L’11 ottobre 2008 ha rivisto un fiume di bandiere rosse che scorreva come una piena da Roma Termini fino ai templi di Bocca della Verità. Un fiume che, tracimando e travolgendo, ha spazzato via detriti e scorie di cui, pure, alcuni esemplari si erano avventurati nel corteo dei cento e centomila rosseggianti. Bertinotti, Vendola, attaccati alla piccola massa gelatinosa dei SD (già PDS, già SD: miserelli, sono a corto anche di lettere). I segni di una vittoria mondiale, storicamente e ancora più geograficamente vicina e viva, sugli spettri – opportunamente fischiati – di poltronari tanto sconfitti quanto artificialmente tenuti in vita dalle flebo di un accanimento terapeutico cui concorre un fronte che va dalla banda Veltrusconi fino al “quotidiano comunista”.
Prima di dire la mia sull’esito della manifestazione del comunismo ritrovato, s’impone l’esame di un suicidio annunziato. Quello, appunto, del “quotidiano comunista”. Un giornale, “il manifesto”, che, come Sisifo, alcune migliaia di lettori insistono a spingere su per la china sulla quale si ostina ad arretrare, attratto dal fondo paludoso del conformismo, della moderazione, dell’integrazione. Un giornale che paga pegno, più che per la repressione finanziaria del regime fascistizzante, per l’inesorabile fuga del suo bacino politico. Esito tragicomico per chi si pone come referente informativo e formativo dell’antagonismo culturale, sociale e politico e che, in teoria, dovrebbe essere l’indispensabile strumento di conoscenza proprio di quei trecentomila che l’11 ottobre hanno sfilato sotto il cielo romano drappeggiato di rosso (del tabloid vendinottiano “Liberazione” di Sionetti e di un farlocco situazionista e anticomunista di nome “Bifo”, che detta la linea alla faccia della maggioranza uscita dal Congresso, non mette neanche più conto parlare).Trasuda acida irritazione anticomunista tutto lo spazio che “il manifesto” ha dedicato a questo rovesciamento dell’escatologia disfattista e collaborazionista da lui praticata tra un innamoramento e l’altro per gli eroi di tale escatologia, da Ingrao e Bertinotti e a Vendola, da Cofferati a Epifani. Con Rossana Rossanda, epifania di un radicalismo chic, paracadute di ogni revisionismo e di ogni stereotipo collaborazionista “liberal”, che impartisce ammaestramenti a una sinistra degna della sua Rue de Rivoli.
E’ quasi inimmaginabile con quanta autolesionismo rispetto all’invocata salvezza dalla bancarotta editoriale tale Andrea Fabozzi si accanisce contro quelle bandiere che, almeno in parte, si ostinano a dar da mangiare a lui e ai suoi colleghi. La frustrazione alla vista che trecentomila comunisti in corteo – vi includiamo anche il bello spezzone multietnico (l’unico!) di “Action”, che certamente comunista non vuole sentirsi chiamare – si riducono a poche migliaia di acquirenti del giornale, si trasforma in biliosa e spocchiosa distorsione dell’evento. Si chiede, il Fabozzi, a cosa mai potesse servire un corteo come quello dell’11 ottobre. Il corteo di una sinistra che rischia di trovare troppe e troppo facili risposte, un corteo “il cui successo può rappresentare un problema” . “Una boccata d’aria, una testimonianza di esistenza in vita”. Nulla più. Dunque non costituisce minimamente un problema né per il governo, né per Veltroni, ma solo per chi ha marciato (!) e non saprà “immaginare un seguito a questa giornata”. Il corvo continua, così gufando: Aggrappati ognuno alla sua bandiera, i manifestanti hanno tanto cantato, ma hanno quasi dimenticato il governo. Di slogan contro le mille e una porcheria berlusconiana se ne sono sentiti pochi. Già, mancava “il manifesto” per tuonare contro la banda di gangster che ci governa e ci precipita in guerra e totalitarismo. Mancavano Sionetti e la sua compagine di boyscout anti-estremisti e nonviolenti, mancava Giuliana Sgrena che guarda alla resistenza dei popoli con gli occhiali Cia che tramutano tutto in Al Qaida, mancava il critico citazionista cinematografico Roberto Silvestri che si fa incantare da scaltri film Usa in cui bravi marines neri, unici veri “liberatori”, svillaneggiano i partigiani, o riscattano dall’abominio, sminando qua e là, il genocidio in Iraq. Mancava Rossanda Rossanda, in tailleur Coco Chanel, a tracciare il solco. Ognuno quasi al riparo della sua bandiera, con le sue storie private (?) di conflitto nella scuola, in ospedale, al supermercato, in banca, ma senza la capacità di rappresentare una lotta collettiva. Una opposizione. Ci pensa “il manifesto”, appunto.
Nel finale del Fabozzi, il foruncolo del virus borghese spurga tutto la sua tossicità: Non molta strada è stata fatta. Siamo sempre a metà, tra le rovine del governo Prodi… e le minacce del governo Berlusconi. Dopo la catastrofe elettorale, la sinistra non è andata né avanti, né indietro e ora si concentra sulle alchimie che dovrebbero servire a superare lo sbarramento alle elezioni europee. A che serve una manifestazione allora? Parlando di alchimie e di elezioni, il giornale rivela ancora una volta la sua predilezione per l’interlocuzione con i bonzi e i capintesta, quelli delle "alchimie", tutto fuorchè i plebei al riparo delle “ loro bandiere” che a qualcosa di più profondo e più perenne pensavano, sventolandole, piuttosto che ad “alchimie elettorali”. La rabbia per l’ovvia previsione che la tentennante manifestazione successiva di Veltroni, o il tardivo e ancora pencolante sciopero confederale di fine mese, ovviamente a giochi chiusi, verranno umiliati dalla forza numerica e politica del rosso corteo romano, fa giungere l’editorialista a un neanche più velato parossismo anticomunista: Mettendo da parte quelle bandiere la storia non sarebbe più difficile da continuare. Forse più facile, forse migliore. Splash: altre migliaia di lettori mandati a cagare.
“Il manifesto” ha perso da molto tempo le cellule olfattive per annusare l’aria che tira. Un’aria, quella dell’11 ottobre, che soffiava forte e, più dei simboli e dei logo sulle bandiere rosse, mescolava il rosso e basta. Mai prima s’era vista, fatta eccezione per le summenzionate salme veltrinottiane (del resto con in mano già il biglietto di sola andata verso le foresterie del PD), tanto corteo con tanta omogeneità d’intento. E anche chi stonava gridando “Viva Stalin”, o, all’opposto, ciangottava su inermi striscioni romantici languori adolescenziali di stampo sub-zapatista, tra ingenuità e sollecitazioni nostalgiche concorreva comunque a dare voce a un unico proposito: il comunismo che avete imbrattato, venduto, edulcorato, diffamato, rivoltato, c’è e continuerà ad esserci. E’ antagonismo totale, è rivoluzione, è, sotto nomi che variano come fiori di prato nella storia umana e tra i meridiani, l’aspirazione di sei miliardi di esseri umani, l’impulso che corre nelle vene del mondo. Mai prima avevo visto bandiere rosse con simboli e sigle diverse mescolarsi con disinvoltura e serenità per tutta la lunghezza del corteo. Ci sarà stato pure chi si preoccupava di saltare l’asticella della vessatoria soglia elettorale, chi si poneva in modo da figurare come protagonista o conducator per future cordate. Avanzi di passato da integrare nel futuro. Ma non era questa la forza che muoveva i passi e agitava le bandiere. Non lo erano i furbetti del partitino. Erano trecentomila persone con una parola d’ordine che un piccolo spezzone esplicitava nello striscione “comunisti uniti per la costituente comunista”: il comunismo non finisce qua, il comunismo è necessario, il comunismo è tra noi, il comunismo unisce, il comunismo è orizzontale oggi, non verticale. Parola d’ordine che era la premessa di tutte le altre e tutte le conteneva, quelle di cui la cornacchia spennata del “manifesto”, ansiosa di Cgil e vivacchiamento all’ombra di Veltrusconi, ha lamentato l’assenza.
Forse si doveva dire qualcosa di più sull’emergenza legalità-libertà, stoltamente snobbata perché brandita da quel furbo contadino-poliziotto di Di Pietro, qualcosa di più sulla nostra condizione di colonia dell’imperialismo euro-statunitense che tutto il resto garantisce ai padroni in termini di guerra-pace, salari, scuola, sanità, lavoro, ambiente, libertà, sicurezza di vita. Ma anche questo lo si poteva ascoltare, avendo orecchio fino, dentro il frastuono dei sound system, degli slogan, dei cartelli e striscioni, nel crepitare delle bandiere. E poi ce n’est que un debut. O almeno spero. Mica vogliamo dar ragione a quei menagramo del “manifesto”.
Prima di dire la mia sull’esito della manifestazione del comunismo ritrovato, s’impone l’esame di un suicidio annunziato. Quello, appunto, del “quotidiano comunista”. Un giornale, “il manifesto”, che, come Sisifo, alcune migliaia di lettori insistono a spingere su per la china sulla quale si ostina ad arretrare, attratto dal fondo paludoso del conformismo, della moderazione, dell’integrazione. Un giornale che paga pegno, più che per la repressione finanziaria del regime fascistizzante, per l’inesorabile fuga del suo bacino politico. Esito tragicomico per chi si pone come referente informativo e formativo dell’antagonismo culturale, sociale e politico e che, in teoria, dovrebbe essere l’indispensabile strumento di conoscenza proprio di quei trecentomila che l’11 ottobre hanno sfilato sotto il cielo romano drappeggiato di rosso (del tabloid vendinottiano “Liberazione” di Sionetti e di un farlocco situazionista e anticomunista di nome “Bifo”, che detta la linea alla faccia della maggioranza uscita dal Congresso, non mette neanche più conto parlare).Trasuda acida irritazione anticomunista tutto lo spazio che “il manifesto” ha dedicato a questo rovesciamento dell’escatologia disfattista e collaborazionista da lui praticata tra un innamoramento e l’altro per gli eroi di tale escatologia, da Ingrao e Bertinotti e a Vendola, da Cofferati a Epifani. Con Rossana Rossanda, epifania di un radicalismo chic, paracadute di ogni revisionismo e di ogni stereotipo collaborazionista “liberal”, che impartisce ammaestramenti a una sinistra degna della sua Rue de Rivoli.
E’ quasi inimmaginabile con quanta autolesionismo rispetto all’invocata salvezza dalla bancarotta editoriale tale Andrea Fabozzi si accanisce contro quelle bandiere che, almeno in parte, si ostinano a dar da mangiare a lui e ai suoi colleghi. La frustrazione alla vista che trecentomila comunisti in corteo – vi includiamo anche il bello spezzone multietnico (l’unico!) di “Action”, che certamente comunista non vuole sentirsi chiamare – si riducono a poche migliaia di acquirenti del giornale, si trasforma in biliosa e spocchiosa distorsione dell’evento. Si chiede, il Fabozzi, a cosa mai potesse servire un corteo come quello dell’11 ottobre. Il corteo di una sinistra che rischia di trovare troppe e troppo facili risposte, un corteo “il cui successo può rappresentare un problema” . “Una boccata d’aria, una testimonianza di esistenza in vita”. Nulla più. Dunque non costituisce minimamente un problema né per il governo, né per Veltroni, ma solo per chi ha marciato (!) e non saprà “immaginare un seguito a questa giornata”. Il corvo continua, così gufando: Aggrappati ognuno alla sua bandiera, i manifestanti hanno tanto cantato, ma hanno quasi dimenticato il governo. Di slogan contro le mille e una porcheria berlusconiana se ne sono sentiti pochi. Già, mancava “il manifesto” per tuonare contro la banda di gangster che ci governa e ci precipita in guerra e totalitarismo. Mancavano Sionetti e la sua compagine di boyscout anti-estremisti e nonviolenti, mancava Giuliana Sgrena che guarda alla resistenza dei popoli con gli occhiali Cia che tramutano tutto in Al Qaida, mancava il critico citazionista cinematografico Roberto Silvestri che si fa incantare da scaltri film Usa in cui bravi marines neri, unici veri “liberatori”, svillaneggiano i partigiani, o riscattano dall’abominio, sminando qua e là, il genocidio in Iraq. Mancava Rossanda Rossanda, in tailleur Coco Chanel, a tracciare il solco. Ognuno quasi al riparo della sua bandiera, con le sue storie private (?) di conflitto nella scuola, in ospedale, al supermercato, in banca, ma senza la capacità di rappresentare una lotta collettiva. Una opposizione. Ci pensa “il manifesto”, appunto.
Nel finale del Fabozzi, il foruncolo del virus borghese spurga tutto la sua tossicità: Non molta strada è stata fatta. Siamo sempre a metà, tra le rovine del governo Prodi… e le minacce del governo Berlusconi. Dopo la catastrofe elettorale, la sinistra non è andata né avanti, né indietro e ora si concentra sulle alchimie che dovrebbero servire a superare lo sbarramento alle elezioni europee. A che serve una manifestazione allora? Parlando di alchimie e di elezioni, il giornale rivela ancora una volta la sua predilezione per l’interlocuzione con i bonzi e i capintesta, quelli delle "alchimie", tutto fuorchè i plebei al riparo delle “ loro bandiere” che a qualcosa di più profondo e più perenne pensavano, sventolandole, piuttosto che ad “alchimie elettorali”. La rabbia per l’ovvia previsione che la tentennante manifestazione successiva di Veltroni, o il tardivo e ancora pencolante sciopero confederale di fine mese, ovviamente a giochi chiusi, verranno umiliati dalla forza numerica e politica del rosso corteo romano, fa giungere l’editorialista a un neanche più velato parossismo anticomunista: Mettendo da parte quelle bandiere la storia non sarebbe più difficile da continuare. Forse più facile, forse migliore. Splash: altre migliaia di lettori mandati a cagare.
“Il manifesto” ha perso da molto tempo le cellule olfattive per annusare l’aria che tira. Un’aria, quella dell’11 ottobre, che soffiava forte e, più dei simboli e dei logo sulle bandiere rosse, mescolava il rosso e basta. Mai prima s’era vista, fatta eccezione per le summenzionate salme veltrinottiane (del resto con in mano già il biglietto di sola andata verso le foresterie del PD), tanto corteo con tanta omogeneità d’intento. E anche chi stonava gridando “Viva Stalin”, o, all’opposto, ciangottava su inermi striscioni romantici languori adolescenziali di stampo sub-zapatista, tra ingenuità e sollecitazioni nostalgiche concorreva comunque a dare voce a un unico proposito: il comunismo che avete imbrattato, venduto, edulcorato, diffamato, rivoltato, c’è e continuerà ad esserci. E’ antagonismo totale, è rivoluzione, è, sotto nomi che variano come fiori di prato nella storia umana e tra i meridiani, l’aspirazione di sei miliardi di esseri umani, l’impulso che corre nelle vene del mondo. Mai prima avevo visto bandiere rosse con simboli e sigle diverse mescolarsi con disinvoltura e serenità per tutta la lunghezza del corteo. Ci sarà stato pure chi si preoccupava di saltare l’asticella della vessatoria soglia elettorale, chi si poneva in modo da figurare come protagonista o conducator per future cordate. Avanzi di passato da integrare nel futuro. Ma non era questa la forza che muoveva i passi e agitava le bandiere. Non lo erano i furbetti del partitino. Erano trecentomila persone con una parola d’ordine che un piccolo spezzone esplicitava nello striscione “comunisti uniti per la costituente comunista”: il comunismo non finisce qua, il comunismo è necessario, il comunismo è tra noi, il comunismo unisce, il comunismo è orizzontale oggi, non verticale. Parola d’ordine che era la premessa di tutte le altre e tutte le conteneva, quelle di cui la cornacchia spennata del “manifesto”, ansiosa di Cgil e vivacchiamento all’ombra di Veltrusconi, ha lamentato l’assenza.
Forse si doveva dire qualcosa di più sull’emergenza legalità-libertà, stoltamente snobbata perché brandita da quel furbo contadino-poliziotto di Di Pietro, qualcosa di più sulla nostra condizione di colonia dell’imperialismo euro-statunitense che tutto il resto garantisce ai padroni in termini di guerra-pace, salari, scuola, sanità, lavoro, ambiente, libertà, sicurezza di vita. Ma anche questo lo si poteva ascoltare, avendo orecchio fino, dentro il frastuono dei sound system, degli slogan, dei cartelli e striscioni, nel crepitare delle bandiere. E poi ce n’est que un debut. O almeno spero. Mica vogliamo dar ragione a quei menagramo del “manifesto”.
hai perfettamente ragione circa il pessimo articolo-in prima pagina anche!- di Fabozzi.
RispondiEliminaUn insieme di cazzate piccolo borghesi della peggiore risma!
Io c'ero sabato 11,una manifestazione straordinaria
Ero con i compagni del Pcl,partito in cui milito.
Mi è sembrato che Fabozzi sia stato in un posto altro,diverso.
Bè,d'altronde il manifesto oltre ai nomi da te citati,aveva tra i collaboratori pure Andrea Colombo
L'amichetto di fioravanti e mambro,autore di un pessimo libro sulla strage di Bologna!
saluti comunisti,davide
Concordo pienamente caro Fulvio, anche se non ero fisicamente tra i 300mila ed anche se qualche volta acquisto ancora il manifesto, che ritengo, malgrado tutto l'unico quotidiano italiano che valga la pena comperare.
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