Il Saggio
Ero perso con lo sguardo verso il mare
Ero perso con lo sguardo nell'orizzonte,
tutto e tutto appariva come uguale;
poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di essere imprigionata fra le spine
non l'ho colta ma l'ho protetta con le mie mani,
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Iran
live
Siamo a Shiraz, la città dei giardini, dei tappeti, delle
rose, del vino, coltivati fin dai primordi dell’impero persiano, quando c’erano
Ciro il Grande e poi Dario e Serse e le
infinite dinastie che nell’immenso spazio tra Indù e Mesopotamia hanno fatto
fiorire una delle più prospere e lussureggianti civiltà dei tempi antichi.
Civiltà dei giardini, degli immani templi e monumenti, e, con Ciro, della prima
formulazione giuridica dei diritti umani fondamentali. Inevitabilmente civiltà
delle lettere, dell’arte, della poesia. E ci
tocca un’esperienza indimenticabile, uno di quei momenti stellari che ti
danno la commozione della bellezza umana viva tra gli altri e, insieme, il
dolore di quella che da noi si è dissipata. Al centro di uno degli innumerevoli
giardini, detti del Paradiso (termine nato qui), con cui l’uomo ha aiutato la
natura a vincere sui deserti e che ad alberi, fiori e uccelli ha offerto oasi
di felice convivenza, sta la tomba del poeta Hafez, uno dei massimi, dei più
amati di ieri e di oggi. Oggi, come da cinque secoli, donne, uomini, bambini,
di Shiraz, scolari, operai, contadini, casalinghe, anche in pellegrinaggio da
tutto l’Iran, si avvicinano in silenzio al sepolcro, vi sostano, uno dopo l’altro
lo sfiorano con mano leggera. Se ne percepisce l’amore, la gratitudine,
l’intimità con un padre il cui canto continua a vibrare nei cuori. Fuori dal
cancello del sacrario, un sorridente venditore di versetti del corano e di
detti del poeta sollecita la sua cocorita a scegliere col becco quanto
sicuramente non si addice che a te, viandante. Sul foglietto leggo: “Non essere vanitoso, aiuta piuttosto gli
altri”.
Mashad, santuario-sepolcro dell’8° Imam.
Nel paese che a noi viene presentato come schiacciato
dall’escludente tirannia del pensiero unico religioso, la poesia è istinto e
anima, guida e forza. Tanto nell’eremo fiorito di Hafez, quanto nei luoghi di
altri protagonisti di una cultura millenaria, mai impolverata, mai obliata, mai
sopraffatta dagli idoli rumorosi della modernità tecnocratica. Poeti,
scienziati, cesellatori, calligrafi, creatori di storia e di storie, vindici
della giustizia e della dignità. Quanto anche nella “Casa dell’Arte”, splendida
villa nel cuore di Tehran, nel parco animato dai mormori delle fontane e dai cinguettii
di uccelli che, irriducibili, oppongono ali e canto all’aggressione dello smog.
Qui, in un affollato andirivieni, celebri laureati della creatività iraniana si
mescolano ai giovani della nuova scena artistica, cinematografica, letteraria.
Mostre di pittori, laboratori di idee, le più significative uscite del mondo
editoriale internazionale, da Harry Potter a Galeano, da Foucault ai realisti
magici, passando attraverso Calvino, Grass, Darwish.
In una delle tante sale cinematografiche tre ragazzi
salgono sul palco tra gli applausi, a ricevere il premio per il loro video sui
vizi e virtù del trasporto pubblico nella capitale: ampie corsie riservate a
rapidissimi bus, i meandri del metrò, la stagnazione tra i gas di un traffico
micidiale (ma sempre meno allucinato e violento di quello romano). In un’altra
sala, uno dei grandi del cinema iraniano, settima arte assurta dopo la
rivoluzione a protagonista mondiale, a dispetto di censure imposte a chi è
visto come collaboratore dei destabilizzatori esterni di questo paese,
intrattiene giovani allievi e appassionati sui lavori dell’imminente Berlinale,
dove ancora una volta il nuovo cinema iraniano la farà da mattatore. Sulle panchine
del parco, giovani coppie si tengono per mano, interrompono l’incanto degli
scambi di “amorosi sensi” per sorriderti e salutarti con la mano.
E per mano nella piazza dell’Imam, che abbraccia la
moschea di Isfahan, la più grande e architettonicamente spettacolare piazza del
mondo, si tengono altre coppie, giovani e meno giovani, passeggiando nei viali,
o accoccolati sui curatissimi prati, tra famigliole al picnic, pensatori
solitari, bimbetti che s’inseguono schiamazzando. Avevamo sentito dire da Shirin
Ebadi, dissidente in giro per il mondo per diffondere la vulgata occidentale
sui “misfatti degli Ayatollah” e sulle sventure della società iraniana, donne
in testa, che a quelle a cui spuntasse una ciocca di capelli da sotto al velo
venivano riservate, in piena strada, le frustate della “polizia morale”. Deve essere stato una nostra ostinata
renitenza alle rabbiose e accorate denunce delle nequizie integraliste inflitte
alla società iraniana ad averci resi ciechi alla realtà di donne tutte sepolte
dallo chador e inibite dal minimo spazio di autonomia. E evidentemente le
migliaia di donne sole, o in compagnie di amici, fidanzati, mariti, con la
ricca capigliatura tracimante da leggeri foulard a malapena appesi sulla nuca,
che abbiamo incrociato per ogni dove, ce le ha fatte immaginare la nostra
perversa abitudine a diffidare di Shirin Ebadi
e delle assordanti voci del padrone che le fanno da coro. Del resto, la
venerata pasionaria dei diritti delle
donne in Iran, l’abbiamo sentita direttamente dichiarare agli studenti di un
liceo italiano che in Siria è meglio che
vincano i ribelli salafiti di Al Qaida piuttosto che Bashar el Assad. Piccola crepa nel tripudio femminista.
Il
velo, alibi dell’aggressione
Certo, sono anche tante le donne che indossano l’Abaja,
la tunica nera che lascia libero solo l’ovale del viso. La vestono nelle
occasioni pubbliche, nei luoghi dell’amministrazione, sono più frequenti nei
centri minori e nelle campagne, ma sarebbe un azzardo etnocentrico sentenziare se
tale abbigliamento lo subiscano come imposizione, o lo rivendichino come
identità. Ci sarà l’uno e l’altro. In ogni caso, gli anatemi e le aporie le
lasciamo a chi ha molto poco da stigmatizzare sull’immagine della donna che in
Occidente viene proposta dallo strumento totalizzante della telecrazia, tipo Grande
Fratello, Sex and the City, Amici e pornospettacoli vari in “fascia protetta”,
quali le inenarrabili oscenità di un Bonolis. Quando la veneranda Shirin Ebadi
ci minchiona con la storia delle donne escluse dalla società attiva,
dall’istruzione, da incarichi di livello, ci sono a smentirla i dati ONU che
pongono l’Iran tra i primi paesi della regione e dell’Asia per Indice di
Sviluppo Umano: il 65% degli studenti universitari sono donne e donne sono
spesso la maggioranza nelle professioni a più alta qualifica: medici, giuristi,
biologi, giornalisti, dirigenti aziendali. Il 70% degli iraniani ha meno di
trent’anni, si prospetta una società dove la parola delle donne avrà un peso
determinante. Come nel diritto di famiglia, eredità, divorzio, affidamento dei
figli, della cui evoluzione necessaria ci ha parlato Leila Wallahi, figlia di
operai, cieca, avvocato impegnata su questi temi. Di una cosa, però, si può
essere certi: angustiano i feldmarescialli della democrazia da esportare molto
meno i veli e i limiti delle donne che non la sanità universalmente assicurata
e gratuita, l’istruzione garantita senza oneri a ogni classe sociale, lo sforzo
per case dignitose per tutti, l’eliminazione progressiva della povertà
attraverso una distribuzione della ricchezza che rispetto all’abisso tra ricchi
e poveri sotto lo Scià pare un paese scandinavo, la cura dell’ambiente,
l’incondizionato appoggio alla ricerca e alla cultura. La gente in Iran considera queste cose diritti umani.
Musica
bandita? Donne frustate? Lapidazioni?
I Photoshop
del giornalismo occidentale
Ricordate lo tsunami di passione per Sakineh? La signora che con l’amante
aveva prima avvelenato e poi fulminato il marito? Dal noto Saviano, sempre pronto
al fischio del Mossad, all’universo mondo dei diritti umani a stelle e strisce,
questo assassinio premeditato ed eseguito a sangue freddo era diventato il piedistallo
sul quale innalzare il monumento alla donna-martire dell’oscurantismo. Un
avvocato cialtrone, poi rigettato dall’imputata, si era spinto fino a negare il
delitto, pure confessato in tutti i barbari dettagli. In tutto il mondo occidentale ci si è
strappati capelli e vesti sull’orrore della lapidazione riservata alla santa
donna. Lapidazione mai sentenziata, non praticata da molti anni, cancellata dal
codice penale. Sakineh è viva e sta in carcere. Forse rischia ancora la pena di
morte, che non ci piace, né in Iran né negli Usa, né in Cina, né in Arabia
Saudita. (regime nostro amico che invece lapida, frusta, recide arti).
Avevamo anche letto che guai a provare a far musica per
strada, all’aperto. Punizione inevitabile e immediata. Ciondolavamo, appunto,
per quella fantastica piazza di Isfahan, città dei ponti sui quali poteva aver
passeggiato anche Harun el Rashid, il grande califfo delle Mille una notte,
quando abbiamo incrociato una torma di ragazzi, studenti medi, indistinguibili
peraltro da quelli che avremmo potuto incontrare all’uscita di qualche Mamiani
o Virgilio. Parlavano inglese, ed è subito stato uno scoppiettio di saluti,
risate, battute. Uno aveva a tracolla la custodia di una chitarra. Lo abbiamo
pregato di suonarci qualcosa e il ragazzo, sopraffatto dagli incitamenti degli
amici, ci ha regalato una canzone. Ed è subito stato folla plaudente. Il giorno
dopo, sotto le arcate dell’antico Ponte Sharestan, un altro canto. In
alternanza, nella fervida e grata attenzione di donne e uomini, due cantori
sfruttavano l’acustica del portico sul fiume secco per far danzare tra le mura
antiche note popolari di amore e rimpianto, il Zeitgeist musicale di tante
culture che non si vogliono lasciar perdere negli abissi del tempo. C’era nei
volti compresi, nel fervore dell’ascolto, la stessa ricchezza d’animo che ci
aveva investito sulla tomba del poeta Hafez.
Nucleare
civile libero! Aria pulita libera!
Rientrati sulla sponda veniamo travolti da un corteo di
centinaia di bambini, affiancato dagli applausi e incitamenti di altrettanti
genitori. Ci viene tradotto uno dei cartelli che quest’onda scatenata
brandisce, un po’ cantando, un po’ lanciando slogan sotto l’impulso di coloro
che ne dovevano essere maestri e maestre. Dice: “Abbiamo diritto a un’aria pulita quanto all’energia nucleare”. Due
rivendicazioni in una: se voi volete che condividiamo la vostra difesa
dell’energia nucleare a uso civile, dovete anche provvedere a salvaguardarci
dall’inquinamento. C’è tutta la cittadinanza. Ed è tutto l’Iran, nelle grandi
città soffocate dai gas di scarico, ha sostenere il diritto, prima, il bisogno,
poi, di rimpiazzare gli idrocarburi in inevitabile esaurimento con energia
pulita, non solo nucleare. Chi ogni due per tre, nel consenso degli utili
idioti delle nostre parti, da Tel Aviv promette di assalire l’Iran, “cuore del
terrorismo mondiale e imminente bombarolo atomico”, vorrebbe occultare le sue
400 bombe atomiche, la guerra infinita contro i suoi vicini, la pratica
tattico-strategica del terrorismo, il rifiuto della firma del Trattato di Non
Proliferazione Nucleare (firmato e osservato da Tehran), il rifiuto di collaborare
con l’AIEA, agenzia atomica, che invece
in Iran fa tutto quello che le pare opportuno. Ma oggi è venerdì, giorno e aria di festa e, dopo la
moschea che unisce, ci piaccia o no, il 90% degli iraniani, ecco la preghiera
alla vita sulle sponde di un fiume che per millenni l’ha alimentata e che non
c’è più, disseccato da come il nostro di mondo ha trattato il pianeta.
Noi
e gli islamici, loro e gli ebrei
E che, piaccia o no, ma sempre con rispetto per altre
storie e altre spiriti del tempo, oltre all’islamica che ha compattato la
nazione contro gli avvoltoi alle porte, in questo paese vivono e prosperano
altre religioni. Ci sono addirittura ancora i zoroastriani, radicati nel primo
impero persiano e ci sono gli ebrei sfuggiti alla “deportazione volontaria”
degli imbonitori sionisti e ci sono gli armeni nelle loro splendide e affollate
chiese. Ne abbiamo visitato le comunità e i luoghi di culto. 25mila sono gli
ebrei, la più grande comunità della regione, che mai si sono sognati di
emigrare dalla loro culla ancestrale. Superato
un cortile invaso da ragazzini alla caccia di un pallone, si entra in
una delle sinagoghe di Isfahan (a Tehran ce ne sono ben 25) e si incontra il
capo della comunità, Suleiman Sasson, ingegnere, professore d’università. Che
tutto condivide di come gli ebrei vengono rispettati e onorati in Iran e nulla
condivide di come i correligionari nella terra presunta d’origine si rapportano
alla religione e alla vita dei nativi, o di come descrivono questo paese
promettendo di obliterarlo. Ci ritiriamo, dopo un ampio giro d’orizzonte
geopolitico che illustra la piena consapevolezza di questo israelita di dove
sta il giusto e dove l’ingiusto tra Iran e Israele, con la coda tra le gambe. Ci
avevano portato a sospettare che gli iraniani trattassero gli ebrei come noi
trattiamo i musulmani.
Le
quattro facce del terrorismo
Nelle maggiori città c’è una sede dell’Associazione di
Vittime del Terrorismo, di solito gestita da figli, genitori, fratelli,
congiunti di persone assassinate. Quella cui si riferisce specificamente non è
l’unica forma di terrorismo praticato
dagli assedianti a partire dal 1979, quando il popolo iraniano, nelle sue varie
espressioni politiche, sottrasse il paese agli orrori delle dittatura dello
Scià, caro alle cancellerie, ai servizi segreti e ai fogliacci del gossip su
idoli come Soraya o Farah Diba, spose del principe della tortura.
C’è il terrore di una guerra assurda, fratricida, tra
Iran e Iraq, lunga otto anni e un milione di morti, voluta e goduta da chi,
come Kissinger, segretario di Stato, si augurava “il dissanguamento reciproco
dei due paesi renitenti all’ordine imperiale” in costruzione. Ne sono
raccapricciante testimonianza, in tutte le città, sterminate distese di tombe.
C’è il terrorismo dei separatismi fomentati dagli stessi congiurati che
sollecitarono quella mattanza e, prima, si adoperarono perché fosse sventato il
tentativo, sotto Mossadegh, di un Iran democratico e, con il concorso anche di
Enrico Mattei, sciolto dalle catene di uno supersfruttamento che arredava di
lussi i salotti britannici del tè.
C’è il terrorismo delle sanzioni, un embargo di
trent’anni e una successione in crescendo di misure sempre più feroci per
soffocare, con il pretesto di un nucleare armato mai progettato e mai neppure
iniziato ad attuare, e con la ragione vera di stroncare un tentativo di
progresso nell’indipendenza e autodeterminazione. Sanzioni che si assicurano
mirate esclusivamente alla leadership, ma che si sanno e vogliono destinate
all’impoverimento e alla disperazione collettiva. Su quasi tutti i piani del
ricatto l’Iran ha saputo difendersi e reagire, anche perché, esclusa la sedicente
“comunità internazionale”, comunità criminale organizzata, la maggioranza dei
paesi, come rappresentata al vertice di Tehran l’anno scorso dai 120 Paesi Non
Allineati, Russia, Cina e BRICS in
testa, che hanno eletto l’Iran alla presidenza, ha compensato il sabotaggio
delle esportazioni di idrocarburi e il blocco delle transazioni finanziarie.
Cionondimeno le sanzioni sanno uccidere. A Tehran abbiamo visto un giovane
pallido e magrissimo ricevere una trasfusione. La biologa volontaria Shirin
Ravanbod è la direttrice di una Ong di medici e sanitari che si prende cura di emofiliaci, talassemici,
diabetici. Malattie endemiche che colpiscono 8 milioni di iraniani. Malattie le
cui terapie dipendono da farmaci prodotti all’estero e che all’Iran dalle sanzioni
è impedito di acquistare. Prove di genocidio. Ne siamo esperti, noialtri
bianchi cristiani, da parecchi secoli.
Forma subdola e letale di terrorismo diffuso è la droga,
strumento privilegiato occidentale di arricchimento delle élites e di distruzione soprattutto
delle nuove generazioni di società da privare della spina dorsale
dell’intelletto e della volontà, fin dalla guerra dell’oppio contro la Cina.
L’occupazione dell’Afghanistan è servita agli Usa per duplicare il sistema
Colombia. Accanto alla cocaina, l’oppio, la morfina, l’eroina. Dal 2001, con
gli Usa a controllo di coltivazione e produzione, dopochè i Taliban l’avevano
sradicata, l’Afghanistan è arrivato a fornire il 92% dell’eroina mondiale.
Dalla via della seta si è passati alla via della droga, con primo mercato e
canale di transito Iran, il Caucaso, la Russia e conseguente sviluppo
esponenziale della tossicodipendenza in questi paesi che prima a malapena la
conoscevano. Il vicesegretario generale dell’ente statale preposto alla lotta
al traffico e al consumo, Taha Taheri, ci ha illustrato la battaglia che il
paese conduce contro questa guerra mossa ai suoi giovani, una guerra che,
secondo l’attivissimo responsabile ONU della lotta alla droga e al crimine a
Tehran, Antonio De Leo, conduce con migliore efficacia e intelligenza di tutti
i paesi della regione.
A Mashad e nell’angolo di fuoco tra Iran, Afghanistan e
Pakistan, corridoio privilegiato dei trafficanti, abbiamo constatato l’impegno
iraniano per combattere la piaga. Ogni giorno in quest’area i militari iraniani
sono costretti ad affrontare le bande armate che, sotto gli occhi degli
occupanti, agli ordini di boss notoriamente intrecciati al regime del quisling
Karzai, cercano di attraversare il confine, superando il complesso di barriere,
muraglie, fossati, fili spinati allestiti per ostacolarne il passaggio. Nessun
paese della regione ha saputo raggiungere il volume di sequestri realizzati
dall’Iran. Che, oltre all’apparato repressivo statale, si avvale anche di una
moderna e saggia strategia di lotta al consumo e di recupero di quello che si
calcola sia un milione di tossicodipendenti. L’assiste un grande numero di
organizzazioni non governative, sostenute dallo Stato con contributi di fondi e
di mezzi terapeutici. Ne abbiamo visto all’opera una a Tehran, la “Congress
Sixty”, fondata e diretta da un personaggio eccezionale, Hossein Dejakam, che
ha riunito intorno a sé decine di collaboratori volontari impegnati nella
terapia e nell’assistenza psicologica e materiale. Un centinaio tra ex-tossici,
tossici in cura e collaboratori assistevano tra gli applausi alla consegna a
donne e uomini strappati alla schiavitù della droga della “patente di persona
libera”.
La troupe di “VisioNando” con interprete a
Isfahan
Mujahedin
e-Khalk come Al Qaida: terroristi cari agli Usa
Ma il terrorismo di cui si occupa l’associazione delle
vittime è quello più scoperto e convenzionale: attentati e uccisioni mirate.
17mila assassinii a partire da pochi anni dopo la rivoluzione, perlopiù gente
qualsiasi, artigiani, contadini, maestri, casalinghe, studentesse, ma con più
recente predilezione per intellettuali, esponenti delle professioni
strategiche, soprattutto scienziati nucleari. E’ una strategia che gli
specialisti del Mossad e della Cia hanno insegnato ai nuclei di Al Qaida da
disseminare ovunque occorresse un pretesto di intervento, che hanno praticato e
fatto praticare in giro per il mondo, dalla Palestina all’Iraq, dall’America
Latina ad, appunto, l’Iran. Sanno che non è in gioco il blocco della bomba
atomica islamica, ma l’evoluzione di un paese che, grazie al suo sviluppo
industriale, all’autonomia alimentare, all’egemonia geopolitica in gran parte
della regione di cui costituisce l’asse della resistenza e alla crescente rete
di nazioni opposte alla dittatura e depredazione del Nuovo Ordine Mondiale,
rappresenta la lacerazione della ragnatela della globalizzazione imperiale. I
sicari dei servizi impegnati in questa sanguinaria campagna di terrore diffuso
e di eliminazione degli attori dell’emancipazione, sono i Mujahedin e-Khalk
(MEK).
Un tempo componente del movimento di massa che ha
abbattuto la dittatura, da milizia armata “per la democrazia e il socialismo”
si è trasformata, sotto il dominio assoluto della guru Mariam Rajavi, ospitata
e sostenuta a Parigi, in un culto esoterico che, non diversamente da sette
depersonalizzanti ipernaziste come Scientology, la Chiesa dell’Unificazione del
Rev. Moon, o la Falung Gong cinese, fa dei propri adepti strumenti criminali
disposti a ogni obbedienza, comprese quelle relative ai rapporti personali.
Rifugiatisi in Iraq e operativi contro il proprio paese dal famigerato Campo
Ashraf, una cittadella misterica di tipo tibetano, nel corso della guerra con l’Iraq,
i MEK, si sono poi arruolati al servizio dell’occupante Usa. La strategia degli
assassini seriali contro cittadini qualunque ed esponenti della scienza e della
cultura inizia allora. Ricorderete la successione di attentati con il metodo
dell’ordigno esplosivo applicato da motociclisti alle’auto che trasportavano
scienziati nucleari.
Uno sguardo nella realtà terrificante della manipolazione biopolitica dei propri adepti ce l‘ha offerto dal suo rifugio di Londra, Massud Bani Sadr, cugino di uno dei primi premier dopo la cacciata di Reza Pahlevi e fino agli anni ’90 rappresentante del MEK presso gli Stati Uniti e l’ONU. Imponendogli una dedizione assoluta, ne hanno imposto il divorzio e la distruzione della famiglia, insieme a una vita sotto costante minaccia di rappresaglia mortale. Una rappresaglia già operata contro altri “traditori”, nell’impunità garantita dalla potenza di lobby politiche e mediatiche occidentali, attivissime a Washington, Parigi, Londra, Bruxelles, dotate di forte capacità condizionante grazie a un’incredibile e misteriosa disponibilità di fondi. Ma la conferma de visu del lavoro trentennale di questa banda di killer psicopatici ce l’hanno data gli incontri, a Tehran, Shiraz, Isfahan, con i congiunti delle vittime e i transfughi dell’organizzazione. Vedove, orfani, famiglie spesso povere, ora assistite dal governo, rimaste senza il sostentamento del marito, del padre, del fratello. Decine di migliaia. I loro boia, nella lista euro-statunitense delle organizzazioni terroristiche finchè operavano con Saddam, da un ordine esecutivo di Obama sono stati cancellati da quell’elenco e restituiti alla dignità di “oppositori democratici del regime”.
Savak,
il dono della Cia allo Scià
Lo chiamano Museo Ebrat. E’ uno dei luoghi più
agghiaccianti che questo cronista, familiare dai tempi di Dresda con le aberrazioni
compiute dall’Occidente nel nome della democrazia, legge e ordine, law and order, come interpretati dai
protagonisti della nostra democrazia, abbia avuto la ventura di conoscere. Era
la prigione in cui la Savak, polizia segreta dello Scià, rinchiudeva,
seviziava, uccideva. Un palazzo circolare di numerosi piani, concepito come
cassa armonica per far rimbalzare e potenziare per ogni udito le urla dei
torturati. Al centro una vasca che si faceva ribollire di corrente elettrica
per immergervi chi doveva “parlare”. Nelle celle gli strumenti e i manichini di
tecniche suggerite, dal covo sotterraneo nell’ambasciata Usa, dai tecnici della
Cia: corpi martoriati e appesi, mani e piedi dalle unghie strappate, piante e
palmi con la pelle strappata dalle frustate, gli annegamenti del waterboarding poi legalizzati da Bush e
sanciti da Obama, le finte esecuzioni, le percosse senza fine, gli stupri.
La milizia MEK, neoassunta al servizio di Cia e Mossad e
gratificata di sostegno e rispetto da un’opinione pubblica che si vuole
lanciata contro il “cuore iraniano dell’
Asse del Male”, ne perpetua gli obiettivi. Discepola degli stessi che
istruirono la Savak, si può dire classica
espressione dell’eterogenesi dei fini dichiarati, non meno di quell’Israele che
si voleva nata nel segno del riscatto dalla dittatura e del pionierismo
socialista. Su tutto questo non si è sentita una parola mai, né di Shirin
Ebadi, fan dei tagliagole salafiti in Siria, né degli affini che, nel 2009,
elezione trionfale di Ahmadinejad, presidente più dalla parte dei poveri che
dei nostalgici di Scià e saccheggi neoliberisti, dichiarata frutto di brogli
mai dimostrati, lanciarono la “rivoluzione verde”. “Rivoluzione” colorata che,
con l’intervento dei collaudati strumenti Usa, i Think Tank operativi della destabilizzazione nel segno della
“Guerra al terrorismo e per i diritti umani”, contaminò ed espropriò quanti vi
volevano partecipare con onestà d’intenti e rifiuto di strumentalizzazioni
esterne. Su quel movimento impresse il suo segno il famoso episodio di Neda
Soltan, giovane donna che venne proclamata vittima dei repressori e fu elevata
in Occidente a icona della resistenza contro la cosiddetta dittatura dei
religiosi. La clamorosa smentita, portata da un video in cui, fotogramma per
fotogramma, si scopre la finzione, fu sepolta dalla complice ignavia della
professione giornalistica come da noi praticata.
Non c’è bisogno di identificarsi con l’ideologia e la
struttura datesi dalla Repubblica Islamica dell’Iran dopo la caduta dello Scià
e l’arrivo di Khomeini. Vi si possono rivolgere le critiche che detta il
personale convincimento di come gli esseri umani debbano organizzarsi e vivere.
Ma se ne devono condividere la difesa della sovranità, il rispetto per una
popolazione che trae il suo consenso dalla consapevolezza della sua civiltà e
della sua volontà di autodeterminazione. Se ne deve sostenere la resistenza,
unitamente alle migliori componenti di un’umanità che rifiuta una sottomissione che porterebbe all’autodistruzione
collettiva e definitiva. Come nel caso del Vietnam, dell’Afghanistan,
dell’Iraq, della Libia, della Siria, delle oltre 70 guerre, cospirazioni e
colpi di Stato, che gli Usa, con la mosca cocchiera israeliana, hanno praticato
dalla metà del ‘900 in qua, sempre più con la partecipazione dei governi
vassalli, quelli che di tali aggressioni sono stati l’oggetto meritano a priori
la nostra stima e il nostro appoggio. Anche la nostra gratitudine.
Quello che prevale nel mio ricordo è una gente con tutti i connotati di una civiltà della convivenza che da noi si va perdendo nel culto indotto dell’individualismo e della competizione: sorriso, pronta amicizia, calore, ospitalità come fosse dire buongiorno, anche per noi che arriviamo con tutto il carico dei crimini e degli errori qui inflitti. Non c’era verso di incontrare famiglie, personalità, autorità, passanti, senza finire davanti a una tavola imbandita, pur non potendoci essere la prospettiva dell’offerta ricambiata. Le disquisizioni, del tutto legittime, sulle qualità e compatibilità con il nostro senso del bene e del giusto dell’ordinamento politico iraniano, le lasciamo ad altri momenti e ad altre analisi. Chi segue questo blog, il nostro lavoro, sa perfettamente quali sono i principi su cui si fonda la nostra Weltanschaung. E’ che, oggi come oggi, trovo seccante fare il grillo parlante nei confronti di chi dal mondo di cui faccio parte non ha ricevuto che sprangate sui denti. E pur si muove.
Il racconto è lungo, ma mi fermo qua. Molto altro lo potrete
vedere quando, fra un po’, uscirà il nostro nuovo docufilm. Lo vorrei chiamare,
pensando alla metafora della poesia di cui sopra e all’incanto della tomba del
suo autore, "IRAN, la rosa di Hafez”. Che ne dite? Se avete idee migliori,
fatemele conoscere.
Grazie per questo primo resoconto di viaggio, che aspettavo con ansia e che conferma le mie opinioni sull'iran. La cosa che mi piace di più è che tu riesca a fare capire chiaro e tondo che non si tratta di chiudere gli occhi sulle ingiustizie che anche il sistema iraniano ha, ma di mettere in evidenza come l'occidente non abbia il diritto di condannare gli altri, dopo tutto il terrore che ha diffuso e continua a diffondere per il mondo. Ci sono libri sul mercato occidentale che dipingono questo paese come un luogo peggiore dell'italia fascista, dove delle guardie armate dispensano punizioni corporali a tutti. Le foto e le parole di questo tuo post sono la prima dose di un buon antidoto.
RispondiEliminaFulvio, non sono sorpreso dei contenuti che confermano semplicemente ciò che in molti sappiamo in merito alla cinica strategia che sta dietro al "nostro" modello di sviluppo. Qua di politico non c'è niente, è ancora prima, alla fase dell'etica che il cosidetto "occidente" - in cui come sai fatico a riconoscermi pur essendone figlio ad ogni effetto - non ha ancora riguadagnata.
RispondiEliminaIl Tuo "racconto" è talmente coinvolgente e "sereno" che per quanto Tu lo abbia necessariamente sporcato - passami il termine - con gli aspetti storici sui MEK ecc.resta comunque assolutamente lirico.
Complimenti Fulvio, Ti ringrazio ma anche Ti invidio per questa Tua entusiasmante cavalcata in una dimensione davvero spazio-temporale che alla stragrande maggioranza delle persone è (per loro limite) negata, ed ancor più lo sarà (il viaggiare per il signor Goldman-Monti e sodali è sospetto, non tanto perchè presupponga un "reddito" particolare ma in quanto apre gli orizzonti)in futuro, a prescindere dalle paranoie e dalle fobie indotte.
Emilio
...beh Fulvio,
RispondiEliminadi certo hai ricambiato quella loro ospitalità con questo articolo e con il tuo lavoro in generale!
Ps: il titolo per me è azzeccato!
grazie per queste verità che la politica venduta ad israele ed all'america non fanno passare
RispondiEliminagrazie per questo reportage vero e passionale come sai fare solo tu. Queste verità non passeranno mai dai nostri media sempre al servizio degli USA e di israele
RispondiEliminaComplimenti Fulvio, e grazie per avere alzato la cortina di menzogne sull’Iran. Ovviamente per i pochi che non si accontentano della vulgata orianafallacesca che ci propinano a reti unificate.
RispondiEliminaAndai in Iran a lavorare in una miniera di carbone nel 2006, al tempo dell’aggressione israeliana al Libano. Rimasi colpito (ma non stupito) dalle immagini dei bambini libanesi tagliati in due mostrati alla tv. Da noi passavano solo quelle dei militari sionisti in lacrime perché alcuni loro compari, incluso il figlio di Grossman, avevano finalmente smesso di insultare l’umanità con la loro esistenza.
I bambini che giocavano per strada e mi salutavano, gli operai dell’impianto che mi invitavano a fare colazione con i loro deliziosi formaggi fatti in casa, questi sarebbero i nemici che minacciano le nostre famiglie e che quindi dobbiamo annientare.
In un altro post, uno dei lettori lamentava come alla gente delle nostre parti non gliene freghi niente delle guerre. Magari! Anche se hanno le pezze al culo, basta parlargli di un paese che ha diverse priorità umane e li senti come invocano le bombe atomiche! Non penserete mica che tutti quei soldi spesi in film come “Rambo”, “300” e “Argo”, passando pure per “La vita è bella” e “La tigre e la neve”, fossero solo per l’arte!
Un bellissimo articolo che sa trasmettere anche sensazioni colori umori di quelle terre lontane non solo geograficamente, ma anche perche' dai nostri media poco arriva che non sia una descrizione di problemi (veri o presunti) o di culture ritenute arretrate e quindi deprecabili. Provero' a farlo leggere ad un dottorando iraniano che lavora all'universita', non so se riuscira' a capirlo, se c'e' una versione inglese sarebbe piu' agevole. Mi ha detto che come scrittore italiano conosce Oriana Fallaci...non ho approfondito la sua opinione. Un articolo che mi fa venire in mente il mio libro di geografia scritto all'epoca da Folco Quilici. Mi rammarica solo dedurre che la guerra scatenata dall'occidente, Francia in testa nel Nord Africa rischia di cancellare quelle realta' culturali, oltre che umane, quali quelle dei Tuareg del deserto. E che la resistenza ai ratti divoratori della Libia stia arretrando, anche se spero non sia cosi. Volevo segnalare la campagna lanciata da varie "associazioni umanitarie" contro il "genocidio di bambine e donne in India". Tirano fuori cifre spropositate, come fa anche la citata setta dei Falun Gong sulla Cina, per stimolare un odio viscerale ai meno attenti e piu' suggestionabili, contro due paesi, che pur con varie contraddizioni sociali, stanno dimostrando al cosiddetto occidente democratico che la sua superiorita' non sara' per sempre.
RispondiEliminaAlessandro
Grazie a tutti per i commenti lusinghieri al mio reportage sull'Iran e grazie anche per gli ormai consueti contributi che arricchiscono questo blog. Vorrei raccontare sul blog altre cose iraniane che rovesciano la vulgata degli embedded e degli avvoltoi, ma devo sbrigarmi col grosso lavoro per il docufilm che deve essere pronto dopo Pasqua. Non so quanto presto ricomparirò sul blog. Cordialità a tutti.
RispondiEliminaInteressante - come al solito - il contributo di Fulvio su un paese che ha il torto di ostacolare le mire egemoniche dell'imperialismo e dei suoi teorizzatori politici, culturali,mediatici. Da studente di antropologia e culture religiose mi permetto di riportare una curiosa citazione sulla questione del velo. Anzitutto, il termine arabo hijab sarebbe idoneo tradurlo con "protezione" e non velo. In secundis, Ugo Fabietti nel manuale "Elementi di Antropologia Culturale" riporta le riflessioni di un'antropologa iraniana, Fariba Adelkhah, (che una donna in Iran possa vantare una cattedra di antropologia è indicativo del grado di libertà di cui, checchè ne dica MediaWar, il genere femminile può fruire in questo paese), relativamente al femminismo islamico: proprio questo femminismo non rifiuta l'hijab, anzi lo rivendica addirittura. Ciò avviene per due ragioni: a) la minaccia che le donne di cultura islamica avvertono più di ogni altra come lesiva della propria identità femminile è la reificazione del corpo; b) per rivendicare rispetto all'uomo che la donna non è solo corpo - che dunque viene coperto, "protetto" dall'hijab - ma anche "anima", intelligenza, interiorità. Si può discutere sulla validità di queste convinzioni, ma sarebbe opportuno contestualizzare, cosa che la propaganda imperiale non può fare dato che si basa, oggi più che in passato, su un assolutismo marcato (dis)valoriale. Massimo Fini - giornalista non comunista e il cui punto di vista è spesso criticabile, ma che l'Iran lo conosce bene - riporta in un suo articolo che nell'Iran post-rivoluzionario sono fiorenti riviste femminili che si occupano di moda (proviamo ad immaginare se la stessa cosa sia immaginabile in Arabia Saudita o Kuwait); ebbene le donne che lavoravano al loro interno non avevano la benchè minima intenzione di mettere in discussione il chador. Questo discorso lo reputo interessante perchè mi pare oltremodo ingiurioso giustificare con il non rispetto della donna una condanna etnocentrica e razzista all'Iran e alla cultura islamica più progredita e illuminata; sull'Arabia Saudita, sul Qatar, sul Bahrain, sui sicari salafiti che operano per pugnalare a morte la Siria si tace: eppure da lì viene la visione più fanatica, retrograda dell'Islam, anche nei confronti della donna stessa. Però non se ne parla, pur di non far torto agli interessi egemonici occidentali, americani ed israeliani in particolare. Chiudo questo intervento con una considerazione sulla lezione di Virginia Woolf, una delle prime femministe della storia, fermamente impegnata in attività culturali pacifiste, socialiste, anti-militariste: ella spiegava che il femminismo poteva avere successo solo se si sarebbe riuscito a svincolare da quella scala valoriale che era stata propria del potere, fino ad allora assoluta prerogativa maschile: guerra, gerarchia, sopraffazione. Mettere un demagogico femminismo, al giorno d'oggi, al servizio della propaganda imperiale contravviene quell'insegnamento luminoso che la letterata inglese diede con la sua opera. Ciò non è un attacco al femminismo in quanto tale, foriero di conquiste sociali - si pensi ad esempio all'aborto -, quanto una critica alla sua applicazione demagogica, etnocentrica e decontestualizzante che, da Oriana Fallaci a Giuliana Sgrena, ha portato acqua al mulino di chi vorrebbe sempre e solo guerra, oppressione, sangue, profitto. Non vedo l'ora di vedere questo docufilm sull'Iran.
RispondiEliminaSaluti comunisti Fulvio,
Nicola, un tuo fan.
Nicola.
RispondiEliminaDavvero prezioso e profondo il tuo contributo sull'hijab. Grazie. Rimane però una domanda: e quella che, per motivi suoi, il velo, anche solo sul cocuzzolo, non lo vuole? Non sarebbe avesse il diritto di toglierlo? E come interpreti il fatto che gli uomini non devono stringere la mano alle donne? Protezione o impurità? Vedo che queste cose le sai approfondire bene.
Caro Fulvio,
RispondiEliminaconosco il costume degli uomini musulmani di non stringere la mano alle donne; non conosco però l'origine della pratica e le sue possibili cause. Riguardo il diritto che una donna dovrebbe avere di rifiutare qualsivoglia hijab se lo ritenesse oppressivo concordo naturalmente con te. La mia riflessione sull'hijab era, diciamo, più generare e volta a precisare che esso ha diverse implicazioni alle spalle che non possono essere ridotte alla dicotomia oppressione/libertà; per citarne un'altra - di implicazione - pare che esso sia anche uno strumento di seduzione, tanto che gli stilisti europei ultimamente hanno iniziato a concorrere per creare hijab sempre più raffinati. Il problema del diritto della donna a rifiutare l'hijab, secondo me, va iscritto in un discorso più ampio: quello del rapporto fra secolarizzazione e mondo islamico. Se in Europa il confronto fra secolarizzazione e Chiesa, in particolare cattolica, passa per una rottura rivoluzionaria endogena, nel mondo islamico - più ancora che in altri contesti - essa si identifica, sino a risultarne la stessa cosa, con le baionette imperialistiche, con la penetrazione coloniale e con il sorgere del dominio occidentale: per questo risulta difficile, nell'intero mondo musulmano, separare religione e politica. Lo stesso Saddam, uomo laicissimo e foriero ineguagliato di progresso sociale, nei suoi discorsi aveva ripetutamente in bocca la parola Dio (vedi ad esempio l'intervista fattagli da Bruno Vespa reperibile su youtube). In altri contesti, con l'eccezione dell'Iraq di Saddam e della Siria del Baath, per la stessa ragione è difficile parlare di abbandono dell'hijab quando esso sia visto dal punto di vista individuale di una donna come oppressione. Questo può essere il caso dell'Iran, stato dove la religione è determinante, anche se per esempio con Ahmadinejad rispetto all'epoca di Khomeini la struttura teocratica si è un tantino alleggerita. Il caso delle monarchie reazionarie del Golfo e dei mercenari salafiti, waahbaiti e qaedisti rientra in un'altro contesto ancora: come ben sai l'Occidente si affida agli elementi più retrogradi della religione per garantirsi la paralisi civica delle masse ed evitare sconvolgimenti di tipo rivoluzionario, socialista, baathista o "filo-iraniano" che sia. A mio avviso la soluzione del problema sta nel deporre i toni guerrafondai, imperialistici che caratterizzano il confronto fra "noi" e "gli altri" (per evitarne l'ineluttabilità, insegna Stalin, bisognerebbe lasciarsi alle spalle il capitalismo imperialista, ma questo è un altro discorso ancora); solo allora potrà avviarsi un sereno dialogo, un sereno "percorso etico" fra culture dove ognuno ("noi" e "gli altri") guardandosi con gli occhi del rispettivo "diverso" può riflettere su limiti e pregi della propria esperienza culturale. "Gli altri" potrebbero, ad esempio, valorizzare la completa separazione fra dominio della politica e dominio della religione;"noi" apprendere, ad esempio, la lezione di certa finanza islamica restia al prestito con interesse; o magari potremmo riflettere sul fatto che determinati valori non scritti (dall'ospitalità alla solidarietà)nel mondo musulmano abbiano resistito molto più che da noi all'avanzata inesorabile dell'ideologia della mercificazione capitalista.
Con affetto,
Nicola.
Ps: Mi scuso per eventuali errori grammaticali e per eventuale poca scorrevolezza sintattica, ma ho dovuto scrivere di fretta. Saluti comunisti a Fulvio e a tutti i lettori del blog.
Grazie Fulvio, te lo dico con il cuore: mi hai fatto venire voglia di visitare l'Iran
RispondiEliminaCaro Fulvio, ti ringrazio moltissimo per questo tuo intervento sull'Iran, che mi ha toccato nel profondo. In questo caso, i ringraziamenti sono sentiti in modo particolare, non solo per la consueta lucidità e passione che dimostri nell'analisi politica e sociale, ma anche e soprattutto perché parli con grande sensibilità di un paese della cui cultura e letteratura mi occupo da ormai da più di quindici anni, dove ho passato i momenti più belli e più importanti della mia vita di studioso e di uomo. Davvero ti ringrazio infinitamente.
RispondiEliminaStefano
Ciao Fulvio,
RispondiEliminasono Nicola. non so se hai ricevuto il commento dove rispondevo alle tue domande, presumo di no dato che dovrebbe essere di qualche ora antecedente agli ultimi due commenti pubblicati. Appena avrò tempo, risponderò con calma. Intanto mi permetto segnalare questo bell'articola su Iran, cinema e hollywoodismo. E' da leggere tutto, davvero interessante per ampliare gli orizzonti. http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45051
Ho letto del web del Corriere della Sera che in Siria riprende il campionato di calcio. Buon segno? (Ovviamente non solo per l'aspetto sportivo in se)
RispondiEliminaAlessandro
Un saluto a Fulvio e complimenti per l'articolo.
RispondiEliminaIeri sono andato a vedere Grillo,vi mando il mio video,interessante quando parla di f35 e "missioni di pace" almeno dice le cose come stanno !
https://www.youtube.com/watch?v=WYBx_xlKVpw
Anch'io ieri ho assistito al comizio di Grillo a Genova.
RispondiEliminaSia lui che i candidati del M5S hanno detto cose di assoluto buon senso tra cui, rara avis, che bisogna smetterla di fare guerre in nome di "Liberté, Egalité e Vaffanculé".
Va a finire che questa volta mi toccherà andare a votare.