Ciò che conta nel mondo non è di conoscere gli uomini, ma di essere al momento più bravi di colui che ci sta di fronte. Tutte le fiere e gli imbonitori di piazza ne danno testimonianza.
(Johann Wolfgang Goethe)
Ciò che non si capisce non si possiede.
(Johann Wolfgang Goethe)
Venga pur meno la memoria, se al momento buono non viene meno il giudizio.
(Johann Wiolfgang Goethe)
Quelle che qui non hanno potuto essere trasferite, ma che sono in fondo al pezzo inviato per email ai miei contatti, sono mie foto scattate durante i vari reportage che ho fatto in Eritrea durante la guerra di liberazione dai primi anni ’60 al 1993. Guerriglieri in azione, caduti, al lavoro nei campi, un ambulatorio al fronte, il villaggio di Barasole, in Dancalia, bombardato dagli etiopici, la contraerea della guerriglia. Chiedo scusa per la sfessante lunghezza del pezzo, ma forse gli argomenti lo meritavano e comunque lo si può sempre spilluccare a brani in vacanza, tanto più che, causa una mia prolungata assenza dal blog e dal paese, non vi saranno più che uno o due articoli prima della partenza. Più brevi. Credo che la parte più importante, agghiacciante, del pezzo sia quella che illustra la campagna del “manifesto” contro Libia e Eritrea in sintonia con la strategia d'intervento imperialista.
Tg 3 del 17 luglio, capitolo esteri: una sequenza marca Cia-Mossad su profughi eritrei seviziati in Libia e a rischio di deportazione verso “l’orrore della dittatura eritrea”, una pioggia di alloro e ghirlande all’icona Mandela che ha garantito la continuità della discriminazione sociale e di razza, una grandinata di lacrime di gioia per la liberazione dei “dissidenti” a Cuba, una sparata affannosamente sarcastica sul “caudillo” Hugo Chavez. Uguali e peggio tutti gli altri telegiornali. E così tutti i giornali di carta. Media che non fanno che rimestare nella fanghiglia dell’impostura planetaria, chi girandola a destra, chi facendo finta di girarla a sinistra. Dalla sinistra alla destra estrema non una stonatura rispetto ai paradigmi su cui si regge, pur sgretolandosi nell’urto di chi non si rassegna, il tempio degli dei falsi e bugiardi dell’imperialismo. Unica differenza quella tra i do di petto dei tenori e i pigolii di quelli che in seconda fila cantano in falsetto. Voce del padrone degli autoimbavagliati in irriducibile lotta contro il bavaglio del guitto mannaro e in altrettanto irriducibile fregola di servizio postribolare ai consigli d’amministrazione della sedicente “comunità internazionale”, occidentale, bianca, cristiana. E in altrettanto spasmodica attesa di riempire le terze e quarte file nelle cene elargite dal maggiordomo di palazzo, l’insetto a pois. La prima ammucchiata incoronava imperatore e corte: il guitto mannaro, la figlia, Casini, Geronzi, Draghi, Letta e second lady, l’affittacamere cardinal Bertone. Il giro successivo offriva, sulla terrazza di Propaganda Fide, l’esibizione magna-magna dei buffoni di corte: Signorini, il lecca lecca del giornalismo-bavaglio, Schifani per conto degli amici degli amici, Gasparri per l’intellettualità di destra, il foruncolo di Gelli Cicchitto, il legionario di Cristo La Russa, Matteoli intrecciato nel tango con Caltagirone, Prestigiacomo per il libero mercato dell’ambiente, Al Fano per la vespista libertà di stampa, Polverini, Masi e imbavagliati RAI vari, raccolti a corona attorno a Minzolini, felicemente autoimbavagliato da parere una mummia.
Tg 3 del 17 luglio, capitolo esteri: una sequenza marca Cia-Mossad su profughi eritrei seviziati in Libia e a rischio di deportazione verso “l’orrore della dittatura eritrea”, una pioggia di alloro e ghirlande all’icona Mandela che ha garantito la continuità della discriminazione sociale e di razza, una grandinata di lacrime di gioia per la liberazione dei “dissidenti” a Cuba, una sparata affannosamente sarcastica sul “caudillo” Hugo Chavez. Uguali e peggio tutti gli altri telegiornali. E così tutti i giornali di carta. Media che non fanno che rimestare nella fanghiglia dell’impostura planetaria, chi girandola a destra, chi facendo finta di girarla a sinistra. Dalla sinistra alla destra estrema non una stonatura rispetto ai paradigmi su cui si regge, pur sgretolandosi nell’urto di chi non si rassegna, il tempio degli dei falsi e bugiardi dell’imperialismo. Unica differenza quella tra i do di petto dei tenori e i pigolii di quelli che in seconda fila cantano in falsetto. Voce del padrone degli autoimbavagliati in irriducibile lotta contro il bavaglio del guitto mannaro e in altrettanto irriducibile fregola di servizio postribolare ai consigli d’amministrazione della sedicente “comunità internazionale”, occidentale, bianca, cristiana. E in altrettanto spasmodica attesa di riempire le terze e quarte file nelle cene elargite dal maggiordomo di palazzo, l’insetto a pois. La prima ammucchiata incoronava imperatore e corte: il guitto mannaro, la figlia, Casini, Geronzi, Draghi, Letta e second lady, l’affittacamere cardinal Bertone. Il giro successivo offriva, sulla terrazza di Propaganda Fide, l’esibizione magna-magna dei buffoni di corte: Signorini, il lecca lecca del giornalismo-bavaglio, Schifani per conto degli amici degli amici, Gasparri per l’intellettualità di destra, il foruncolo di Gelli Cicchitto, il legionario di Cristo La Russa, Matteoli intrecciato nel tango con Caltagirone, Prestigiacomo per il libero mercato dell’ambiente, Al Fano per la vespista libertà di stampa, Polverini, Masi e imbavagliati RAI vari, raccolti a corona attorno a Minzolini, felicemente autoimbavagliato da parere una mummia.
In ritardo, per la scala di servizio, e perciò doppiamente vorace, la coppia valeriamariniana per tutte le stagioni: the last lady Lella e, ormai spompato cicisbeo al seguito, il cortigiano di riserva Fausto Bertinotti. Da presidente delle Camera ad ala sinistra nella partita tra vecchie glorie della cafoneria nazionale. Vi potete immaginare la scena. Le femmine che squittiscono: Ciao caaara, sei adorabile… Pure tu, quanto stai beeene! I maschi che nitriscono: Caro Bruno, carissimo Fausto, e chi c’ammazza, a Igna’, a Maurì, a Fabrì, che te possino…
Al collega accademico Gasparri porgeva vive e vibranti scuse per l’involontaria assenza di Nichi Vendola, al momento impegnato a costruire fabbriche per fighetti da far venire utili per le primarie dell’assalto al PD, grande partito della nuova sinistra radicale, trascinato dal tiro a quattro Casini, Pannella, Fini, Saviano. Convoglio della restaurazione della sinistra, dell’ecologia, della libertà, magari con l’aiutino del neocomitato PD per la privatizzazione dell’acqua, alla faccia del milione e mezzo di firme (del resto, di questo lo Svendola è un esperto). Con sul cocchio Barack Obama. Permettete un’osservazione personale? A Fa’, m’hai cacciato da Liberazione pe’ gnente, hai offerto a li commensali ‘sta pajata de comunismo annato a male e che hai beccato? Che mo’ te fanno ballà co ‘sta pupazzona e te danno puro da magnà aggratis. An vedi come balla Fausto... Finchè a Bruno je regge er stomaco a vede che ce sta chi fa più schifo de lui… (i romani mi scuseranno).
Non ci resta che “il manifesto”
Non ci resta che “il manifesto”
Io i giornali degli antibavaglio autoimbavagliati me li scorro in rete. Basta e avanza. E’ tutto scontato, come il comunismo da bancarella di Vendolotti. Comprare “Liberazione” è come versare una stilla di sangue in un corpo mummificato. Non ci resta che “il manifesto” e io, da qualche tempo, mi chiedo perché cazzo debba pagare il prezzo proletario di €1.30 al “quotidiano comunista” anzichè il prezzo medioborghese di €1.20 a “Il Fatto quotidiano”. Giornale, questo, di inchiesta sul malaffare e di combattimento contro il regime mafio-massonico-fascista, che sta al “manifesto” come il bazooka sta alla cerbottana (fatti salvi la questione “lavoro”, unico tema dove le parti s’invertono, due, tre della razza di Stefano Chiarini e qualche saggio esterno). “Il Fatto” è uno spasso e un’illuminazione, da Travaglio e Padellaro sulla prima, attraverso Luca Telese, Gianni Barbacetto, Olivero Beha, fino a quando non si precipita nella camera di compensazione imperiale delle pagine internazionali. Trattasi per fortuna di paginetta Cia-Mossad striminzita, mirabilmente superficiale e incompetente, dalla quale però si sprigionano, governati da Furio Colombo, i miasmi all’uranio di tutte le prodezze USraeliane. Non ci resta che “il manifesto”!
Sintonie
Davvero? Nello stesso giorno di quei telegiornali, la campagna del “manifesto”, cresciuta in giorni e giorni, paginoni e paginoni, gigantografie e titoloni, di scomposti ululati in difesa di migranti eritrei in un CIE libico, renitenti alla leva del loro paese, peraltro aggredito da tutte le parti dai colonizzatori di ritorno e dai loro ascari locali, raggiunge il diapason dell’indignazione umanitarista e del livore anti-eritreo. A fianco, l’ennesimo inno a “Invictus”, l’icona universale Mandela, dal sorriso imbalsamato sulla roboante kermesse calcistica nella quale i dissennati vuvuzele vorrebbero narcotizzare il disastro sociale di una “liberazione” dall’apartheid che non ha liberato se non una nuova consorteria di profittatori. E, sempre in sintonia con questuanti della captatio benevolentiae imperii, come il Bersani che giura all’imperatore di non volere peggiorare la situazione con un “Chavez dopo Berlusconi” e come lo Svendola che ne è la copia carbone-pulito, l’ammiccante titolo: “Censura Onu sulle libertà. Siamo come il Venezuela”. L’autore, tale Andrea Fabozzi, rispondendo a un lettore esterrefatto, che in Italia vorrebbe la venezuelana libertà di stampa, le scuole e la sanità gratuite, la lotta alla povertà e l’aumento del 40% dei salari minimi, la difesa delle minoranze, la terra ai contadini e le fabbriche agli operai, si fa topastro all’ombra della chiavica ONU ricordando che questa aveva “biasimato Chavez quanto Berlusconi” (e te pareva, per un ectoplasma con la sola funzione di legittimare le mattanze Usa e Nato in giro per il mondo). Il quadro si completa con l’immancabile, commosso plauso a un sempre più sorprendente Raul Castro, liberatore, per merito di Santa Romana Chiesa (quella del golpe in Honduras), di una cinquantina di “prestigiosi intellettuali dissidenti per la democrazia” che i tribunali sotto Fidel avevano incarcerato sette anni fa perché scoperti e dimostrati terroristi al soldo della potenza che di Cuba vuole la morte, dopo avercela seminata per mezzo secolo. Sintonie tra autoimbavagliati.
Potrebbe bastare, ma, visto che ci siamo, non priviamoci di un piccolo florilegio da un giornale che, per carità, non vorremmo veder sparire tra le fauci del guitto mannaro, ma che non cessa di sbigottirci per la sua capacità di invocare il sostegno dei lettori in nome di una catarsi implicita nella sua ragione sociale e, poi, di sincronicamente proporre temi, linee e valutazioni, in perfetta osmosi con coloro che la catarsi dovrebbe far fuori. Tutti deplorano il tirannosauro che caccia dalla gloriosissima emittente sionista, Radio Radicale, un direttore che, da classico trotzkista in transizione, ha nobilitato l’etere per vent’anni con un giornalismo di vette del mestiere come Magdi Allam, Fiamma Nirenstein e tutto il più fetido cucuzzaro dell’imbonimento goebbelsiano. Tutti deplorano e pure “il manifesto”.
Una Sebrenica all'anno leva d'intorno l'affanno
Sintonie
Davvero? Nello stesso giorno di quei telegiornali, la campagna del “manifesto”, cresciuta in giorni e giorni, paginoni e paginoni, gigantografie e titoloni, di scomposti ululati in difesa di migranti eritrei in un CIE libico, renitenti alla leva del loro paese, peraltro aggredito da tutte le parti dai colonizzatori di ritorno e dai loro ascari locali, raggiunge il diapason dell’indignazione umanitarista e del livore anti-eritreo. A fianco, l’ennesimo inno a “Invictus”, l’icona universale Mandela, dal sorriso imbalsamato sulla roboante kermesse calcistica nella quale i dissennati vuvuzele vorrebbero narcotizzare il disastro sociale di una “liberazione” dall’apartheid che non ha liberato se non una nuova consorteria di profittatori. E, sempre in sintonia con questuanti della captatio benevolentiae imperii, come il Bersani che giura all’imperatore di non volere peggiorare la situazione con un “Chavez dopo Berlusconi” e come lo Svendola che ne è la copia carbone-pulito, l’ammiccante titolo: “Censura Onu sulle libertà. Siamo come il Venezuela”. L’autore, tale Andrea Fabozzi, rispondendo a un lettore esterrefatto, che in Italia vorrebbe la venezuelana libertà di stampa, le scuole e la sanità gratuite, la lotta alla povertà e l’aumento del 40% dei salari minimi, la difesa delle minoranze, la terra ai contadini e le fabbriche agli operai, si fa topastro all’ombra della chiavica ONU ricordando che questa aveva “biasimato Chavez quanto Berlusconi” (e te pareva, per un ectoplasma con la sola funzione di legittimare le mattanze Usa e Nato in giro per il mondo). Il quadro si completa con l’immancabile, commosso plauso a un sempre più sorprendente Raul Castro, liberatore, per merito di Santa Romana Chiesa (quella del golpe in Honduras), di una cinquantina di “prestigiosi intellettuali dissidenti per la democrazia” che i tribunali sotto Fidel avevano incarcerato sette anni fa perché scoperti e dimostrati terroristi al soldo della potenza che di Cuba vuole la morte, dopo avercela seminata per mezzo secolo. Sintonie tra autoimbavagliati.
Potrebbe bastare, ma, visto che ci siamo, non priviamoci di un piccolo florilegio da un giornale che, per carità, non vorremmo veder sparire tra le fauci del guitto mannaro, ma che non cessa di sbigottirci per la sua capacità di invocare il sostegno dei lettori in nome di una catarsi implicita nella sua ragione sociale e, poi, di sincronicamente proporre temi, linee e valutazioni, in perfetta osmosi con coloro che la catarsi dovrebbe far fuori. Tutti deplorano il tirannosauro che caccia dalla gloriosissima emittente sionista, Radio Radicale, un direttore che, da classico trotzkista in transizione, ha nobilitato l’etere per vent’anni con un giornalismo di vette del mestiere come Magdi Allam, Fiamma Nirenstein e tutto il più fetido cucuzzaro dell’imbonimento goebbelsiano. Tutti deplorano e pure “il manifesto”.
Una Sebrenica all'anno leva d'intorno l'affanno
E’ il giorno dell’annuale novena per Sebrenica. La stampa che aveva lubrificato i cingoli degli sterminatori della Jugoslavia tramite bombe e carneficine etniche, sotto le insegne umanitarie ricamate a punto e croce da mosche cocchiere come Sofri, Langer, disobbedienti strafatti e cappellani militari travestiti da missionari, copre le piaghe purulente aperte dalla menzogna in quelle terra con la megabufala di un massacro mai avvenuto. Donne, anziani e bambini abbandonati a Sebrenica dall’islamonazista Izetbegovic, “difesi” da qualche centinaio di miliziani, mentre il grosso era stato ritirato, allo scopo di fornire ai bombardieri Nato, con una “strage serba”, l’alibi per la riduzione in poltiglia della Serbia e della Repubblica Serba di Bosnia, unica nazionalità renitente rimasta, furono tutti evacuati dalle forze serbe. I cadaveri riesumati a ogni ricorrenza sono di coloro che caddero in combattimento. Dei vantati ottomila (cifra adeguatamente suggestiva per analoghi messe in scena, da Sebrenica ai curdi gassati, dal Tibet allo Zimbabwe), una buona metà sono risuscitati nelle liste elettorali bosniache e hanno debitamente votato per il fantoccio nazi di Sarajevo. Sul “manifesto” Tommaso De Francesco punta a salvarsi l’anima, integrando la panzana con il resoconto, questo sì veritiero e documentato al DNA, dei 3500 civili trucidati dal caporione bosniaco Naser Oric nei villaggi serbi attorno a Sebrenica. Un colpaccio al cerchio, un colpetto alla botte. Il generale Mladic, innocente, ricercato dal Tribunale zoccolaro dell'Aja, Naser Oric mai sfiorato da quei integerrimi magistrati.
E gli Shabaab somali, forza islamica di liberazione in un paese cui la posizione geostrategica ha regalato le attenzioni criminali, di guerra e di traffici letali, della solita “comunità internazionale”, sono terroristi e pirati che “con le loro stragi lanciano messaggi di sangue”. Così, truculento, “il manifesto”. Così tutti gli altri. Ce n’è, al volo, anche per Mugabe, paese al bando della “comunità internazionale” perché insiste a sopravvivere a sanzioni genocide decretate contro l’esproprio dei latifondisti bianchi e ad andare per la sua strada: Mauro Masi , che del servizio pubblico fa la cloaca delle deiezioni dei suoi padroni, “come nemmeno in Zimbabwe”. Per dire, in affettuosa assonanza con la City: il peggio del peggio (per noi colonialisti fottuti). Sono queste sonanti sintonie con il calpestio degli anfibi coloniali che ci ingraziano il “quotidiano comunista”. Dell’ineffabile trio Giordana-Sgrena-Forti, generose stampelle a sostegno di interventi umanitari, appena un po’ troppo bombaroli, contro l’Al Qaida ante portas, dall’Iran all’Afghanistan, dal Pakistan allo Yemen, dall’Iraq alla Somalia e al Venezuela, s’è già ripetutamente detto. Ora si tratta di sostenere, come in Iraq, la strategia del nuovo comandante Petraeus nella sua brillante idea di far ammazzare gli afghani tra di loro pagando capivillaggi perché armino ciascuno la sua bella milizia. E l’afghanizzazione di una guerra persa per grazia di dio e volontà della nazione, collaudata con la vietnamizzazione e poi con l’irachizzazione dei petraeusiani “Consigli del risveglio”, o "Figli dell'Iraq". Figli rinnegati, pagati e lanciati contro i fratelli della Resistenza, astutamente rinominata “Al Qaida”, oggi abbandonati e consegnati al settarismo stragista del regime fantoccio scita. Quando non opportunamente cacciati a fucilate e autobombe giù nel girone della Giudecca, l’ultimo nell’attualissimo inferno di Padre Dante, quello in grembo a Satana, per mano di combattenti che stanno ad Al Qaida come Che Guevara sta a Osama Bin Laden.
E’ facile figurarsi il compiacimento di chi, per trafficare droga e farne trasfusione di sangue alla metropoli fatiscente, abbia letto sul “manifesto” il pezzo della rubrica “Fuoriluogo” intitolato Droga, lo zar russo che pretende di guidare il mondo. A parte il fatto che quando sei russo e stai in qualche istituzione c’è poco da fare, o sei zar, o non sei figlio di San Nicola, tale Tom Blickman, della setta di Netaniahu, si descrive atterrito dalla nomina di Yuri Fedotov a capo dell’ente ONU per la droga (UNODC). Fedotov è un diplomatico russo, ma anche, a dispetto dell’autore, stimato e prolifico autore di testi di denuncia sulla geopolitica degli stupefacenti, da sempre terza gamba, con armi e disinformazione, della tavola dei banchetti imperialisti. Nostalgico, il Blickman, delle compiacenze dei predecessori italiani di Fedotov, i prodi Arlacchi e Costa, cui nessun grosso narcotrafficante ha mai mosso rimostranze. E’ ai loro tempi che sono fiorite rigogliose le coltivazioni, produzione e rotte, a fini di spopolamento in basso e accumulazione in alto, nei paesi a controllo mafio-statunitense. Sottratto e bonificato da Myanmar, Cambogia e Tailandia il già munifico “Triangolo d’oro” (la Cia ci si pagò le “operazioni speciali” in Indocina e poi tra le giovani generazioni occidentali), ecco la Colombia, l’Afghanistan, il Kosovo, il Perù, il Messico. E ogni tanto un aereo delle compagnie noleggiate da Cia e consocia Dea si abbatte su qualche paese o isola del Centroamerica, con dentro dalle quaranta tonnellate di cocaina in sù. Fedotov e il governo russo si sono rivolti negli ultimi tempi ripetutamente a Washington, ONU, Tribunali internazionali, per denunciare il controllo e lo sfruttamento dell’oppio afghano da parte degli occupanti, ha stigmatizzato il rifiuto dei comandi Usa di procedere allo sradicamento, ne ha rivelato le complicità nel contrabbando che, condotto eminentemente attraverso la Russia (e Iran), ha fatto di un paese quasi esente da consumo di massa la tomba di trentamila morti all’anno da overdose e malanni correlati. Ebbene, il nostro Blickman ha la faccia di rampognare la Russia per la sua offensiva diplomatica in favore della fumigazione dei campi di papavero e per aver definito quella statunitense e Nato una “narco-aggressione contro la Russia e altri paesi, una nuova guerra dell’oppio” (quella precedente fu condotta da inglesi e alleati per imporre ai cinesi, fino allora puliti, la produzione, il commercio e l’uso di droga). Opina, il virtuoso dell’inversione di causa ed effetto, che la Russia voglia incolpare di quelle sue 30mila vittime non la sua ”pessima politica della droga”, ma nientemeno che i coltivatori afghani, i loro committenti a stelle e striscie, l’ONU dei Costa e Arlacchi. E, ovviamente - e qui Agnoletto, già vedovo di grandi movimenti svaporati perchè divenuti imbelli, si sente defraudato anche del suo residuo ruolo di propagandista retribuito dell’esistenza dell’inesistente Aids - se oggi per la prima volta in Russia c’è un problema Aids, la colpa per Blickman è solo del proibizionismo, mica in prima linea dell’eroina spacciata dai mercenari armati di Wall Street e rifilata a giovani russi perchè annichiliscano le loro difese immunitarie (patologia dalle mille eziologie del degrado, droga, fame, igiene, che qualcuno ha chiamato Aids e ci fa un sacco di soldi).
E gli Shabaab somali, forza islamica di liberazione in un paese cui la posizione geostrategica ha regalato le attenzioni criminali, di guerra e di traffici letali, della solita “comunità internazionale”, sono terroristi e pirati che “con le loro stragi lanciano messaggi di sangue”. Così, truculento, “il manifesto”. Così tutti gli altri. Ce n’è, al volo, anche per Mugabe, paese al bando della “comunità internazionale” perché insiste a sopravvivere a sanzioni genocide decretate contro l’esproprio dei latifondisti bianchi e ad andare per la sua strada: Mauro Masi , che del servizio pubblico fa la cloaca delle deiezioni dei suoi padroni, “come nemmeno in Zimbabwe”. Per dire, in affettuosa assonanza con la City: il peggio del peggio (per noi colonialisti fottuti). Sono queste sonanti sintonie con il calpestio degli anfibi coloniali che ci ingraziano il “quotidiano comunista”. Dell’ineffabile trio Giordana-Sgrena-Forti, generose stampelle a sostegno di interventi umanitari, appena un po’ troppo bombaroli, contro l’Al Qaida ante portas, dall’Iran all’Afghanistan, dal Pakistan allo Yemen, dall’Iraq alla Somalia e al Venezuela, s’è già ripetutamente detto. Ora si tratta di sostenere, come in Iraq, la strategia del nuovo comandante Petraeus nella sua brillante idea di far ammazzare gli afghani tra di loro pagando capivillaggi perché armino ciascuno la sua bella milizia. E l’afghanizzazione di una guerra persa per grazia di dio e volontà della nazione, collaudata con la vietnamizzazione e poi con l’irachizzazione dei petraeusiani “Consigli del risveglio”, o "Figli dell'Iraq". Figli rinnegati, pagati e lanciati contro i fratelli della Resistenza, astutamente rinominata “Al Qaida”, oggi abbandonati e consegnati al settarismo stragista del regime fantoccio scita. Quando non opportunamente cacciati a fucilate e autobombe giù nel girone della Giudecca, l’ultimo nell’attualissimo inferno di Padre Dante, quello in grembo a Satana, per mano di combattenti che stanno ad Al Qaida come Che Guevara sta a Osama Bin Laden.
E’ facile figurarsi il compiacimento di chi, per trafficare droga e farne trasfusione di sangue alla metropoli fatiscente, abbia letto sul “manifesto” il pezzo della rubrica “Fuoriluogo” intitolato Droga, lo zar russo che pretende di guidare il mondo. A parte il fatto che quando sei russo e stai in qualche istituzione c’è poco da fare, o sei zar, o non sei figlio di San Nicola, tale Tom Blickman, della setta di Netaniahu, si descrive atterrito dalla nomina di Yuri Fedotov a capo dell’ente ONU per la droga (UNODC). Fedotov è un diplomatico russo, ma anche, a dispetto dell’autore, stimato e prolifico autore di testi di denuncia sulla geopolitica degli stupefacenti, da sempre terza gamba, con armi e disinformazione, della tavola dei banchetti imperialisti. Nostalgico, il Blickman, delle compiacenze dei predecessori italiani di Fedotov, i prodi Arlacchi e Costa, cui nessun grosso narcotrafficante ha mai mosso rimostranze. E’ ai loro tempi che sono fiorite rigogliose le coltivazioni, produzione e rotte, a fini di spopolamento in basso e accumulazione in alto, nei paesi a controllo mafio-statunitense. Sottratto e bonificato da Myanmar, Cambogia e Tailandia il già munifico “Triangolo d’oro” (la Cia ci si pagò le “operazioni speciali” in Indocina e poi tra le giovani generazioni occidentali), ecco la Colombia, l’Afghanistan, il Kosovo, il Perù, il Messico. E ogni tanto un aereo delle compagnie noleggiate da Cia e consocia Dea si abbatte su qualche paese o isola del Centroamerica, con dentro dalle quaranta tonnellate di cocaina in sù. Fedotov e il governo russo si sono rivolti negli ultimi tempi ripetutamente a Washington, ONU, Tribunali internazionali, per denunciare il controllo e lo sfruttamento dell’oppio afghano da parte degli occupanti, ha stigmatizzato il rifiuto dei comandi Usa di procedere allo sradicamento, ne ha rivelato le complicità nel contrabbando che, condotto eminentemente attraverso la Russia (e Iran), ha fatto di un paese quasi esente da consumo di massa la tomba di trentamila morti all’anno da overdose e malanni correlati. Ebbene, il nostro Blickman ha la faccia di rampognare la Russia per la sua offensiva diplomatica in favore della fumigazione dei campi di papavero e per aver definito quella statunitense e Nato una “narco-aggressione contro la Russia e altri paesi, una nuova guerra dell’oppio” (quella precedente fu condotta da inglesi e alleati per imporre ai cinesi, fino allora puliti, la produzione, il commercio e l’uso di droga). Opina, il virtuoso dell’inversione di causa ed effetto, che la Russia voglia incolpare di quelle sue 30mila vittime non la sua ”pessima politica della droga”, ma nientemeno che i coltivatori afghani, i loro committenti a stelle e striscie, l’ONU dei Costa e Arlacchi. E, ovviamente - e qui Agnoletto, già vedovo di grandi movimenti svaporati perchè divenuti imbelli, si sente defraudato anche del suo residuo ruolo di propagandista retribuito dell’esistenza dell’inesistente Aids - se oggi per la prima volta in Russia c’è un problema Aids, la colpa per Blickman è solo del proibizionismo, mica in prima linea dell’eroina spacciata dai mercenari armati di Wall Street e rifilata a giovani russi perchè annichiliscano le loro difese immunitarie (patologia dalle mille eziologie del degrado, droga, fame, igiene, che qualcuno ha chiamato Aids e ci fa un sacco di soldi).
Un asterisco in fondo al libello, che non menziona neanche per un filo di deontologia la responsabilità degli Usa per il traffico in paesi tutti da loro controllati, ci informa che lo scaltro Blickman è dirigente del “Transnational Institute”. E si capisce perché non esprima neanche un grano di polline di dubbio sul documentatissimo ruolo di Cia e Usa e non parli di quel trilione di dollari spurgato dal sangue dei narcomassacri nelle colonie Usa Messico, Perù, Colombia, Afghanistan. Il TNI lavora in coppia con l’ente governativo Usa “Washington Office on Latin America” (WOLA). Rigorosamente antiproibizionista, nemica mortale di tutti i succedanei della droga, avvolta in bandiere arcobaleno sventolate sul destino commiserato delle “povere vittime di questa globalizzazione”, questa specie di mega-Patrignano vanta un presidente che si chiama Susan George e ci è noto sia per la facezia della Tobin Tax (Attac), sia per aver appoggiato di slancio l’assalto all’Afghanistan. Per cui non poteva mancare, nel coro imperialista umanitario, il fiancheggiamento di TNI e WOLA alle rivoluzioni colorate, dall’Iran all’Ucraina, dal Venezuela al Libano, dalla Georgia al Myanmar della martire con uffici a Washington Aung San Suu Kyi. Insomma, la maschera umana del mostro. Una roba che puzza di George Soros lontano un oceano. Brezze non dissimili spirano anche da quel Raffaele Salinari, presidente di un oggetto misterioso chiamato “Terre des Hommes”, che riesce a riempire un’intera colonna di elogi alla giustizia colombiana per aver condannato un nostro concittadino per pedofilia. Bastavano cinque righe. Il resto lo poteva magari occupare con qualche notarella sui 20mila sindacalisti, contadini, oppositori, bruciati dai paramilitari nell’inferno di questo narcocliente degli Usa. Tra Salinari e Agnoletto, per non farsi mancare nulla, svetta l’appello contro una condanna a morte in Iran. Uno della giaculatoria di appelli che imperversano sul giornale, perlopiù generati da invocatori dell’ ”unità della sinistra” che si detestano fra di loro e adorano il proprio ombelico. Le firme ve le potete immaginare, ineccepibilmente gradite ai manager delle campagne sui diritti umani nel Sud del mondo, condotte dai peggiori violatori di diritti umani della storia. Sui quali silenzio. Spiccano per probità e coerenza Fassino, el panzon Ferrara, il sofriano Marcenaro, la virago liberista e guerresca Bonino, Polito su mandato del giustiziere D’Alema, il due-pesi-due-misure Lerner (fermamente dimentico delle esecuzioni di massa in Israele), e la santa-subito Shiria Ebadi. Li supera tutti Barbara Contini. Ve la ricordate governatrice di Nasseriya e degli specialisti tricolori del tiro all’ambulanza? Oppure, peggio ancora in Darfur, dove ha dato il meglio di sé, facendo sparire fondi della cooperazione e propiziando un’altra spedizione imperialista contro un inventato genocidio?
Da D’Alema a Bertinotti, a Ingrao, a Epifani, a Obama, alla Daddario, al sansonettiano Vendola, populista al servizio della causa “io”, se mai ce ne sono stati. Con l’immarcescibile ragazza pon pon, Ida Dominijanni, che sbandiera in testa: dopo superman Obama, la Daddario, vedetta pugliese dell’emancipazione femminile tramite marchette e nastri ricattosi, fino, oggi, al putto di pongo Vendola, quello carismatico, quello che, ragazzo tra ragazzi, "sa rispondere alla domanda di politica vera, contro quella paludata e vuota, con polpi alla griglia e birre ghiacciate", fiore di una generazione che è la “base ideale di una politica riformista (appunto!!), affabulata da Obama di cui studia con puntiglio mosse e contromosse, discorsi e riforme, retorica e marketing politico”. Niente male come apprezzamento di uno che scalcia verso sinistra e annaspa verso destra. Del resto, la signora cara a Lerner pone “il desiderio” sopra ogni cosa. “E si sa, quando parte il desiderio può arrivare dove vuole”. Anche a incendiare di passione insana questa anziana signora che, potesse vantare tanti amanti fisici quanti ne ha inanellati di politici, Messalina le farebbe un baffo. Le sbandate del “manifesto” sono epiche e, non fosse per la disperata fedeltà dei suoi residui lettori, avrebbero già consegnato il giornale all’archivio noir degli amori sbagliati, a volte maledetti.
Ci si chiede quale base teorica nemmeno marxista, anche solo socialdemocratica, anche solo vagamente alternativa all’esistente di merda, possano avere le sgangherate scuffie per un acrobata da circo come D’Alema, che regolarmente precipita dai trapezi su cui vorrebbe involarsi verso le opposte sponde. Che cosa fa resistere il giornale nel suo ruolo di incrollabile sentinella nella garitta della CGIL, davanti a quello che da almeno trent’anni è diventato il Centro Benessere di padroni da rimpannucciare. Scontata, per quanto decerebrata, almeno sul piano giornalistico, è la difesa del proprio strapuntino nella “comunità internazionale” attraverso l’accanita salvaguardia di una frode di livello biblico come quella dell’11 settembre, ignorando con attento galateo deontologico lo tsunami di contestazioni della megaballa che soffia sugli Stati Uniti e su tutto il Sud del mondo. Scontato, pur nella sua davvero stupefacente insipienza ideologico-politica, la forsennata cotta per il primo Obama: non lo sostenevano forse i giovani, gli ambientalisti, i liberal, l’infallibile web? Ora quel web tace, quando non si prende a scudisciate per la cazzata fatta. Intanto, Obama è riuscito, con la sua inversione a U rispetto alla scintillante fuffa della campagna elettorale e dei discorsi epocali sulle magnifiche sorti e progressive in corso, a disintegrare totalmente il movimento d’opposizione di massa.
E’ che “il manifesto” insiste. La scena è un lago di sangue dove galleggiano i detriti umani dell’escalation obamiana in Asia, Medio Oriente USraeliano, America Latina, Africa, e gli effetti del travaso di midollo spinale dalla classe operaia e media Usa e mondiale a Wall Street. Ma “il manifesto” sa gestire microfoni direzionali e occhi di bue, che tutto il resto sprofondano nel buio, fissandoli sul protagonista. Non trovando nulla da ridire su controriforme sanitarie che gettano altri 35 milioni di destituti nelle fauci delle assicurazioni, su leggi di regolamentazione finanziaria che provocano ovazioni a Wall Street, su guerre e torture, su fascistizzazione strisciante a casa e colpi di stato fuori, “il manifesto” ci gratifica della “Lezione di Obama” . Sottotitolo: “L’analisi dei discorsi del Presidente Usa può insegnare molto ai progressisti europei” . Quella che qualunque studioso di oratoria e semantica demistificherebbe all’istante come vuota e roboante retorica da imbonitore di farlocconi, strutturalmente scissa dai fatti compiuti, qui diventa “Il caso da manuale per il linguista cognitivo”. Sentenziato che il credo politico del macellaio dell’Afghanistan è quello “dell’avvocato che ha rinunciato ai facili guadagni per difendere chi non si può difendere”, l’umorista dell’articolessa (Michelangelo Conoscenti) non lesina perle di scientifica eulogia: “Obama è un intellettuale che parla in modo raffinato arrivando immediatamente al cuore… Ha dimostrato di essere un presidente X.O (?) che sa gestire diverse modalità comunicative facendo sentire le persone esseri umani. Il suo sorriso non è di circostanza, è empatico… Utilizza le scoperte delle scienze cognitive per meglio veicolare una visione politica fortemente ancorata ai valori progressisti e dei Padri fondatori, non una di interessi personali… Riesce a catturare anche il cittadino meno attento e a risvegliare l’America solidale". Con Guantanamo, Gaza e il generale Petraeus. Con i 35 milioni di disoccupati e senzacasa generati dal suo sodalizio con Lehman Brothers e Goldman Sachs.
Voi non la conoscete / ha gli occhi belli / è l’America solidale.
Viene da vomitare.
Da D’Alema a Bertinotti, a Ingrao, a Epifani, a Obama, alla Daddario, al sansonettiano Vendola, populista al servizio della causa “io”, se mai ce ne sono stati. Con l’immarcescibile ragazza pon pon, Ida Dominijanni, che sbandiera in testa: dopo superman Obama, la Daddario, vedetta pugliese dell’emancipazione femminile tramite marchette e nastri ricattosi, fino, oggi, al putto di pongo Vendola, quello carismatico, quello che, ragazzo tra ragazzi, "sa rispondere alla domanda di politica vera, contro quella paludata e vuota, con polpi alla griglia e birre ghiacciate", fiore di una generazione che è la “base ideale di una politica riformista (appunto!!), affabulata da Obama di cui studia con puntiglio mosse e contromosse, discorsi e riforme, retorica e marketing politico”. Niente male come apprezzamento di uno che scalcia verso sinistra e annaspa verso destra. Del resto, la signora cara a Lerner pone “il desiderio” sopra ogni cosa. “E si sa, quando parte il desiderio può arrivare dove vuole”. Anche a incendiare di passione insana questa anziana signora che, potesse vantare tanti amanti fisici quanti ne ha inanellati di politici, Messalina le farebbe un baffo. Le sbandate del “manifesto” sono epiche e, non fosse per la disperata fedeltà dei suoi residui lettori, avrebbero già consegnato il giornale all’archivio noir degli amori sbagliati, a volte maledetti.
Ci si chiede quale base teorica nemmeno marxista, anche solo socialdemocratica, anche solo vagamente alternativa all’esistente di merda, possano avere le sgangherate scuffie per un acrobata da circo come D’Alema, che regolarmente precipita dai trapezi su cui vorrebbe involarsi verso le opposte sponde. Che cosa fa resistere il giornale nel suo ruolo di incrollabile sentinella nella garitta della CGIL, davanti a quello che da almeno trent’anni è diventato il Centro Benessere di padroni da rimpannucciare. Scontata, per quanto decerebrata, almeno sul piano giornalistico, è la difesa del proprio strapuntino nella “comunità internazionale” attraverso l’accanita salvaguardia di una frode di livello biblico come quella dell’11 settembre, ignorando con attento galateo deontologico lo tsunami di contestazioni della megaballa che soffia sugli Stati Uniti e su tutto il Sud del mondo. Scontato, pur nella sua davvero stupefacente insipienza ideologico-politica, la forsennata cotta per il primo Obama: non lo sostenevano forse i giovani, gli ambientalisti, i liberal, l’infallibile web? Ora quel web tace, quando non si prende a scudisciate per la cazzata fatta. Intanto, Obama è riuscito, con la sua inversione a U rispetto alla scintillante fuffa della campagna elettorale e dei discorsi epocali sulle magnifiche sorti e progressive in corso, a disintegrare totalmente il movimento d’opposizione di massa.
E’ che “il manifesto” insiste. La scena è un lago di sangue dove galleggiano i detriti umani dell’escalation obamiana in Asia, Medio Oriente USraeliano, America Latina, Africa, e gli effetti del travaso di midollo spinale dalla classe operaia e media Usa e mondiale a Wall Street. Ma “il manifesto” sa gestire microfoni direzionali e occhi di bue, che tutto il resto sprofondano nel buio, fissandoli sul protagonista. Non trovando nulla da ridire su controriforme sanitarie che gettano altri 35 milioni di destituti nelle fauci delle assicurazioni, su leggi di regolamentazione finanziaria che provocano ovazioni a Wall Street, su guerre e torture, su fascistizzazione strisciante a casa e colpi di stato fuori, “il manifesto” ci gratifica della “Lezione di Obama” . Sottotitolo: “L’analisi dei discorsi del Presidente Usa può insegnare molto ai progressisti europei” . Quella che qualunque studioso di oratoria e semantica demistificherebbe all’istante come vuota e roboante retorica da imbonitore di farlocconi, strutturalmente scissa dai fatti compiuti, qui diventa “Il caso da manuale per il linguista cognitivo”. Sentenziato che il credo politico del macellaio dell’Afghanistan è quello “dell’avvocato che ha rinunciato ai facili guadagni per difendere chi non si può difendere”, l’umorista dell’articolessa (Michelangelo Conoscenti) non lesina perle di scientifica eulogia: “Obama è un intellettuale che parla in modo raffinato arrivando immediatamente al cuore… Ha dimostrato di essere un presidente X.O (?) che sa gestire diverse modalità comunicative facendo sentire le persone esseri umani. Il suo sorriso non è di circostanza, è empatico… Utilizza le scoperte delle scienze cognitive per meglio veicolare una visione politica fortemente ancorata ai valori progressisti e dei Padri fondatori, non una di interessi personali… Riesce a catturare anche il cittadino meno attento e a risvegliare l’America solidale". Con Guantanamo, Gaza e il generale Petraeus. Con i 35 milioni di disoccupati e senzacasa generati dal suo sodalizio con Lehman Brothers e Goldman Sachs.
Voi non la conoscete / ha gli occhi belli / è l’America solidale.
Viene da vomitare.
Il meccanismo sadomaso, il culto del primo idolo che passa luccicando, che fanno infoiare il giornale appresso a Obama, soprattutto le sue ultrà femministe, si rinnova e rinfresca con Nichi Vendola. Sta, il taumaturgo di una sinistra che non rompe niente e non vede l’ora di farsi PD, alle altre presenze nel giornale come Alba Parietti sta al notturno Fuori Orario di Ghezzi. D’altronde, non s’è spicciato, Vendola, di quella SEL che ancora puzzava di partitino comunista dell’odiato Novecento e trascinava a fatica nel logo quella parolaccia: “sinistra”. Meglio, per diventare PD, le “Fabbriche”, parola tuttofare che ai padroni liscia il pelo con l’affettuoso ricordo dell’Ottocento e delle ferriere, mentre agli altri evoca la mitica figura della nobile tutablù china, a sacrificarsi per patria e famiglia, sulla catena di montaggio. Ci si becca pure qualche reduce dell’autunno caldo. Anche se, per ora, dai capannoni vendoliani si vedono sbucare solo figure operaie come Franco Giordano, Gennaro Migliore, Nicola Fratoianni, Piero Sansonetti (quello del “Forza Luxuaria!” in prima pagina e del “A me la legge sulle intercettazioni, nelle sue grandi linee piace. Non mi sembra affatto una legge illiberale, né una legge bavaglio che uccide l’informazione. Si ispira a principi garantisti e di difesa del cittadino…” (e poi chiedetevi perché ‘sto Sionetti sta da Vespa più spesso dell’’apriporta di Porta a Porta). Le interviste alla spugnosa faccia di questo molle ragazzo invecchiato (che, non scordiamocelo, resse indulgente una giunta quasi tutta di puttanieri malfattori, privatizzò l’acqua pugliese e abbassò le soglie di protezione sanitaria all’Ilva), gareggiano per baldanza deontologica con quelle di Emilio Fede al guitto mannaro. La genericità fuffarola della retorica del nuovo Cicerone è presa per il disegno del Grande Architetto per un futuro di universale felicità. E quando lo Svendola rivela che il modello di organizzazione, mobilitazione, comunicazione (depredazione?) gli viene da Comunione e Liberazione e che così ispirato si accinge a “sparigliare il centrosinistra” (non la sinistra, intendiamoci, “il centrosinistra”), magari condividendone la pariglia con Fassino, Veltroni, Letta, Bersani, D’Alema, Fioroni, De Luca… quando di queste furbate “il manifesto” fa idolatria su paginoni dopo paginoni, non di “eruzioni di buona politica” si tratta, come diceva il marketing della kermesse vendoliana a Bari e come sussulta emozinato “il manifesto”, ma di ennesima fregatura obamiana. Non è mica per una pur presente ottusità che l’attuale segretario pizzicagnolo del PD e quello più trendy in pectore sincronicamente hanno garantito al principale oltreoceano la continuità ultrasessantennale di mafia, libero mercato, sottomissione, basi e guerre: “Non vorrei che dopo Berlusconi venisse un Chavez”. Pegno pagato. Il ricambio al guitto spennato non è più solo Gianfranco Fini.
Il “manifesto” dal Darfur…
Qualcuno ricorda la Cap Anamur? No? Fate male perché si trattò della prova provata che “il manifesto”, con “Liberazione” al traino, non disdegna a volte di fare da mosca cocchiera alle peggiori trame sanguinarie e predatrici dell’imperialismo. Dabbenaggine, connivenza, inettitudine, opportunismo? Fate voi. Nell’estate del 2004 il mondo intero si commosse sull’odissea di 37 fuggiaschi da un inferno del Darfur appena inventato e lanciato dai servizi di intossicazione occidentali con l’acqualina in bocca per le risorse minerarie di quella regione. Per tre settimane la nave tedesca Cap Anamur si esibì tra Malta e Canale di Sicilia, fino ad approdare, suscitati i necessari clamori mediatici, a Porto Empedocle. Ebbene, non ci fu giornale più assiduo del “manifesto” nel lanciare la mobilitazione di tutti gli umanitari per la salvezza di quegli uomini nei cui occhi ancora si potevano scorgere le fiamme dei propri villaggi bruciati e delle proprie famiglie trucidate dalle selvagge milizie arabe al soldo del governo sudanese, i Janjawid, comandati dai generali al potere a Khartum e teleguidati dai pontefici del “terrorismo islamico”. Fu l’occasione per entrare a fanfare e singhiozzi spiegati nella campagna, poi sostenuta da stronzetti di Hollywood e dal colonialismo umanitarista del mondo intero, di satanizzazione del più grande paese africano-arabo ancora refrattario alla subalternità colonialista, ricco di petrolio e uranio e di rapporti amichevoli con la Cina.
Lasciò perdere, “il manifesto”, quando risultò che di quei 37 robusti africani in ottima salute, organizzati e “pescati” chissà dove dalla Cap Anamur, neanche uno era del Darfur, ma quasi tutti del Ghana e che di villaggi incendiati e famiglie sterminate non avevano visto neanche l’ombra. Tacque anche sulla circostanza illuminante che la Cap Anamur apparteneva a un’organizzazione tedesca di destra, capeggiata dal correligionario di Netaniahu Elias Bierdel e adoperata dal Ministero degli esteri per operazioni “speciali”. Come quando rastrellava Boat People al largo del Vietnam, ovviamente in fuga non da un paese squartato e desertificato dalle bombe Usa all’agente Orange, ma dal solito “inferno comunista”; o come quando gironzolava davanti alle coste albanesi e bosniache per raccogliere profughi kosovari non dalle bombe Nato, ma dalla “pulizia etnica” serba. Un’occhiata in rete ci rivela l’onnipresenza del vascello da “operazioni speciali” di Bierdel ovunque occorra una copertura umanitaria a porcate imperialiste: Somalia, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Corea del Nord… con profughi veri o finti, comunque strumentalizzati.
Mai neanche l’ombra di una Cap Anamur davanti alle coste di Gaza. Ammutolì vieppiù, “il manifesto”, peraltro senza autocritica mai, quando i campi dei due milioni di profughi del Darfur (Bum!) risultarono infestati da ong, tipo la francese “L’Arche de Zoé”, intima del ministro degli esteri francese e macellaio ONU in Kosovo, Bernard Kouchner, impegnate nel rapimento e commercio di bambini. Come a Haiti. Insomma la Cap Anamur non era che uno sporco arnese delle destabilizzazioni propagandistiche a fini di intervento imperiale. Una scelleratezza giornalistica, quella dei cantori della tragedia del Darfur, volta ad attribuire al “criminale Omar Bashir” (conseguentemente incriminato da un Tribunale Penale Internazionale che non si è mai sognato di puntare il mignolo su un governante di guerra occidentale) la guerra civile nel Darfur divorato dalla siccità e in cui si contendevano i residui pozzi nomadi allevatori del Nord e agricoltori del Sud. Un conflitto determinato dai delitti ambientali del capitalismo e che già negli anni ’90 avevo potuto documentare per il TG3. Sul quale si erano poi lanciati, rinfocolandola e armandola, i soliti avvoltoi dirittoumanisti di Cia, Mossad e Pentagono. Sta in Israele, chissà perché, il quartier generale della più irriducibile e sanguinaria organizzazione ribelle, Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (JEM), ultimamente impegnata a far fuori le altre fazioni ribelli che con il governo avevano raggiunto un accordo. Mi era stato facile capire, per quel che avevo girato da quelle parti, che le facce sulla Cap Anamur tutto potevano essere fuorchè darfuriane. Incontrovertibilmente del Darfur lo erano invece per gli occhiuti africanologi del “manifesto”. Che così dettero un significativo contributo, insieme agli attivissimi missionari comboniani e della Consolata, già monopolisti di istruzione e sanità nel Sudan colonizzato, perché l’operazione Darfur di Usa, Ue e Israele annebbiasse i neuroni anche del popolo di sinistra e, una volta di più, stroncasse ogni solidarietà con un popolo aggredito. Proprio come con l’Iraq, o con la Serbia.
Il “manifesto” dal Darfur…
Qualcuno ricorda la Cap Anamur? No? Fate male perché si trattò della prova provata che “il manifesto”, con “Liberazione” al traino, non disdegna a volte di fare da mosca cocchiera alle peggiori trame sanguinarie e predatrici dell’imperialismo. Dabbenaggine, connivenza, inettitudine, opportunismo? Fate voi. Nell’estate del 2004 il mondo intero si commosse sull’odissea di 37 fuggiaschi da un inferno del Darfur appena inventato e lanciato dai servizi di intossicazione occidentali con l’acqualina in bocca per le risorse minerarie di quella regione. Per tre settimane la nave tedesca Cap Anamur si esibì tra Malta e Canale di Sicilia, fino ad approdare, suscitati i necessari clamori mediatici, a Porto Empedocle. Ebbene, non ci fu giornale più assiduo del “manifesto” nel lanciare la mobilitazione di tutti gli umanitari per la salvezza di quegli uomini nei cui occhi ancora si potevano scorgere le fiamme dei propri villaggi bruciati e delle proprie famiglie trucidate dalle selvagge milizie arabe al soldo del governo sudanese, i Janjawid, comandati dai generali al potere a Khartum e teleguidati dai pontefici del “terrorismo islamico”. Fu l’occasione per entrare a fanfare e singhiozzi spiegati nella campagna, poi sostenuta da stronzetti di Hollywood e dal colonialismo umanitarista del mondo intero, di satanizzazione del più grande paese africano-arabo ancora refrattario alla subalternità colonialista, ricco di petrolio e uranio e di rapporti amichevoli con la Cina.
Lasciò perdere, “il manifesto”, quando risultò che di quei 37 robusti africani in ottima salute, organizzati e “pescati” chissà dove dalla Cap Anamur, neanche uno era del Darfur, ma quasi tutti del Ghana e che di villaggi incendiati e famiglie sterminate non avevano visto neanche l’ombra. Tacque anche sulla circostanza illuminante che la Cap Anamur apparteneva a un’organizzazione tedesca di destra, capeggiata dal correligionario di Netaniahu Elias Bierdel e adoperata dal Ministero degli esteri per operazioni “speciali”. Come quando rastrellava Boat People al largo del Vietnam, ovviamente in fuga non da un paese squartato e desertificato dalle bombe Usa all’agente Orange, ma dal solito “inferno comunista”; o come quando gironzolava davanti alle coste albanesi e bosniache per raccogliere profughi kosovari non dalle bombe Nato, ma dalla “pulizia etnica” serba. Un’occhiata in rete ci rivela l’onnipresenza del vascello da “operazioni speciali” di Bierdel ovunque occorra una copertura umanitaria a porcate imperialiste: Somalia, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Corea del Nord… con profughi veri o finti, comunque strumentalizzati.
Mai neanche l’ombra di una Cap Anamur davanti alle coste di Gaza. Ammutolì vieppiù, “il manifesto”, peraltro senza autocritica mai, quando i campi dei due milioni di profughi del Darfur (Bum!) risultarono infestati da ong, tipo la francese “L’Arche de Zoé”, intima del ministro degli esteri francese e macellaio ONU in Kosovo, Bernard Kouchner, impegnate nel rapimento e commercio di bambini. Come a Haiti. Insomma la Cap Anamur non era che uno sporco arnese delle destabilizzazioni propagandistiche a fini di intervento imperiale. Una scelleratezza giornalistica, quella dei cantori della tragedia del Darfur, volta ad attribuire al “criminale Omar Bashir” (conseguentemente incriminato da un Tribunale Penale Internazionale che non si è mai sognato di puntare il mignolo su un governante di guerra occidentale) la guerra civile nel Darfur divorato dalla siccità e in cui si contendevano i residui pozzi nomadi allevatori del Nord e agricoltori del Sud. Un conflitto determinato dai delitti ambientali del capitalismo e che già negli anni ’90 avevo potuto documentare per il TG3. Sul quale si erano poi lanciati, rinfocolandola e armandola, i soliti avvoltoi dirittoumanisti di Cia, Mossad e Pentagono. Sta in Israele, chissà perché, il quartier generale della più irriducibile e sanguinaria organizzazione ribelle, Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (JEM), ultimamente impegnata a far fuori le altre fazioni ribelli che con il governo avevano raggiunto un accordo. Mi era stato facile capire, per quel che avevo girato da quelle parti, che le facce sulla Cap Anamur tutto potevano essere fuorchè darfuriane. Incontrovertibilmente del Darfur lo erano invece per gli occhiuti africanologi del “manifesto”. Che così dettero un significativo contributo, insieme agli attivissimi missionari comboniani e della Consolata, già monopolisti di istruzione e sanità nel Sudan colonizzato, perché l’operazione Darfur di Usa, Ue e Israele annebbiasse i neuroni anche del popolo di sinistra e, una volta di più, stroncasse ogni solidarietà con un popolo aggredito. Proprio come con l’Iraq, o con la Serbia.
…all’Eritrea
Ma quel silenzio del “manifesto” sulla colossale toppata (eufemismo) dei profughi “sudanesi” non era il segno di una mortificazione per l’abbaglio preso. Quando mille voci, seppure di nicchia, ma che insieme fanno un controcanto forte, smentiscono la tua bufala, se non sei in buonafede ti nascondi dietro l’albero e lasci che passi la buriana che ti ha denudato. Poi riparti. Quella del “manifesto” rompighiaccio nella sinistra delle riconquiste imperiali è forse una scelta strategica. Perchè se errare è umano, perseverare è diabolico, per cui a farci capire cosa bolle in quella redazione, restando con i saggi padri latini, repetita juvant. In un luglio affollato e malmenato da golfi messicani, catastrofi militari in Afghanistan, minacce USraeliana di armagheddon finale con una guerra nucleare all’Iran, assassinii a gogò di civili palestinesi, occupazione yankee del Costarica con 40 navi da guerra e settemila marines, sgretolamento dello Stato italiano per merito di una banda di capibastone felloni civili e militari, classe operaia marchionizzata dalle falegnamerie a Mirafiori, carnascialesco carosello su più o meno mordacchia ai media, arrostimento del vivente grazie allo stupro ambientale, e dai e dai e dai, questo catalogo di appelli all’unità della sinistra è stato capace di dedicare per metà mese quasi il 20% della sua foliazione, a partire dalla prima pagina, a una campagna finto-umanitaria e di effettivo razzismo colonialista contro Libia ed Eritrea.
Trombettiere capo il solito Stefano Liberti, con una ripetitività degna di una giaculatoria quaresimale, coadiuvato da affini e sostenuto, oggi come allora, dalla fonte Human Rights Watch, notoriamente autorevolissima perché impeccabilmente allineata dal bucaniere internazionale George Soros alle mosse geostrategiche USraeliane, un’autentico capolavoro imperialista di diritti umani pesati nella bilancia in uso a Washington e Tel Aviv. Obiettivo di seconda fila, la Libia che, di paginone in paginone, assumeva vieppiù l’aspetto del mostro concentrazionario. Un mostro che “ i ragazzi” li teneva in carcere (era un Centro di Raccolta) a Braq, in celle sotterranee (indispensabili per sopravvivere alla canicola del deserto), li picchiava e torturava sistematicamente (non s’è vista una lesione, neanche da capocciata contro lo stipite, all’atto della liberazione), li teneva chiusi per ben due settimane (sei mesi sono i tempi nei nostri villaggi vacanze chiamati CIE). Distratti, i carcerieri seviziatori non s’erano accorti che i “ragazzi” (termine sistematicamente utilizzato per pompare la compassione) regalavano a Liberti giorno dopo giorno ampi reportages sugli orrori subiti tramite… telefoni satellitari. Miracolosamente sopravvissuti a spoliazioni e sevizie. E, dopo averli liberati e forniti di permesso di soggiorno e di lavoro per tre mesi, il despota sodale di Berlusconi Gheddafi li aveva “abbandonati, in pieno deserto”, a Sebha. Ebbene Sebha è la più grande città del sud della Libia, che è poi un paese al 92% desertico.
I 205 più o meno presunti eritrei (ricordiamoci i finti darfuriani della Cap Anamur) erano stati trasferiti a Braq per essersi rivoltati nel centro di Misurata, sulla costa, e per aver rifiutati di riempire moduli di identificazione. Protestavano che erano in tigrino, la lingua del loro paese e che, così, le loro autorità avrebbero potuto identificarli, cosa sommamente pericolosa per i loro famigliari. Dovevano essere in coreano? Accomodanti, i libici gli hanno fatto firmare moduli in arabo (per loro incomprensibili) e poi li hanno liberati tutti offrendogli un lavoro. Anzi, sono arrivati a svuotare completamente tutti i loro Centri di Raccolta. Plauso ai libici, si penserebbe, invasi da mezza Africa sconvolta da disastri tutti di fattura bianca, cristiana, occidentale, ma con diritti umani salvaguardati un po’ meglio dei nostri centri di botte e tormenti di ogni genere? Ma “Il manifesto” non demorde. Da autentico micro-Kipling, Liberti contrappone l’inferno libico al paradiso italico nell’ipotesi che agli eritrei, “alla mercè di ogni sventura in Libia, morte compresa”, venga concesso l’agognato asilo politico.
I profughi di Gaza e Palestina non possono nemmeno fare i profughi, li ammazzano prima. Nessuno dei cinque milioni di fuggiaschi e sfollati iracheni dalla pulizia etnico-confessionale di Usa-Sion-Iran, s’è mai nemmeno potuto sognare ospitalità, figuriamoci asilo politico perché vittima di quella che, dopotutto, non è la democrazia ristabilita a Baghdad? Personalmente mi auguro che a nessuno di questi “perseguitati” eritrei venga concesso alcunché. Mi premono di più i palestinesi, quelli di Guantanamo e Bagram, le minoranze etiopiche di un Meles Zenawi trattato, lui sì, con guanti bianchi da Liberti. La manovra attorno a questi infelici, astuti e manovrati, è evidente: schizzare un lavoro e un soggiorno in Libia per conquistare in Italia lo status di rifugiato politico ed essere gratificati – in tutti i sensi – da palchi e microfoni da cui compiacere i protettori lanciando contumelie sul proprio paese e governo.
Eritrea delenda est
Sistemata la Libia, Liberti scarica feci sul ventilatore indirizzato verso l’Eritrea, obiettivo di prima linea. E’ sempre il modello Darfur. Profughi finti lì, espatriati per sfuggire alle leggi del proprio paese qui, presi in carico dal carrozzone umanitarista, organicamente in coda a colonne di tank e stormi di F-16, per fiancheggiare con la diffamazione le strategie interventiste dell’imperialismo. Sull’Eritrea Liberti non s’è risparmiato. Del resto erano a disposizione la solita grotta dei 40 ladroni dei servizi da cui attingere i tesori della satanizzazione del renitente alla ricolonizzazione, fino alla sua rimozione totale. Nell’Eritrea del "dittatore" Isaias Afeworki si sta come ad Auschwitz. Si affonda nella miseria, si guerreggia da mane a sera, si armano i terroristi somali, si viene schiavizzati nell’esercito a vita, carcere, tortura, stupri, atrocità d’ogni genere si consumano contro gli oppositori. Dal 1993, anno della liberazione dal colonizzatore etiopico, il paese e nella morsa di un tiranno spietato. E per forza: l’Eritrea, nell’angolo geostrategicamente più cruciale del pianeta, tra rotte petrolifere, spedizioni militari, traffici multinazionali di ogni genere, rifiuti tossici compresi, assedio a Medio Oriente e Asia, è l’unico stato nazionale sfuggito al dominio dell’imperialismo e al regime di fantocci despoti e ladroni. Nel Corno d’Africa con la colonia franco-statunitense di Gibuti, la Somalia disintegrata e alla mercè di bombe Usa, invasioni etiopiche, un regime-cliente che non governa che il suo palazzo, una forza ONU di ascari Usa di Uganda e Burundi, minacciato da una rivolta di popolo, l’Etiopia venduta ai devastatori occidentali, retta da un farabutto autoritario che lancia il popolo più immiserito della Terra in aggressioni proprie o su commissione, lo Yemen vassallo, ma scosso da movimenti di emancipazione armati da Nord a Sud, in questo nodo cruciale per le sorti del capitalismo come tollerare un’Eritrea indipendente e sovrana, fuori dal libero mercato, dalle tenaglie di FMI e multinazionali, polo politico delle forze di liberazione di tutta la regione?
Io quell’Eritrea me la sono fatta tutta, a piedi, più volte, in compagnia dei guerriglieri del Fronte di Liberazione, in lotta per l’indipendenza da feudatari medievali o realsocialisti dai primi anni ’60. Li ho visti combattere l’occupante, donne e uomini, ricostruire villaggi e città incenerite dal napalm etiopico, farsi contadini accanto ai contadini, pastori accanto ai pastori, operai accanto agli operai, maestri di scuola accanto ai maestri, sanitari accanto ai sanitari, sopravvivere per anni con un po’ di tè e un boccone di sorgo, quando il villaggio attraversato non offriva una gazzella appena cacciata. Li ho visti parlare di marxismo e antimperialismo a musulmani e cristiani. E poi ho visto l’Eritrea liberata e ripetutamente aggredita dall’Etiopia, nonostante che l’ONU avesse sancito la correttezza del confine difeso da Asmara. Ho visto rimettere in piedi un paese sbranato dal colonialismo, distrutto dalle aggressioni, assediato dal mondo, una cultura riprendere vita nuova, un assetto sociale equo ed economicamente sovrano, l’acqua potabile arrivare a tutti, sanità e istruzione liberi assicurati a ogni cittadino (e non delegati al Vaticano). Si, la gente viene mobilitata per raccolti e infrastrutture, come a Cuba, come nei paesi dove il collettivo non conta meno dell’individuale. Sì, gli eritrei sono a disposizione dell’Esercito dai 18 ai 45 anni. Ma fanno tre anni di leva, misurati per un popolo di 4 milioni e mezzo di abitanti che deve far fronte a un implacabile e armatissimo nemico venti volte superiore. Ma dai 21 anni in poi è nella riserva e viene richiamato solo in casi di emergenza nazionale. Lo stesso accade in Israele. Nulla da dire, Liberti?
Quanto alla repressione, bè se siamo d’accordo che infiltrati, provocatori, disertori debbano essere neutralizzati in un paese assediato e che le massime potenze mondiali vogliono mangiarsi vivo o morto, come lo siamo per Cuba, Venezuela, Bolivia, Gaza, , allora ci sembra compatibile che un destino nazionale di autonomia e sovranità si difenda anche da nemici interni. Fatta, comunque, la tara su tutte le fantasie di prammatica che uniscono nel coro sulla “sanguinaria dittatura” i peggiori gazzettieri Cia e Mossad di Libero, Corriere, Repubblica, Il Fatto, Nigrizia, con gli africanologi della “sinistra”. Africanologi di stampo vittoriano, che, nel solco delle efferatezze razziste degli apologeti delle spedizioni di Graziani e Badoglio, sparano boriose e indignate rampogne su un paese dove c’è il partito unico, dove non si vota se non per i governi dei centri abitati e delle terre, dove mancano campioni dell’onestà di stampa come Liberti, Pagliara, Belpietro, Sansonetti. Lo si chieda a Milosevic, o a Chavez, se aver lasciato, in piena aggressione ed eversione, il 90% dei media in mano alla piovra mediatica dell’oligarchia occidentale, gli sia convenuto. C’entra poi un eurocentrismo di stampo ariano. Un popolo esce con il sangue dalla tirannia colonialista. Ha alle spalle secoli e millenni di difesa dall’aggressore o dall’occupante, con una società fondata su strutture tribali, dove l’unico spazio politico e organizzativo fa capo alla comunità e alla persona che si ritiene più valida a governarla. Ha dovuto saldarsi in un blocco unico e senza crepe, questa società, per attingere alla libertà. Vi è stata guidata da un capo universalmente riconosciuto. E adesso, senza aver neanche annusato la rivoluzione francese, o quella russa, mai avuto idea di partiti e classi, più o meno proni a quello o a quell’altro burattinaio interno o esterno, ecco che il suo giovane Stato, inesperto, ma irriducibilmente sovrano, rifiuta la democrazia borghese che di quei partiti e di quelle classi ha fatto strumento di spartizione predatoria, di dominio assoluto e corruzione morale generale, di subalternità al padrone esterno.
Sistemata la Libia, Liberti scarica feci sul ventilatore indirizzato verso l’Eritrea, obiettivo di prima linea. E’ sempre il modello Darfur. Profughi finti lì, espatriati per sfuggire alle leggi del proprio paese qui, presi in carico dal carrozzone umanitarista, organicamente in coda a colonne di tank e stormi di F-16, per fiancheggiare con la diffamazione le strategie interventiste dell’imperialismo. Sull’Eritrea Liberti non s’è risparmiato. Del resto erano a disposizione la solita grotta dei 40 ladroni dei servizi da cui attingere i tesori della satanizzazione del renitente alla ricolonizzazione, fino alla sua rimozione totale. Nell’Eritrea del "dittatore" Isaias Afeworki si sta come ad Auschwitz. Si affonda nella miseria, si guerreggia da mane a sera, si armano i terroristi somali, si viene schiavizzati nell’esercito a vita, carcere, tortura, stupri, atrocità d’ogni genere si consumano contro gli oppositori. Dal 1993, anno della liberazione dal colonizzatore etiopico, il paese e nella morsa di un tiranno spietato. E per forza: l’Eritrea, nell’angolo geostrategicamente più cruciale del pianeta, tra rotte petrolifere, spedizioni militari, traffici multinazionali di ogni genere, rifiuti tossici compresi, assedio a Medio Oriente e Asia, è l’unico stato nazionale sfuggito al dominio dell’imperialismo e al regime di fantocci despoti e ladroni. Nel Corno d’Africa con la colonia franco-statunitense di Gibuti, la Somalia disintegrata e alla mercè di bombe Usa, invasioni etiopiche, un regime-cliente che non governa che il suo palazzo, una forza ONU di ascari Usa di Uganda e Burundi, minacciato da una rivolta di popolo, l’Etiopia venduta ai devastatori occidentali, retta da un farabutto autoritario che lancia il popolo più immiserito della Terra in aggressioni proprie o su commissione, lo Yemen vassallo, ma scosso da movimenti di emancipazione armati da Nord a Sud, in questo nodo cruciale per le sorti del capitalismo come tollerare un’Eritrea indipendente e sovrana, fuori dal libero mercato, dalle tenaglie di FMI e multinazionali, polo politico delle forze di liberazione di tutta la regione?
Io quell’Eritrea me la sono fatta tutta, a piedi, più volte, in compagnia dei guerriglieri del Fronte di Liberazione, in lotta per l’indipendenza da feudatari medievali o realsocialisti dai primi anni ’60. Li ho visti combattere l’occupante, donne e uomini, ricostruire villaggi e città incenerite dal napalm etiopico, farsi contadini accanto ai contadini, pastori accanto ai pastori, operai accanto agli operai, maestri di scuola accanto ai maestri, sanitari accanto ai sanitari, sopravvivere per anni con un po’ di tè e un boccone di sorgo, quando il villaggio attraversato non offriva una gazzella appena cacciata. Li ho visti parlare di marxismo e antimperialismo a musulmani e cristiani. E poi ho visto l’Eritrea liberata e ripetutamente aggredita dall’Etiopia, nonostante che l’ONU avesse sancito la correttezza del confine difeso da Asmara. Ho visto rimettere in piedi un paese sbranato dal colonialismo, distrutto dalle aggressioni, assediato dal mondo, una cultura riprendere vita nuova, un assetto sociale equo ed economicamente sovrano, l’acqua potabile arrivare a tutti, sanità e istruzione liberi assicurati a ogni cittadino (e non delegati al Vaticano). Si, la gente viene mobilitata per raccolti e infrastrutture, come a Cuba, come nei paesi dove il collettivo non conta meno dell’individuale. Sì, gli eritrei sono a disposizione dell’Esercito dai 18 ai 45 anni. Ma fanno tre anni di leva, misurati per un popolo di 4 milioni e mezzo di abitanti che deve far fronte a un implacabile e armatissimo nemico venti volte superiore. Ma dai 21 anni in poi è nella riserva e viene richiamato solo in casi di emergenza nazionale. Lo stesso accade in Israele. Nulla da dire, Liberti?
Quanto alla repressione, bè se siamo d’accordo che infiltrati, provocatori, disertori debbano essere neutralizzati in un paese assediato e che le massime potenze mondiali vogliono mangiarsi vivo o morto, come lo siamo per Cuba, Venezuela, Bolivia, Gaza, , allora ci sembra compatibile che un destino nazionale di autonomia e sovranità si difenda anche da nemici interni. Fatta, comunque, la tara su tutte le fantasie di prammatica che uniscono nel coro sulla “sanguinaria dittatura” i peggiori gazzettieri Cia e Mossad di Libero, Corriere, Repubblica, Il Fatto, Nigrizia, con gli africanologi della “sinistra”. Africanologi di stampo vittoriano, che, nel solco delle efferatezze razziste degli apologeti delle spedizioni di Graziani e Badoglio, sparano boriose e indignate rampogne su un paese dove c’è il partito unico, dove non si vota se non per i governi dei centri abitati e delle terre, dove mancano campioni dell’onestà di stampa come Liberti, Pagliara, Belpietro, Sansonetti. Lo si chieda a Milosevic, o a Chavez, se aver lasciato, in piena aggressione ed eversione, il 90% dei media in mano alla piovra mediatica dell’oligarchia occidentale, gli sia convenuto. C’entra poi un eurocentrismo di stampo ariano. Un popolo esce con il sangue dalla tirannia colonialista. Ha alle spalle secoli e millenni di difesa dall’aggressore o dall’occupante, con una società fondata su strutture tribali, dove l’unico spazio politico e organizzativo fa capo alla comunità e alla persona che si ritiene più valida a governarla. Ha dovuto saldarsi in un blocco unico e senza crepe, questa società, per attingere alla libertà. Vi è stata guidata da un capo universalmente riconosciuto. E adesso, senza aver neanche annusato la rivoluzione francese, o quella russa, mai avuto idea di partiti e classi, più o meno proni a quello o a quell’altro burattinaio interno o esterno, ecco che il suo giovane Stato, inesperto, ma irriducibilmente sovrano, rifiuta la democrazia borghese che di quei partiti e di quelle classi ha fatto strumento di spartizione predatoria, di dominio assoluto e corruzione morale generale, di subalternità al padrone esterno.
Tutto questo al "manifesto" interessa poco. Lo appassiona molto di più l'analisi, degna appunto del solito paginone didascalico, dell'economista zambiana Dambisa Moyo ((21/7/10), che in lungo e largo ci spiega come l'Africa stia nella bratta, un po' per i suoi governanti corrotti, ma soprattutto perchè non ha copiato il modello - libero mercato, investimenti stranieri, deregolamentazione - che fa così splendidamente sopravvivere il resto del mondo, Usa, Italia e Cina in testa. L'intervistatrice, Linda Chiaramonte, non ha nulla da osservare. Scherziamo, davanti a una tale autorità - master a Harvard, dottorato a Oxford, dirigente della Goldman Sachs, vere scuole di lotte di liberazione e di modelli da copiare - non c'è che da inchinarsi. Pazzesco.
E’ straordinario che le nostre élites, con le mani ancora lorde di sangue e colme dei bottini di avventure coloniali passate, si azzardino, in vista di nuove mattanze predatorie, a dare lezioni di buona politica ai figli di coloro che hanno struprato. E più che straordinario che per costoro l’aiutante di campo con la trombetta e il vessillo dei diritti umani (diritti interpretati alla Obama e da riconoscere solo agli inoffensivi) innalzato davanti a fitte schiere in attesa di attaccare, bianche, cristiane, lo faccia un “quotidiano comunista”. E’ osceno.
Viva l’Eritrea!
Viva l’Eritrea!
Viva l'Eritrea, dunque.
RispondiEliminaMa nel tuo articolo si parla anche di Libia. Io sono sempre stato un ammiratore del Colonnello Gheddafi. Non capisco se tu sostieni che questo presidente sia tutt'ora un antimperialista.. ma tutte le concessioni petrolifere agli stati uniti? Dunque sostieni che quella faccenda degli abusi sui migranti sia interamente una menzogna mediatica?
Intanto in Egitto Mubarak si prepara a riconsegnare l'anima al Creatore.. cosa ne pensi? L'Egitto si emanciperà dalla condizione di regione Israeliana.. o USraeliana come dici tu?
ormai non lo reputo osceno,ma il proseguimento naturale sulla strada del democretinismo tanto caro a questi pennivendoli e ai loro eroi.Come l'immancabile Saviano che vede in afghanistan il mercato della droga gestito dai talebani,per non parlare della mafia turca che quasi quasi è peggio dei casalesi.Abbiamo codesti buffoni mediatici come capimanipoli dei reazionari vestiti da easytears boys-trad:frignoni- con i loro diritti civili usati solo per destabilizzare l'indipendenza e l'autonomia.
RispondiEliminaDopotutto nel 1988 un rapporto della cia giudicava possibilissimo un sostegno al pci,cioè non tutto che Cossutta è marxista e non va bene...Ma i miglioristi e anche i centristi nattiani ,quelli si!Gli eventi successivi hanno mostrato per chi e come si lavora,usando l'insegna Sinistra,ma essendo altro.
Nichi Vendola ,sai è un poeta.Quelli che cantano al popolo la rivoluzione è vicina,ma loro si scopano la regina-ho poetizzato brevemente anche io ,son ggiovane 34 anni il prossimo sabato e mi viene naturale nichizzarmi-come hai ben scritto questo ennesimo buffone ha combinato tutte quelle cose da presidente della regione.Vorrei anche saggiare la statura culturale circa la storia del comunismo dei suoi "operai". I miei che di catena si son malati,sacrificati,sodomizzati,strumentalizzati,gettati con una pedata nel culo e un gesto dell'ombrello, non comprendono.O forse con saggezza operaia,hanno capito.Ma il troppo schifo nemmeno li fa bestemmiare.
Io invece bestemmio ogni volta che sento i cognomi dei soliti notissimi del manifesto.Malati cronici di presunzioni occidentale e americanizzata.Noi "par dire" non siamo soldati che fanno sporche guerre,siamo esseri superiori con una morale splendida splendente,i quali vogliono colonizzare di buon senso occidentale ,sti cazzo di popoli inferiori...oooopssss!No,inferiori no che fa troppo legaiolo,diciamo sfortunati.Piace anche alla zarri,così.
Vanno bene quando in manifestazione si mettono a suonare i bonghi che fa tanto fashion third world.
Incapaci di comprendere che la strada per la liberazione,autonomia,indipendenza,nazionalità sana, di un popolo non la si faccia con poemi svolazzanti e yes we can,ma con le armi e la rivolta organizzata,militarizzata,disciplinata.Poi per mantenere la nazione e il suo popolo indipendenti nei confronti dei vari mosssad e cia,che fare?Essere docili,comunicare,non minare il dialogo?Oppure difendersi anche con la forza contro i collaborazionisti?
Questi si drogano malissimo.Sono convinti che esista la democrazia e non un regime democratico.Che ci innonda di sessodipendenza,tecnologia e comunicazioni,ma lascia in giro dei morti viventi.Anzi,i morti viventi semmai si gettavano contro gli unici umani vivi per punirli dei loro crimini.Masse critiche e cannibali,questi addentano il rancido pane della propaganda americana e sionista e ringraziano pure
Quanto più osceno, una "sionistra" che concorda con la destra anche nell'innamoramento per l'infame schiavista Dalai Lama, per le arnesi CIA Aung Sans Souci e Anna Politkovskaya, per la martire al ketchup NED(a), e che si spara seghe per Yoani Sánchez e le Gusanas o Putas de Blanco. Ma non una, dico, una parola per il Nobel alle Madri di Plaza de Mayo. Sono diventate ingombranti? Forse perché, a dispetto delle sionistre europee, compreso El País, perfettamente in sintonia con le nostrane Repubblica e Il Fatto Quotidiano, progressista nell'attaccare Berlusioni, ma reazionario in America Latina, le Madres sanno che il loro nemico è quello di sempre, quello che finanzia invece le eroine e i Bravehearts cari all'Occidente, di cui da noi ci si ubriaca come coglioni. Basti pensare come le Madres abbiano sputtanato le Putas de Blanco come "amiche degli assassini dei nostri figli". Loro non si intossicano col pensiero "sionisticamente corretto" a differenza di Pierluigi Bersioni, quello che non vorrebbe Chávez. Sarebbe il caso di farle venire in Italia a dare qualche lezione alla nostra sinistra.
RispondiEliminaGrazie per questo bellissimo articolo
RispondiEliminaGran bell'articolo Fulvio grazie sempre
RispondiEliminaSvenuta sul Letto per le Risatee-eee!I Polli Ziotti offesi dai lo-ro "mandanti" hanno manifestato contro i taglieggi della finanz'ARIA! Con bandiere tribolori, altre con tanto di sorta di "gladio"!!!ecc. In bor-ghese strillacchiavano "vergogna vergogna" proprio come i giraTonti ni viola e/o con agende rosse. I cameraten...erano presenti in divi sa ma senza caschi nè scudi...
RispondiEliminaCHE ORINALITA'!!!
Farfugliavano di sicurezza dei cittadini. A me questo nuovo mal vezzo di perqularmi appellandomi cittadino, per equipararmi tout court agli evasori... fa inkatti vire a vita... spero che presto abbiano la giusta pastiglia e diventino tutti dei louis seise!
In breve, una domanda "cinematogra fica": dopo Eva contro Eva produrrano Manganello contro Manganello?
grazie per tenerci sempre informati.
RispondiEliminaora ho capito a cosa si riferiscono quando parlano di democrazia,parola dietro la quale giustificano ogni atto che porta al rincoglionimento globale.
la democrazia che promuovono e' quella dell'autocensura,che nasconde una matta voglia di totalitarismo fascista in nome di un nuovo ordine mondiale dove al sorgere del nuovo giorno si apra un'arcobaleno che consideri come colori solo il verde del dollaro ed il nero del petrolio.
tutti coloro con la mente aperta ad un ampio e variegato spettro di colori vengono emarginati ed isolati come visionari psichedelici da lobotomizzare col trapano della disinformazione.
qualcuno divento' pazzo? i medici o i pazienti?
Per mia grande consapevolezza non leggo più LIBERAZIONE e il MANIFESTO due giornali non più COMUNISTI ma allineati al potere economico ed imperialista.
RispondiEliminaLi considero FALSI Comunisti
Caro Fulvio, il tuo articolo datato 2010 è putroppo ancora attuale. Il manifesto continua ad attaccare l'Eritrea stavolta traducendo dall'inglese notizie false provenienti dall'Etiopia. Liberti fa il regista con i soldi della Open Society Foundation di Soros (non si vergogna nemmeno a dichiararlo) e al suo posto sono arrivati, direttamente dall'agro pontino, Omizzolo e Lessio, due giornalisti stile otpor e molto spietati. Io sono eritreo e non mi stancherò mai di commentare le loro bugie, ovviamente quando me lo permettono. Proprio dieci giorni fa il democratico il manifesto ha cancellato un mio commento di due righe perchè concludevo il ragionamento con "a noi!". Ecco, volevo dirlo senza dirglielo... Qualche ora dopo era già sparito, alla faccia della libertà di stampa!
RispondiEliminaCaro Fulvio, vorrei poter copiare e diffondere il tuo articolo perchè lo trovo lungimirante, divertente, sagace, devastante e anche commovente. Chapeau!
Daniel Wedi Korbaria