martedì 28 luglio 2009
A PRESTO
Cari e pazienti interlocutori, questo blog resterà silenzioso fino a fine agosto, essendo il suo autore in altre faccende affaccendato. Godetevi, inseme agli altri, anche questo benefico riposo e, come sempre, grazie davvero per l'attenzione.
Chiudo con un avvertimento della massima attualità:
ALL'ARMI, SON FASCISTI!
Ciao.
mercoledì 22 luglio 2009
IRAQ! IRAQ!
Se non dici le cose in modo da irritare, tanto vale che non le dici per niente.
La gente non si preoccupa di cose che non la preoccupano.
(George Bernard Shaw, 1856-1950)
Due mature signore che si presumono quale una giornalista, quale una saggista, abusivamente, ignorando la lezione di tutti i conoscitori onesti e competenti di quella regione assaltata dall’imperialismo israelo-occcidentale, l’indimenticabile Stefano Chiarini in testa, si occupano di Medioriente e di Islam con piglio tanto razzista e protervo quanto gradito ai gangster locali e internazionali che imperversano da quelle parti. La mia risposta, è necessitata dal fatto che la prima, svolgendo le sue mistificazioni amerikane sul “manifesto”, ha un uditorio di sinistra di un qualche rispetto che ancora le stende ai piedi l’attenuante del sequestro subito in Iraq. L’altra starnazza nel coro dei polli ingabbiati per essere cucinati alla mensa imperiale. Ma tale pigolìo, per quanto strepitato, non supera di molto i recinti del suo pollaietto milanese. Tuttavia, avendo fatto circolare l’osservazione che il sottoscritto se ne frega della resistenza irachena e afghana, preferendo in questa fase smascherare la, a costei cara, sommossa degli yuppie iraniani, a beneficio dei suoi quattro lettori estendo anche a lei la mia risposta.
C’era una volta un giornalista – diranno subito i miei piccoli lettori – che fin dal 1977 fa l’inviato in Medio Oriente e frequenta l’Iraq, fino a conoscerne la Resistenza nell’aprile e poi nel novembre del 2003, ininterrottamente da allora fino a quando non gli volevano mettere la divisa da embedded altrimenti ti spariamo o sequestriamo chiamandoci Al Qaida. Sull’Iraq della sovranità ed equità, dell’aggressione per conto terzi degli ayatollah, della prima e seconda guerra del Golfo, questa vissuta sul posto, della disfatta, devastazione, sterminio, della fenomenale Resistenza, mai doma per quanto occultata dalle leccate mediatiche all’imperatore nero, ha realizzato quattro docu-film, scritto migliaia di articoli, parlato in tutti i suoi libri, conferenziato in centinaia di convegni, per portare a migliaia di persone il maglio con cui disintegrare i macigni deposti sulle loro conoscenze e coscienze dalla disinformazione imperialista.
A cominciare dal martirio dei dirigenti che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere, dal gentiluomo Tariq Aziz al vicecapo Izzat Ibrahim, ora leader della Resistenza. Poi in buona parte processati e impiccati per mano di gaglioffi venduti e dei loro prosseneti USraeliani. Non sono medaglie che mi appendo al petto. Sono sputi in faccia a chi mette in dubbio la mia lealtà a questo popolo fondatore di civiltà, irriducibile nemico dei necrocrati imperial-sionisti, trincea della resistenza umana ai cavalieri dell’apocalisse, amico mio. E qui mi si consenta, e anche se non mi si consente, vado a tre anni fa allorchè, con ogni iracheno perbene, tremavo di commozione e collera davanti a teleschermi che rimandavano l’immagine di un topo di fogna vestito da giudice e di un uomo ritto e indomabile, come lo era stato nei trent’anni in cui aveva costruito il paese più vivo, militante, progredito e socialmente giusto, insieme a Cuba, del Sud del mondo. Saddam è morto come è vissuto. Aggredito da avvoltoi e chiaviche, in piedi a rappresentare la dignità e il coraggio del popolo iracheno, della nazione araba. Le nostre democrazie radicalmente fasulle hanno definito “dittatura” la soluzione fisiologica per una società che per due millenni era dovuta sopravvivere politicamente e culturalmente a dominii lontani e dispotici, rintanandosi nella sfera della tribù e della micro-organizzazione sociale sotto l’unica autorità consentita: il capotribù, l’uomo più valido e più saggio, il padre riconosciuto. Da lì si pretendeva che il paese facesse un salto e si portasse a dopo la rivoluzione francese e ai privilegi della democrazia borghese. Per tenere testa alle potenze che incombevano affamate e preoccupate, Saddam, l’Iraq, hanno dovuto correre. Correre all’inseguimento di un equilibrio di forze e di sviluppo che garantisse la vita e la battaglia antimperialista.
Tutto questo andava cancellato dalla percezione di chi avrebbe potuto schierarsi con Saddam, come si era schierato con Fidel. E’ stata lanciata una demonizzazione di massa, sulla base di mistificazioni e attribuzione di orrori, che ha fatto breccia ovunque. Dalla dimostrata bufala dei curdi gassati (lo furono, ma dagli iraniani), allo sterminio dei comunisti, dagli oppositori personalmente uccisi, alle fosse comuni. Che si incominciarono a trovare solo mesi dopo l’occupazione e sempre colme di sunniti e resistenti, uccisi poco prima. Di analogo ricordo solo lo stravolgimento in caricatura sanguinolenta di uno dei più saggi ed equi imperatori romani, Nerone, colpevole agli occhi del patriziato latifondista e usuraio e degli storiografi cristiani di aver governato bene. Da pagano, da laico e da amico della plebe. Dirmi che mi disinteresso della resistenza irachena, come di quella di ogni popolo o classe irriducibile alla schiavitù, è come dire che il mio bassotto Nando si disinteressa della sua cuccia. Enfasi? Retorica? Magniloquenza? Pazienza. Mi sono scontrato, a onorare Saddam rettificandone le calunnie, con più sbigottimento, indignazione, contestazione, scandalo, misure repressive, di quante guardie del Cardinale abbia affrontato D’Artagnan, o, più sul tema, di quante ingiurie abbiano subito i disvelatori delle menzogne su 11 settembre e conseguente “guerra infinita al terrorismo”. Un po’ di retorica ci può stare.
L’abominevole donna del “manifesto” ci ha testè offerto un’articolessa intitolata “Ritorno a Baghdad” che Hillary Clinton si è precipitata ad appendere nella bacheca del Dipartimento di Stato, a dimostrazione che anche in un “quotidiano comunista” si sostiene quello che lei, Obama, il Generale Odierno, capintesta in Iraq, e tutta la congrega del regmie-fantoccio, dichiarano: il paese torna alla normalità, le sue democratiche istituzioni funzionano e vanno definite tali e non più greppie di una banda di delinquenti comprati e installati dall’occupante, Baghdad è viva e se la spassa insieme a noi. Naturalmente, uscita dai martirologi da sequestro che per quattro anni le sono stati dedicati da torme di prefiche mediatiche e politiche, la ritornante, riconoscente agli Usa per essere stata lei solo ferita, anziché ammazzata come Calipari e il famoso “quarto uomo” in macchina con lei, contribuisce con il suo soffio da embedded alla diffusione delle fetide ventosità esufflate dai briefing di Odierno, e dagli eleganti borborigmi d Obama. Non ha messo il naso fuori dalla Zona Verde, non ha fatto un passo a Baghdad senza robocop attorno, ma il quadro è inconfutabilmente idilliaco. Nel frattempo tre marines sono stati uccisi dalla Resistenza a Basra, nel profondo Sud che si pensava appaltato tutto a sciti collaborazionisti e Iran, il ritmo degli occupanti caduti (sia militari che mercenari privati) è tornato alla media di uno al giorno, le forze di liberazione, tuttora egemonizzate dal Baath di Izaat Ibrahim Al Duri, vice di Saddam e dal Fronte Islamico laico, con la fuga dei soldati Usa dai centri e nelle loro basi, colpiscono con potenza crescente militari e forze di polizia del regime fantoccio. La proclamazione della “sovranità”, fatta giorni fa dal regime e dai suoi padrini-padroni, tra comparse festanti, uniformate e bandierate, è stata il fatto comico planetario dell’anno. Ha coinciso con un’offensiva guerrigliera, vindice dell’autentica sovranità del paese calpestato e stuprato, dall’estremo nord di Mosul, attraverso l’incontrollabile provincia centrale di Anbar e Baghdad, all’estremo sud di Basra. Il fatto è che il giochino del generale Petraeus, predecessore di Odierno e oggi impegnato a polverizzare afghani e pakistani, che consisteva nel sottrarre forze alla Resistenza per riciclarle in “Consigli del risveglio” e di autodifesa dai trapanatori sciti, è stato disintegrato da contraddizioni che l’ottusità spocchiosa dei big occidentali suscita, o non capisce.
Circa 90mila cittadini sunniti, tra i quali anche combattenti contro l’occupazione che hanno giudicato prioritaria la lotta contro la macelleria dei caporioni manovrati da Tehran per ridurre fisicamente il peso della maggioranza non scita (sunniti, cristiani, assiri, curdi, caldei) del paese, erano entrati in questi “consigli” contro assicurazione Usa che poi sarebbero stati inseriti nel “regolare” esercito iracheno. Per i sunniti era questione di vita o di morte, venivano abbattuti come quaglie ai checkpoint per avere sul documento il nome sunnita Omar. Una forte componente nelle forze statali non legata mani e piedi agli ayatollah doveva costituire un contrappeso allo stivale persiano che arrivava in Iraq con lo zaino pieno di direttive per il governo-vassallo, armi per i tagliagole delle milizie di Moqtada al Sadr, Maliki, El Hakim, e scatoloni di schede già votate nelle varie tornate-farsa. Tehran, nella crisi da sovraespozione militare ed economica di Washington, rischiava di diventare il nemico principale, mentre per gli Usa si trattava di ridurre a più miti consigli la foia espansiva del alleato-rivale. Per gli stessi obiettivi i dietrologi di Pentagono e Dipartimento di Stato hanno poi allestito la sollevazione della frustrata borghesia filo-occidentale di Tehran Alta: era auspicabile, non solo per placare –o alimentare - la frenesia bellica di Israele, ma per sistemare le cose irachene in modo meno pro domo iraniana, un soggetto meno ostico e autonomo, meno nazionalista, del presidente Ahmadinejad, una coppia fidata, collaudata, intima di Langley, come Mir-Hossein Musavi e il corrotto, riccattibilissimo satrapo Alì Rafsanjani. Discorso che poteva andar bene a sunniti e statunitensi, ma certamente non alla cupola della setta integralista installata dal duo Usa-Iran a Baghdad. Non solo l’innesto delle milizie sunnite nell’esercito confessionalmente pulito fu negato, ogni promessa di riabilitazione e riammissione nelle strutture dello Stato dei cosiddetti “saddamiti” rimangiata, ma le milizie di Maliki e soci pretesero il disarmo dei consigli e presero ad arrestarli e decimarli. Simultaneamente sono tornate a esplodere le bombe nei mercati e nelle moschee con centinaia di vittime civili. Il modulo è quello “11 settembre”, attivato mediante la distruzione della cupola d’oro di Samarra, nel 2006: attentati nelle aree affollate scite in modo da riscatenare quella guerra civile con la quale gli uni – Usa – speravano che lo scontro anti-occupante si spostasse tra le comunità confessionali, e gli altri – Tehran e gli sciti – contavano di completare la liquidazione dei sunniti, in chiave Gaza, visti come l’acqua del pesce della Resistenza nazionale. Anche stavolta colpite da autobombe sono soprattutto le zone a varia denominazione scita e una Sgrena ne darebbe subito la responsabilità a sunniti e Al Qaida (l’ectoplasma cui danno sostanza gli agenti Cia e Mossad e il cui nome viene ormai affibbiato a qualsiasi singulto anti-occidentale da Caracas a Pyongyang).
Ma a volte quel comodo due più due, che fa il quattro dell’ottuso ”senso comune”, deborda e fa cinque e scompiglia l'ordine previsto. Alla luce delle elezioni amministrative previste per Novembre, rimangono altre due motivazioni della ripresa stragista, assai più attendibili: rilanciare la guerra confessionale per la definitiva liquidazione di una presenza politica sunnita che ha dato segni crescenti di vita e, oggi prioritario, stabilire a forza di massacri chi debba accaparrarsi i pezzi più succulenti di territorio, risorse, potere mafioso, potere contrattuale con le compagnie petrolifere occidentali che sbavano attorno ai giacimenti. Già due anni fa, alla vigilia di altre elezioni, il partito Dawa di Al Maliki e lo SCIRI (Consiglio Supremo Islamico) di Al Hakim avevano massacrato di botte l’organizzazione Al Mahdi di Moqtada al Sadr, tanto da farlo scappare a Qom, dov’è rimasto per scamparla e diventare ayatollah. Siccome questo canaio di botoli furiosi minacciava di lacerare il sostrato sul quale poggia il domino miliziano, economico, istituzionale, bancario, dell'Iran, ecco che Ahmadinejad, tolto di mezzo il prosseneta amerikano Musavi, sta impiegando il massimo impegno per ricostituire l’unità scita in Iraq.
E’ di questi giorni una serie di pressanti appelli del governo iraniano a ricomporre le fratture e tornare a riunirsi nell’ Alleanza Unita Irachena d’antan. Quella che dal 2003 al 2007, prima di spappolarsi nelle contese per l’osso, aveva governato compatta il genocidio confessionale dei sunniti e la liquidazione politica e fisica del precedente personale statale e alla quale va attribuita la maggior parte delle stragi di civili degli ultimi mesi. Nei trafiletti dei sinistri, a cui oggi è ridotta la cronaca della tuttora massima tragedia umana del mondo, una Gaza estesa per venti volte e per sei anni, si fa astutamente un fritto misto di quanto avviene tra i due fiumi: la bomba che massacra 70 civili nella riottosa Sadr City (già Saddam City) viene amalgamata all’azione dei guerriglieri di Ramadi che ha liquidato sette sbirri dei fantocci, all’autobomba di Mosul contro una caserma di militari fantoccio e all’IED che a Basra ha fatto saltare per aria tre marines. Questo indistinto borbottio di una guerra a bassa intensità (ma con più vittime di quelle ad altà intensità) che butta tutto insieme, non analizza niente. Soffia aliti di vita apparente nello spettro Al Qaida, come da briefing bushobamiano, sparge sull’interrotta mattanza i petali di una prosa accondiscendente, se non collaborativa, serve a non farci capire niente. E, non capendo niente, uno dopo un po’ si stanca di occuparsene.
La resistenza irachena è tornata, dopo essersi sottratta al “surge” di Petraeus (in cui, come a Gaza, si sparava su ogni cosa si muovesse o apparisse), a colpire quotidianamente, festeggiando così il ritiro formale delle truppe Usa nei propri acquartieramenti e smascherando con questo autentico inno alla sovranità vera la miserabile messinscena con banda dei fantocci e dei loro apologeti mediatici sinistri. Se gli americani si ritirano, ma mantengono 50mila effettivi nelle basi, 130mila mercenari per le strade e un “consigliere” Usa sulla spalla di ogni dirigente iracheno, si dice a Tehran, se contemporaneamente la Resistenza antimperialista riprende vigore e magari si esprime anche politicamente, diventa assoluta l’urgenza dell’unità tra i tentacoli sciti della piovra persiana. E negli ultimi giorni è stato un gran frullare di tonache e turbanti tra Baghdad e Tehran. Si sono visti e rivisti Al Sadr e Al Hakim, Maliki e Ahamdinejad, tutti costoro e Ali Khamenei, guida suprema, i ministri degli esteri e i presidente delle assemblee parlamentari, i capi partito e i bonzi dell’economia. L’unità sembra ristabilita. Pare che abbia avuto un ruolo decisivo quel farabutto di Ahmed Chalabi, perseguito in Giordania da una condanna a vent’anni, triplo agente Cia-Mossad-iraniano. Non durerà, perché tra questi predoni del bene pubblico (gli Usa installano solo criminali, poiché ricattabili, nei finti governi proconsolari, dal Pristina a Kabul, da Ramallah a Roma) le sfere del rispettivo ladrocinio finiscono sempre con l’essere stabilite a mazzate, in spregio a qualsiasi raccomandazione dei vicini. Intanto, però, i sunniti e gli sciti patrioti se la dovranno vedere con questo blocco antinazionale, puntellato dal potente sponsor vicino, oltreché con gli squadroni della morte Usa, composti da Navy Seals e Delta Force che, su ordine di Bush perpetuato da Obama e addestrati da specialisti israeliani, continuano a scorrazzare per l’Iraq con licenza di uccidere e torturare chiunque non accetti la sovranità da morti viventi riconosciuta dall’assassino alla vittima.
Ciò che una embedded non può, non vuole vedere
Oggi l’Iraq è un paese con due milioni di vedove di guerra, 5 milioni di orfani, 2 milioni di sfollati e 4 milioni di rifugiati all’estero che sopravvivono nell’indigenza più assoluta, in minima parte tenuti dall’UNHCR con la bocca sopra la linea di galleggiamento. Un altro milione e mezzo è stato spazzato via da 13 anni di sanzioni. In totale tra morti ammazzati e espulsi dal circuito della cittadinanza, dal futuro, quasi vent’anni di guerra imperialista all’Iraq hanno sottratto dieci milioni di persone su 25: il 40% di una nazione. Forse soltanto Re Leopoldo del Belgio, con i suoi 20 milioni di congolesi trucidati, era riuscito a far meglio. L’80% degli iracheni, secondo la riduttiva statistica ONU, ha subito ferimenti, sequestri, morte. Non c’è famiglia irachena che non abbia vissuto la scomparsa, l’incarceramento, o la soppressione dopo tortura di uno dei suoi membri. Jewad, il cui pallone finì in un fosso su un cadavere, quando aveva nove anni, non riesce più a guardare un pallone. L’incombenza dei rastrellamenti e degli arresti arbitrari da parte di milizie o guardie, dopo quelli dei 60mila incarcerati senza processo e senza avvocati dagli Usa, è costante per qualsiasi cittadino che si muova oltre le muraglie “israeliane” erette dai pulitori confessionali attorno al suo quartiere o villaggio. Tra i profughi all’estero, tenuti al margine di società, lavoro, scuola, sanità, si è inevitabilmente sviluppato la “prostituzione di sopravvivenza”. Le irachene vengono chiamate tout court “profughe puttane”. Il loro mestiere è agevolato dal fatto che nel loro paese “liberato”, in carcere o per strada, avevano già subito stupri. C’è qualche ginocrate del femminismo anti-velo che si inalberi? E dove è il mondo intellettuale, che si muove come un uomo allorchè un “dissidente”, con mensile stipendio Usa per sabotaggi vari, viene processato a Cuba, di fronte, non solo alla decimazione dell’intellighenzia e tecnocrazia irachena, ma alla dissipazione e distruzione dei beni culturali del più antico popolo civile della Terra? L’umanità ha perso e sta perdendo parte dei primi millenni della sua vicenda. I marines si portano in tinello il fregio di Nabucodonosor e tavolette cuneiformi strappate alle mura di Niniveh. Il traffico a tonnellate di reperti, poi, lo fanno i fiduciari dei grandi musei.
La disoccupazione in Iraq fluttua intorno al 60%, il 40% dei professionisti, tecnocrati, accademici ha lasciato il paese, o è stato ammazzato. 2.500 medici sono stati assassinati e le strutture sanitarie sono ridotte in rovina. Il compito di disintegrare il tessuto culturale e sanitario è affidato alle squadre speciali israeliane esperte in esecuzionni extragiudiziali mirate. Si diffondono epidemie di ogni genere, 10mila sono i casi di colera, 75mila, secondo l’OMS, sono gli affetti da Aids, morbi sconosciuti sotto Saddam. Nessuno si cura di tenere il conto della gente divorata dall’uranio (400 tonnellate nel ’91, 2000 durante l'attacco Shock and Awe), o dei bambini che – grazie a esso - nascono senza apparato genitale e con l’unico occhio sul gomito. Di diabete, parto e infarto si muore come le mosche grazie alle prolungate soste imposte ai checkpoint su modello israeliano. A nove anni dall’aggressione alla popolazione arriva solo il 50% dell’energia necessaria e solo acqua contaminata. La diarrea, in queste condizioni spesso mortale, è endemica tra i bambini. L’Eufrate, arteria di vita e fonte di alimentazione, è ridotto a un fetido fiumiciattolo, depauperato dalle non innocenti dighe turche e inquinato dagli scarichi e dalla sostituzione dei pesci con carogne umane.
Non c’è pratica, che per diritto spetti ai cittadini, la quale non costi un salasso in pizzo. Visto che tutti si strappano i capelli per l’uccisione della giornalista russa, fomentatrice di balle a uso occidentale in Cecenia, si capisce perché non vi sia tempo, neanche per i famigerati Reporters Sans Frontieres di obbedienza Cia, per enumerare i 116 giornalisti e operatori iracheni uccisi dal 2003 ad oggi. E neanche i 73 inviati stranieri, ammazzati perlopiù dai marines con fucilata in fronte. Non per nulla un addetto stampa come il colonello Ralph Peters ha scritto una direttiva per il JINSA (Istituto Ebraico per Affari di Sicurezza Nazionale), in cui è detto: "Le guerre future richiederanno censura, blackout informativi e, per finire, attacchi militari contro i media di parte”. Direttiva che in Israele si pratica da tempo. L’ha imparata pure il bravo presidente palestinese Abu Mazen, che ha cacciato da Ramallah i giornalisti di Al Jazeera perché avevano riferito di un documento che il numero due di Fatah, Faruk Kaddumi, nemico del collaborazionista fantoccio, aveva illustrato ad Amman e in cui si proverebbe la complicità di Abu Mazen, del suo sgherro Mohammed Dahlan, di un sottosegretario Usa e di Ariel Sharon nell’avvelenamento di Arafat. Del tutto verosimile.
Un’altra attività produttiva costruita ex novo da pupari e pupi è quella del traffico di organi. Con un terzo della popolazione sotto la soglia della povertà e i proventi del petrolio risucchiati nelle tasche esclusivamente dei grassatori locali e delle multinazionali, sempre più persone si vendono un organo per tirare avanti un altro paio di mesi. Per misurare il fenomeno basta mettersi davanti a uno degli ospedali privati (prima erano pubblici e invidiati dagli europei), tipo la clinica Al Khayal di Baghdad. Vi sostano in permanenza i falchetti della mediazione, accolgono gli sventurati che per far vivere la famiglia hanno deciso di mutilarsi, un rene frutta 3mila dollari, ma i clienti abbondano anche a livello internazionale e l’acquisto di quel rene può venir pagato al sensale 15mila dollari.
Tutto questo andava cancellato dalla percezione di chi avrebbe potuto schierarsi con Saddam, come si era schierato con Fidel. E’ stata lanciata una demonizzazione di massa, sulla base di mistificazioni e attribuzione di orrori, che ha fatto breccia ovunque. Dalla dimostrata bufala dei curdi gassati (lo furono, ma dagli iraniani), allo sterminio dei comunisti, dagli oppositori personalmente uccisi, alle fosse comuni. Che si incominciarono a trovare solo mesi dopo l’occupazione e sempre colme di sunniti e resistenti, uccisi poco prima. Di analogo ricordo solo lo stravolgimento in caricatura sanguinolenta di uno dei più saggi ed equi imperatori romani, Nerone, colpevole agli occhi del patriziato latifondista e usuraio e degli storiografi cristiani di aver governato bene. Da pagano, da laico e da amico della plebe. Dirmi che mi disinteresso della resistenza irachena, come di quella di ogni popolo o classe irriducibile alla schiavitù, è come dire che il mio bassotto Nando si disinteressa della sua cuccia. Enfasi? Retorica? Magniloquenza? Pazienza. Mi sono scontrato, a onorare Saddam rettificandone le calunnie, con più sbigottimento, indignazione, contestazione, scandalo, misure repressive, di quante guardie del Cardinale abbia affrontato D’Artagnan, o, più sul tema, di quante ingiurie abbiano subito i disvelatori delle menzogne su 11 settembre e conseguente “guerra infinita al terrorismo”. Un po’ di retorica ci può stare.
L’abominevole donna del “manifesto” ci ha testè offerto un’articolessa intitolata “Ritorno a Baghdad” che Hillary Clinton si è precipitata ad appendere nella bacheca del Dipartimento di Stato, a dimostrazione che anche in un “quotidiano comunista” si sostiene quello che lei, Obama, il Generale Odierno, capintesta in Iraq, e tutta la congrega del regmie-fantoccio, dichiarano: il paese torna alla normalità, le sue democratiche istituzioni funzionano e vanno definite tali e non più greppie di una banda di delinquenti comprati e installati dall’occupante, Baghdad è viva e se la spassa insieme a noi. Naturalmente, uscita dai martirologi da sequestro che per quattro anni le sono stati dedicati da torme di prefiche mediatiche e politiche, la ritornante, riconoscente agli Usa per essere stata lei solo ferita, anziché ammazzata come Calipari e il famoso “quarto uomo” in macchina con lei, contribuisce con il suo soffio da embedded alla diffusione delle fetide ventosità esufflate dai briefing di Odierno, e dagli eleganti borborigmi d Obama. Non ha messo il naso fuori dalla Zona Verde, non ha fatto un passo a Baghdad senza robocop attorno, ma il quadro è inconfutabilmente idilliaco. Nel frattempo tre marines sono stati uccisi dalla Resistenza a Basra, nel profondo Sud che si pensava appaltato tutto a sciti collaborazionisti e Iran, il ritmo degli occupanti caduti (sia militari che mercenari privati) è tornato alla media di uno al giorno, le forze di liberazione, tuttora egemonizzate dal Baath di Izaat Ibrahim Al Duri, vice di Saddam e dal Fronte Islamico laico, con la fuga dei soldati Usa dai centri e nelle loro basi, colpiscono con potenza crescente militari e forze di polizia del regime fantoccio. La proclamazione della “sovranità”, fatta giorni fa dal regime e dai suoi padrini-padroni, tra comparse festanti, uniformate e bandierate, è stata il fatto comico planetario dell’anno. Ha coinciso con un’offensiva guerrigliera, vindice dell’autentica sovranità del paese calpestato e stuprato, dall’estremo nord di Mosul, attraverso l’incontrollabile provincia centrale di Anbar e Baghdad, all’estremo sud di Basra. Il fatto è che il giochino del generale Petraeus, predecessore di Odierno e oggi impegnato a polverizzare afghani e pakistani, che consisteva nel sottrarre forze alla Resistenza per riciclarle in “Consigli del risveglio” e di autodifesa dai trapanatori sciti, è stato disintegrato da contraddizioni che l’ottusità spocchiosa dei big occidentali suscita, o non capisce.
Circa 90mila cittadini sunniti, tra i quali anche combattenti contro l’occupazione che hanno giudicato prioritaria la lotta contro la macelleria dei caporioni manovrati da Tehran per ridurre fisicamente il peso della maggioranza non scita (sunniti, cristiani, assiri, curdi, caldei) del paese, erano entrati in questi “consigli” contro assicurazione Usa che poi sarebbero stati inseriti nel “regolare” esercito iracheno. Per i sunniti era questione di vita o di morte, venivano abbattuti come quaglie ai checkpoint per avere sul documento il nome sunnita Omar. Una forte componente nelle forze statali non legata mani e piedi agli ayatollah doveva costituire un contrappeso allo stivale persiano che arrivava in Iraq con lo zaino pieno di direttive per il governo-vassallo, armi per i tagliagole delle milizie di Moqtada al Sadr, Maliki, El Hakim, e scatoloni di schede già votate nelle varie tornate-farsa. Tehran, nella crisi da sovraespozione militare ed economica di Washington, rischiava di diventare il nemico principale, mentre per gli Usa si trattava di ridurre a più miti consigli la foia espansiva del alleato-rivale. Per gli stessi obiettivi i dietrologi di Pentagono e Dipartimento di Stato hanno poi allestito la sollevazione della frustrata borghesia filo-occidentale di Tehran Alta: era auspicabile, non solo per placare –o alimentare - la frenesia bellica di Israele, ma per sistemare le cose irachene in modo meno pro domo iraniana, un soggetto meno ostico e autonomo, meno nazionalista, del presidente Ahmadinejad, una coppia fidata, collaudata, intima di Langley, come Mir-Hossein Musavi e il corrotto, riccattibilissimo satrapo Alì Rafsanjani. Discorso che poteva andar bene a sunniti e statunitensi, ma certamente non alla cupola della setta integralista installata dal duo Usa-Iran a Baghdad. Non solo l’innesto delle milizie sunnite nell’esercito confessionalmente pulito fu negato, ogni promessa di riabilitazione e riammissione nelle strutture dello Stato dei cosiddetti “saddamiti” rimangiata, ma le milizie di Maliki e soci pretesero il disarmo dei consigli e presero ad arrestarli e decimarli. Simultaneamente sono tornate a esplodere le bombe nei mercati e nelle moschee con centinaia di vittime civili. Il modulo è quello “11 settembre”, attivato mediante la distruzione della cupola d’oro di Samarra, nel 2006: attentati nelle aree affollate scite in modo da riscatenare quella guerra civile con la quale gli uni – Usa – speravano che lo scontro anti-occupante si spostasse tra le comunità confessionali, e gli altri – Tehran e gli sciti – contavano di completare la liquidazione dei sunniti, in chiave Gaza, visti come l’acqua del pesce della Resistenza nazionale. Anche stavolta colpite da autobombe sono soprattutto le zone a varia denominazione scita e una Sgrena ne darebbe subito la responsabilità a sunniti e Al Qaida (l’ectoplasma cui danno sostanza gli agenti Cia e Mossad e il cui nome viene ormai affibbiato a qualsiasi singulto anti-occidentale da Caracas a Pyongyang).
Ma a volte quel comodo due più due, che fa il quattro dell’ottuso ”senso comune”, deborda e fa cinque e scompiglia l'ordine previsto. Alla luce delle elezioni amministrative previste per Novembre, rimangono altre due motivazioni della ripresa stragista, assai più attendibili: rilanciare la guerra confessionale per la definitiva liquidazione di una presenza politica sunnita che ha dato segni crescenti di vita e, oggi prioritario, stabilire a forza di massacri chi debba accaparrarsi i pezzi più succulenti di territorio, risorse, potere mafioso, potere contrattuale con le compagnie petrolifere occidentali che sbavano attorno ai giacimenti. Già due anni fa, alla vigilia di altre elezioni, il partito Dawa di Al Maliki e lo SCIRI (Consiglio Supremo Islamico) di Al Hakim avevano massacrato di botte l’organizzazione Al Mahdi di Moqtada al Sadr, tanto da farlo scappare a Qom, dov’è rimasto per scamparla e diventare ayatollah. Siccome questo canaio di botoli furiosi minacciava di lacerare il sostrato sul quale poggia il domino miliziano, economico, istituzionale, bancario, dell'Iran, ecco che Ahmadinejad, tolto di mezzo il prosseneta amerikano Musavi, sta impiegando il massimo impegno per ricostituire l’unità scita in Iraq.
E’ di questi giorni una serie di pressanti appelli del governo iraniano a ricomporre le fratture e tornare a riunirsi nell’ Alleanza Unita Irachena d’antan. Quella che dal 2003 al 2007, prima di spappolarsi nelle contese per l’osso, aveva governato compatta il genocidio confessionale dei sunniti e la liquidazione politica e fisica del precedente personale statale e alla quale va attribuita la maggior parte delle stragi di civili degli ultimi mesi. Nei trafiletti dei sinistri, a cui oggi è ridotta la cronaca della tuttora massima tragedia umana del mondo, una Gaza estesa per venti volte e per sei anni, si fa astutamente un fritto misto di quanto avviene tra i due fiumi: la bomba che massacra 70 civili nella riottosa Sadr City (già Saddam City) viene amalgamata all’azione dei guerriglieri di Ramadi che ha liquidato sette sbirri dei fantocci, all’autobomba di Mosul contro una caserma di militari fantoccio e all’IED che a Basra ha fatto saltare per aria tre marines. Questo indistinto borbottio di una guerra a bassa intensità (ma con più vittime di quelle ad altà intensità) che butta tutto insieme, non analizza niente. Soffia aliti di vita apparente nello spettro Al Qaida, come da briefing bushobamiano, sparge sull’interrotta mattanza i petali di una prosa accondiscendente, se non collaborativa, serve a non farci capire niente. E, non capendo niente, uno dopo un po’ si stanca di occuparsene.
La resistenza irachena è tornata, dopo essersi sottratta al “surge” di Petraeus (in cui, come a Gaza, si sparava su ogni cosa si muovesse o apparisse), a colpire quotidianamente, festeggiando così il ritiro formale delle truppe Usa nei propri acquartieramenti e smascherando con questo autentico inno alla sovranità vera la miserabile messinscena con banda dei fantocci e dei loro apologeti mediatici sinistri. Se gli americani si ritirano, ma mantengono 50mila effettivi nelle basi, 130mila mercenari per le strade e un “consigliere” Usa sulla spalla di ogni dirigente iracheno, si dice a Tehran, se contemporaneamente la Resistenza antimperialista riprende vigore e magari si esprime anche politicamente, diventa assoluta l’urgenza dell’unità tra i tentacoli sciti della piovra persiana. E negli ultimi giorni è stato un gran frullare di tonache e turbanti tra Baghdad e Tehran. Si sono visti e rivisti Al Sadr e Al Hakim, Maliki e Ahamdinejad, tutti costoro e Ali Khamenei, guida suprema, i ministri degli esteri e i presidente delle assemblee parlamentari, i capi partito e i bonzi dell’economia. L’unità sembra ristabilita. Pare che abbia avuto un ruolo decisivo quel farabutto di Ahmed Chalabi, perseguito in Giordania da una condanna a vent’anni, triplo agente Cia-Mossad-iraniano. Non durerà, perché tra questi predoni del bene pubblico (gli Usa installano solo criminali, poiché ricattabili, nei finti governi proconsolari, dal Pristina a Kabul, da Ramallah a Roma) le sfere del rispettivo ladrocinio finiscono sempre con l’essere stabilite a mazzate, in spregio a qualsiasi raccomandazione dei vicini. Intanto, però, i sunniti e gli sciti patrioti se la dovranno vedere con questo blocco antinazionale, puntellato dal potente sponsor vicino, oltreché con gli squadroni della morte Usa, composti da Navy Seals e Delta Force che, su ordine di Bush perpetuato da Obama e addestrati da specialisti israeliani, continuano a scorrazzare per l’Iraq con licenza di uccidere e torturare chiunque non accetti la sovranità da morti viventi riconosciuta dall’assassino alla vittima.
Ciò che una embedded non può, non vuole vedere
Oggi l’Iraq è un paese con due milioni di vedove di guerra, 5 milioni di orfani, 2 milioni di sfollati e 4 milioni di rifugiati all’estero che sopravvivono nell’indigenza più assoluta, in minima parte tenuti dall’UNHCR con la bocca sopra la linea di galleggiamento. Un altro milione e mezzo è stato spazzato via da 13 anni di sanzioni. In totale tra morti ammazzati e espulsi dal circuito della cittadinanza, dal futuro, quasi vent’anni di guerra imperialista all’Iraq hanno sottratto dieci milioni di persone su 25: il 40% di una nazione. Forse soltanto Re Leopoldo del Belgio, con i suoi 20 milioni di congolesi trucidati, era riuscito a far meglio. L’80% degli iracheni, secondo la riduttiva statistica ONU, ha subito ferimenti, sequestri, morte. Non c’è famiglia irachena che non abbia vissuto la scomparsa, l’incarceramento, o la soppressione dopo tortura di uno dei suoi membri. Jewad, il cui pallone finì in un fosso su un cadavere, quando aveva nove anni, non riesce più a guardare un pallone. L’incombenza dei rastrellamenti e degli arresti arbitrari da parte di milizie o guardie, dopo quelli dei 60mila incarcerati senza processo e senza avvocati dagli Usa, è costante per qualsiasi cittadino che si muova oltre le muraglie “israeliane” erette dai pulitori confessionali attorno al suo quartiere o villaggio. Tra i profughi all’estero, tenuti al margine di società, lavoro, scuola, sanità, si è inevitabilmente sviluppato la “prostituzione di sopravvivenza”. Le irachene vengono chiamate tout court “profughe puttane”. Il loro mestiere è agevolato dal fatto che nel loro paese “liberato”, in carcere o per strada, avevano già subito stupri. C’è qualche ginocrate del femminismo anti-velo che si inalberi? E dove è il mondo intellettuale, che si muove come un uomo allorchè un “dissidente”, con mensile stipendio Usa per sabotaggi vari, viene processato a Cuba, di fronte, non solo alla decimazione dell’intellighenzia e tecnocrazia irachena, ma alla dissipazione e distruzione dei beni culturali del più antico popolo civile della Terra? L’umanità ha perso e sta perdendo parte dei primi millenni della sua vicenda. I marines si portano in tinello il fregio di Nabucodonosor e tavolette cuneiformi strappate alle mura di Niniveh. Il traffico a tonnellate di reperti, poi, lo fanno i fiduciari dei grandi musei.
La disoccupazione in Iraq fluttua intorno al 60%, il 40% dei professionisti, tecnocrati, accademici ha lasciato il paese, o è stato ammazzato. 2.500 medici sono stati assassinati e le strutture sanitarie sono ridotte in rovina. Il compito di disintegrare il tessuto culturale e sanitario è affidato alle squadre speciali israeliane esperte in esecuzionni extragiudiziali mirate. Si diffondono epidemie di ogni genere, 10mila sono i casi di colera, 75mila, secondo l’OMS, sono gli affetti da Aids, morbi sconosciuti sotto Saddam. Nessuno si cura di tenere il conto della gente divorata dall’uranio (400 tonnellate nel ’91, 2000 durante l'attacco Shock and Awe), o dei bambini che – grazie a esso - nascono senza apparato genitale e con l’unico occhio sul gomito. Di diabete, parto e infarto si muore come le mosche grazie alle prolungate soste imposte ai checkpoint su modello israeliano. A nove anni dall’aggressione alla popolazione arriva solo il 50% dell’energia necessaria e solo acqua contaminata. La diarrea, in queste condizioni spesso mortale, è endemica tra i bambini. L’Eufrate, arteria di vita e fonte di alimentazione, è ridotto a un fetido fiumiciattolo, depauperato dalle non innocenti dighe turche e inquinato dagli scarichi e dalla sostituzione dei pesci con carogne umane.
Non c’è pratica, che per diritto spetti ai cittadini, la quale non costi un salasso in pizzo. Visto che tutti si strappano i capelli per l’uccisione della giornalista russa, fomentatrice di balle a uso occidentale in Cecenia, si capisce perché non vi sia tempo, neanche per i famigerati Reporters Sans Frontieres di obbedienza Cia, per enumerare i 116 giornalisti e operatori iracheni uccisi dal 2003 ad oggi. E neanche i 73 inviati stranieri, ammazzati perlopiù dai marines con fucilata in fronte. Non per nulla un addetto stampa come il colonello Ralph Peters ha scritto una direttiva per il JINSA (Istituto Ebraico per Affari di Sicurezza Nazionale), in cui è detto: "Le guerre future richiederanno censura, blackout informativi e, per finire, attacchi militari contro i media di parte”. Direttiva che in Israele si pratica da tempo. L’ha imparata pure il bravo presidente palestinese Abu Mazen, che ha cacciato da Ramallah i giornalisti di Al Jazeera perché avevano riferito di un documento che il numero due di Fatah, Faruk Kaddumi, nemico del collaborazionista fantoccio, aveva illustrato ad Amman e in cui si proverebbe la complicità di Abu Mazen, del suo sgherro Mohammed Dahlan, di un sottosegretario Usa e di Ariel Sharon nell’avvelenamento di Arafat. Del tutto verosimile.
Un’altra attività produttiva costruita ex novo da pupari e pupi è quella del traffico di organi. Con un terzo della popolazione sotto la soglia della povertà e i proventi del petrolio risucchiati nelle tasche esclusivamente dei grassatori locali e delle multinazionali, sempre più persone si vendono un organo per tirare avanti un altro paio di mesi. Per misurare il fenomeno basta mettersi davanti a uno degli ospedali privati (prima erano pubblici e invidiati dagli europei), tipo la clinica Al Khayal di Baghdad. Vi sostano in permanenza i falchetti della mediazione, accolgono gli sventurati che per far vivere la famiglia hanno deciso di mutilarsi, un rene frutta 3mila dollari, ma i clienti abbondano anche a livello internazionale e l’acquisto di quel rene può venir pagato al sensale 15mila dollari.
Fuori da qualsiasi circuito che offra trucchi per sopravvivere sono rimasti i 40mila palestinesi, un tempo ospitati, nell’Iraq libero e solidale, in un bel quartiere costruito per loro. Non dava Saddam, fino all’ultimo giorno prima dell’arrivo dei barbari, il 9 aprile, a ogni famiglia palestinese che avesse perso un martire 10mila dollari e 20mila per ricostruire la casa abbattuta dalle ruspe israeliane? Ne sono stato testimone diretto. Ridotti a poche migliaia per le esecuzioni di massa subite come punizione per essere stati cari a Saddam, i superstiti sono stati collocati fuori dal mondo. Non dal pianeta, giacchè li hanno accampati nella terra di nessuno tra Iraq, Siria e Giordania. Da lì, dove sono abbandonati a se stessi, al deserto, alle tarantole, alle epidemie, alla fame e alla sete, con qualche goccia proveniente da agenzie ONU, non possono muoversi, né avanti, né indietro, Oltre 4mila palestinesi, considerati meno dei disperati ma resistenti cittadini di Gaza, stanno lì da anni, da quando i tagliagole sciti li avevano cacciati rubandone le case. Attendati in cinque campi con intorno filo spinato e poi il nulla del deserto, senza che nessuna alba gli faccia balenare mai anche solo una scheggia di luce.
Dove sono le associazioni, i comitati, gli appelli, i convegni e i cortei degli amici della Palestina che denuncino questo orrore, questa punizione collettiva senza fine? Anche per i compagni internazionalisti questi palestinesi sono da lasciar perdere perché un tempo sostenuti da Saddam? Incidentalmente, questa accidia non colpisce forse anche Ahmed Sa’adat, il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che i pirati israeliani di Sharon rapirono cinque anni fa dalla prigione di Hebron, sotto controllo angloamericano, e condannarono a trent’anni, esclusivamente per il suo ruolo di capo? Ne taceva Arafat, ne tace più che soddisfatto Abu Mazen, ne tacciono le organizzazioni filopalestinesi e gli stessi compagni del FPLP non paiono muoversi un granchè. Negli Usa è stata lanciata una massiccia campagna per la liberazione di questo grande leader della Resistenza laica e panaraba. Forse qualcuno, oltre ai nazisionisti, ha interesse acchè Sa’adat resti fuorigioco. Con lui Marwan Barghuti, leader dell'Intifada, condannato a sei grotteschi ergastoli, che, fuori, in un attimo farrebbe piazza pulita del verminaio ANP.
Questo è l’Iraq che Giuliana Sgrena sul posto e tutti gli altri fuori posto non hanno visto, non hanno voluto vedere. Si sarebbe potuta increspare la fronte di Barack Obama che all’Iraq ha promesso il ritiro, sovranità e tanti buffetti. Cose peraltro garantite in perpetuo da 50 basi, 50mila soldati, 130mila contractors, un controllore USA su ogni sospiro governativo e militare, gli squadroni della morte e, se non basta, Abu Ghraib e le extraordinary renditions in carceri segrete di elementi specializzati, testè confermate da Obama. Purchè continuino le procedure di spopolamento: dove c’è petrolio non c’è bisogno di gente. Soprattutto quando continua a esserci chi promette di combattere fino a quando quella gente e quel petrolio e quella sovranità si ritrovino uniti, a ballare, con i popoli del mondo, sulla tomba dei necrocrati venuti da fuori e che contavano di divorarne la vita con l’aiuto di vermi autoctoni specializzati in putrefazione.
Nel borgo in cui vivo, una giunta comunale classicamente italiota, dal PD all’Udc e a elementi fascisti, ha appeso in giro un manifesto per il parà italiano da poco ucciso in Afghanistan. Il discorso della solidarietà è esteso “all’esercito italiano che da sempre è impegnato nella difesa della pace e della libertà”. Da scompisciarsi di riso nevrotico. Infatti, anche qui non ci resta che piangere, o piuttosto attaccare a questa fandonia storica le vicende dei 150 anni di un esercito difensore di pace e libertà. Da Bava Beccaris a casa sua, alla Libia dove si è fatto spedire da Giolitti e da Mussolini a trattare un popolo come fossero tonni nella tonnara; dall’Etiopia gassata in massa e con i resistenti appesi a tutti gli alberi da Addis Abeba al confine con Gibuti, ai 600mila mandati inutilmente a morire da generali e mercanti di cannone quando l’Austria aveva già promesso Trento e Trieste; dalla seconda guerra servita ad ammazzare e farsi ammazzare a milioni per far felici i soliti psicopatici del dominio mondiale, con particolare prove di efferatezza fascista in Grecia e Albania, all’assalto proditorio e genocida contro una Jugoslavia renitente al Nuovo Ordine Mondiale degli psicopatici; dalla Somalia da spappolare perché zitta zitta riceva le nostre schifezze chimiche e nucleari (con tanto di torture parà a somali e somale) e ci faccia depredare i suoi mari, al duplice assalto all’Iraq e poi all’Afghanistan, al Libano, al Kosovo, tutti inoffensivi, tutti innocenti. Comunque, come è del tutto evidente, sempre nel segno della “difesa della pace e della libertà”. Italiani, brava gente.
Dove sono le associazioni, i comitati, gli appelli, i convegni e i cortei degli amici della Palestina che denuncino questo orrore, questa punizione collettiva senza fine? Anche per i compagni internazionalisti questi palestinesi sono da lasciar perdere perché un tempo sostenuti da Saddam? Incidentalmente, questa accidia non colpisce forse anche Ahmed Sa’adat, il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che i pirati israeliani di Sharon rapirono cinque anni fa dalla prigione di Hebron, sotto controllo angloamericano, e condannarono a trent’anni, esclusivamente per il suo ruolo di capo? Ne taceva Arafat, ne tace più che soddisfatto Abu Mazen, ne tacciono le organizzazioni filopalestinesi e gli stessi compagni del FPLP non paiono muoversi un granchè. Negli Usa è stata lanciata una massiccia campagna per la liberazione di questo grande leader della Resistenza laica e panaraba. Forse qualcuno, oltre ai nazisionisti, ha interesse acchè Sa’adat resti fuorigioco. Con lui Marwan Barghuti, leader dell'Intifada, condannato a sei grotteschi ergastoli, che, fuori, in un attimo farrebbe piazza pulita del verminaio ANP.
Questo è l’Iraq che Giuliana Sgrena sul posto e tutti gli altri fuori posto non hanno visto, non hanno voluto vedere. Si sarebbe potuta increspare la fronte di Barack Obama che all’Iraq ha promesso il ritiro, sovranità e tanti buffetti. Cose peraltro garantite in perpetuo da 50 basi, 50mila soldati, 130mila contractors, un controllore USA su ogni sospiro governativo e militare, gli squadroni della morte e, se non basta, Abu Ghraib e le extraordinary renditions in carceri segrete di elementi specializzati, testè confermate da Obama. Purchè continuino le procedure di spopolamento: dove c’è petrolio non c’è bisogno di gente. Soprattutto quando continua a esserci chi promette di combattere fino a quando quella gente e quel petrolio e quella sovranità si ritrovino uniti, a ballare, con i popoli del mondo, sulla tomba dei necrocrati venuti da fuori e che contavano di divorarne la vita con l’aiuto di vermi autoctoni specializzati in putrefazione.
Nel borgo in cui vivo, una giunta comunale classicamente italiota, dal PD all’Udc e a elementi fascisti, ha appeso in giro un manifesto per il parà italiano da poco ucciso in Afghanistan. Il discorso della solidarietà è esteso “all’esercito italiano che da sempre è impegnato nella difesa della pace e della libertà”. Da scompisciarsi di riso nevrotico. Infatti, anche qui non ci resta che piangere, o piuttosto attaccare a questa fandonia storica le vicende dei 150 anni di un esercito difensore di pace e libertà. Da Bava Beccaris a casa sua, alla Libia dove si è fatto spedire da Giolitti e da Mussolini a trattare un popolo come fossero tonni nella tonnara; dall’Etiopia gassata in massa e con i resistenti appesi a tutti gli alberi da Addis Abeba al confine con Gibuti, ai 600mila mandati inutilmente a morire da generali e mercanti di cannone quando l’Austria aveva già promesso Trento e Trieste; dalla seconda guerra servita ad ammazzare e farsi ammazzare a milioni per far felici i soliti psicopatici del dominio mondiale, con particolare prove di efferatezza fascista in Grecia e Albania, all’assalto proditorio e genocida contro una Jugoslavia renitente al Nuovo Ordine Mondiale degli psicopatici; dalla Somalia da spappolare perché zitta zitta riceva le nostre schifezze chimiche e nucleari (con tanto di torture parà a somali e somale) e ci faccia depredare i suoi mari, al duplice assalto all’Iraq e poi all’Afghanistan, al Libano, al Kosovo, tutti inoffensivi, tutti innocenti. Comunque, come è del tutto evidente, sempre nel segno della “difesa della pace e della libertà”. Italiani, brava gente.
lunedì 20 luglio 2009
"SMART POWER" DI OBAMA IN CENTROAMERICA: POLIZIOTTO BUONO E POLIZIOTTO CATTIVO. Il golpe per riprendersi l'America Latina che imbarazza i sinistri.
Uomini avidi e feroci, insoddisfatti della loro condizione, sono anche uomini che ambiscono al comando militare e sono portati a provocare e prolungare le ragioni delle guerre, a innescare scontri e sedizioni. Giacchè non esiste onore per il militare che nella guerra, né speranza di aggiustare qualcosa che non va se non provocando nuovi sconvolgimenti.
(Thomas Hobbes, Leviatano, Parte 1, capitolo 11)
Ho un’idea grave della stampa. E’ il tappetino sotto il letto della democrazia.
(A.J. Liebling)
Nulla è più facile dell’autoinganno. Perché ciò che un uomo desidera, lo ritiene anche vero.
(Demostene)
Finchè la gente crede in assurdità continuerà a commettere atrocità.
(Voltaire)
Notiziola sinistra 1. Per giorni dopo il colpo di Stato fascista in Honduras, la stampa sinistra (e sappiamo di chi parliamo) ha dedicato a questa controffensiva imperialista in America Latina trafiletti dalle 8 alle 12 righe. Il resto della pagina magnificava gli ultimi sussulti della rivoluzione yuppie a Tehran. Nessuna menzione della notizia, del tutto credibile alla luce della tradizione, che i servizi segreti israeliani avrebbero complottato con l’opposizione iraniana (I Mujaheddin del Popolo, oggi mercenari degli Usa) per uccidere il presidente Mahmud Ahmadinejad, già complice degli USraeliani nel massacro dell’Iraq, ma ora rivale da nuclearizzare per l’egemonia nella regione. Sinistri e destri italioti hanno praticato il silenzio-assenso.
Notiziola sinistra 2. Sul “manifesto” (e dove se no) appare una manchette della rivista bertinottian-fagioliana “Left”. Il Capo dello Stato ha appena firmato il passo più lungo verso lo Stato di mafio-polizia fatto dal governo con il Pacchetto Sicurezza: reato di clandestinità e ronde. Siamo al modello Iraq: criminalizzazione e sterminio dei sunniti (qui migranti e non omologhi), milizie di ras locali a persecuzione dei diversi e alla frantumazione del paese nella corsa al bottino. Ma “Left” ritiene che tutto questo meriti inni, osanna, standing ovations e dedica tutto il suo numero a quello che “Obama ha definito un grande leader” (e non ti pareva) e che “Left” definisce “l’unica difesa della nostra democrazia: ecco chi è il presidente Napolitano”. Mi cojioni!
Notiziona tout court: Tito Stagno riesumato, celebrazioni, ovazioni, commozioni, grande promozione yankee, per l’anniversario della truffa nixoniana del “primo uomo sulla luna”, di portata di poco inferiore a quella paolina di Gesù e a quella bushiana dell’11 settembre. Chi parla più dell’ ”inconveniente” Honduras, o dell’organizzazione con licenza di torturare e uccidere di Cheney e Cia che Obama caccia sotto il tappeto? Sulla luna non ci è mai arrivato nessuno. Troppo tardi la Nasa si è accorta delle fotoelettriche all’orizzonte delle riprese lunari che, oltre tutto, rovesciavano le ombre degli “astronauti” in direzione contraria a quella del sole. Di queste prove ce ne sono decine e tutte documentate in ampia letteratura. Ma, come sulle Torri Gemelle e sull’Obama del “cambio”, è più comodo navigare nel flusso.
Non importa se, come alcuni speculano, ansiosi di non interrompere il processo “Obama, santo subito!”, il presidente degli Stati Uniti, troppo preso dalle sue mattanze in Af-Pak (“Il manifesto” le chiama Exit strategy) e dal suo sostegno a nazisionisti e color-rivoluzionari qui e là, sia stato tenuto all’oscuro del golpe dei suoi gorilla honduregni. Personalmente non credo che, dopo guerre, immunità ai torturatori, conferma del massacro delle libertà civili da questo Zio Tom con gli artigli concesse ai presunti congiurati neocon, John McCain e Hillary Clinton in testa, costoro abbiano potuto e voluto aggirarlo su una questione così strategica per gli Usa. Dopotutto chi ha messo al loro posto i sicuri mandanti diretti del golpe, direttamente in controllo di tutti i corrispondenti apparati honduregni: il ministro della difesa, Gates, il capo della Cia, Panetta, la capa del Dipartimento di Stato Clinton? E da questi suoi fiduciari massimi si sarebbe lasciato trappolare?
(Demostene)
Finchè la gente crede in assurdità continuerà a commettere atrocità.
(Voltaire)
Notiziola sinistra 1. Per giorni dopo il colpo di Stato fascista in Honduras, la stampa sinistra (e sappiamo di chi parliamo) ha dedicato a questa controffensiva imperialista in America Latina trafiletti dalle 8 alle 12 righe. Il resto della pagina magnificava gli ultimi sussulti della rivoluzione yuppie a Tehran. Nessuna menzione della notizia, del tutto credibile alla luce della tradizione, che i servizi segreti israeliani avrebbero complottato con l’opposizione iraniana (I Mujaheddin del Popolo, oggi mercenari degli Usa) per uccidere il presidente Mahmud Ahmadinejad, già complice degli USraeliani nel massacro dell’Iraq, ma ora rivale da nuclearizzare per l’egemonia nella regione. Sinistri e destri italioti hanno praticato il silenzio-assenso.
Notiziola sinistra 2. Sul “manifesto” (e dove se no) appare una manchette della rivista bertinottian-fagioliana “Left”. Il Capo dello Stato ha appena firmato il passo più lungo verso lo Stato di mafio-polizia fatto dal governo con il Pacchetto Sicurezza: reato di clandestinità e ronde. Siamo al modello Iraq: criminalizzazione e sterminio dei sunniti (qui migranti e non omologhi), milizie di ras locali a persecuzione dei diversi e alla frantumazione del paese nella corsa al bottino. Ma “Left” ritiene che tutto questo meriti inni, osanna, standing ovations e dedica tutto il suo numero a quello che “Obama ha definito un grande leader” (e non ti pareva) e che “Left” definisce “l’unica difesa della nostra democrazia: ecco chi è il presidente Napolitano”. Mi cojioni!
Notiziona tout court: Tito Stagno riesumato, celebrazioni, ovazioni, commozioni, grande promozione yankee, per l’anniversario della truffa nixoniana del “primo uomo sulla luna”, di portata di poco inferiore a quella paolina di Gesù e a quella bushiana dell’11 settembre. Chi parla più dell’ ”inconveniente” Honduras, o dell’organizzazione con licenza di torturare e uccidere di Cheney e Cia che Obama caccia sotto il tappeto? Sulla luna non ci è mai arrivato nessuno. Troppo tardi la Nasa si è accorta delle fotoelettriche all’orizzonte delle riprese lunari che, oltre tutto, rovesciavano le ombre degli “astronauti” in direzione contraria a quella del sole. Di queste prove ce ne sono decine e tutte documentate in ampia letteratura. Ma, come sulle Torri Gemelle e sull’Obama del “cambio”, è più comodo navigare nel flusso.
Non importa se, come alcuni speculano, ansiosi di non interrompere il processo “Obama, santo subito!”, il presidente degli Stati Uniti, troppo preso dalle sue mattanze in Af-Pak (“Il manifesto” le chiama Exit strategy) e dal suo sostegno a nazisionisti e color-rivoluzionari qui e là, sia stato tenuto all’oscuro del golpe dei suoi gorilla honduregni. Personalmente non credo che, dopo guerre, immunità ai torturatori, conferma del massacro delle libertà civili da questo Zio Tom con gli artigli concesse ai presunti congiurati neocon, John McCain e Hillary Clinton in testa, costoro abbiano potuto e voluto aggirarlo su una questione così strategica per gli Usa. Dopotutto chi ha messo al loro posto i sicuri mandanti diretti del golpe, direttamente in controllo di tutti i corrispondenti apparati honduregni: il ministro della difesa, Gates, il capo della Cia, Panetta, la capa del Dipartimento di Stato Clinton? E da questi suoi fiduciari massimi si sarebbe lasciato trappolare?
Roba da dimissioni immediate per inettitudine politica e sputtanamento pubblico, o da messa alla porta dei presunti colpevoli (di alto tradimento!) di un tentativo di sostituire allo smart power (potere brillante) diplomatico-militare dell’ “uomo della svolta”, il vecchio sistema Usa delle operazioni sporche, dei colpi di Stato, delle mazzate militari. Del resto non era, Obama, chiassosamente dietro a qualcosa di molto simile a un golpe come la jacquerie borghese iraniana, la guerra al governo di Hamas a Gaza e tramite Abu Mazen, il ricatto al presidente pakistano : O massacri la tua gente Pashtun, ribelle al dominio Usa, o ti freghiamo le atomiche e ti tagliamo i viveri ? C’è forse ancora autodeterminazione in Pakistan? Non fa molta differenza che Obama si sia fatto gabbare (o abbia fatto finta), o che sia stato il mandante diretto dei fascisti honduregni. Nel primo caso è uno sprovveduto flaccidone che non ha saputo imporre la presunta autorità del presidente degli Stati Uniti. Nel secondo è quello che tutti, tranne i sinistri, sanno. In ogni caso, di questo presidente taumaturgo e onnipotente si è parlato fin troppo e a vanvera. Qualsiasi cosa faccia o non faccia, rimane appeso ai fili dei burattinai di Wall Street, delle corporations e del Pentagono e, nel caso dell’Honduras, dei predatori agroalimentari, armaioli e farmaceutici che da un secolo stanno attaccati alla giugulare di quel paese. In questo caso per ammazzare l’Honduras si è scelto il classico del poliziotto buono e di quello cattivo. Da un lato le operazioni sporche e il colpo militare, dall’altro la diplomazia, le cortine di fumo, la simmetria del cicaleggio sul “dialogo”. Straparlare di Obama, per la spinta di pancia che ai sinistri e non fa sempre cattolicamente sognare il “capo buono e onnipotente”, ideale per deleghe deresponsabilizzanti, significa sparare a un “falso scopo” e occultare il bersaglio vero. “Il governo è il reparto intrattenimento del complesso militar industriale", diceva Frank Zappa.
Ma per inserire Obama nel complotto teso a schiavizzare e spremere fino al midollo il popolo honduregno e, a seguire, tutti gli altri divergenti o disobbedienti dell’America Latina, i motivi e i fatti ci sono. Anche se “il manifesto”, sbilanciatosi oltre ogni contegno e lucidità a favore dell’ “uomo del cambio” e ammucchiate sotto il tappeto le migliaia di civili afgan-pakistan da lui polverizzati, l’aumento del bilancio militare, il salvataggio dei banchieri briganti, tenta di esimere il suo idolo nero addossando la mossa honduregna per intero ai cattivoni post-bushiani che lo avrebbero incastrato nel fatto compiuto. Un po’ come quel fantoccio-gangster di Saakashvili quando volle tirarsi dietro gli Usa nell’attacco all’Ossezia. O come Netaniahu con gli espropri e le colonie a Gerusalemme, “eterna capitale unita di Israele”, a dispetto delle perorazioni obamiane di non “allargarsi”. Fosse anche vero, e non credo lo sia, tutto quello che hanno fatto la coppia Obama-Clinton dal giorno dopo il golpe li rende responsabili della sua riuscita e del suo consolidamento. Obama, al di là di deplorare una indistinta “violenza” (di tutte le parti) e auspicare il ripristino dell’ordine costituzionale e il dialogo tra assassino e vittima, con una simmetria drasticamente asimmetrica che ricorda quella tra Stato ebraico e Stato palestinese, NON ha definito ufficialmente golpe il golpe. Di conseguenza NON ha applicato una legge che, come ha subito fatto Chavez con il petrolio, imporrebbe il taglio immediato di tutta l’assistenza economica e militare all’Honduras, taglio che farebbe crollare il regime come un castello di carte. NON ha interrotto la collaborazione tra il Pentagono e le forze armate honduregne. NON ha ritirato l’ambasciatore USA. NON ha pronunciato la minima condanna o presa di distanza dai crimini dalla repressione successivi al golpe: rapimenti, uccisioni, sparizioni, fuoco sui manifestanti, blocco di internet e chiusura dei piccoli media critici. Ha rifiutato ripetutamente l’incontro con Zelaya. Non ha mai smentito il superfalco Hillary Clinton nella sua affermazione che non si tratta di golpe e che “vanno considerati entrambi gli aspetti della storia”. NON ha mai preteso il ritorno di Zelaya alla presidenza. NON ha affermato che non c’era niente da negoziare tra golpisti e destituiti, ma ha consentito, con la truffa della “mediazione” del fantoccio costaricano Oscar Arias, Premio Nobel per meriti analoghi a quelli di Kissinger, Begin, Sadat, che la cricca di Tegucigalpa guadagnasse tempo e implicitamente si consolidasse. Magari fino ad avvicinarsi alla scadenza di novembre, quando una nuova elezione del Capo di Stato spariglierebbe l’intera partita costituzionale e le elezioni, in presa diretta golpista, potrebbero essere manipolate alla messicana. NON ha trovato nulla da ridire quando la costola della Lega in Honduras ha nominato suo vice – ministro della Presidenza - nientemeno che un vecchio serial killer delle campagne genocide di Reagan in Centroamerica: Billy Joya.
Niente poteva essere più indicativo della direzione impressa al loro progetto dai golpisti e dai loro mandanti Usa che la scelta del fidato, esperto, Billy Joya. A capo di due squadroni della morte, B3-16 e “Lince” dal 1984 al 1991, l’ex-borsista di Pinochet e istruttore dei generali argentini venne accusato di una serie agghiacciante di assassini, stragi, torture. Fu salvato per grazie della normalmente fascisteggiante Chiesa Cattolica honduregna e sistemato al Collegio San José de los Sagrados Corazones di Siviglia. L’uomo giusto al posto giusto, specie se si pensa alla sua rinnovata partnership con elementi come John Negroponte, inventore e duce di squadroni della morte propri lì, ai tempi dei Contra, e poi in Iraq, e il terrorista mafiocubano Otto Reich, assurto al rango di sottosegretario agli affari latinoamericani, entrambi incaricati dall’amministrazione Obama di occuparsi della cosa. Auguriamoci che la promessa del presidente rapito e espulso di rientrare nel paese in tempi ravvicinati, per insediare in zona sottratta alla giunta il suo governo legittimo, possa realizzarsi. Ciò costringerebbe la vasta compagnia dei deprecatori del golpe, dall’Assemblea dell’ONU all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), da organismi internazionali come FMI e BM ai numerosi governi che hanno ritirato gli ambasciatori, a marcare il punto e boicottare come fuorilegge il regime del bergamasco Micheletti (chissà gli orgasmi intanto procurati ai suoi corregionali ed emuli verdi). Sarà divertente vedere come gli Usa si trarrebbero d’impiccio.
In campo ci sono ora due debolezze e due forze. Una debolezze è la “mediazione” imposta allo spodestato Manuel Zelaya, con il corredo di compromessi a perdere (amnistie per tutti, governi di unità nazionale...) che traspirano dalle mene di Arias, la dove non c’era assolutamente niente da mediare, nella speranza che Zelaya si riduca a un Abu Mazen qualsiasi, ritirando le misure per i poveri (sanità, scuola, salari, latte ai bambini, elettricità ai vilaggi) e le intese con gli Stati progressisti (ALBA, Petrocaribe) e abbandonando la chimera di tagliare le unghie all’oligarchia e alle corporations Usa con una nuova costituzione. Costituzione progressista che, sull’esempio venezuelano, boliviano, ecuadoriano, ridesse sovranità a questa marca Usa, vita e diritti a un popolo depredato e insanguinato più e per più tempo di qualsiasi altro nel continente. Di fronte c’è la debolezza di una giunta scaturita da una sedizione di militari, usciti dalla stessa base in cui è collocato il comando Usa per l’America Centrale (Soto Cano), che è stata condannata e isolata dall’intera comunità latinoamericana. Governi rivoluzionari, progressisti, socialdemocratici e liberali hanno tutti condannato il golpe e preteso il reinsediamento di Zelaya, ben sapendo che gli Usa possono cambiare faccia al manichino nella vetrina della Casa Bianca, ma che, a dispetto di distrazioni temporanee, la politica dei bottegai di quel paese non cambia da duecento anni. E dunque dal successo o insuccesso del golpe ne può domani andare anche della loro pelle.
La forza in campo più importante è il popolo dell’Honduras che, dal 28 giugno, non ha smesso un giorno di manifestare. In centinaia di migliaia nel paese dai 7,5 milioni di abitanti (60% senza lavoro e sotto il dollaro al giorno), continuano a sfidare truppe e polizia, anche con il rinnovato coprifuoco (segno di crisi per la giunta), beccandosi ripetute fucilate e registrando un numero di morti e, soprattutto, di desaparecidos tra i leader della lotta, che nessun mezzo d’informazione o organo ufficiale si preoccupa di contare. Qui ci si dilania le vesti per l’uccisione in Cecenia dell’erede della giornalista filo-Usa e amica di Eltsin, Politovskaja, Natalia Estemirova (subito attribuita a Mosca a dispetto del fetore di provocazione Cia-Mossad), intima amica, come già la padrina, dei mezzi d’informazione occidentali di destra e oggi pianta rumorosamente da apripista delle destabilizzazione come le congreghe mediatiche prezzolate, i Radicali e Reporters Sans Frontieres del manutengolo Cia Robert Menard. E per la ragazza iraniana Mena, fatta martire “verde” nonostante sia stata uccisa da ignoti, lontana dagli scontri, mentre era in compagnia di associati Cia, si è strappato i capelli il mondo. Ma chi ha menzionato anche solo il fatto, se non il nome, di Isis Obed Murillo, ferito mortalmente dagli sgherri honduregni, di cui pure le foto sono apparse su tutti i giornali e in tutte le tv dell’America Latina? Neanche mezzo fiato enfisematoso viene sprecato per la chiusura in Honduras di tutti i giornali non golpisti e l’azzeramento dell’etere per ogni trasmissione non disciplinata, o per i giornalisti desparecidos denunciati dal neocostituito Fronte Nazionale di Resistenza.
L’altra forza sarebbe, appunto, l’isolamento internazionale, le sanzioni già adottate e forse a venire, e la pronuncia dei 192 paesi dell’Onu (a quando un risveglio del Consiglio di Sicurezza ?), le pressioni, anche militanti, dei paesi vicini, il Nicaragua tra tutti (per questo subito diabolizzato dal solito Beretta del "manifesto", simpatizzangte dei golpisti) ma anche Guatemala e Salvador, che temono a ragionissima il contagio. Intanto continuano a essere bloccate, da sindacati, associazioni professionali, donne organizzate, studenti di ogni ordine, gente comune, le maggiori strade che attraversano l’Honduras e lo collegano con il Nord e con il Sud, sta per partire uno sciopero generale ad oltranza e Tegucigalpa, come quasi tutti i centri del paese, è continuamente attraversata da masse bene organizzate con la parola d’ordine “con i golpisti non c’è niente da negoziare”. Il modello è quello affermatosi negli ultimi dieci anni in America Latina. Le masse indigene boliviane, minatori dinamitardi in testa, che, scesi dalle Ande e dalle terre basse, hanno retto gli scontri e le stragi del caudillo amerikano Sanchez de Lozada. Gli studenti, professionisti, lavoratori di Quito e gli indigeni dell’Amazzonia ecuadoriana che hanno, battuto gli sbirri a pietrate, invaso il parlamento e cacciato lo sciuscià amerikano Lucio Gutierrez. Il niagara sottoproletario che, unendosi agli studenti, si è riversato dalle favelas nel centro di Caracas, assediando il palazzo di Miraflores fino a quando reparti fedeli non hanno rimesso al proprio posto il presidente rivoluzionario democraticamente eletto. Tutti, nei limiti di un esercizio di forza che quando si tratta di rivoluzioni colorate è giudicato sacrosanto oltre che legittimo, ma che nel caso che infastidisca i padroni del mondo diventa “terrorismo”, hanno trionfato semplicemende bloccando lo Stato, chiudendogli i rifornimenti e le vie di comunicazione. Impedendogli di funzionare. Bella lezione per tutti.
La linea statunitense è un continuum che assomiglia alla ripetizione negli evi, mutatis mutandis, delle puntate di Beautiful. Nel perseguire una secolare strategia colonialista, oscilla solo tra “operazioni Condor”, che ricordano l’analoga “Phoenix” vietnamita, nella quale si usano colpi di Stato, squadroni della morte, assassinii mirati, sparizioni, terrorismo e dittature militari, è il cosiddetto smart power, dove l’aggettivo sta, oltreché per “in gamba”, per “astuto”, “scaltro”, “paraculo”. Non è una novità in America Latina: cadute le dittature fasciste degli anni ’70 e ’80, si era passati alla parademocrazia delle oligarchie locali; rotta con le carneficine la resistenza popolare al brigantaggio di passo detto “neoliberismo”, sono arrivati i Menem, gli Uribe, i Carlos Andrés Peres, i Cardoso, i Lagos, insomma gli esperti di furto con destrezza, portati per mano da Fondo Monetario e Banca Mondiale. Ma smart blow significa anche “colpo micidiale”. Il tentativo di rovesciare Hugo Chavez nel 2002, di dimostrata matrice Usa, i complotti secessionisti e terroristici diretti a La Paz contro Evo Morales dall’ambasciatore Usa, poi espulso, l’analogo secessionismo di Guayaquil in Ecuador contro Rafael Correa e, due anni fa, l’attacco terroristico colombiano-statunitense contro i dirigenti FARC accampati in Ecuador, dove trattavano la liberazione della Betancourt, precedono il golpe di Roberto Micheletti come nel Cuba libre la coca-cola precede il rum. Solo che il pupazzo spaccatutto aveva fallito, mentre Obama c’è, per ora, riuscito. Smart power significa instupidirti di chiacchiere su dialogo, democrazia e diritti umani, mentre ti si mena, o si menano altri. Significa allestire catastrofi e voltarsi, corrucciati, dall’altra parte. Significa far sprigionare enormi ed eleganti volute di fumo che occultino gli arrosti di popoli e terre. In Afghanistan Obama ha raddoppiato fino a 70mila gli effettivi e ha lanciato un’offensiva tesa allo sterminio della popolazione di Helmand. In Iraq lascerà almeno 50mila nelle basi e, come “consiglieri”, in ogni anfratto dell’apparato statale, più 138mila “contractors”, delinquenti mercenari fuori da ogni legalità, tutti garanti che una sovranità vera l’Iraq dei fantocci non l’avrà mai.
La posta in gioco per coloro che hanno mandato alla Casa Bianca un nero dallo scilinguagnolo sciolto, come per tutti i corifei che gli marciano dietro in attesa di caduta di bocconcini, è enorme. Visto che si tratta dell’uomo del “cambio”, change inciso col martello pneumatico della propaganda nella coscienza di milioni di minchioni, che cambio sia, ma all'incontrario di quanto previsto: si torna alle maniere spiccie. Quelle per le quali l’Honduras è da sempre la base privilegiata per gli interventi Usa nella regione. Nel 1954 vi originò il colpo di Stato Usa contro il presidente progressista guatemalteco Jacobo Arbenz, Nel 1961 da lì fu lanciata l’invasione della Baia dei Porci a Cuba. Da lì si assaltò Grenada. Tra il 1981 e il 1989 gli Usa, con l’aiuto di Khomeini e del già allora fido premier Musavi, lì finanziarono e addestrarono 20mila “Contras” e gli squadroni della morte incaricati di macellare sandinisti, proprio con gli stessi personaggi ora riapparsi sul proscenio honduregno. Visto che la soluzione “democratica” concessa ai paesi latinoamericani non aveva soffocato le turbolenze politiche e sociali di popoli che incominciavano ad averne viste troppe e, anzi, il vulcano in risveglio stava incenerendo i presidi Usa e del Nord del mondo, c’era da rilanciare una strategia d’attacco meno inguantata. Fatte le prove in Honduras si poteva passare a provare in Salvador, dove hanno vinto gli antichi guerriglieri del “Farabundo Martì”, in Guatemala, dove c’è un presidente che pencola anche lui a sinistra e, naturalmente, a seguire, gli obiettivi grossi. Con Perù e Colombia in tasca, Argentina, Cile e Brasile che, già non un granchè socialdemocratici, ma insidiosamente gelosi della sovranità e solidali con il bubbone Cuba, paiono avviati a far vincere la destra alle prossime elezioni, restano i poco rilevanti e neanche tanto intemperanti Uruguay e Paraguay e naturalmente i quattro moschettieri nemici di Richelieu: Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua. A quel punto circondati. E vista la tranquilla indifferenza con cui la “comunità internazionale”, sinistri inclusi, ha accompagnato il colpo di Stato che ha instaurato in America Latina un altro proconsolato fascista dell’imperialismo, fino a sperticarsi in apprezzamenti per il trucco della “mediazione tra le parti” affidata al valvassino Arias, si può prevedere che l’Honduras non resterà un caso isolato.
Il Centroamerica e i Caraibi sono il ponte della droga tra Colombia e mercato nordamericano. Quel ponte frutta dazio ed è gestito da operativi della Cia che controllano la massima parte del traffico. Si contano a dozzine i gorilla impiantati per la bisogna nelle famigerate repubbliche delle banane. Basta pensare a quel Noriega, presidente narcotrafficante del Panama sotto padrone Cia, poi messosi in capo di far di testa sua e indi prelevato e chiuso a marcire in un carcere Usa. Sono frequenti gli incidenti ad aerei delle compagnie appaltate dalla Cia che, dopo cadute o atteraggi forzati, vengono trovati zeppi di cocaina. Fu decisivo il finanziamento da Khomeini e da cocaina che la Cia smistò alla Contra per la sua guerra ai sandinisti del Nicaragua. Con il fiduciario Uribe e i suoi paramilitari in Colombia la produzione e l’export sono garantiti. Resta da assicurarsi un salvacondotto statale oltre l’istmo, verso il sicuro Messico. Quale candidato migliore al rango di narcostatarello delle banane che il derelitto e spolpato Honduras, con al centro la più grande base e il più grosso contingente Usa del Centroamerica, con una casta militare coltivata nella Scuola delle Americhe e pronta da sempre a ogni nequizia ordinata dagli istruttori Usa? Non ricorda il Kosovo sotto controllo della nuova megabase Bondsteel, oggi posto di smistamento principale dell’eroina che sotto l’occupazione Usa dell’Afghanistan è arrivata a soddisfare il 90% della richiesta mondiale? Istituti seri come L’Osservatorio Mondiale della Droga calcolavano l’utile da narcotraffico mondiale, un lustro fa, in un trilione di dollari, quasi tutto finito nella voce “utili” dei moloch finanziari Usa che, si sa, per contenere il galattico debito pubblico si venderebbero pure mamma e figli. Volete che le banche statunitensi, svuotate dalle proprie bulimie speculative, si accontentassero dei due volte 800 miliardi regalatigli da Obama e rinunciassero a quella sorgente di vita? Cosa volete che conti la democrazia dell’Honduras, non fateci ridere. Si veda dunque come la partita Honduras, tanto schizzata dalle teste d’uovo di piccione impegnate a reincollare i cocci di un ceto politico sinistro spappolato, si inserisca in uno scenario planetario di guerra dei ricchi ai poveri, tramite mafia, dittatura, invasioni, genocidi, rivoluzioni colorate, papi e pacchetti sicurezza. Per l’America Latina, l’Honduras era l’anello debole da spezzare. Forse le masse scese in campo nell’occasione dimostreranno che l’anello non è poi tanto debole. Resta essenziale che Zelaya non molli.
Agli obamaniaci ricordiamo che il Dipartimento di Stato sapeva in anticipo del golpe e non ha mosso un dito. Lo hanno dichiarato i portavoce dello stesso Dipartimento in una conferenza stampa del 1. luglio. L’ambasciatore a Tegucigalpa, Hugo Llorens, di origine mafiocubana, coordinò l’espulsione del presidente Zelaya in combutta con il sottosegretario di Stato Thomas Shannon e il macellaio John Negroponte, oggi assistente di Hillary Clinton. Hugo Llorens, che arrivò negli Usa con l’Operazione Peter Pan, è un esperto di terrorismo e destabilizzazione che, alla vigilia del golpe contro Chavez, Bush nominò suo consigliere speciale per il Venezuela. Viene spedito in Honduras nel quadro di una serie di recenti nomine ad ambasciatore nei paesi vicini: Robert Blau in Salvador, dopo essere stato a Cuba accanto al cospiratore, incaricato d’affari, James Cason, all’epoca degli attentati e complotti della “dissidenza”; LLorens e Blau sono antichi compagni di merende sotto il patronato terroristico di Otto Reich; Stephen McFarland in Guatemala, un ex-marine che collaborò con l’ambasciatore William Brownfield in Venezuela nella preparazione dei vari tentativi di eliminazione di Chavez; Robert Callaghan in Nicaragua, dopo essersi fatto le ossa nell’invasione dell’Iraq e nelle sedizioni di destra in Bolivia, e dopo essere stato capo dell’Ufficio Stampa e Propaganda della Direzione Nazionale dell’Intelligence Usa. Un organismo che sta ai golpe e alle rivoluzioni colorate come la polenta sta alle salsicce. Dal primo giorno Obama e i suoi hanno nominato un “mediatore”, parlato di “parti in conflitto” e di “dialogo”, permettendo così il trinceramento dei golpisti e rigorosamente escludendo dai discorsi il termine “colpo di Stato”. Ovviamente con i cosiddetti “negoziati” tra ladri e derubati si puntava a screditare la figura di Zelaya agli occhi dei suoi sostenitori. Tutto l’apparato di Washington onora Roberto Micheletti del titolo di “presidente ad interim”, anziché di golpista, e lo riceve in pompa discreta. Massimo lobbista per il riconoscimento della cricca honduregna è tale Lanny Davis, principale avvocato di Clinton e intimo amico di Hillary. Quelli che hanno elaborato la sceneggiatura a Washington per i generali honduregni e il loro burattino presidente del Senato, sono Otto Reich, padrino di tutti i grandi terroristi latinoamericani, Posada Carriles compreso, e Robert Carmona-Borjas, un venezuelano collaudato nel golpe contro Hugo Chavez, parente e avvocato di quel Pedro Carmona, presidente della Confindustria venezuelana, che, sciolta l’assemblea nazionale, per 72 ore occupò il posto di Chavez. Se il giorno si vede da questo mattino…
E’ spettato ai soliti enti, definiti ong o fondazioni, preparare l’ambiente sociopolitico per il golpe in Honduras. Proprio il mese prima, con il patrocinio e i dobloni di NED, Freeedom House, International Republican Institute, UsAID e simili, si era formata una coalizione di varie organizzazioni non governative, associazioni imprenditoriali, sindacati gialli, frazioni politiche, i maggiori media, gruppi dei diritti umani e la Chiesa cattolica. Coalizione degli oligarchi intitolata, sul modello dei secessionisti di Santa Cruz in Bolivia, “Unione Civica Democratica”. Suo obiettivo, cancellare le riforme sociali di Zelaya, impedire la convocazione di un’assemblea costituente, uscire dall’ALBA (l’unione economica e sociale tra i paesi progressisti del Cono Sud), rompere con Chavez e Ortega. E all’ “Unione Civica” che NED e UsAid, gli stessi di Tehran, hanno indirizzato stavolta lo stanziamento annuale di 50 milioni di dollari per lo “sviluppo democratico” dell’Honduras. Un’informativa di UsAid afferma che, per “sostenere la credibilità di questa organizzazione come autentica e autoctona è necessario che UsAid mantenga un profilo basso e non faccia pensare a un braccio di UsAid”. Più chiaro di così.
Concludendo, in America Latina non c’è anima viva o morta, da Simone Bolivar e José Martì in qua, che non colleghi gli Usa a ogni dittatura, a ogni colpo di Stato, a ogni cospirazione reazionaria. Decenni di bagni di sangue, torture, assassinii, squadroni della morte, terrorismo paramilitare, guerre, tutti con il marchio Usa, hanno preceduto e ostacolato i progressi sociali, civili, politici finalmente realizzati. Per chiunque laggiù è impensabile che il golpe dell’Honduras abbia potuto attuarsi senza l’appoggio dei massimi vertici degli Stati Uniti, del suo apparato militare, di intelligence e politico. Ed è altrettanto impensabile che i golpisti abbiano potuto restare in sella senza quell’appoggio per tutte queste settimane, dal 28 giugno, di fronte all’ostracismo internazionale, la sanzione di 2,3 miliardi di dollari dell’OSA, e la grandiosa resistenza del popolo honduregno, pur massacrato dalla repressione armata. In Latinoamerica si sa che questo esperimento, se funziona, potrebbe incoraggiare gli Usa ad estenderlo ad altre nazioni. Nel momento di una crisi gravissima e probabilmente irrisolvibile con i metodi tradizionali, in una fase di collasso dell’ordine economico capitalista, ci si può attendere di tutto dalla belva ferita. Nel frattempo c’è da osservare che il confronto diseguale tra le forze armate e la popolazione in Honduras dimostra una volta di più che i popoli sono indifesi davanti a colpi di Stato, governi di polizia e militari sediziosi. In Venezuela e Bolivia l’hanno capita e hanno saputo prevenire un esito che si dava per scontato attraverso la formazione all’autodifesa, il rafforzamento delle organizzazioni di base, il volontariato militante e l’intensificazione e l’allargamento della solidarietà internazionale.
Autodifesa, solidarietà internazionale, imperialismo, che roba è?
Ma per inserire Obama nel complotto teso a schiavizzare e spremere fino al midollo il popolo honduregno e, a seguire, tutti gli altri divergenti o disobbedienti dell’America Latina, i motivi e i fatti ci sono. Anche se “il manifesto”, sbilanciatosi oltre ogni contegno e lucidità a favore dell’ “uomo del cambio” e ammucchiate sotto il tappeto le migliaia di civili afgan-pakistan da lui polverizzati, l’aumento del bilancio militare, il salvataggio dei banchieri briganti, tenta di esimere il suo idolo nero addossando la mossa honduregna per intero ai cattivoni post-bushiani che lo avrebbero incastrato nel fatto compiuto. Un po’ come quel fantoccio-gangster di Saakashvili quando volle tirarsi dietro gli Usa nell’attacco all’Ossezia. O come Netaniahu con gli espropri e le colonie a Gerusalemme, “eterna capitale unita di Israele”, a dispetto delle perorazioni obamiane di non “allargarsi”. Fosse anche vero, e non credo lo sia, tutto quello che hanno fatto la coppia Obama-Clinton dal giorno dopo il golpe li rende responsabili della sua riuscita e del suo consolidamento. Obama, al di là di deplorare una indistinta “violenza” (di tutte le parti) e auspicare il ripristino dell’ordine costituzionale e il dialogo tra assassino e vittima, con una simmetria drasticamente asimmetrica che ricorda quella tra Stato ebraico e Stato palestinese, NON ha definito ufficialmente golpe il golpe. Di conseguenza NON ha applicato una legge che, come ha subito fatto Chavez con il petrolio, imporrebbe il taglio immediato di tutta l’assistenza economica e militare all’Honduras, taglio che farebbe crollare il regime come un castello di carte. NON ha interrotto la collaborazione tra il Pentagono e le forze armate honduregne. NON ha ritirato l’ambasciatore USA. NON ha pronunciato la minima condanna o presa di distanza dai crimini dalla repressione successivi al golpe: rapimenti, uccisioni, sparizioni, fuoco sui manifestanti, blocco di internet e chiusura dei piccoli media critici. Ha rifiutato ripetutamente l’incontro con Zelaya. Non ha mai smentito il superfalco Hillary Clinton nella sua affermazione che non si tratta di golpe e che “vanno considerati entrambi gli aspetti della storia”. NON ha mai preteso il ritorno di Zelaya alla presidenza. NON ha affermato che non c’era niente da negoziare tra golpisti e destituiti, ma ha consentito, con la truffa della “mediazione” del fantoccio costaricano Oscar Arias, Premio Nobel per meriti analoghi a quelli di Kissinger, Begin, Sadat, che la cricca di Tegucigalpa guadagnasse tempo e implicitamente si consolidasse. Magari fino ad avvicinarsi alla scadenza di novembre, quando una nuova elezione del Capo di Stato spariglierebbe l’intera partita costituzionale e le elezioni, in presa diretta golpista, potrebbero essere manipolate alla messicana. NON ha trovato nulla da ridire quando la costola della Lega in Honduras ha nominato suo vice – ministro della Presidenza - nientemeno che un vecchio serial killer delle campagne genocide di Reagan in Centroamerica: Billy Joya.
Niente poteva essere più indicativo della direzione impressa al loro progetto dai golpisti e dai loro mandanti Usa che la scelta del fidato, esperto, Billy Joya. A capo di due squadroni della morte, B3-16 e “Lince” dal 1984 al 1991, l’ex-borsista di Pinochet e istruttore dei generali argentini venne accusato di una serie agghiacciante di assassini, stragi, torture. Fu salvato per grazie della normalmente fascisteggiante Chiesa Cattolica honduregna e sistemato al Collegio San José de los Sagrados Corazones di Siviglia. L’uomo giusto al posto giusto, specie se si pensa alla sua rinnovata partnership con elementi come John Negroponte, inventore e duce di squadroni della morte propri lì, ai tempi dei Contra, e poi in Iraq, e il terrorista mafiocubano Otto Reich, assurto al rango di sottosegretario agli affari latinoamericani, entrambi incaricati dall’amministrazione Obama di occuparsi della cosa. Auguriamoci che la promessa del presidente rapito e espulso di rientrare nel paese in tempi ravvicinati, per insediare in zona sottratta alla giunta il suo governo legittimo, possa realizzarsi. Ciò costringerebbe la vasta compagnia dei deprecatori del golpe, dall’Assemblea dell’ONU all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), da organismi internazionali come FMI e BM ai numerosi governi che hanno ritirato gli ambasciatori, a marcare il punto e boicottare come fuorilegge il regime del bergamasco Micheletti (chissà gli orgasmi intanto procurati ai suoi corregionali ed emuli verdi). Sarà divertente vedere come gli Usa si trarrebbero d’impiccio.
In campo ci sono ora due debolezze e due forze. Una debolezze è la “mediazione” imposta allo spodestato Manuel Zelaya, con il corredo di compromessi a perdere (amnistie per tutti, governi di unità nazionale...) che traspirano dalle mene di Arias, la dove non c’era assolutamente niente da mediare, nella speranza che Zelaya si riduca a un Abu Mazen qualsiasi, ritirando le misure per i poveri (sanità, scuola, salari, latte ai bambini, elettricità ai vilaggi) e le intese con gli Stati progressisti (ALBA, Petrocaribe) e abbandonando la chimera di tagliare le unghie all’oligarchia e alle corporations Usa con una nuova costituzione. Costituzione progressista che, sull’esempio venezuelano, boliviano, ecuadoriano, ridesse sovranità a questa marca Usa, vita e diritti a un popolo depredato e insanguinato più e per più tempo di qualsiasi altro nel continente. Di fronte c’è la debolezza di una giunta scaturita da una sedizione di militari, usciti dalla stessa base in cui è collocato il comando Usa per l’America Centrale (Soto Cano), che è stata condannata e isolata dall’intera comunità latinoamericana. Governi rivoluzionari, progressisti, socialdemocratici e liberali hanno tutti condannato il golpe e preteso il reinsediamento di Zelaya, ben sapendo che gli Usa possono cambiare faccia al manichino nella vetrina della Casa Bianca, ma che, a dispetto di distrazioni temporanee, la politica dei bottegai di quel paese non cambia da duecento anni. E dunque dal successo o insuccesso del golpe ne può domani andare anche della loro pelle.
La forza in campo più importante è il popolo dell’Honduras che, dal 28 giugno, non ha smesso un giorno di manifestare. In centinaia di migliaia nel paese dai 7,5 milioni di abitanti (60% senza lavoro e sotto il dollaro al giorno), continuano a sfidare truppe e polizia, anche con il rinnovato coprifuoco (segno di crisi per la giunta), beccandosi ripetute fucilate e registrando un numero di morti e, soprattutto, di desaparecidos tra i leader della lotta, che nessun mezzo d’informazione o organo ufficiale si preoccupa di contare. Qui ci si dilania le vesti per l’uccisione in Cecenia dell’erede della giornalista filo-Usa e amica di Eltsin, Politovskaja, Natalia Estemirova (subito attribuita a Mosca a dispetto del fetore di provocazione Cia-Mossad), intima amica, come già la padrina, dei mezzi d’informazione occidentali di destra e oggi pianta rumorosamente da apripista delle destabilizzazione come le congreghe mediatiche prezzolate, i Radicali e Reporters Sans Frontieres del manutengolo Cia Robert Menard. E per la ragazza iraniana Mena, fatta martire “verde” nonostante sia stata uccisa da ignoti, lontana dagli scontri, mentre era in compagnia di associati Cia, si è strappato i capelli il mondo. Ma chi ha menzionato anche solo il fatto, se non il nome, di Isis Obed Murillo, ferito mortalmente dagli sgherri honduregni, di cui pure le foto sono apparse su tutti i giornali e in tutte le tv dell’America Latina? Neanche mezzo fiato enfisematoso viene sprecato per la chiusura in Honduras di tutti i giornali non golpisti e l’azzeramento dell’etere per ogni trasmissione non disciplinata, o per i giornalisti desparecidos denunciati dal neocostituito Fronte Nazionale di Resistenza.
L’altra forza sarebbe, appunto, l’isolamento internazionale, le sanzioni già adottate e forse a venire, e la pronuncia dei 192 paesi dell’Onu (a quando un risveglio del Consiglio di Sicurezza ?), le pressioni, anche militanti, dei paesi vicini, il Nicaragua tra tutti (per questo subito diabolizzato dal solito Beretta del "manifesto", simpatizzangte dei golpisti) ma anche Guatemala e Salvador, che temono a ragionissima il contagio. Intanto continuano a essere bloccate, da sindacati, associazioni professionali, donne organizzate, studenti di ogni ordine, gente comune, le maggiori strade che attraversano l’Honduras e lo collegano con il Nord e con il Sud, sta per partire uno sciopero generale ad oltranza e Tegucigalpa, come quasi tutti i centri del paese, è continuamente attraversata da masse bene organizzate con la parola d’ordine “con i golpisti non c’è niente da negoziare”. Il modello è quello affermatosi negli ultimi dieci anni in America Latina. Le masse indigene boliviane, minatori dinamitardi in testa, che, scesi dalle Ande e dalle terre basse, hanno retto gli scontri e le stragi del caudillo amerikano Sanchez de Lozada. Gli studenti, professionisti, lavoratori di Quito e gli indigeni dell’Amazzonia ecuadoriana che hanno, battuto gli sbirri a pietrate, invaso il parlamento e cacciato lo sciuscià amerikano Lucio Gutierrez. Il niagara sottoproletario che, unendosi agli studenti, si è riversato dalle favelas nel centro di Caracas, assediando il palazzo di Miraflores fino a quando reparti fedeli non hanno rimesso al proprio posto il presidente rivoluzionario democraticamente eletto. Tutti, nei limiti di un esercizio di forza che quando si tratta di rivoluzioni colorate è giudicato sacrosanto oltre che legittimo, ma che nel caso che infastidisca i padroni del mondo diventa “terrorismo”, hanno trionfato semplicemende bloccando lo Stato, chiudendogli i rifornimenti e le vie di comunicazione. Impedendogli di funzionare. Bella lezione per tutti.
La linea statunitense è un continuum che assomiglia alla ripetizione negli evi, mutatis mutandis, delle puntate di Beautiful. Nel perseguire una secolare strategia colonialista, oscilla solo tra “operazioni Condor”, che ricordano l’analoga “Phoenix” vietnamita, nella quale si usano colpi di Stato, squadroni della morte, assassinii mirati, sparizioni, terrorismo e dittature militari, è il cosiddetto smart power, dove l’aggettivo sta, oltreché per “in gamba”, per “astuto”, “scaltro”, “paraculo”. Non è una novità in America Latina: cadute le dittature fasciste degli anni ’70 e ’80, si era passati alla parademocrazia delle oligarchie locali; rotta con le carneficine la resistenza popolare al brigantaggio di passo detto “neoliberismo”, sono arrivati i Menem, gli Uribe, i Carlos Andrés Peres, i Cardoso, i Lagos, insomma gli esperti di furto con destrezza, portati per mano da Fondo Monetario e Banca Mondiale. Ma smart blow significa anche “colpo micidiale”. Il tentativo di rovesciare Hugo Chavez nel 2002, di dimostrata matrice Usa, i complotti secessionisti e terroristici diretti a La Paz contro Evo Morales dall’ambasciatore Usa, poi espulso, l’analogo secessionismo di Guayaquil in Ecuador contro Rafael Correa e, due anni fa, l’attacco terroristico colombiano-statunitense contro i dirigenti FARC accampati in Ecuador, dove trattavano la liberazione della Betancourt, precedono il golpe di Roberto Micheletti come nel Cuba libre la coca-cola precede il rum. Solo che il pupazzo spaccatutto aveva fallito, mentre Obama c’è, per ora, riuscito. Smart power significa instupidirti di chiacchiere su dialogo, democrazia e diritti umani, mentre ti si mena, o si menano altri. Significa allestire catastrofi e voltarsi, corrucciati, dall’altra parte. Significa far sprigionare enormi ed eleganti volute di fumo che occultino gli arrosti di popoli e terre. In Afghanistan Obama ha raddoppiato fino a 70mila gli effettivi e ha lanciato un’offensiva tesa allo sterminio della popolazione di Helmand. In Iraq lascerà almeno 50mila nelle basi e, come “consiglieri”, in ogni anfratto dell’apparato statale, più 138mila “contractors”, delinquenti mercenari fuori da ogni legalità, tutti garanti che una sovranità vera l’Iraq dei fantocci non l’avrà mai.
La posta in gioco per coloro che hanno mandato alla Casa Bianca un nero dallo scilinguagnolo sciolto, come per tutti i corifei che gli marciano dietro in attesa di caduta di bocconcini, è enorme. Visto che si tratta dell’uomo del “cambio”, change inciso col martello pneumatico della propaganda nella coscienza di milioni di minchioni, che cambio sia, ma all'incontrario di quanto previsto: si torna alle maniere spiccie. Quelle per le quali l’Honduras è da sempre la base privilegiata per gli interventi Usa nella regione. Nel 1954 vi originò il colpo di Stato Usa contro il presidente progressista guatemalteco Jacobo Arbenz, Nel 1961 da lì fu lanciata l’invasione della Baia dei Porci a Cuba. Da lì si assaltò Grenada. Tra il 1981 e il 1989 gli Usa, con l’aiuto di Khomeini e del già allora fido premier Musavi, lì finanziarono e addestrarono 20mila “Contras” e gli squadroni della morte incaricati di macellare sandinisti, proprio con gli stessi personaggi ora riapparsi sul proscenio honduregno. Visto che la soluzione “democratica” concessa ai paesi latinoamericani non aveva soffocato le turbolenze politiche e sociali di popoli che incominciavano ad averne viste troppe e, anzi, il vulcano in risveglio stava incenerendo i presidi Usa e del Nord del mondo, c’era da rilanciare una strategia d’attacco meno inguantata. Fatte le prove in Honduras si poteva passare a provare in Salvador, dove hanno vinto gli antichi guerriglieri del “Farabundo Martì”, in Guatemala, dove c’è un presidente che pencola anche lui a sinistra e, naturalmente, a seguire, gli obiettivi grossi. Con Perù e Colombia in tasca, Argentina, Cile e Brasile che, già non un granchè socialdemocratici, ma insidiosamente gelosi della sovranità e solidali con il bubbone Cuba, paiono avviati a far vincere la destra alle prossime elezioni, restano i poco rilevanti e neanche tanto intemperanti Uruguay e Paraguay e naturalmente i quattro moschettieri nemici di Richelieu: Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua. A quel punto circondati. E vista la tranquilla indifferenza con cui la “comunità internazionale”, sinistri inclusi, ha accompagnato il colpo di Stato che ha instaurato in America Latina un altro proconsolato fascista dell’imperialismo, fino a sperticarsi in apprezzamenti per il trucco della “mediazione tra le parti” affidata al valvassino Arias, si può prevedere che l’Honduras non resterà un caso isolato.
Il Centroamerica e i Caraibi sono il ponte della droga tra Colombia e mercato nordamericano. Quel ponte frutta dazio ed è gestito da operativi della Cia che controllano la massima parte del traffico. Si contano a dozzine i gorilla impiantati per la bisogna nelle famigerate repubbliche delle banane. Basta pensare a quel Noriega, presidente narcotrafficante del Panama sotto padrone Cia, poi messosi in capo di far di testa sua e indi prelevato e chiuso a marcire in un carcere Usa. Sono frequenti gli incidenti ad aerei delle compagnie appaltate dalla Cia che, dopo cadute o atteraggi forzati, vengono trovati zeppi di cocaina. Fu decisivo il finanziamento da Khomeini e da cocaina che la Cia smistò alla Contra per la sua guerra ai sandinisti del Nicaragua. Con il fiduciario Uribe e i suoi paramilitari in Colombia la produzione e l’export sono garantiti. Resta da assicurarsi un salvacondotto statale oltre l’istmo, verso il sicuro Messico. Quale candidato migliore al rango di narcostatarello delle banane che il derelitto e spolpato Honduras, con al centro la più grande base e il più grosso contingente Usa del Centroamerica, con una casta militare coltivata nella Scuola delle Americhe e pronta da sempre a ogni nequizia ordinata dagli istruttori Usa? Non ricorda il Kosovo sotto controllo della nuova megabase Bondsteel, oggi posto di smistamento principale dell’eroina che sotto l’occupazione Usa dell’Afghanistan è arrivata a soddisfare il 90% della richiesta mondiale? Istituti seri come L’Osservatorio Mondiale della Droga calcolavano l’utile da narcotraffico mondiale, un lustro fa, in un trilione di dollari, quasi tutto finito nella voce “utili” dei moloch finanziari Usa che, si sa, per contenere il galattico debito pubblico si venderebbero pure mamma e figli. Volete che le banche statunitensi, svuotate dalle proprie bulimie speculative, si accontentassero dei due volte 800 miliardi regalatigli da Obama e rinunciassero a quella sorgente di vita? Cosa volete che conti la democrazia dell’Honduras, non fateci ridere. Si veda dunque come la partita Honduras, tanto schizzata dalle teste d’uovo di piccione impegnate a reincollare i cocci di un ceto politico sinistro spappolato, si inserisca in uno scenario planetario di guerra dei ricchi ai poveri, tramite mafia, dittatura, invasioni, genocidi, rivoluzioni colorate, papi e pacchetti sicurezza. Per l’America Latina, l’Honduras era l’anello debole da spezzare. Forse le masse scese in campo nell’occasione dimostreranno che l’anello non è poi tanto debole. Resta essenziale che Zelaya non molli.
Agli obamaniaci ricordiamo che il Dipartimento di Stato sapeva in anticipo del golpe e non ha mosso un dito. Lo hanno dichiarato i portavoce dello stesso Dipartimento in una conferenza stampa del 1. luglio. L’ambasciatore a Tegucigalpa, Hugo Llorens, di origine mafiocubana, coordinò l’espulsione del presidente Zelaya in combutta con il sottosegretario di Stato Thomas Shannon e il macellaio John Negroponte, oggi assistente di Hillary Clinton. Hugo Llorens, che arrivò negli Usa con l’Operazione Peter Pan, è un esperto di terrorismo e destabilizzazione che, alla vigilia del golpe contro Chavez, Bush nominò suo consigliere speciale per il Venezuela. Viene spedito in Honduras nel quadro di una serie di recenti nomine ad ambasciatore nei paesi vicini: Robert Blau in Salvador, dopo essere stato a Cuba accanto al cospiratore, incaricato d’affari, James Cason, all’epoca degli attentati e complotti della “dissidenza”; LLorens e Blau sono antichi compagni di merende sotto il patronato terroristico di Otto Reich; Stephen McFarland in Guatemala, un ex-marine che collaborò con l’ambasciatore William Brownfield in Venezuela nella preparazione dei vari tentativi di eliminazione di Chavez; Robert Callaghan in Nicaragua, dopo essersi fatto le ossa nell’invasione dell’Iraq e nelle sedizioni di destra in Bolivia, e dopo essere stato capo dell’Ufficio Stampa e Propaganda della Direzione Nazionale dell’Intelligence Usa. Un organismo che sta ai golpe e alle rivoluzioni colorate come la polenta sta alle salsicce. Dal primo giorno Obama e i suoi hanno nominato un “mediatore”, parlato di “parti in conflitto” e di “dialogo”, permettendo così il trinceramento dei golpisti e rigorosamente escludendo dai discorsi il termine “colpo di Stato”. Ovviamente con i cosiddetti “negoziati” tra ladri e derubati si puntava a screditare la figura di Zelaya agli occhi dei suoi sostenitori. Tutto l’apparato di Washington onora Roberto Micheletti del titolo di “presidente ad interim”, anziché di golpista, e lo riceve in pompa discreta. Massimo lobbista per il riconoscimento della cricca honduregna è tale Lanny Davis, principale avvocato di Clinton e intimo amico di Hillary. Quelli che hanno elaborato la sceneggiatura a Washington per i generali honduregni e il loro burattino presidente del Senato, sono Otto Reich, padrino di tutti i grandi terroristi latinoamericani, Posada Carriles compreso, e Robert Carmona-Borjas, un venezuelano collaudato nel golpe contro Hugo Chavez, parente e avvocato di quel Pedro Carmona, presidente della Confindustria venezuelana, che, sciolta l’assemblea nazionale, per 72 ore occupò il posto di Chavez. Se il giorno si vede da questo mattino…
E’ spettato ai soliti enti, definiti ong o fondazioni, preparare l’ambiente sociopolitico per il golpe in Honduras. Proprio il mese prima, con il patrocinio e i dobloni di NED, Freeedom House, International Republican Institute, UsAID e simili, si era formata una coalizione di varie organizzazioni non governative, associazioni imprenditoriali, sindacati gialli, frazioni politiche, i maggiori media, gruppi dei diritti umani e la Chiesa cattolica. Coalizione degli oligarchi intitolata, sul modello dei secessionisti di Santa Cruz in Bolivia, “Unione Civica Democratica”. Suo obiettivo, cancellare le riforme sociali di Zelaya, impedire la convocazione di un’assemblea costituente, uscire dall’ALBA (l’unione economica e sociale tra i paesi progressisti del Cono Sud), rompere con Chavez e Ortega. E all’ “Unione Civica” che NED e UsAid, gli stessi di Tehran, hanno indirizzato stavolta lo stanziamento annuale di 50 milioni di dollari per lo “sviluppo democratico” dell’Honduras. Un’informativa di UsAid afferma che, per “sostenere la credibilità di questa organizzazione come autentica e autoctona è necessario che UsAid mantenga un profilo basso e non faccia pensare a un braccio di UsAid”. Più chiaro di così.
Concludendo, in America Latina non c’è anima viva o morta, da Simone Bolivar e José Martì in qua, che non colleghi gli Usa a ogni dittatura, a ogni colpo di Stato, a ogni cospirazione reazionaria. Decenni di bagni di sangue, torture, assassinii, squadroni della morte, terrorismo paramilitare, guerre, tutti con il marchio Usa, hanno preceduto e ostacolato i progressi sociali, civili, politici finalmente realizzati. Per chiunque laggiù è impensabile che il golpe dell’Honduras abbia potuto attuarsi senza l’appoggio dei massimi vertici degli Stati Uniti, del suo apparato militare, di intelligence e politico. Ed è altrettanto impensabile che i golpisti abbiano potuto restare in sella senza quell’appoggio per tutte queste settimane, dal 28 giugno, di fronte all’ostracismo internazionale, la sanzione di 2,3 miliardi di dollari dell’OSA, e la grandiosa resistenza del popolo honduregno, pur massacrato dalla repressione armata. In Latinoamerica si sa che questo esperimento, se funziona, potrebbe incoraggiare gli Usa ad estenderlo ad altre nazioni. Nel momento di una crisi gravissima e probabilmente irrisolvibile con i metodi tradizionali, in una fase di collasso dell’ordine economico capitalista, ci si può attendere di tutto dalla belva ferita. Nel frattempo c’è da osservare che il confronto diseguale tra le forze armate e la popolazione in Honduras dimostra una volta di più che i popoli sono indifesi davanti a colpi di Stato, governi di polizia e militari sediziosi. In Venezuela e Bolivia l’hanno capita e hanno saputo prevenire un esito che si dava per scontato attraverso la formazione all’autodifesa, il rafforzamento delle organizzazioni di base, il volontariato militante e l’intensificazione e l’allargamento della solidarietà internazionale.
Autodifesa, solidarietà internazionale, imperialismo, che roba è?
mercoledì 15 luglio 2009
POGROM IN IRAN E CINA, GOLPE IN HONDURAS: BRAVO OBAMA, SANTO SUBITO (dopo Michael Jackson però)
Sei qua perché sai qualcosa. Non lo sai spiegare, ma lo senti. L’hai sentito per tutta la tua vita che c’è qualcosa di sbagliato con questo mondo. Non sai cos’è, ma c’è, come una scheggia nella tua testa che ti fa impazzire. E’ questa sensazione che ti ha portato qui. Sai di cosa parlo?
- Di Matrix?
Lo senti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. Si tratta del mondo che ti hanno steso sugli occhi per renderti cieco alla verità.
- Quale verità?
Che sei uno schiavo, Neo, come tutti gli altri, che sei nato per essere incatenato, nato in una prigione che non riesci a toccare, assaporare, odorare, una prigione per la tua mente.
Purtroppo a nessuno si può dire che cosa è Matrix. Lo devi provare da te.
(The Matrix, 1999)
14 luglio 2009. E’ il giorno in cui questo Stato ha fatto morire in Afghanistan un suo cittadino messosi al servizio di predoni per non finire nel ghetto dell’esclusione. E’ il giorno in cui questo Stato ha concesso 6 anni, da non passare in galera, a un suo masnadiero, assassino di un cittadino in viaggio verso la gioia di una partita. E’ il giorno che segue a un altro giorno, in cui tre miliziani al servizio di questo Stato, per aver ucciso a botte un diciottenne innocente e innocuo, sono stati definiti “colposi” e risparmiati al carcere grazie a una sentenza di tre anni. Tutti in servizio. Lo Stato di polizia è come Israele: immune e impunito. Non per nulla Israele è il laboratorio del nostro futuro, già quasi presente.
Prendiamo il “quotidiano comunista” di questi giorni torridi. Ti viene da chiederti se gli è preso un colpo di sole. Ma poi, se ci pensi, trovi incongrua la domanda. Da quanto tempo ti esaspera questo giornale, che pure a volte, grazie soprattutto a interventi esterni e a poche resistenze interne, manda gli ultimi bagliori di una sinistra che, come un sole marino nel crepuscolo, si sdilinquisce dal carminio al rosa, all’ arancione, all’ocra, al giallino, fino a sprofondare nel buio? Paghi 1.30 euro per questo giornale che, pure, si è visto garantire quei contributi statali la cui minacciata cancellazione gli aveva fruttato oltre un milione di nostri talleri. Abbiamo sopportato l’esosità, quattro pagine in meno e 30 centesimi in più, quattro costole tolte a un organismo già scheletrico, ogni giorno abbiamo rimandato giù l’esondazione di bile per il fuoco “amico” sparato sui fatti dalle Sgrene, Rossande, Forti, dai Parlato e dagli orridi vivandieri del collateralismo in Asia di “Lettera 22”. Ci siamo incerottati con Michele Giorgio dal Medio Oriente e Manlio Dinucci sull’imperialismo e i suoi lanzichenecchi. Abbiamo redarguito le turbe di transfughi della cui diserzione “il manifesto” mai si chiede la ragione, balbettando: è il meno peggio, non c’è altro, Giorgio sulla Palestina, Matteuzzi sull’America Latina, Dinucci, Dal Lago, Vauro…
Ma dell’Honduras, di cui qui si parlerà nel prossimo pezzo, non hanno fatto scrivere a Matteuzzi o a Gianni Minà. Hanno fatto scrivere a uno, di nome Beretta, dall’inchiostro intinto nella simpatia per i golpisti e nell’astio per il presidente rapito e per le masse che lo sostengono. Un golpe di torturatori fascisti al soldo di Washington che, rinnovando i fasti degli squadroni della morte, vorrebbe iniziare il roll-back Usa in un’America Latina uscita dal cortile di casa, lo hanno ridotto a trafiletti di otto righe, zattere sbattute da un’alta marea che elevava sulla cresta dei diritti umani i pogrom stragisti telecomandati da Washington e Tel Aviv in Iran e Cina. Dopo lo scellerato sostegno al tentativo di golpe morbido degli yuppie filo-Usa e filo-mercato a Tehran, prodromo all’attacco per cui si agitano i nazisionisti di Tel Aviv, eccoli avventarsi, bertinottianamente bulimici di apprezzamenti di cosca, di loggia e di regime, sulla parallela (astutamente parallela anche al G8) manovra destabilizzatrice del nemico strategico cinese. E, guarda un po’, dopo che l’idiotismo attorno a Bush aveva detto cattivi tutti i musulmani, ecco che dalle eleganti elissi retoriche di Obama saltano fuori dei musulmani buoni. Quelli, appunto, che, coordinati a Washington da Rebiya Khadeer (una specie di Aung San Suu Khi uiguri, capo della Uyghur American Association, finanziata al solito da dependances Cia), iniziano a rosicchiare pezzi delle regioni di confine cinesi. Ieri i tibetani, poi le madames di Tehran Alta, oggi gli islamici buoni uiguri. Il manuale è sempre lo stesso: pogrom stragisti, incendi di negozi, devastazioni di case, ammazzamenti di passanti, assalti alle istituzioni, martiri autoprodotti, che però per le “sinistre” diventano “rivolte per i diritti delle minoranze”, “lotte per la democrazia”, una nuova “rivoluzione di velluto”. Chissà perché queste, che nascono a Washington, vanno bene, mentre quella dei baschi, di colore rosso, o quella degli irlandesi, no. Naturalmente i “bagni di sangue” vengono attribuiti istantaneamente alle forze di governo (governi, tutti questi, a me per nulla simpatici, ma non per questa da gettare nelle fauci di USA-UE-Israele), prima ancora che sul posto sia apparsa la polizia: “Gli han a caccia di uiguri nelle strade di Urumqi”. Ed era vero il contrario, perfino per il New York Times, tanto che tutti hanno parlato di un governo cinese “preso di sorpresa”. Chissà come si orienterebbe questo manipolo redazionale se domani scendessero dalla Val Brembana gli schioppi verdi di Calderoli a manifestare, dando fuoco a marocchini, “il disagio di giovani stranieri in casa loro”, come lo attribuisce il “manifesto” agli uiguri con il “PeaceReporter” (quelli della cantonate) Battaglia. Alla fine il dato che dei 156 morti ammazzati solo il 20% erano uiguri sparacchioni colpiti dalla repressione e tutti gli altri civili han massacrati dagli attivisti dell’amerikana Rebiya Khadeer, annega negli strepiti di nuovi orgasmi.
Quello per Michael Jackson su tutti, un nero che ha insegnato ai suoi fratelli di serie C come sentirsi bravi bianchi trasformandosi in grotteschi surrogati del padrone: “Jackson in black, quella popstar che divenne leader dei neri”, “Nasce una nuova era per il popolo dei blues”: Malcolm X, nella sua tomba, è una trottola impazzita. E poi l’altro orgasmo, per il protagonista della truffaldina e fallimentare kermesse del G8, grondante sangue per le carneficine in Iraq, Afghanistan e Pakistan, presentato così: “Obama in camicia incanta l’Aquila, la città lo attende per ore ed esulta”. Non avevano finito di ballare l’hallygally per colui che aveva appena detto nisba alla salvezza climatica del pianeta e a un’uscita dalla crisi che evitasse 200 milioni di disoccupati e un miliardo di morti per fame e che aveva ripromesso all’Africa i vecchi e mai pagati 20 miliardi di dollari (quanto i “Grandi” spendono per eserciti e armi in due giorni), che lo hanno incoronato salvatore di quel continente. “Il messia nero in Ghana” , “Yes you can Africa”. Sono i titoli sull’ennesima fuffa retorica, dopo quella dei “cari musulmani” al Cairo, esufflata dal campo di un lurido satrapo che aiuta Israele nel genocidio di Gaza. Fuffa tossica ma scintillante di paillettes, riversata sui depredati africani nella visita in Ghana, ovviamente “storica” come ogni suo peto, dal continuista messo da Wall Street e dal Pentagono al posto dello zannuto mentecatto Bush. Pentagono, Wall Street, Cia e Cheney resi incensurabili per crimini degni di Vlad di Transilvania, è naturale, come lo furono gli aguzzini argentini con la legge del “Punto final”). Solo che per l’elite Usa non ci sarà mai spazio per un Kirchner che rimedi agli orrori dei predecessori punendoli. C’è anche, su questa aporia detta “comunista”, un occhiello che ha fatto l’invidia del “Giornale”: “Barack Obama nel primo, storico (e dagli) viaggio da presidente in un paese dell’Africa sub-sahariana: basta prendersela col colonialismo (ti pareva!), è ora di dare al continente governi efficienti. La ricetta per lo sviluppo: pace, democrazia, sanità e opportunità. Traduzione: o ci fornite un Karzai, un Al Maliki, un Micheletti honduregno, un Uribe, un Abu Mazen, un Napolitano tanto “integro e nobile” da strizzare i coglioni a ogni opposizione e da mettere all’asta in Afghanistan altri “eroi caduti nella guerra al terrorismo”, o è meglio che pensiate a Gaza, Abu Ghraib e ai massacri dei nostri droni sulla Frontiera del Nord-Ovest.
Gli analisti manifestini del “basta prendersela col colonialismo” si compiacciono commossi che il loro “Yes we can Africa”, abbia “scelto non a caso il Ghana, il paese dalle tradizioni democratiche più consolidate… esempio per altri stati… da celebrare per essere riuscito a realizzare la speranza che siano realizzati i progressi nel mondo multipolare da lui immaginato”. E qui è stato Kwame Nkrumah, i liberatore di un Ghana poi rimasticato da venditori e compratori, a rivoltarsi nella tomba. Non poteva mancare un riferimento ai reprobi, tipo lo Zimbabwe di Mugabe, massacrato da un decennio di sanzioni punitrici della riforma agraria che ha ridato la terra ai neri, ma “della cui economia devastata l’Occidente non è responsabile, come non è responsabile delle guerre nelle quali bambini vengono arruolati per combattere”. Nessuna responsabilità dell’Occidente, né del colonialismo, giura “il manifesto” con Obama, in quelle guerre per diamanti, petrolio, uranio, che dalla Guinea al Darfur, dal Congo alla Somalia, dalla Liberia alla Nigeria, hanno visto bambini macellarsi per grazia di Shell, De Beer, la City, Wall Street, e per Israele e Usa massimi esportatori d’armi del mondo. Per carità. Del resto nel coro della satanizzazione di Mugabe la voce del “manifesto”, siccome del tutto inusitata, è particolarmente gradita a chi sogna la Rhodesia di Ian Smith.
Che gliene viene al “manifesto”, alle sinistre omologhe, oltre al salasso di lettori e consensi, da questa epistemofobia embedded ? Bella domanda. Sorprende Pierre Rimbert, in “Le Monde diplomatique”, “la capacità dell’elite editoriale di stupire e poi addomesticare alcuni dei suoi critici tendendo loro il più irresistibile degli specchi, quello che trucca l’immagine con una patina di cultura (vedi i paginoni “colti” del giornale)". Pare che parli della nostra stampa di “sinistra”. Che questo cammino verso le vette dell’intelletto sia andato di pari passo con un allineamento ideologico sulle posizioni delle classi dirigenti, ci ricorda fino a che punto il sapere, l’informazione, costituiscano un’arma a doppio taglio che finge di emancipare e invece assoggetta, che pretende di temprare vocazioni contestatarie e forgia conformismi. Parlando del settimanale “Charlie Hebdo”, Rimbert scrive: “Ancora nel 1998 conbatteva contro il libero scambio e denunciava il pensiero unico nei media, ma poi ha ridispiegato le punte delle sue matite sul fronte della guerra di civiltà”. Pare che di nuovo parli della nostra stampa di “sinistra”, matita di Vauro esclusa.
Già, il Ghana, tanto caro e tanto democratico. E’ il Ghana l’unico paese africano che abbia accettato di ospitare “AfriCom”, il comando strategico degli Usa (con diramazioni nella colo0nia Italia, a Vicenza e Napoli) creato dallo “svoltone” Obama, con lo stesso ministro della guerra di Bush, per la riconquista di un’Africa che, tra interventi cinesi, iraniani, venezuelani, russi e un minimo di autostima post-coloniale, è riuscita ad almeno porre un freno a rapine e stragi di quel “colonialismo senza colpe” che Obama è venuto a rilanciare. Gli ufficiali del Ghana si sono formati nel Centro di Studi Strategici per l’Africa istituito dal Pentagono. Il programma Usa “Acota” ha addestrato in Ghana 50mila soldati e istruttori africani, pronti a fare “peacekeeping” per gli interessi occidentali quanto lo fanno gli ascari etiopici contro l’autodeterminazione della Somalia, o quelli dei valvassini Ruanda e Uganda per trasferire a Nord le ricchezze del Congo. L’esercito e la marina Usa hanno ottenuto accesso alle basi militari e ai porti del Ghana che diventa così il gendarme del Golfo di Guinea, da dove gli Usa importeranno entro il 2015 il 25% del loro petrolio. Il paese è governato da una cricca di notabili ladroni e corrotti che hanno concesso alle compagnie Usa una manomorta assoluta sulle proprie ricchezze di diamanti, oro, bauxite, manganese, cacao. Con la conseguenza che la bilancia commerciale del paese è in deficit catastrofico e, sotto il sottile strato di fantocci predatori Usa, langue una massa di disperati. Democrazia esemplare per “il manifesto”, il portatore di felicità e prosperità al continente, l’afroamericano Obama, non poteva non sceglierla.
Sul “manifesto” e in innumerevoli convegni, feste, seminari, i detriti della sinistra italiana, mentre sottobanco continuano ad azzannarsi, sgranano il rosario dell’ unità delle sinistre. Vi si avvicenda uno stormo di grilli tanto parlanti quanto spennati. E più hanno le antenne tarpate da misfatti parlamentari e connubi inverecondi - penso per esempio allo Svendola praticante di Padre Pio, Casini e reperti neofascisti, o a quell’Alberto Burgio, reduce borioso da efferati voti pro-guerre ai poveri interni ed esterni - e più pretendono di erudire il pupo. L’ho già detto: dov’è il santo martello di Pinocchio? E Valentino Parlato, inebriato dagli insuccessi del suo anoressico giornale, lo definisce “più utile di qualsiasi partito di sinistra”, invita dall’alto a “interrogarsi sul che fare”, a “individuare le cause della sconfitta”, a “fare inchieste, individuare come siamo cambiati nei venti, trent’anni che sono alle nostre spalle”, a smettere di “continuare a leggere con le stesse lenti”. Conclude collocandosi in vetta a questo monte di cocci: “E’ da trentotto anni che cerchiamo di assolvere a questi compiti modesti e molto ambiziosi. Aiutateci a insistere”.
C’è qualcosa di ottuso, di paradossale e di patologicamente presuntuoso nelle esternazioni di questo anziano dirigente di un giornale in disarmo ideologico e deontologico. Non ricordo bene com’era trent’anni fa, ma so che da molti anni quei “compiti modesti e molto ambiziosi” sono stati sepolti nella trousse d’epoca delle gentildonne e dei gentiluomini che si sono succeduti alla sua testa. In parallelo con un PCI, il cui seme gramsciano è stato soffocato da proliferazioni gramignose, giù giù fino agli araldi della convenienza-connivenza con l’orrore esistente: D’Alema, Fassino, Veltroni e tutto lo scipito cucuzzaro capitalcompatibile, questo gruppetto di “antagonisti” dandy ha partorito i Riotta, Barenghi, Annunziata, Maiolo, Mineo, per citarne solo alcuni. E altri, vedrete, seguiranno il percorso che porta dalle angustie del “quotidiano comunista” ai riconoscimenti di mamma Rai, della Confindustria, o della Fiat. Sono particolarmente graditi dal pastore del gregge i ritorni delle pecorelle smarrite, al capotribù quelli dei figlioli prodighi.
A Paolo Flores d’Arcais, chierico di punta della “società civile”, viene consentito di diffondere le seguente formula per la salvezza della sinistra: “Invitare decine di personalità che rappresentano il meglio della società civile a iscriversi simultaneamente al PD, in modo da dar luogo a un piccolo Big Bang capace di mobilitare centinaia di migliaia di cittadini e di rifondare questo partito… sarebbe una nemesi… insomma un protagonismo organizzato a geometria variabile (?) cui potrebbero fare da catalizzatore quotidiani, riviste, siti web, associazioni della società civile (sicuramente del tipo di quelle che fanno le “rivoluzioni colorate”), immetterebbe massiccio ossigeno democratico in una morta gora…” La trovata è strepitosa. Sistema tutti. Vendola in testa. Basta qualche pugno di ingegni eletti dentro a quel tritacarne storico che è l’accoppiata PCI-DC, oggi PD, ed è fatta: niente più guerre coloniali, papi e zoccole, mafia onnipervasiva come lo spirito santo, scuola e acqua mangiate da preti e multinazionali, cemento su ogni margheritina… Fa ancora meglio, addirittura con un editoriale di prima pagina, un altro “venerando maestro”, Alberto Asor Rosa, che da qualche tempo, abbandonati i meritevoli saggi di letteratura, si è autonominato cattedratico del corso accademico di "Salvataggio nazionale". Espressa la sentenza per cui gli italiani sono geneticamente inadatti a fare da soli, visto che, da Carlo Magno al Risorgimento, dalla prima alla seconda guerra mondiale, dal 1945 a oggi, o Francia o Spagna (leggi Usa) purchè se magna, per il riscatto nazionale suggerisce la soluzione Savoia: salvi grazie a francesi e inglesi. Però aggiornata ed estesa all’ intera cupola di sponsor e padrini: “Sarebbe bello, sarebbe sufficiente che venisse lanciato qualche modesto messaggio (al collega mafiofascista italiano) da parte degli ospiti stranieri. Basterebbe voltare le spalle nel corso di una pubblica esibizione, declinare dignitosamente ma fermamente qualche invito, rifiutarsi di stringere qualche mano servilmente protesa, esibire una grave serietà quando ci si trovi di fronte a una risata troppo ghignante ed esibita. Al resto penserebbero la stampa, i fotografi, le televisioni. Fra i Grandi del G8 qualche personalità capace di questo dovrebbe pur esserci, dal sobrio laico laburista inglese Brown (sic), al multietnico e libero pensatore Obama (sic), all’onesta luterana tedesca Merkel (sic)…” Simpatiche descrizioni dei baroni del capitalismo imperialista cui, sprovveduti che siamo, non avevamo pensato. Quando si dice la fiducia in se stessi… quando si dice la delega… Del resto al colto e intelligente Alberto la speranza Obama ha subito dato soddisfazione: “Silvio? Ecco una forte leadership per l’Italia!” E giù pacche sulle spalle di papi da parte del "libero pensatore".
Questo scrisse il 5 luglio l’illustre maestro Asor Rosa. Un’autentica rivoluzione affidata a coloro che, secondo l’autore, vantano una “superiorità di comportamenti” morale, quasi antropologica, nei nostri confronti, visto che a rapinare, divorare popoli, devastare terre, sono secoli che sanno fare da soli. Per i “superiori” Obama, Brown, Sarkozy, Merkel non c’è priorità più pressante che liberare il popolo italiano dal guitto mannaro, dal suo mafiastato e dai nazisti verdi. Intanto, mentre si preparano a salvarci voltando le terga a Berlusconi, o rifiutando di fare cin cin con Frattini, fanno le prove generali in Afghanistan, Pakistan, Honduras e ovunque ci siano paesi che, come le nostre sinistre, non ce la fanno da soli. Logicamente per Napolitano, il tagliaunghie dell’opposizione, omaggiato di meriti di saggezza ed equilibrio da Asor Rosa e “manifesto”, è doveroso il sacrificio di quell’ennesimo militare italiano caduto in Afghanistan nella “lotta al terrorismo”. Qualche volta neanche gli Usa, a quanto pare, ce la fanno da soli. Vien da vomitare, presidente. Finchè si limitava a far da punta avanzata dell’ammorbamento etico-ideologico di un partito di cui i suoi “miglioristi” sono entrati a gamba tesa in tangentopoli, transeat. Finchè, da buon membro del collegio di difesa, incollava foglie di fico sulle vergogne di papi e compagni di merenda, agevolando passo passo la frana democratica del paese, pazienza. Ma trarre da quel cadavere ventenne l’ascia per continuare a menare un popolo con cui non c’entriamo una minchia, se non per dovere di solidarietà con la sua resistenza, bè, mancano le parole. Forse le avrebbe sapute Pertini.
Asor Rosa si deve dare pazienza. La sua questua da lustrascarpe deve mettersi in fila. I nostri salvatori sono impegnati in altri soccorsi ai bisognosi. Per prime le banche che hanno assalito il mondo gridando: dateci i soldi o noi disintegriamo milioni di posti di lavoro e distruggiamo le condizioni di vita di miliardi di persone. Come non ascoltare quell’invocazione disperata? Asor Rosa non se ne avrà a male se la sua prece viene accolta più in là. Molto più in là: nei tempi iperuranici in cui lupo avrà imparato a mangiare lupo. Tutto questo ciabattare di vegliardi, decrepiti nelle sinapsi prima ancora che nel fegato, non é che il tropismo da cui deriva una concezione della democrazia come dispotismo dei colti. “Noi siamo i rappresentanti perchè parliamo al posto della gente”. Come dice Deleuze: “Lo scrittore parla per le bestie”. Quelle che leggono “il manifesto”, dove qualcuno si ostina ancora a ripetere che tutto deve partire “dal basso”.
Non ci resta che piangere.
A Paolo Flores d’Arcais, chierico di punta della “società civile”, viene consentito di diffondere le seguente formula per la salvezza della sinistra: “Invitare decine di personalità che rappresentano il meglio della società civile a iscriversi simultaneamente al PD, in modo da dar luogo a un piccolo Big Bang capace di mobilitare centinaia di migliaia di cittadini e di rifondare questo partito… sarebbe una nemesi… insomma un protagonismo organizzato a geometria variabile (?) cui potrebbero fare da catalizzatore quotidiani, riviste, siti web, associazioni della società civile (sicuramente del tipo di quelle che fanno le “rivoluzioni colorate”), immetterebbe massiccio ossigeno democratico in una morta gora…” La trovata è strepitosa. Sistema tutti. Vendola in testa. Basta qualche pugno di ingegni eletti dentro a quel tritacarne storico che è l’accoppiata PCI-DC, oggi PD, ed è fatta: niente più guerre coloniali, papi e zoccole, mafia onnipervasiva come lo spirito santo, scuola e acqua mangiate da preti e multinazionali, cemento su ogni margheritina… Fa ancora meglio, addirittura con un editoriale di prima pagina, un altro “venerando maestro”, Alberto Asor Rosa, che da qualche tempo, abbandonati i meritevoli saggi di letteratura, si è autonominato cattedratico del corso accademico di "Salvataggio nazionale". Espressa la sentenza per cui gli italiani sono geneticamente inadatti a fare da soli, visto che, da Carlo Magno al Risorgimento, dalla prima alla seconda guerra mondiale, dal 1945 a oggi, o Francia o Spagna (leggi Usa) purchè se magna, per il riscatto nazionale suggerisce la soluzione Savoia: salvi grazie a francesi e inglesi. Però aggiornata ed estesa all’ intera cupola di sponsor e padrini: “Sarebbe bello, sarebbe sufficiente che venisse lanciato qualche modesto messaggio (al collega mafiofascista italiano) da parte degli ospiti stranieri. Basterebbe voltare le spalle nel corso di una pubblica esibizione, declinare dignitosamente ma fermamente qualche invito, rifiutarsi di stringere qualche mano servilmente protesa, esibire una grave serietà quando ci si trovi di fronte a una risata troppo ghignante ed esibita. Al resto penserebbero la stampa, i fotografi, le televisioni. Fra i Grandi del G8 qualche personalità capace di questo dovrebbe pur esserci, dal sobrio laico laburista inglese Brown (sic), al multietnico e libero pensatore Obama (sic), all’onesta luterana tedesca Merkel (sic)…” Simpatiche descrizioni dei baroni del capitalismo imperialista cui, sprovveduti che siamo, non avevamo pensato. Quando si dice la fiducia in se stessi… quando si dice la delega… Del resto al colto e intelligente Alberto la speranza Obama ha subito dato soddisfazione: “Silvio? Ecco una forte leadership per l’Italia!” E giù pacche sulle spalle di papi da parte del "libero pensatore".
Questo scrisse il 5 luglio l’illustre maestro Asor Rosa. Un’autentica rivoluzione affidata a coloro che, secondo l’autore, vantano una “superiorità di comportamenti” morale, quasi antropologica, nei nostri confronti, visto che a rapinare, divorare popoli, devastare terre, sono secoli che sanno fare da soli. Per i “superiori” Obama, Brown, Sarkozy, Merkel non c’è priorità più pressante che liberare il popolo italiano dal guitto mannaro, dal suo mafiastato e dai nazisti verdi. Intanto, mentre si preparano a salvarci voltando le terga a Berlusconi, o rifiutando di fare cin cin con Frattini, fanno le prove generali in Afghanistan, Pakistan, Honduras e ovunque ci siano paesi che, come le nostre sinistre, non ce la fanno da soli. Logicamente per Napolitano, il tagliaunghie dell’opposizione, omaggiato di meriti di saggezza ed equilibrio da Asor Rosa e “manifesto”, è doveroso il sacrificio di quell’ennesimo militare italiano caduto in Afghanistan nella “lotta al terrorismo”. Qualche volta neanche gli Usa, a quanto pare, ce la fanno da soli. Vien da vomitare, presidente. Finchè si limitava a far da punta avanzata dell’ammorbamento etico-ideologico di un partito di cui i suoi “miglioristi” sono entrati a gamba tesa in tangentopoli, transeat. Finchè, da buon membro del collegio di difesa, incollava foglie di fico sulle vergogne di papi e compagni di merenda, agevolando passo passo la frana democratica del paese, pazienza. Ma trarre da quel cadavere ventenne l’ascia per continuare a menare un popolo con cui non c’entriamo una minchia, se non per dovere di solidarietà con la sua resistenza, bè, mancano le parole. Forse le avrebbe sapute Pertini.
Asor Rosa si deve dare pazienza. La sua questua da lustrascarpe deve mettersi in fila. I nostri salvatori sono impegnati in altri soccorsi ai bisognosi. Per prime le banche che hanno assalito il mondo gridando: dateci i soldi o noi disintegriamo milioni di posti di lavoro e distruggiamo le condizioni di vita di miliardi di persone. Come non ascoltare quell’invocazione disperata? Asor Rosa non se ne avrà a male se la sua prece viene accolta più in là. Molto più in là: nei tempi iperuranici in cui lupo avrà imparato a mangiare lupo. Tutto questo ciabattare di vegliardi, decrepiti nelle sinapsi prima ancora che nel fegato, non é che il tropismo da cui deriva una concezione della democrazia come dispotismo dei colti. “Noi siamo i rappresentanti perchè parliamo al posto della gente”. Come dice Deleuze: “Lo scrittore parla per le bestie”. Quelle che leggono “il manifesto”, dove qualcuno si ostina ancora a ripetere che tutto deve partire “dal basso”.
Non ci resta che piangere.
lunedì 6 luglio 2009
EUROCENTRISMO: LA STAMPELLA DEL BOIA (su sinistri, Islam e Obama)
La pura e semplice verità raramente è pura e mai è semplice.
(Oscar Wilde)
Un tempo a nessuno era permesso di pensare liberamente. Ora è consentito, ma nessuno ne è più capace. Ora si desidera pensare solo ciò che viene ritenuto si debba pensare. Lo chiamano libertà.
(Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”)
I più grandi mali inflitti dall’uomo all’uomo sono venuti da gente che si diceva certa di qualcosa che invece era falso.
(Bertrand Russell)
A uno che gli suggerì di creare una democrazia a Sparta, Licurgo rispose ‘Per favore, prima metti su una democrazia a casa tua’.
(Plutarco)
Non credere a niente solo perché un cosiddetto saggio l’ha detto. Non credere a niente solo perché è un’opinione generale. Non credere a niente solo perché è scritto in antichi libri. Non credere a niente solo perché lo si dice di origine divina. Non credere a niente solo perché qualcun altro lo crede. Credi solo a ciò che tu stesso hai sperimentato e giudicato vero.
(Gautama Siddharta)
Prologo dell’adunata all’Aquila dei 7 morti viventi. A Vicenza le ronde in divisa di Manganelli massacrano di botte chi vuole sottrarre la città al ruolo di bunker di stragisti planetari. Manifestare è sovversiivo e antidemocratico. A Torino il terrorismo di Stato marca Maroni-Alfano-De Gennaro incarcera 21 manifestanti contro l’adunata dei manipolatori G8 della conoscenza. Manifestare è criminoso. A Tehran viene scatenata la sedizione vandeana di manifestanti innescati e diretti dall’imperialismo e dal necrocapitalismo contro la sovranità e l’autonomia del paese. Manifestare è nobile e giusto. Nello Xinjang, Cina, pogrom dei musulmani secessionisti sul modello dei monaci fascisti tibetani: assalti, incendi, devastazioni, omicidi. Anche questo è nobile è giusto. Sono nobili e giusti tutti coloro che hanno la loro rappresentanza estera e i conti in banca a Washington. Per essere delinquenti basta non averli e non volerli. Così i media e tutta la politica italiana. Così le consorterie degli pseudomarxisti. Vi vengono le vertigini?
Ci sono quelli che giurano che il loro cane dice “mamma”, che “sorride”, che “sembra un bambino”, che è fiero del cappottino griffato, che saluta con la zampetta, che deve evitare di mescolarsi ad altri cani. Più è “umano” e più è gradito. Se poi ringhia all’ospite che sa di gatto, insegue una pecora, o fa a pezzi una pantofola perché lasciato solo, privo della misura del tempo, si sente abbandonato per sempre, cioè se fa il cane tout court, finisce facilmente legato a un paletto sull’autostrada. Parliamo dei padroni dei cani. Sono gli antropocentrici. Poi ci sono quelli che cercano di disumanizzarsi e caninizzarsi, di capire cosa vuol dire uno scodinzolo, un ringhio, un latrato, un mugolio, un movimento delle orecchie, uno snusamento, un’occhiata disperata o allegra, un rimbrotto, onde correggere in termini canini il loro rapporto con l’ecosistema, con gli altri, il tempo, la morte, l’amore, la giustizia, la differenza. E sono i famigliari dei loro cani. Parallelamente c’è quel grillo parlante, grondante laicità e sicumera, che manifesta il suo disgusto per i taliban che impongono il burka, o per Hamas che fa della religione l’asse portante della sua visione del mondo e della sua lotta di liberazione, magari rispondendo con i petardi Kassam ai bombardamenti al fosforo e a tappeto israeliani. Con ogni probabilità lo si può scoprire, sventolante perbenismo integralista bianco, magari cattolico, in capannelli ove si satanizza Ahmadi Nejad, si fanno a pezzi veli, e si lubrifica la penetrazione “democratica” in Iran del tiro a tre dei pupazzi Cia. Se ha un cane farebbe parte della prima categoria. E’ un eurocentrico, un euroimperialista dal pensiero che, inconsapevole e subordinato, fiancheggia gli euroimperialisti con le bombe, un euro-onanista quanto al suo contributo alla battaglia degli oppressi. E’ la stampella del boia. Immancabilmente, in queste manifestazioni, lo trovi con in mano lo strascico della coppia USraeliana che avanza calpestando popoli nel nome della propria “verità”, del proprio dio.
Dalle nostre parti siamo eurocentristi, eurototalitari ed euroimperialisti, senza distinzione di classe, da quando ci siamo dotati di verità assolute e abbiamo abbandonato il relativismo degli egizi e romani che si facevano greci e assorbivano gli dei altrui, dei “barbari” che si facevano romani, dei sancoulottes che bruciavano chiese che bruciavano donne, perfino di certi missionari che, ignorando gli effetti collaterali, si facevano indigeni, per arrivare ai brigatisti internazionali che si facevano rivoluzionari repubblicani di Spagna e ai cubani che si facevano africani. Siccome Marx ed Engels, nell’Europa industrializzante delle sollevazioni di soldati e operai, avevano escluso il lumpenproletariat, i “sottoproletari” (basterebbe la parola!), dall’armata dei soggetti rivoluzionari, non si aveva alcuna esitazione a prendere le distanze ed arricciare il naso quando Lotta Continua trovava fertilità rivoluzionaria tra carcerati, periferici e “sottoproletari”, anche cattolici irlandesi, o quando oggi la rivoluzione la fanno gli invisibili delle favelas venezuelane e le turbe senz’arte né parte delle bidonville indiane o africane.
Altro che aviaria o febbre suina. Il virus del pensiero unico, dunque totalitario, intollerante e cieco, è un privilegio tutto nostro, rifilatoci dai vari scriba delle truffe per gonzi intitolate bibbia e vangelo. Al punto da diventare nei millenni componente antropologica, intellettual-cultural-politica, strumento di dominio e sterminio psicofisico. Non sono però, si badi bene, un fattore genetico, le ratzingeriane basi “naturali”, i destini inesorabilmente fissati nei geni, secondo la scienza imperiale voluta dai capifila capitalisti Usa per occultare i disastri inflittici da un assetto sociale copiato dall’alveare della regina, del fuco e dei milioni di api operaie.
In tal modo abbiamo assorbito, come fossero le sostanze tossiche iniettate nella carne della mucca pazza, assiomi e valutazioni propri di chi ci infinocchia, precipuamente quelli che vanno a detrimento della lucidità di classe. Sullo scambio postogli tra i binari dagli stereotipi della storiografia patrizia, feudale, borghese, ha deragliato perfino l’onestà intellettuale di un Nobel come José Saramago, quando ha paragonato Berlusconi al Catilina demonizzato da Cicerone - quo usque tandem, Catilina, abutere patientia mea - rovesciando i termini di quello scontro nel loro contrario. Semmai era Cicerone, guru della cosca usuraia attestata nel Senato della Repubblica, ad anticipare il massacro sociale del nostro guitto rigurgitato dal Ventennio, quando ha soffocato nel sangue il tentativo rivoluzionario di Catilina che, riprendendo la legge democratica agraria bocciata a Cesare e Crasso dal console Cicerone, aveva voluto che la terra fosse di chi la coltiva. E anche grazie a questi equivoci epistemologici che, da allora, qui e nel mondo, si continua ad aspettare la riforma agraria e l’eliminazione dei terratenientes , la rivoluzione degli sfruttati e la liquidazione dei pecuniatenentes.
In questo contesto si inseriscono oggi due categorie strettamente imparentate: quella degli obamamaniaci e l’altra degli ultrà sinistro-laicisti. Entrambi dotati di un tasso di dabbenaggine accoppiata a presunzione che ne fa protagonisti di uno staio di polli inconsapevoli, ma con pesanti infiltrazioni di volpi da pollaio. Ho sottomano un velenoso pamphlet, pomposamente intitolato “L’espansione dell’Islam politico e la guerra imperialista”, che per ignoranza e protervia, rappresenta una summa di quella spocchia eurocentrista e autoreferenziale che da secoli accompagna le efferatezze della civiltà occidentale, cristiana e bianca. In perfetta continuità con i crociati e con Andrea Doria, con Cortez e i generali Custer o Gordon, che nel nome di Cristo depredavano e massacravano gli “infedeli” e i “selvaggi”, gli eurocentrici si avventano sui colpevoli di non mettere le posate in tavola come insegnato dal nostro galateo. La loro virulenza ideologica accompagna, a dispetto delle intenzioni dichiarate, gli stormi stragisti degli F-16 e le colonne dei carri Markava con la stella di Davide. E se la croce sui vessilli dei conquistadores, sui centuroni della Wehrmacht e negli appelli alla guerra santa della banda imperialista anglosassone aveva il compito di nobilitare rapine e genocidi, le insegne pseudo-sinistre e pseudo-laiciste degli imperialisti culturali eurocentristi hanno il carattere intrinseco dell’onanismo e quello estrinseco della protezione dei fianchi a chi formalmente deprecano. Ne discende il teorema assurdo di un’opposizione a chi macella palestinesi, affiancata alla condivisione del giudizio dato dei macellati: l’oscurantismo integralista di Hamas. Pretendono di sostenere la causa palestinese e si affiancano a coloro che demonizzano chi tale causa oggi difende, o, peggio a coloro che la tradiscono, o ha smarrito la capacità di combattere. Provano a estrarsi dalla melma dell’implicito collaborazionismo, assicurando di stare con i resistenti “veri”, anche se si tratta di formazioni un tempo significative, ma poi sostanzialmente emarginate dalla decimazione israeliana e da errori, carenze, accomodamenti. Ha dello sketch del Bagaglino vederli in piazza oggi contro i terminator imperialisti e, il giorno dopo, contro coloro che a questi si oppongono, magari gridando lo sconveniente Allah U Akhbar.
E’ la classica via all’inferno lastricata di intenzioni più cretine che buone, scaturite da narcisismo e autoreferenzialità. Nel percorrere tale strada assumono via via tutti i paradigmi più infami della propaganda nemica: Hamas e Hezbollah non sono che l’articolazione dell’ egemonismo oscurantista iraniano, Hamas è stata favorita se non creata dal Mossad, Hamas (nella delazione di un Arafat minato dalla senilità e aggrappato alla sopravvivenza tra cosche di corrotti e venduti, peraltro da lui allevati) ottiene “da Israele finanziamenti per 700 sue istituzioni, scuole, università, moschee”, per cui è in grado di attuare una “politica di assistenza sociale che gli procura consensi tra la popolazione”. Quanto all’agente Mossad-Cia, Hussein Musavi, massacratore di comunisti e iracheni tra il 1980 e il 1988 per conto di USraele, sarà pure islamico e magari corrotto e rappresentante del FMI, ma, contrario al velo e coutourier di signore bene, Israele fa bene a sostenerlo e facciamo bene tutti noi, laici e democratici.
Ci sono quelli che giurano che il loro cane dice “mamma”, che “sorride”, che “sembra un bambino”, che è fiero del cappottino griffato, che saluta con la zampetta, che deve evitare di mescolarsi ad altri cani. Più è “umano” e più è gradito. Se poi ringhia all’ospite che sa di gatto, insegue una pecora, o fa a pezzi una pantofola perché lasciato solo, privo della misura del tempo, si sente abbandonato per sempre, cioè se fa il cane tout court, finisce facilmente legato a un paletto sull’autostrada. Parliamo dei padroni dei cani. Sono gli antropocentrici. Poi ci sono quelli che cercano di disumanizzarsi e caninizzarsi, di capire cosa vuol dire uno scodinzolo, un ringhio, un latrato, un mugolio, un movimento delle orecchie, uno snusamento, un’occhiata disperata o allegra, un rimbrotto, onde correggere in termini canini il loro rapporto con l’ecosistema, con gli altri, il tempo, la morte, l’amore, la giustizia, la differenza. E sono i famigliari dei loro cani. Parallelamente c’è quel grillo parlante, grondante laicità e sicumera, che manifesta il suo disgusto per i taliban che impongono il burka, o per Hamas che fa della religione l’asse portante della sua visione del mondo e della sua lotta di liberazione, magari rispondendo con i petardi Kassam ai bombardamenti al fosforo e a tappeto israeliani. Con ogni probabilità lo si può scoprire, sventolante perbenismo integralista bianco, magari cattolico, in capannelli ove si satanizza Ahmadi Nejad, si fanno a pezzi veli, e si lubrifica la penetrazione “democratica” in Iran del tiro a tre dei pupazzi Cia. Se ha un cane farebbe parte della prima categoria. E’ un eurocentrico, un euroimperialista dal pensiero che, inconsapevole e subordinato, fiancheggia gli euroimperialisti con le bombe, un euro-onanista quanto al suo contributo alla battaglia degli oppressi. E’ la stampella del boia. Immancabilmente, in queste manifestazioni, lo trovi con in mano lo strascico della coppia USraeliana che avanza calpestando popoli nel nome della propria “verità”, del proprio dio.
Dalle nostre parti siamo eurocentristi, eurototalitari ed euroimperialisti, senza distinzione di classe, da quando ci siamo dotati di verità assolute e abbiamo abbandonato il relativismo degli egizi e romani che si facevano greci e assorbivano gli dei altrui, dei “barbari” che si facevano romani, dei sancoulottes che bruciavano chiese che bruciavano donne, perfino di certi missionari che, ignorando gli effetti collaterali, si facevano indigeni, per arrivare ai brigatisti internazionali che si facevano rivoluzionari repubblicani di Spagna e ai cubani che si facevano africani. Siccome Marx ed Engels, nell’Europa industrializzante delle sollevazioni di soldati e operai, avevano escluso il lumpenproletariat, i “sottoproletari” (basterebbe la parola!), dall’armata dei soggetti rivoluzionari, non si aveva alcuna esitazione a prendere le distanze ed arricciare il naso quando Lotta Continua trovava fertilità rivoluzionaria tra carcerati, periferici e “sottoproletari”, anche cattolici irlandesi, o quando oggi la rivoluzione la fanno gli invisibili delle favelas venezuelane e le turbe senz’arte né parte delle bidonville indiane o africane.
Altro che aviaria o febbre suina. Il virus del pensiero unico, dunque totalitario, intollerante e cieco, è un privilegio tutto nostro, rifilatoci dai vari scriba delle truffe per gonzi intitolate bibbia e vangelo. Al punto da diventare nei millenni componente antropologica, intellettual-cultural-politica, strumento di dominio e sterminio psicofisico. Non sono però, si badi bene, un fattore genetico, le ratzingeriane basi “naturali”, i destini inesorabilmente fissati nei geni, secondo la scienza imperiale voluta dai capifila capitalisti Usa per occultare i disastri inflittici da un assetto sociale copiato dall’alveare della regina, del fuco e dei milioni di api operaie.
In tal modo abbiamo assorbito, come fossero le sostanze tossiche iniettate nella carne della mucca pazza, assiomi e valutazioni propri di chi ci infinocchia, precipuamente quelli che vanno a detrimento della lucidità di classe. Sullo scambio postogli tra i binari dagli stereotipi della storiografia patrizia, feudale, borghese, ha deragliato perfino l’onestà intellettuale di un Nobel come José Saramago, quando ha paragonato Berlusconi al Catilina demonizzato da Cicerone - quo usque tandem, Catilina, abutere patientia mea - rovesciando i termini di quello scontro nel loro contrario. Semmai era Cicerone, guru della cosca usuraia attestata nel Senato della Repubblica, ad anticipare il massacro sociale del nostro guitto rigurgitato dal Ventennio, quando ha soffocato nel sangue il tentativo rivoluzionario di Catilina che, riprendendo la legge democratica agraria bocciata a Cesare e Crasso dal console Cicerone, aveva voluto che la terra fosse di chi la coltiva. E anche grazie a questi equivoci epistemologici che, da allora, qui e nel mondo, si continua ad aspettare la riforma agraria e l’eliminazione dei terratenientes , la rivoluzione degli sfruttati e la liquidazione dei pecuniatenentes.
In questo contesto si inseriscono oggi due categorie strettamente imparentate: quella degli obamamaniaci e l’altra degli ultrà sinistro-laicisti. Entrambi dotati di un tasso di dabbenaggine accoppiata a presunzione che ne fa protagonisti di uno staio di polli inconsapevoli, ma con pesanti infiltrazioni di volpi da pollaio. Ho sottomano un velenoso pamphlet, pomposamente intitolato “L’espansione dell’Islam politico e la guerra imperialista”, che per ignoranza e protervia, rappresenta una summa di quella spocchia eurocentrista e autoreferenziale che da secoli accompagna le efferatezze della civiltà occidentale, cristiana e bianca. In perfetta continuità con i crociati e con Andrea Doria, con Cortez e i generali Custer o Gordon, che nel nome di Cristo depredavano e massacravano gli “infedeli” e i “selvaggi”, gli eurocentrici si avventano sui colpevoli di non mettere le posate in tavola come insegnato dal nostro galateo. La loro virulenza ideologica accompagna, a dispetto delle intenzioni dichiarate, gli stormi stragisti degli F-16 e le colonne dei carri Markava con la stella di Davide. E se la croce sui vessilli dei conquistadores, sui centuroni della Wehrmacht e negli appelli alla guerra santa della banda imperialista anglosassone aveva il compito di nobilitare rapine e genocidi, le insegne pseudo-sinistre e pseudo-laiciste degli imperialisti culturali eurocentristi hanno il carattere intrinseco dell’onanismo e quello estrinseco della protezione dei fianchi a chi formalmente deprecano. Ne discende il teorema assurdo di un’opposizione a chi macella palestinesi, affiancata alla condivisione del giudizio dato dei macellati: l’oscurantismo integralista di Hamas. Pretendono di sostenere la causa palestinese e si affiancano a coloro che demonizzano chi tale causa oggi difende, o, peggio a coloro che la tradiscono, o ha smarrito la capacità di combattere. Provano a estrarsi dalla melma dell’implicito collaborazionismo, assicurando di stare con i resistenti “veri”, anche se si tratta di formazioni un tempo significative, ma poi sostanzialmente emarginate dalla decimazione israeliana e da errori, carenze, accomodamenti. Ha dello sketch del Bagaglino vederli in piazza oggi contro i terminator imperialisti e, il giorno dopo, contro coloro che a questi si oppongono, magari gridando lo sconveniente Allah U Akhbar.
E’ la classica via all’inferno lastricata di intenzioni più cretine che buone, scaturite da narcisismo e autoreferenzialità. Nel percorrere tale strada assumono via via tutti i paradigmi più infami della propaganda nemica: Hamas e Hezbollah non sono che l’articolazione dell’ egemonismo oscurantista iraniano, Hamas è stata favorita se non creata dal Mossad, Hamas (nella delazione di un Arafat minato dalla senilità e aggrappato alla sopravvivenza tra cosche di corrotti e venduti, peraltro da lui allevati) ottiene “da Israele finanziamenti per 700 sue istituzioni, scuole, università, moschee”, per cui è in grado di attuare una “politica di assistenza sociale che gli procura consensi tra la popolazione”. Quanto all’agente Mossad-Cia, Hussein Musavi, massacratore di comunisti e iracheni tra il 1980 e il 1988 per conto di USraele, sarà pure islamico e magari corrotto e rappresentante del FMI, ma, contrario al velo e coutourier di signore bene, Israele fa bene a sostenerlo e facciamo bene tutti noi, laici e democratici.
E perché mai farebbe tutto questo Israele, che pure vede nell’Iran un nemico mortale e pure individua, dall’invasione del Libano nel 1982 in qua, nelle formazioni islamiche gli obiettivi privilegiati da annientare? Ma è chiaro: per “opporre a una leadership orientata al socialismo una formazione dichiaratamente anticomunista”. Che la leadership di Arafat e la congrega di opportunisti e satrapi al vertice di Fatah fossero “orientati al socialismo” è un inedito storico di notevole curiosità; che i patrioti islamici fossero visceralmente anticomunisti è ovviamente dimostrato dagli ottimi rapporti di Hezbollah con il Partito Comunista Libanese e dalla comune resistenza delle sinistre palestinesi e di Hamas sia alle aggressioni israeliane, sia ai tradimenti di Abu Mazen e agli arbìtri repressivi dell’Autorità Nazionale Palestinese. La classica tattica del colonialista di dividere il fronte della resistenza, attaccando prima la fazione più forte e lasciandone germogliare un’altra cui toccherà la stessa sorte successivamente, viene tramutata, secondo i canoni della diffamazione sionista, in un Hamas che puzza di Israele, si fa strumento del massacratore del suo popolo. Che questo valga anche per i caporioni della cospirazione Cia contro il legittimo governo iraniano, in questo caso assimilato ai parrucconi di Hamas, non imbarazza più di tanto.
Nel libello citato, e in chi lo pubblica in rete e vi affianca altri funambolismi della coerenza politica, si arriva a vertici di delazione che il milieu non esiterebbe a bollare di infamia. Hamas, di cui si ignora l’autofinanziamento attraverso il sistema della colletta sociale islamica, “si strangolerebbe da sola se non ricevesse finanziamenti oltre che dall’Iran, suo patrono dichiarato, anche dagli Stati Arabi alleati degli Stati Uniti, con il beneplacito dell’Amministrazione americana e… con singolare tolleranza di Israele” (poche righe dopo l’autrice si contraddice clamorosamente dichiarando “esclusivamente verbale” l’aiuto iraniano a Gaza). Peccato che Hamas ha elettoralmente dimostrato di essere sostenuto dalla maggioranza del migliore popolo del Medioriente. Peccato che quei milioni di dollari che il primo ministro palestinese, Ismail Hanjeh, aveva raccolto nel mondo arabo, gli siano stati sequestrati dai gabellieri egiziani di Israele al valico di Rafah e fatti finire nelle banche di Mubaraq. Peccato che gli Stati Uniti, il vassallo europeo e i regimi arabi, abbiano negato al governo legittimo di Gaza anche un solo dollaro dei 4 miliardi e mezzo promessi dopo la carneficina di Gaza a Sharm el Sheikh e assicurano che non partirà un soldo fino a quando a Gaza City non tornano a insediarsi i gerarchi palestinesi a stelle e strisce dell’ANP. Peccato che da tre anni Israele, pronubi gli Usa e compiacenti i regimi arabi che con Israele trafficano, strangola nel suo blocco e ammazza il popolo palestinese di Gaza onde provocare una rivolta che rovesci Hamas e faccia rientrare i collaborazionisti. Peccato che, al di là di qualche comunicato di protesta, le sinistre palestinesi in Cisgiordania si vedano costrette ad assistere dalla finestra, per sopravvivere, allo sterminio degli attivisti e militanti islamici da parte degli ascari ANP di Netaniahu. Non bastassero queste cadute politiche, oltreché di intelligenza e buongusto, si arriva al parossismo di rivalutare, in odio ad Hamas, la sporca figura di Mohammed Dahlan, agente Cia e Mossad, emissario di Abu Mazen in Gaza, squalo arricchitosi rubando agli affamati, che per conto dell’ANP e di Israele doveva realizzare un colpo di Stato contro il governo di Hamas, democraticamente eletto, ma fallì e riuscì a sottrarsi alla giusta punizione che è poi spettata a quelle spie di Fatah che comunicavano alle forze israeliane gli obiettivi da colpire, centrali elettriche, ospedali, scuole, depositi di viveri, dirigenti della Resistenza. Analogamente, in odio a Hezbollah, ecco la vergogna senza fine di attribuire a Hezbollah, sulla falsariga del magistrato inquirente al soldo degli Usa, l’attentato contro il premier libanese Rafiq Hariri, operazione antisiriana con un marchio Mossad che più evidente non si può e che è stata ampiamente provata dalla confessione dei sicari, nonché dagli obiettivi stessi dell’impresa. Un 11 settembre alla libanese.
Che Hamas si faccia aiutare dall’Iran, oltreché dalla Siria (paese che l’autrice scaltramente non menziona tra i sostenitori della resistenza islamica, visto che il suo carattere laico, progressista e panarabo, ne annichilirebbe il teorema) bisogna avere idee come flatulenze per esecrarlo. Non c’è Stato al mondo che rompa il tremendo isolamento del popolo palestinese e dell’unica sua resistenza alla definitiva scomparsa. Tutti tributano onori e onorari al quisling Abu Mazen e alla svendita della sua gente, magari nel momento, anche quello attuale, in cui rastrella e assassina militanti della Resistenza in Cisgiordania. E qui il FPLP, diversamente da questi suoi presunti tifosi in Italia, ha dichiarato senza ambiguità di stare incondizionatamente con Hamas e contro il lavoro sporco che i venduti fanno per conto di chi li ha comprati. Eppure, tra le nubi lnere di questa apocalisse, svolazzano cornacchie che negano il diritto dei naufraghi di rivolgersi a chiunque non partecipi al gioco dello spingerli al fondo, fosse anche, leninisticamente, il diavolo. I palestinesi sono patrioti, dal FPLP al FDLP, da Hamas alla Jihad, da Mustapha a Marwan Barghuti e presto o tardi la faranno finita con la fanghiglia dei traditori. L’Iran è quello che è. Una potenza che si vuole regionale e che con tale obiettivo gioca la sua cinica realpolitik su tutti i tavoli disponibili. In Iraq, tra collisioni e collusioni, ha condiviso con gli Usa la distruzione del massimo polo antimperialista ed antisionista, ma anche antipersiano e anti-integralista, e ha conquistato posizioni di forza nel confronto con Israele e gli Usa. In Libano e Palestina gioca la stessa partita sostenendo Hezbollah e Hamas. E’ una colpa di Hamas e Hezbollah? Dovrebbero dire “meglio soli che male accompagnati”? Dovrebbero tagliarsi le palle?
C’è qualcosa di paradossale e di osceno in chi, presumendosi portatore di tavole mosaiche in salsa comunista, naviga nel fiume di sangue alimentato da nequizie coloniali secolari. Un oligofrenico del PRC mi dichiarò una volta, arricciando il naso, “La resistenza irachena non ci parla”. Non gli parlava, certo, perché usava il suo di linguaggio, incomprensibile a orecchie invase dal cerume della superiorità occidentale. Un linguaggio entrato in campo quando altri discorsi erano venuti a mancare, o avevano fallito, o erano fuori contesto e irrispettosi delle intelligenze e sensibilità maturate in condizioni storiche e culturali che con quelle con cui si è misurato Marx e con cui non sanno più misurarsi i suoi epigoni, tanto saccenti quanto inetti, hanno a che fare come la falce con le palme.
A dare addosso all’Iran attingendo al risentimento per quello che gli Ayatollah hanno fatto all’Iraq dal 1980 al 2009 in combutta con l’Occidente, si finisce come quell’orbo che con l’unico occhio vede ciò che gli arriva da destra e ignora quanto occorre a sinistra. Lanciando anatemi contro la resistenza palestinese e libanese in armi, questi sinistri restano sospesi tra le fumigazioni di un ideologismo solipsista, sterile, masturbatorio, imbacuccati come rabbini in formule apodittiche valide ovunque e sempre. Gli sfila sotto il naso una congiuntura che non vedono e non comprendono. Come la circostanza che, oggi come oggi, il fronte islamico ha per comune denominatore il fatto di essere in Medioriente e Asia l’unica trincea che blocca l’olocausto planetario programmato dall’imperialismo. O come il far parte di un’armata che ha per comander in chief il presidente del più criminale Stato del mondo.
Nel libello citato, e in chi lo pubblica in rete e vi affianca altri funambolismi della coerenza politica, si arriva a vertici di delazione che il milieu non esiterebbe a bollare di infamia. Hamas, di cui si ignora l’autofinanziamento attraverso il sistema della colletta sociale islamica, “si strangolerebbe da sola se non ricevesse finanziamenti oltre che dall’Iran, suo patrono dichiarato, anche dagli Stati Arabi alleati degli Stati Uniti, con il beneplacito dell’Amministrazione americana e… con singolare tolleranza di Israele” (poche righe dopo l’autrice si contraddice clamorosamente dichiarando “esclusivamente verbale” l’aiuto iraniano a Gaza). Peccato che Hamas ha elettoralmente dimostrato di essere sostenuto dalla maggioranza del migliore popolo del Medioriente. Peccato che quei milioni di dollari che il primo ministro palestinese, Ismail Hanjeh, aveva raccolto nel mondo arabo, gli siano stati sequestrati dai gabellieri egiziani di Israele al valico di Rafah e fatti finire nelle banche di Mubaraq. Peccato che gli Stati Uniti, il vassallo europeo e i regimi arabi, abbiano negato al governo legittimo di Gaza anche un solo dollaro dei 4 miliardi e mezzo promessi dopo la carneficina di Gaza a Sharm el Sheikh e assicurano che non partirà un soldo fino a quando a Gaza City non tornano a insediarsi i gerarchi palestinesi a stelle e strisce dell’ANP. Peccato che da tre anni Israele, pronubi gli Usa e compiacenti i regimi arabi che con Israele trafficano, strangola nel suo blocco e ammazza il popolo palestinese di Gaza onde provocare una rivolta che rovesci Hamas e faccia rientrare i collaborazionisti. Peccato che, al di là di qualche comunicato di protesta, le sinistre palestinesi in Cisgiordania si vedano costrette ad assistere dalla finestra, per sopravvivere, allo sterminio degli attivisti e militanti islamici da parte degli ascari ANP di Netaniahu. Non bastassero queste cadute politiche, oltreché di intelligenza e buongusto, si arriva al parossismo di rivalutare, in odio ad Hamas, la sporca figura di Mohammed Dahlan, agente Cia e Mossad, emissario di Abu Mazen in Gaza, squalo arricchitosi rubando agli affamati, che per conto dell’ANP e di Israele doveva realizzare un colpo di Stato contro il governo di Hamas, democraticamente eletto, ma fallì e riuscì a sottrarsi alla giusta punizione che è poi spettata a quelle spie di Fatah che comunicavano alle forze israeliane gli obiettivi da colpire, centrali elettriche, ospedali, scuole, depositi di viveri, dirigenti della Resistenza. Analogamente, in odio a Hezbollah, ecco la vergogna senza fine di attribuire a Hezbollah, sulla falsariga del magistrato inquirente al soldo degli Usa, l’attentato contro il premier libanese Rafiq Hariri, operazione antisiriana con un marchio Mossad che più evidente non si può e che è stata ampiamente provata dalla confessione dei sicari, nonché dagli obiettivi stessi dell’impresa. Un 11 settembre alla libanese.
Che Hamas si faccia aiutare dall’Iran, oltreché dalla Siria (paese che l’autrice scaltramente non menziona tra i sostenitori della resistenza islamica, visto che il suo carattere laico, progressista e panarabo, ne annichilirebbe il teorema) bisogna avere idee come flatulenze per esecrarlo. Non c’è Stato al mondo che rompa il tremendo isolamento del popolo palestinese e dell’unica sua resistenza alla definitiva scomparsa. Tutti tributano onori e onorari al quisling Abu Mazen e alla svendita della sua gente, magari nel momento, anche quello attuale, in cui rastrella e assassina militanti della Resistenza in Cisgiordania. E qui il FPLP, diversamente da questi suoi presunti tifosi in Italia, ha dichiarato senza ambiguità di stare incondizionatamente con Hamas e contro il lavoro sporco che i venduti fanno per conto di chi li ha comprati. Eppure, tra le nubi lnere di questa apocalisse, svolazzano cornacchie che negano il diritto dei naufraghi di rivolgersi a chiunque non partecipi al gioco dello spingerli al fondo, fosse anche, leninisticamente, il diavolo. I palestinesi sono patrioti, dal FPLP al FDLP, da Hamas alla Jihad, da Mustapha a Marwan Barghuti e presto o tardi la faranno finita con la fanghiglia dei traditori. L’Iran è quello che è. Una potenza che si vuole regionale e che con tale obiettivo gioca la sua cinica realpolitik su tutti i tavoli disponibili. In Iraq, tra collisioni e collusioni, ha condiviso con gli Usa la distruzione del massimo polo antimperialista ed antisionista, ma anche antipersiano e anti-integralista, e ha conquistato posizioni di forza nel confronto con Israele e gli Usa. In Libano e Palestina gioca la stessa partita sostenendo Hezbollah e Hamas. E’ una colpa di Hamas e Hezbollah? Dovrebbero dire “meglio soli che male accompagnati”? Dovrebbero tagliarsi le palle?
C’è qualcosa di paradossale e di osceno in chi, presumendosi portatore di tavole mosaiche in salsa comunista, naviga nel fiume di sangue alimentato da nequizie coloniali secolari. Un oligofrenico del PRC mi dichiarò una volta, arricciando il naso, “La resistenza irachena non ci parla”. Non gli parlava, certo, perché usava il suo di linguaggio, incomprensibile a orecchie invase dal cerume della superiorità occidentale. Un linguaggio entrato in campo quando altri discorsi erano venuti a mancare, o avevano fallito, o erano fuori contesto e irrispettosi delle intelligenze e sensibilità maturate in condizioni storiche e culturali che con quelle con cui si è misurato Marx e con cui non sanno più misurarsi i suoi epigoni, tanto saccenti quanto inetti, hanno a che fare come la falce con le palme.
A dare addosso all’Iran attingendo al risentimento per quello che gli Ayatollah hanno fatto all’Iraq dal 1980 al 2009 in combutta con l’Occidente, si finisce come quell’orbo che con l’unico occhio vede ciò che gli arriva da destra e ignora quanto occorre a sinistra. Lanciando anatemi contro la resistenza palestinese e libanese in armi, questi sinistri restano sospesi tra le fumigazioni di un ideologismo solipsista, sterile, masturbatorio, imbacuccati come rabbini in formule apodittiche valide ovunque e sempre. Gli sfila sotto il naso una congiuntura che non vedono e non comprendono. Come la circostanza che, oggi come oggi, il fronte islamico ha per comune denominatore il fatto di essere in Medioriente e Asia l’unica trincea che blocca l’olocausto planetario programmato dall’imperialismo. O come il far parte di un’armata che ha per comander in chief il presidente del più criminale Stato del mondo.
Obama arma e sostiene le barbarie del killerstato sionista, ha giurato fedeltà e obbedienza alla lobby che ne assicura il retroterra; minaccia di risistemare le cose andate a male per i suoi mandanti di Wall Street in America Latina; appoggia con i suoi scherani golpe in America Latina, li tenta in Iran; con il pretesto di eliminare l’apparato Cia chiamato Al Qaida, stermina popoli renitenti alla loro morte in Afghanistan e Pakistan; finge di lasciare l’Iraq, mantenendo ad eternum 50mila soldati in basi che fanno dell’Iraq quello che le stesse basi fanno della Colombia, e lasciando sguinzagliati in “ordine pubblico” 138mila tagliagole mercenari (contractors); massacra la classe operaia Usa con il pretesto di salvare le corporation e tira fuori dalle bancarotte fraudolente, con i soldi di lavoratori mandati al macero, le banche che lo hanno fatto eleggere; rilancia, facendo leva sull’operato di Bush e Cheney alle Torri Gemelle e di altri affini a Londra, Madrid, Amman, Bali, la “guerra infinita al terrorismo”; dice di chiudere Guantanamo, ma non la chiude e ne potenzia il mattatoio gemello a Bagram; conferma la detenzione senza limiti per “combattenti nemici”, raccattati a caso su offerta di lenoni locali, e i tribunali speciali militari; non ha rimosso una virgola dei vari Patriot Act con i quali i suoi predecessori di prima del change hanno cancellato l’habeas corpus, la costituzione americana e gran parte delle libertà civili e dei diritti umani. Il tutto infiorettato da scintillanti bolle di sapone, piene di gas esilarante, insufflate nei nostri crani scoperchiati dall’elegantone che è stato scelto per rimediare ai rutti alla nitroglicerina del troglodita Bush.
Questo è dunque il comander in chief della svolta: un pupattolo finto nero manovrato dagli squali che vedono il mondo come un acquario pieno di sardine. Questo è il taumaturgo della “svolta” omaggiato dal “manifesto” e da tutta la sinistra istituzionale. Potrei andare avanti per ore, ma giustamente mi si è già rimproverato di essere prolisso. Concludo, chiedendo ai missionari della sinistra dura e pura come ci si trova a nuotare in formazione con Obama e Netaniahu in testa, a fianco di Minzolini, Cicchitto, Calderoli, Fiamma Nirenstein (quella che organizza chiassate contro Hamas e per Musavi), tirando con loro fiocinate alle sardine nei mari della mezzaluna.
C’è bisogno disperato di un fronte antimperialista che ci colleghi a tutti coloro che, dall’Iran alla Palestina, dal Libano all’America Latina, dalla Somalia al Sudan e all’Africa tutta, scavano fosse comuni per i boia in arrivo dal Nord. Ma la fortezza del tenente Drogo (*) è sguarnita. Dagli spalti spettri acchittati da vivi guardano dall’alto in basso verso chi, soprattutto a Sud, pur lottando contro l’ecatombe, indossa altri abiti, cammina con passo diverso ma che lascia impronte nella sabbia, guarda ad altre stelle. Si sono rottamati i cannoni della dialettica e dell’obiettività. Osservando con sufficienza e disdegno, commiserazione e disgusto, questi ologrammi restano con le mani in mano, sotto un vessillo su cui non c’è scritto o dipinto più niente, dislavato dalle piogge dell’arroganza e della vacuità. Se quelli laggiù non si mettono le nostre divise, non inalberano le nostre insegne, che si fottano. E’ su questo inconscio precipitato di razzismo e sciovinismo che dal deserto avanzano i tartari.
(*) Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondandori
Questo è dunque il comander in chief della svolta: un pupattolo finto nero manovrato dagli squali che vedono il mondo come un acquario pieno di sardine. Questo è il taumaturgo della “svolta” omaggiato dal “manifesto” e da tutta la sinistra istituzionale. Potrei andare avanti per ore, ma giustamente mi si è già rimproverato di essere prolisso. Concludo, chiedendo ai missionari della sinistra dura e pura come ci si trova a nuotare in formazione con Obama e Netaniahu in testa, a fianco di Minzolini, Cicchitto, Calderoli, Fiamma Nirenstein (quella che organizza chiassate contro Hamas e per Musavi), tirando con loro fiocinate alle sardine nei mari della mezzaluna.
C’è bisogno disperato di un fronte antimperialista che ci colleghi a tutti coloro che, dall’Iran alla Palestina, dal Libano all’America Latina, dalla Somalia al Sudan e all’Africa tutta, scavano fosse comuni per i boia in arrivo dal Nord. Ma la fortezza del tenente Drogo (*) è sguarnita. Dagli spalti spettri acchittati da vivi guardano dall’alto in basso verso chi, soprattutto a Sud, pur lottando contro l’ecatombe, indossa altri abiti, cammina con passo diverso ma che lascia impronte nella sabbia, guarda ad altre stelle. Si sono rottamati i cannoni della dialettica e dell’obiettività. Osservando con sufficienza e disdegno, commiserazione e disgusto, questi ologrammi restano con le mani in mano, sotto un vessillo su cui non c’è scritto o dipinto più niente, dislavato dalle piogge dell’arroganza e della vacuità. Se quelli laggiù non si mettono le nostre divise, non inalberano le nostre insegne, che si fottano. E’ su questo inconscio precipitato di razzismo e sciovinismo che dal deserto avanzano i tartari.
(*) Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondandori