverbiale slavofobia, che però rimedia deprecando monotonamente i guai che alla povera Europa verrebbero da una Russia non più scendiletto occidentale dei predatori occidentali, facendo nuovamente pendere la bilancia delle minacce a noialtri verso l’orso sovietico, condotto al guinzaglio da chi in ogni esternazione del giornale viene definito velenosamente “zar”. Lasciamo da parte farloccate pseudosinistre come quelle del Campo Antimperialista, l’ormai agonizzante congrega di strani e ambiguoni che ha per condottiero ideologico il trapanatore di teste sunnite Moqtada al Sadr, o il criptosocio USA Ahmadi Nejad e che inaugura le sue kermesse con il guru Costanzo Preve, uno transitato dalla rivoluzione marxista alle merende con la più schifosa pubblicistica neonazista. Il campetto conclude la sua “analisi” mettendo in guardia dal “nuovo imperialismo russo”. Cerchiobottismo mimesi del collateralismo. Contano assai di più i lancianebbie del “manifesto”, che parecchia credibilità vanta tra le schiere disperse e confuse della sinistra vera. Ci si chiede se non avvampino di rossore, quelli del “manifesto”, quando sentono fanatici nazisionisti, tutti consiglieri dello psicopatico John McCain, come Lieberman, Kagan, Rubin, paragonare per gravità di minaccia all’ordine mondiale la Russia di Putin ai “demoni del nazionalismo etnico di Slobodan Milosevic”, o quando sbattono il muso sul fatto che il mafioso Saakashvili venne installato da una “rivoluzione delle rose” identica a quella collaudata tre anni prima a Belgrado, con le stesse marionette locali e gli stessi burattinai: Soros, Israele, UsAid, National Endowment for Democracy, Istituto Internazionale Repubblicano e altre articolazioni in borghese della Cia. E poi ripetuta in Ucraina, tentata e fallita in Libano, Venezuela e Uzbekistan. Ma come, non ha sempre parlato “il manifesto” di “ultranazionalisti serbi”, quando si trattava di chi difendeva un residuo di sovranità e dignità dallo sbranamento euro-statunitense. Ma come, non urlò “il manifesto” dalla prima pagina “La primavera di Belgrado”, quando il golpe “non violento” dei sopra citati rovesciò Milosevic e la Serbia e li consegnò alla celle della morte di Carla del Ponte, stipendiata dal Dipartimento di Stato? Insiste ancora, l’uomo d’onore Tommaso De Francesco, balcanista a iniezione di stereotipi imperialisti, nel parallelo Kosovo-Ossezia, caro a tanti: quelli hanno voluto l’indipendenza del Kosovo, ne consegue che questi rivendichino l’indipendenza di Sud-Ossezia e Abkhazia.
Ossezia del Sud come Kosovo?
Manco per niente, caro TDF. Meni il can per l’aia e lo mandi diritto sul gancio dell’accalappiacani. Il Kosovo era parte storica della Serbia, il suo luogo di nascita. Ne fu espulsa metà della popolazione non allineata con i trafficanti di droga ed esseri umani investiti dall’Albright del dominio sui traffici sporchi (ma redditizi per le banche Usa) tra Oriente e Europa e dell’ospitalità alla più grande base d’aggressione statunitense d’Europa. I due popoli del Caucaso, invece, li devi paragonare alla Krajina, o all’enclave di Mitrovica, o, perché no, al Sud Tirolo, mai stato Italia, ma strappato al mondo germanico con una criminale guerra imperialista del tutto innecessaria (Vienna ci aveva offerto Trento e Trieste se non fossimo entrati in guerra). Popolazioni che colpi di mano illegali e complotti imperialistici, hanno voluto strappare al loro contesto, sminuzzare, inserire in contesti statali non solo estranei, ma ostili e razzisti. Lo squartamento della Jugoslavia e poi della Serbia era un crimine contro l’umanità e contro il Diritto Internazionale. La liberazione di Ossezia del Sud, in cui nel referendum del 2006 il 99% della popolazione aveva votato per il distacco dalla Georgia, e Abkhazia di quella e di questo è la difesa.
La tempestiva scoperta di chi fa le “rivoluzioni colorate”. Sette anni dopo.
Curioso questo “manifesto” che nell’agosto del 2008, con Ennio Remondino (quel giornalista vezzeggiato dalla sinistra che non mancava di inserire in ognuno dei suoi mille servizi il riferimento al “despota” Milosevic) si accorge che la “rivoluzione delle rose” in Georgia, come quella arancione in Ucraina, erano il doppione della “primavera di Belgrado” esaltata dagli inebriati della “Primavera di Praga”, di Budapest, di Berlino, di Tirana, di Danzica. Bastava la parola e quelli si eccitavano. In un giornale che tutte queste rivoluzioni le aveva viste attraverso gli occhiali rifilatigli dalla Cia e dagli associati
dirittiumanisti e vi aveva inneggiato. E oggi ecco che in un colonnino in ritardo di sette anni scopre che quelli di Otpor (e della Radio B-92, cara ai Disobbedienti, benché fosse del circuito Cia di Radio Liberty) erano pagati dagli Usa, addestrati da generali del Pentagono a Budapest e zelanti esportatori dell’operazione Otpor in paesi da destabilizzare per l’Occidente, verso Est, sempre più verso Est. Era il settembre 2001. Autunno, altro che primavera, per la Serbia. Otpor, diretta dalla créme borghese e rampante di Belgrado, aveva rastrellato un po’ di fascisti, un po’ di sottoproletari, un po’ di canaglia e parecchi ingenui, e li aveva lanciati – armati! – contro il parlamento. Si trattava di urlare “democrazia” e. al tempo stesso, bruciare le schede che avevano dato la vittoria ai partiti di sinistra. Ma che bravo “il manifesto”! Solo sette anni dopo! Scusate l’autoriferimento, ma è doveroso. Io quelle cose le avevo scritte negli stessi giorni in cui accadevano, da Belgrado, quando stavo in mezzo alla truppe di Otpor, ne vedevo le facce, ne sentivo le espressioni , ne intervistai gli stessi dirigenti visti da Remondino, per sentirli dire che era “un onore essere aiutati dal servizio segreto di una grande democrazia come gli Usa”. Quelle cose finirono solo in rete, nella rivista ”l’Ernesto” e nei microfoni di Radio Città Aperta, prima che io ne fossi cacciato e Veltroni votato. Erano le corrispondenze da Belgrado per il mio giornale d’allora, “Liberazione”, con un caporedattore esteri di nome Salvatore Cannavò, oggi capo della “Sinistra Critica”. Cannavò presi i miei servizi, li buttò nel cestino e definì Otpor “costola del movimento no global”, da invitare alla prossima adunata a Nizza. Quanto a me, che denunciavo i rettili Cia di Otpor, ero ovviamente pagato da Milosevic… Casarini, che a Belgrado da radio B-92 aveva inveito contro Milosevic, se ne è rimasto in silenzio.
Biden l’attraente
C’è di tutto e di più nel “giornale comunista”. Si accompagnano le olimpiadi cinesi, nel livore per la loro perfetta riuscita (a parte il baraccone di sponsor, doping e boss trafficoni che qui tralasciamo), in perfetta sintonia con la canea colonialista e citando atleti rincoglioniti, con lacrime sui tibetani e inni bertinottiani al Dalai Lama, foruncolo Cia del pianeta ed erede della più spietata e oscurantista dittatura feudale vista nel millennio trascorso. Questo Dalai Lama, autentico figlio di brava donna, che all’inizio dei Giochi fa il generoso, invitando a rispettarli e poi spara al centro dell’attenzione mondiale per il fulmine Bolt la strabufala di centinaia di tibetani ammazzati (inevitabilmente smentita, ma le smentite, si sa, sono acqua calda su pietre roventi). Ci si innamora e poi disamora prima di Hillary, poi, meno, un po’ meno – è solo nero, neanche donna - di Obama. Si riesce – Marco d’Eramo, nota colonna filoisraeliana e quella dama da Quinta Strada, Giulia d’Agnolo Vallan, che si erge sulla plebe dei lettori inserendo una parola inglese ogni tre italiane – a raccontare la nomina a candidato vicepresidente del senatore Joseph Biden, senza esporre, neanche tra le righe, la sua natura di sudicio neocon guerrafondaio, sostenitore della tripartizione dell’Iraq, dichiaratosi “sionista pur non essendo ebreo”, prosecutore della dottrina sionista, formulata da Oded Jinon nel 1982, dello spezzettamento etnico-confessionale di tutta la nazione araba, determinato a far sparire Palestina, Libano, Siria, Russia e chiunque intralci il rullo compressore dei mostri di guerra occidentali. Una garanzia di continuità bushista per la cleptomane necrocrazia occidentale. La baronessa Vallan lo dice dotato di “esperienza di governo e affari esteri, di appeal (attrattiva) verace, spontaneo con impiegati e operai, di humour (spirito) pungente e ottime battute”. Punto. D’Eramo la batte: “”Biden è stimato e considerato il miglior partner possibile”. Punto. Solo a un imbecille o complice può sfuggire che questo vecchio arnese di 36 anni di parlamentarismo reazionario non sa un piffero di politica estera se non che bisogna spaccare la testa a tutti gli altri. E il campione analista del “manifesto” non ha scoperto che fu proprio Biden a essere spedito da Obama presso il bandito Shaakasvili in piena aggressione georgiana per garantirgli la continuità del flusso di armi dei profittatori di guerra Usa. Questo Biden che, se l’accoppiata della frode nuovista vince, dista solo un battito di cuore dalla presidenza degli Usa, ha onorato la sua carriera con il voto a favore della distruzione di quattro paesi, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Somalia. Ha sulla coscienza qualche milione di morti. Ha votato per il famigerato “Patriot Act” , con cui i criminali di Washington hanno disintegrato le libertà civili. Ha superato le più efferate richieste dei suoi ufficiali pagatori dell’aggregato delle carte di credito, capeggiato dal capofila MBNA, quando fabbricò quella bomba atomica della guerra di classe che fu la “Legge della bancarotta”, cappio al collo dei cittadini più deboli, poveri, malati, sfigati, fregati del suo paese. D’Eramo annuncia che si trasferirà su un altro pianeta in caso di mancata vittoria del ticket Obama-Biden. Che, invece, lo tratterebbero felice su questo.
La manovalanza di Giuliana Sgrena
Ma della tecnica di costruire falsità sulle falsità, fino alle vertiginose altezze delle Torri Gemelle, “il manifesto” e il fratello scemo “Liberazione” sono architetti provetti. A gettare malta nelle crepe che la realtà apre nell’alzheimer mediaticamente indotto nella gente ci pensa anche Giuliana Sgrena, il santino del “manifesto” che aspettò due anni e le rivelazione del bravissimi Sigfrido Ranucci (RaiNews24) prima di raccontarci cosa le avevano detto le donne di Falluja fosforizzata. E dalla quale ancora ci attendiamo che ci riveli chi fosse quel quarto uomo, nella vettura con Calipari, di cui si affermò ufficialmente la presenza per tre giorni e che poi svaporò nel nulla per sempre. Forse il caposequestratore sottratto a forza di milioni al controllo dei mandanti Usa? Scheletri nell’armadio? Non ce lo dirà mai.
Invece, cosa ci dice la teodem del “manifesto” in preda a estasi antislamica peggio diella vivandiera dell’UCK, Santa Teresa? Imperversano guerre e macelli, scoppiano bombe e attentati dalle Filippine all’Algeria, passando per Pakistan, Turchia, Iraq, Russia. Il segno chiarissimo è di occultare ogni barlume di orrore davanti agli oceani di sangue di guerra sotto la bandiera della “lotta al terrorismo” innescata l’11 settembre e vivificata dalla terroristizzazione di chiunque esca da questo seminato geneticamente modificato, barboni compresi. Anzi, poveri scontenti dell’intero mondo compresi. In tutta questo ambaradan apocalittico, la celebrata inviata di guerra ci distrae inveendo contro gli islamici e i veli con cui imprigionano le donne, tanto da mandare ai giochi olimpici povere atlete avvolte nei burka, o quasi. Noi, per la verità, avevamo visto atlete musulmane, maghrebine e altre, con nientemeno che calzoncini alla coscia. Certo, per la teodem dai bollori antislamici sono molto più emancipate e dignitose le velociste, saltatrici, mezzofondiste bianche e cristiane con slippini e perizoma. Chi non ne converrebbe? Sempre nel contesto delle deflagrazioni a 360 gradi, che s’inventa Sgrena? Una specie di riflusso da sue passate libagioni: una gragnuola di invettive contro l’Algeria araba alle cui nefandezze avrebbero risposto gli attentati “naturalmente di Al Qaida”, contro lo Stato. Attentati tutti compiuti in Cabilia, la terra dei berberi tanto cari a Sgrena quanto all’Eliseo e agli Usa, da tempo quinta colonna secessionista e filo-francese. Il presidente algerino Bouteflika era appena tornato da una visita a Tehran! Intrattiene anche buoni rapporti con Hugo Chavez. Non svende alle petrolifere tutte le riserve, fornisce tanto gas a un’Europa che, tra Algeri e Mosca, rischia la tentazione di rendersi energeticamente indipendente da USA – GB. Naturalmente Al Qaida s’incazza. Mica la Cia, o il Mossad, sia mai. Ecco un altro tocco di malta sgreniana a sostegno dell’edificio della “guerra infinita al terrorismo”. Del resto, è una litania, in quel giornale, la ripetizione, da parte proprio di tutti, delle guerra al terrorismo come “vendetta”, “reazione”, “risposta” degli Usa agli attentati di Al Qaida. Attentati di Al Qaida, alla faccia di tutte le contestazioni documentate della grottesca versione ufficiale sull’11/9 da parte un’armata internazionale di esperti, studiosi, tecnici, testimoni, pentiti. E una “reazione”, “risposta”, “vendetta” a tanta nefandezza islamica sarà magari eccessiva, ma dai, ci può pure stare.
Al Qaida come l’araba fenice (che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa)
Tanta malta Giuliana Sgrena la butta nei baratri che continuano ad aprirsi nella megagalattica frode con cui si manda avanti la “guerra al terrorismo”. Gli occupanti e i loro schiavetti a mezzo servizio con l’Iran di punto in bianco, alla fine del 2006, smettono di parlare di “insorti”, “saddamisti”, “resistenza”, “rivoltosi”, “ribelli”. Li chiamano tutti “Al Qaida”. Al Qaida non c’è mai stata in Iraq. Quando qualche nugolo di infiltrati e scemotti, sollecitati dall’occupante, presero a firmare comunicati con “Al Qaida”, o “Emirato islamico dell’Iraq”, hai voglia a far circolare comunicati della già conclamata Resistenza, in tutte le sue articolazioni, dell’autorevolissimo Consiglio degli Ulema, degli stessi capitribù e capicomunità, che Al Qaida è roba da provetta Usa-Sion e che, ove spuntasse, verrebbe presa a fucilate. Ma tant’è. La sempre più evidente e irriducibile lotta di liberazione di un popolo poteva suscitare perplessità, se non simpatie, se non solidarietà, se non effetto contagio. Meglio vestirla dei panni lordi di sangue di coloro cui si attribuiscono le carneficine in giro per il mondo, dalle Torri a Madrid, da Londra a ovunque. Siti “islamici” della Cia ce n’è a strafottere per spararci in testa comunicati e rivendicazioni. Sono anche stati scoperti, ma che fa. Basta non dirlo. Prendendo spunto dall’immagine di una ragazzina di 13 anni, in condizione di semincoscienza, scoperta con una cintura esplosiva, ecco che la crociata teodem inalbera la picca e va a fondo. Chi gliel’ha messa la cintura? Forse gente del tipo di quei militari israeliani che presero un adolescente disabile mentale, gli misero il giubbetto delle bombe, lo trascinarono davanti ai fotografi? E qui è tutto un seguito di fonti e conferme autorevoli: “Si dice che la famiglia sostenesse Al Qaida… si dice che l’abbiano reclutata parenti… Si ritiene che a organizzare l’attacco sia stato Al Qaida…”. Poi la mitica inviata di guerra si avventura in un’analisi del confronto sul terreno che è pari pari un briefing del comandante in capo Petraeus.
La stampella Sgrena al raggiro terrorista
Parlerò in altra occasione dei Consigli del Risveglio sunniti, strutture inventate dagli Usa per usarle contro la Resistenza a forza di 300 dollari al mese a combattente, e per contenere l’invasività degli sciti, apostoli e quinta colonna dell’Iran khomeinista. Aderirono disperati con famiglia, parte di quel 50% di iracheni che non ha lavoro ed è alla fame; boss locali ansiosi avidi di essere corrotti, ma anche molti militanti della liberazione che, dalla strage di Samarra in poi (2004), avevano dovuto subire un vero e proprio genocidio da parte degli sciti: sui cento ammazzati al giorno, sempre dopo tortura, quasi sempre con gli occhi e i genitali trapanati. Il nemico immediato, il più robusto grazie alla sponsorizzazione iraniana erano i briganti sciti di Moqtada, di Dawa, dello SCIRI, e la stessa marmaglia inquadrata in polizia ed esercito. In effetti l’idea funzionò, nel senso che pose un freno all’eccidio dei sunniti e riequilibrò un po’ a favore dell’occupante il rapporto di forze con il socio-rivale persiano. Cosa a quest’ultimo non gradita, per cui tornò a riattivare i propri viceconsoli a Baghdad. Iniziò il ripulisti dei Consigli del Risveglio da parte dell’esercito del premier Al Maliki, rimozioni, arresti, eliminazioni (che si accompagnavano a quelle con cui la Resistenza vera colpiva rinnegati e collaborazionisti). Gli Usa a guardare imbambolati, come un pugile suonato. E’ persiana la mano che tiene il coltello per il manico in Iraq. E “l’antiamericanismo” di Moqtada serve a confondere le acque e catturare il consenso di un popolo che mille volte preferirebbe gli Usa in quel cappio che Moqtada strinse al collo di Saddam.
Ebbene di questo, che pure appare nelle analisi dei migliori e più documentati commentatori in rete, in Sgrena non c’è traccia. Ci sono i kamikaze di Al Qaida, le bombe di Al Qaida, i Consigli del Risveglio contro Al Qaida. Non conta che le stragi tra civili non sono mai stati, mai avrebbero potuto essere, di una Resistenza che senza l’approvazione delle masse non è. Non conta che le vere azioni di resistenza oggi, con gli statunitensi asserragliati nei loro presidi, fanno strame di poliziotti e militari delle forze fantoccio, man mano che ci provano a sostituirsi alla presenza dell’occupante. Non conta soprattutto, che decine di testimoni, riportati in centinaia di cronache, hanno illustrato la tecnica della macchina sequestrata a un cittadino qualunque e portata a un posto di controllo, dell’autista che deve venirla a prendere domani, che quando la ricupera gli si ordina di portare un messaggio in un certo punto, meglio dove c’è tanta folla, e da lì telefonare. Al chè scoppia tutto. E quei due soldati inglesi travestiti da arabi, scoperti a Basra con una vettura zeppa di esplosivo pronto all’innesco, mentre stavano dirigendosi verso la moschea? E quei numerosi conducenti che la loro macchina, riavuta dagli occupanti, l’hanno esaminata e trovata foderata di tritolo che la telefonata avrebbe fatto saltare? Niente, per Sgrena non c’è niente. C’è solo, sette volte nel pezzetto, Al Qaida (anzi Al Qaeda, lo scrive all’inglese). Gli inventori di Al Qaida e autori del terrorismo imperialista, dall’11/9 in poi, ringraziano commossi.
Caucaso: un megapacco mediatico
Ma vediamo cosa è davvero successo nel Caucaso e cosa ne viene alla geopolitica mondiale. La vulgata dei gazzettieri, mercenari e falsari per interesse o vocazione, che si è abbattuta compatta come la colata di fango di Sarno sull’opinione pubblica, ci ha dipinto questo quadretto: L’uomo più o meno d’onore Saakashvili, con un colpo di testa che doveva forzare la mano agli “alleati” occidentali, ha voluto riprendersi la provincia riottosa del Sud Ossezia, contando sull’immediato soccorso militare e politico dei suddetti. I mille militari Usa che dalle sue parti avevano appena concluso esercitazioni che adombravano proprio una simile operazione, il concorso annoso di armi, istruttori e intelligence statunitensi e israeliani, lo avrebbero illuso, poveretto, sull’arrivo dei rinforzi USraeliani ai quei quattro briganti di strada che, mutuati dal modello del terrorismo ceceno, aveva spedito a radere al suolo Tskhinvali, la capitaletta osseta, e sterminare il maggior numero possibile di vite della maggioranza russofona di quel paese. Una pulizia etnica all’UCK in Kosovo, alla kurda a Kirkuk, all’israeliana in Palestina. Le “democrazie occidentali”, però, prese in contropiede dall’avventatezza del “rivoluzionario delle rose”, avevano esitato, tergiversato, temuto, animati da spirito di pace e dialogo, Israele aveva occultato, se non rallentato, il proprio contributo al revanchismo georgiano, paurosa di ritorsioni russe in Iran e Siria, gli Usa erano paralizzati dal trambusto elettorale e dal timore della banda Bush di concludere l’amministrazione in una nuova palude tipo Iraq e Afghanistan e gli europei se ne restavano rintanati, sbigottiti dal rischio alla sicurezza dei rifornimenti energetici russi che sarebbe stato determinato da un loro intervento a fianco dello sconsiderato georgiano.
Di questo impasse avrebbe dunque approfittato il “neoimperialista” Putin, non solo per riprendere il controllo su Ossezia e Abkhazia, promuovendone l’indipendenza, ma per calcare con i suoi stivali fette del territorio georgiano e uccidere così quella “giovane democrazia”, minacciando al tempo stesso tutto ciò che in direzione Nato si agitava alle sue frontiere occidentali. Si era così potuto salutare, con soddisfazione, il ritorno a quella contrapposizione, un tempo anche ideologica, oggi geostrategica, tra Occidente democratico e i nuovi “zar totalitari ed espansionisti”. Quella guerra fredda, in prospettiva calda, per cui l’industria militare, l’apparato economico e l’intera struttura propagandistica della cristianità bianca aveva tanta nostalgia e che pro tempore aveva sostituito con il “terrorismo” (comunque ancora buono per le strategie colonialiste verso il Sud del mondo e per la marcia verso i propri stati di polizia).
Chi vince, chi perde?
L’unica cosa vera del megapacco era questa conclusione: la nuova guerra fredda, propedeutica al possibile conflitto mondiale tra Occidente e i barbari asiatici, russi e cinesi.
Tanto che, scaduta l’ennesima data per l’attacco alle centrali nucleari di Tehran, la guerra USraele-Iran, data per certa da quattro anni, cavalcata rumorosamente da arnesi dei servizi Usa come Scott Ritter e Seymour Hersh, creduta certa perfino dalla minuscola pattuglia di analisti seri, è passata in secondo, terzo, quarto piano. Dalla sceneggiata, recitata con pari impegno dai due soci-briganti dell’appropriazione indebita dell’Iraq, persiani e USraeliani, proficua per il controllo dell’area e della nazione araba per entrambi i collisi-collusi, si è passati allo scontro reale. I russi, osservanti rigorosi delle regole di cui l’imperialismo se ne impippa, giocano a scacchi, posizionano le loro pedine a difesa del re, Russia-Cina, e della regina, l’equilibrio multilaterale, unica garanzia di convivenza.
Pedine collocate all’interno delle repubbliche asiatiche, in buona misura recuperate dall’accerchiamento Usa di inizio millennio, nei paesi non colonizzati del Medio Oriente (Siria, Sudan) e dell’Africa, in America Latina e nella parte di opinione pubblica ormai insofferente all’avventurismo dei criminali di guerra euro-israelo-statunitensi..
Gli Usa, superato l’iniziale balbettio terzaforzista di alcuni europei intrecciati economicamente ed energeticamente con la Russia (Germania, Francia, Italia), come successo con l’Iraq, incalzano con il gioco di monopoli piantando la pedina Nato, grazie all’allineamento europeo, su fabbriche, palazzi, mercati, basi, terreni, lungo tutta la frontiera occidentale della Russia, nel Mar Nero, dove ormai scorrazzano liberamente le testate atomiche della Sesta Flotta. Come plusvalore, si mangiano anche il più dell’Unione Europea inserendo nel suo seno, in aggiunta alla marca est-europea già acquisita, le serpi velenose, in quanto più amerikane che europee, degli Stati criptonazisti del Baltico, l’Ucraina, la Moldova, e, più di tutti, la Georgia della rete di oleo- e gasdotti che, a suo tempo, non si era riusciti a sottrarre al transito russo mobilitando i terroristi ceceni rinforzati dagli ascari Al Qaida afghani. Nel monopoli statunitense bocconi decisivi erano anche e soprattutto giornali e televisioni. Non gli avrebbe potuto andare meglio. Se li sono pappati tutti. Con il risultato che le fratture aperte nel conformismo dell’opinione pubblica verso il sadismo degli psicopatici di Washington, Londra e Tel Aviv, a forza di non più occultabili barbarie , genocidi, tortura, abusi, stermini bombaroli, sono state almeno in buona parte saldate dall’incombere della rinnovata minaccia russa, parasovietica, parahitleriana. Risultato non da poco. E’ da vedere chi a questo punto tiene in mano i dadi.
L’Occidente doveva oscurare il dato che alla Georgia non spettava il benché minimo diritto internazionale per rivendicare sovranità su Abkhazia e Ossezia del Sud. Nel 1991, quando la Georgia si dichiarò indipendente, simultaneamente si dichiararono tali anche Ossezia del Sud e Abkhazia. Gli è andata meglio che alle Krajine serbe grazie al fatto che alle spalle avevano una Russia non più materasso eltsiniano. A garanzia di questa decisione, corrispondente alla volontà popolare, i peacekeepers russi stanno lì in virtù anche di un accordo politico firmato dalla Georgia, universalmente riconosciuto fino a quando i militari georgiani, presenti nelle forze di interposizione, non hanno preso a sparare sui colleghi russi e poi, subito, a uccidere migliaia di osseti, costringendone il resto alla fuga, distruggendone la capitale e molti villaggi. I russi non hanno fatto che ristabilire lo stato sancito dagli accordi. Avventura improvvida del gangster Saakashvili? Si pensi alle manovre alleate congiunte condotte giorni prima a 100 km dal confine russo, alla presenza a Tblisi, nei giorni precedenti l’assalto al Sud Ossezia, di Joseph R. Wood, assistente per la sicurezza nazionale del vicepresidente Usa e dio della guerra e del terrorismo Dick Cheney, alla visita a Saakashvili della signora Cheney subito dopo il ritiro russo e poi anche dal sanguinario consorte, all’imperversare in Georgia di ben mille contractors israeliani sotto i generali Israel Ziv e Gal Hirsh (pur reduci dalla debacle in Libano), nel plauso di ministri israeliani del governo georgiano, come Yakobashvili (Relazioni con il Sud Ossezia) e Kezerashvili (Difesa). Si pensi a quei sei “Hummer”, i blindatoni Usa, catturati in Georgia dai russi e trovati zeppi di quel sofisticato armamentario per la guerra elettronica che ha guidato passo passo le provocazioni di Saakasahvili in cielo, terra e mare. Si pensi con quale prontezza la Sesta Flotta Usa ha invaso, con missili a testata atomica, il Mar Nero, fornendo, tra dentifrici e carta igienica, ai bastonati georgiani quanto gli occorre per il prossimo giro di guerra e strusciandosi accanto alle navi da guerra russe con il rischio di una scintilla che i dementi di Washington si augurano da tempo. Ma a ridicolizzare l’idea di un’ iniziativa tutta del burattino georgiano, di per sé grottesca per l’assoluta mancanza di autonomia nei confronti di chi lo ha messo e lo tiene in sella, ci sono altri elementi.
Torna con Obama Brzezinski, tornano gli assassini dei Balcani, torna l’Eurasia
I consiglieri per la politica estera del autoproclamato reggicoda dei nazisionisti Barack Obama sono Madeleine Albright, Segretaria di Stato di Clinton e fidanzata a Rambouillet del tagliagole e narcotrafficante kosovaro Hashim Taqi, Richard Holbrooke, il truffaldino disfacitore della Jugoslavia e Zbigniew Brzezinski, già consigliere di Jimmy Carter e da quattro decenni massima personificazione dell’etica di guerra dell’elite Usa. Brzezinski aveva già indicato nel suo saggio “La grande scacchiera: Primato americano e imperativi geostrategici ” come, dopo la conquista delle Americhe, il centro per il dominio mondiale fosse diventato l’Eurasia. Adesso, con un futuro presidente meno inibito di Carter, è venuto il tempo per l’attuazione delle sue teorie. In un articolo sul “Time” chiede alla “comunità internazionale” se non sia disposta “a dimostrare al Cremlino che vi sono “costi fatali per lo scandaloso uso della forza al servizio di anacronistici fini imperiali”. “Le olimpiadi invernali a Sochi, in Russia, vanno boicottate”, comanda Brzezinski e “all’invasione della Georgia va risposto come rispondemmo all’invasione dell’Afghanistan e a Hitler”. Fu nel giugno 2008 che questo “venerato maestro” della geostrategia imperialista sottopose all’amministrazione il copione da seguire per rimettere nell’angolo la Russia (vedi il sito kavkazcenter). Profetizzato che la Russia avrebbe destabilizzato la Georgia per impossessarsi dell’oleodotto Baku-Ceyhan, giugulare delle petrolifere Usa-Gb per prendersi gli idrocarburi del Caspio, isolando così l’Asia Centrale dall’economia mondiale e provocando una crisi apocalittica all’ Occidente, ha suggerito il rimedio: controllare i paesi dell’Asia centrale come chiave per controllare l’intera Eurasia e mantenere la supremazia planetaria degli Usa. La motivazione per la “guerra infinita al terrore” sta tutta lì. Accusando la Russia di ambizioni imperiali, paragonando Putin a Stalin e Hitler e facendo il parallelo tra quanto Stalin ha fatto alla Finlandia e “l’invasione russa della Georgia”. Messo in chiaro, da parte della Squadra A dell’imperialismo obamiano Brzezinski-Albright-Holbrooke, che i russi stavano tagliando il cordone ombelicale dei rifornimenti energetici al lattante occidentale, ripetuto goebbelsianamente che Putin “è una minaccia”, “un autocrate”, un “restauratore sovietico”, “un imperialista”, si passa al piano d’azione: ostracizzare la Russia, isolarla, infliggerle sanzioni politiche ed economiche e soprattutto ricorrere al vecchio trucco di Brzezinski quando attirò l’URSS nella palude afghana: fallita la destabilizzazione della Cecenia: creare altri focolai di logorante guerriglia e di sanguinario terrorismo metropolitano. Per cui: vai, Saakashvili, vai, fai casino in Ossezia, noi arriviamo dopo, una volta convinta l’opinione pubblica mondiale che la minaccia mortale, il Mordor del fiancheggiatore letterario Tolkien, nuovamente sta a Oriente. Una trappola? Sì, se si considera che, per motivi sia etici che demografici, la Russia, in drammatico calo delle nascite dal tempo dello sfacelo eltsiniano, non può abbandonare né i 22 milioni di russi rimasti fuori dai confini dopo il crollo dell’Urss, né le tante minoranze etniche russofone (osseti, abkhazi, centroasiatici) che devono scegliere tra la sudditanza a pseudostati malavitosi sotto il tacco statunitense, e il ritorno all’interno di una grande potenza che ne garantisca difesa, dignità, progresso e immunità dai predatori occidentali.
Cosa c’è dietro e cosa viene dopo ll conflitto in Caucaso
Cosa ha prodotto nell’immediato la provocazione georgiana, al di là dell’attesa riemersione di un valido antagonista e freno alle tirannie guerrafondaie occidentali, al di là anche della deviazione dell’attenzione mondiale dall’abbagliante mattinata olimpica cinese alla notte del ritorno dei morti viventi asiatici in Tibet e in Georgia. Dello tsunami di un’informazione senza più remore nella propria identificazione con la cupola mafiosa mondiale s’è detto. Polonia e Usa hanno utilizzato l’occasione per sancire l’arrivo dello scudo missilistico d’attacco, insieme a un flusso poderoso di armamenti, contro l’opposizione del ben 70% dei polacchi. L’Ucraina non ha perso l’attimo e si è dichiarata disposta a ospitare anche lei qualche bella batteria di missili nucleari antirussi: non potrebbe essere minacciata da Tehran anche lei? Cechia, Ungheria, l’Italia che ha contrabbandato con Prodi lo scudo d’attacco di nascosto anche dal parlamento, non sono più soli. L’accerchiamento Usa della Russia e dell’avamposto antimperialista Bielorussia e l’avanzata verso la Cina si rafforzano. D’un tratto dal Baltico al Mar Nero non c’è stato Stato o pseudostato che non strepiti per l’immediato ingresso nella Nato e, quindi, ovviamente in un’ Unione Europea sempre più alla mercé di infiltrati Usa, degli Al Maliki e Karzai polacchi, lettoni, ucraini, georgiani, bulgari, ungheresi, cechi e tutti gli altri? La maggioranza dei 27 ! Altro che ruolo autonomo dell’Europa, specie se, con il concorso di tutta questa bella gente e l’apporto decisivo del Pentagono, gli Usa riusciranno a mettere le mani anche sui rubinetti energetici dell’Asia, dopo quelli mesopotamici (e domani sudanesi e africani). E sul mandato Usa a Saakashvili di assalire l’Ossezia del Sud non dice nulla un dato dirimente come quello che non ha visto, al momento della deflagrazione, aumentare il prezzo del greggio di neanche un centesimo, anzi continuare la discesa, quando prima bastavano una sparata di Ahmadi Nejad, uno starnuto di Olmert, un voto per Chavez a farlo schizzare in alto? I petrolieri Usa, vampiri della speculazione, sapevano bene cosa era in gioco.
Equidistanti?
L’Europa, dopo qualche borborigmo dissonante, è rientrata nel coro e si è fatta mettere in rotta di collisione con il suo principale partner economico di lungo termine e, con il voto dei nuovi entranti, ha dovuto mettere il silenziatore a qualunque divergenza tra UE e Usa. Come nel caso dei Balcani e del Medio Oriente, anche questa guerra è condotta contro l’Europa. La Nato, compatta, ha promesso sfracelli e immediate inclusioni delle mafioclientele orientali. Con la sollevazione dei terroristi ceceni manovrati dalla Cia e dal Mossad, sconfessati dalla stragrande maggioranza della popolazione in successive votazioni, con il Silk Road Strategy Act (Documento strategico Via della Seta), con il GUUAM (Accordo Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan, Moldova) e con l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, gli Usa hanno scatenato operazioni belliche e accordi economici tesi ad escludere la Russia dal sistema di rifornimenti energetici dall’Asia all’Europa. La provocazione georgiana e l’inevitabile risposta russa hanno fornito la ciccia ideologica – “le giovani democrazie orientali assalite dall’imperialismo russo” – per un consenso pubblico logorato dal sempre più ridicolo fantasma Osama bin Laden e dalla sempre più manifesta ipocrisia delle motivazioni per la guerra al “terrorismo islamico”. Forse è tempo che dalle nostre parti si riattivi Gladio. E pensare che, su questo sfondo, dove le ragioni stanno tutte da una parte e i torti tutti dall’altra, la “Reticella dei comunisti”, un gruppetto postautonomia romano, intima ai comunisti di “denunciare le conseguenze sociali devastanti della competizione fra le diverse potenze, nessuna esclusa” e impedire ogni complicità con ognuna di esse. E “il manifesto” titola: “Chi tocca un russo muore: Medvedev all’attacco della Nato”. Già, chi sta alla finestra e chi canta con il pifferaio di Hamelin. Sempre nel “manifesto” tocca tributare onore alla resistenza del sempre eccellentemente informato Manlio Dinucci che, al pari di Giulietto Chiesa clon la solita competenza schierato accanto agli aggrediti, scompagina tutte le ambiguità e superficialità del suo giornale: “E’ dal 1997 che la Georgia riceve aiuti militari statunitensi. E’ nel 2002, con il ‘Georgia Train and Equip Program’, che Washington ha di fatto posto l’esercito georgiano sotto il proprio comando….La prova generale è stata effettuata con la ‘Immediate response 2008’, l’esercitazione cui hanno partecipato truppe di Stati Uniti, Georgia, Ucraina, Azebaijan e Armenia, poco prima dell’attacco al’Ossezia del Sud. Non è quindi credibile che l’attacco sia avvenuto all’insaputa e contro la volontà di Washington. E’ stata un’azione chiaramente orchestrata per mettere ancora una volta la Russia di fronte al fatto compiuto o, in caso di forte reazione russa, per aprire una crisi che permetta a Usa e Nato di conquistare posizioni ancora più a est nella corsa all’oro nero del Caspio”. Inconfutabile. E c’è chi predica equidistanze. Utili idioti.
Imprescindibile: fuori la Nato dall’Italia, fuori l’Italia dalla Nato
L’assalto e le carneficine del corrotto autocrate-fantoccio Saakashvili, brutale, gratuito, indiscriminato, criminale, con 2000 uccisi e 34.000 su 73mila abitanti cacciati di casa, con il plauso mediatico mondiale e la contemporanea satanizzazione della Russia di Putin, ci danno ancora una volta la misura dell’alleanza in cui governanti felloni, svendendo la sovranità conquistata dalla Resistenza, ci hanno rinserrato dal 1945 e di cui Massimo D’Alema, copia fallimentare di Andreotti, nel 1999 ha firmato con entusiasmo la trasformazione in mattatoio universale, in contemporanea con i suoi allegri bombardamenti sui civili serbi. Questa ininterrotta e sempre più feroce proiezione di potere, di distruzione, di pulizie etniche e genocidi non può non preludere all’ olocausto nucleare globale, accidentale, o, come hanno programmato i più autorevoli boss dell’establishment Usa, volontario. Sempre che, prima, le devastazioni che il capitalismo di pace e di guerra va infliggendo al pianeta non rendano superfluo il fungo. E’ bastato molto meno, nel 1914 a Sarajevo, per far iniziare ai necrocrati occidentali il ciclo delle guerre capitaliste mondiali. La migliore rappresentazione filmica dell’ horror Nato è un banda di zombie che gira il pianeta con in una mano una tanica di benzina e nell’altra una scatola di fiammiferi, pretendendo di vendere assicurazioni antincendi. Meglio la Nato, per gli incendiari USraeliani e i loro arlecchini europei, che l’ONU: è il surrogato ideale, controllabile, compatto, per fornire una cornice legale ai crimini di guerra e sostituire un’organizzazione dove ogni volta tocca subire paralizzanti compromessi a causa di uno qualsiasi dei cinque veti nel Consiglio di Sicurezza
Forse il collante di una sinistra atterrata, ma che ancora non ha subito l’ultimo knock out,
dovrebbe essere uno slogan antico, messo in soffitta e coperto di polvere, con particolare zelo dai “nonviolenti”. Mai c’è stata un’emergenza libertà, povertà, sovranità, pace più acuta di oggi per riunirsi tutti sotto il vessillo “fuori la Nato dall’Italia, fuori l’Italia dalla Nato”, che comporta fuori Berlusconi, fuori Veltroni, fuori Bertinotti, fuori il privatizzatore dell’ acqua, vindice di brogli accertati e quaquaraquà del papa, Vendola, fuori la mafia ufficiale e ufficiosa. Fuori tutti i complici governisti, disposti a stare in una classe dirigente che si identifica e si fa proteggere da questi serial killer di massa. Di tutte le emergenze, nell’attualità, Vicenza è il punto cardinale. Combattere quella battaglia, vincerla, significa incidere un bubbone emblematico del vaiolo imperialista. Due anni fa Vladimir Putin pronunciò un discorso a Monaco che, per gli Usa, lo pose in fila con Fidel, Chavez, Morales, Correa, Mugabe, Al Bashir e al quale si può far risalire la decisione Usa di dare il via ai progetti elaborati da Brzezinski.
“Il mondo unipolare fa riferimento a un mondo in cui c’è un solo padrone, un solo sovrano…un solo centro di autorità, di forza, di decisione. Alla resa dei conti ciò è pernicioso non solo per tutti coloro all’interno del sistema, ma per lo stesso sovrano, perché distrugge il sistema dall’interno. Alla base di esso non ci possono i fondamenti di una moderna civiltà. Azioni unilaterali e illegittime non hanno mai risolto alcun problema. Anzi, hanno provocato nuove tragedie umane e creato nuovi centri di tensione. Guardate: le guerre e i conflitti locali e regionali non sono diminuiti. Si muore molto di più di prima. Molto, molto di più! Vediamo un crescente disprezzo per i principi di base del diritto internazionale…Uno Stato, ovviamente gli Stati Uniti, ha superato in ogni modo i propri confini nazionali, ha imposto le proprie direttive economiche, politiche, culturali ed educative ad altre nazioni. Chi ne può essere felice?... Sono convinto che abbiamo raggiunto il momento decisivo per pensare seriamente a una nuova architettura per la sicurezza globale.
Chi può dargli torto?
P.S.
Assistenti sociali e magistrati di Catania, dall’etica e legalità dettatigli da Don Rodrigo, hanno punito una madre e suo figlio perché Giovane Comunista del PRC, hanno affidato quest’ultimo al padre fascista e a un centro di recupero. M’era venuto l’impulso a rispondere invitando eserciti di compagni a iscriversi a Rifondazione e a dichiararsi malfattori estremisti da parimenti rinchiudere in centri di accoglienza (campi di rieducazione?). Poi ho visto la foto di Vladimir Luxuria in partenza per “L’isola dei famosi” e ci ho ripensato.
PP.SS.
In India hanno chiuso 25mila scuole cattoliche in seguito alle violenze scatenate dagli indù. Standoci i fuori testa indù tanto sulle palle come i chierici nostrani, cosa ci si potrebbe inventare qui per ottenere lo stesso beneficio?
SEI UN FIUME IN PIENA CARO FULVIO
RispondiEliminaAnalisi spietata e impeccabile. Complimenti. Per quanto riguarda la Sgrena, purtroppo un certo femminismo estremo è complice della propaganda aggressiva occidentale contro i paesi arabi. Con il risultato delle guerre.
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