“Svegliamoci, svegliamoci, umanità!
Non c’è più tempo, le nostre coscienze siano scosse alla vista
dell’autodistruzione fondata sulla depredazione capitalista, razzista e
patriarcale! Bertha vive!” (Olivia, Berta, Laura, Salvador,
figli di Bertha Caceres, leader indigena e internazionalista, uccisa a
Tegucigalpa)
Giustificato
forse dal precipitare sempre più travolgente di accadimenti gravissimi, di
portata epocale, in Medioriente, Africa, Europa, sento però sulla coscienza il
peso di aver trascurato da tempo un paese e un popolo a me carissimi e di cui
avevo vissuto e raccontato le vicende a partire dal colpo di Stato del 2009 con
cui l’imperialismo yankee ha voluto distruggere la sua rivoluzione e rimetterlo
in ginocchio (docufilm “HONDURAS, IL RITORNO DEL CONDOR”).
Un peso
piombatomi addosso come un colpo in pieno petto alla notizia dell’assassinio di
Berta Càceres, compagna e amica, grande, eroica, imperterrita, leader indigena
e nazionale dell’Honduras. Combattente per la liberazione del suo popolo a
partire dai primi anni ’90, quando fondò il COPINH, Consiglio delle
Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras. Leader del popolo in
resistenza con rinnovata determinazione dopo il golpe organizzato dagli Usa e,
specificamente, da Hillary Clinton, Segretaria di Stato con Obama, nel 2009. Un brutale, sanguinoso colpo
di Stato che rovesciò il legittimo governo del presidente Manuel Zelaya. Un
presidente che, avendo guardato alle esperienze di liberazione dal giogo
colonialista nordamericano del Venezuela e degli altri Stati progressisti
latinoamericani, aveva osato tirare il paese fuori dalla condizione di reietta
repubblica delle banane, tagliare le unghie alle multinazionali e all’oligarchia
locale che ne erano i sicari e avvicinarsi ai paesi antimperialisti e
socialisti dell’A.L.B.A.. Un colpo di
Stato sostenuto e approvato. nel suo svolgimento sanguinario e nel suo seguito
stragista. dal primate cattolico, cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, per
questi meriti poi messo da papa Bergoglio a capo della Commissione per la
Riforma della Chiesa. Nientemeno.
Alla serial
killer Hillary Clinton, oggi salutata come la candidata democratica alla
presidenza che eviterebbe agli Usa il destino del degrado reazionario prospettato
da Trump, va imputato anche l’assassinio di Berta che, pure, da poco era stata
insignita del prestigioso Premio Goldman, il Nobel ambientalista, Dopo l’assassinio,
celebrato con le sue fragorose risate, di Muammar Gheddafi, linciato dai suoi mercenari,
dopo quelli di tutte le guerre sollecitate o condotte da questa belva umana,
dopo le migliaia di uccisi o fatti scomparire dalla repressione dello Stato
gangster honduregno, fatto nascere da Washington per simulare il ritorno alla
democrazia dopo il colpo di Stato. Usurpatori che, rimosso e deportato Zelaya, soffocavano
la formidabile resistenza popolare, protrattasi per mesi, in un bagno di sangue,
Attraverso
elezioni fraudolente, condotte sotto la minaccia delle baionette dei golpisti,
Washington installò al potere i suoi sicari, prima Porfirio Lobo Sosa e poi Juan
Orlando Hernàndez, espressione degli interessi neocoloniali yankee
garantiti dall’oligarchia compradora
honduregna. Una mezza dozzina di famiglie miliardarie, capeggiate dai
famigerati Facussé, che nel passato avevano spolpato il paese e collaborato con
le più feroci dittature apparse in Centroamerica, potè tornare all’antica
collaborazione con le multinazionali nella comune depredazione del poverissimo
paese: monoculture della palma d’olio, devastazioni minerarie, disboscamenti,
centrali idroelettriche, sfruttamento del petrolio, espulsione di popolazioni dal
loro habitat ancestrale. Le stesse che avevano collaborato con i gangster Usa
alla creazione dei tagliagole Contras per abbattere la rivoluzione sandinista
in Nicaragua. Una delle operazioni più scellerate dell’imperialismo, affidata
al campione degli squadroni della morte, John Negroponte. Esatto, proprio il
datore di lavoro del giovane Giulio Regeni, poi spedito al Cairo e vittima di
una manovra di diffamazione dell’Egitto.
Berta Caceres
è stata ammazzata a casa sua, all’una di notte del 2 marzo, da sicari del
regime e delle imprese che combatteva. Il fratello è stato ferito. Rimagono
orfani, insieme a tutto un popolo, e non solo nella sua componente originaria,
i quattro figli, Olivia, Bertha, Laura e Salvador. Avevo incontrato Berta tante
volte, sia per le interviste che poi ho inserito nel docufilm “Honduras, il
ritorno del Condor”, sia per stare insieme a discutere delle prospettive della
rivoluzione honduregna, con altri amici del Fronte della Resistenza che avevano
ospitato me e il collega Marco. Ci eravamo precipitati in Honduras pochi giorni
dopo il golpe, il 29 giugno del 2009, e ci siamo rimasti per settimane,
registrando per il nostro documentario lo svilupparsi dello scontro tra i
golpisti e, poi, i loro successori “eletti” e una resistenza popolare che giornalmente
scendeva in strada a sfidare la ferocia dei militari e dei loro squadroni della
morte negropontiani, i “Tigre”.
Della
direzione di questa resistenza di popolo, Berta fu, a mio avviso, la
protagonista prima, accanto a tante altre figure di sindacalisti, politici
dell’opposizione, attivisti dei diritti umani, dirigenti e masse indigene. Da
esponente delle rivendicazioni dei settori indigeni, i più esclusi e deprivati,
assurse subito a leader nazionale contro il golpe e poi contro la dittatura travestita
da democrazia. Era tra i dirigenti del Fronte la personalità ideologicamente
più matura, più consapevole delle implicazioni del golpe nel contesto della
nuova offensiva Usa contro le esperienze antimperialiste e socialiste del
grande movimento di emancipazione della “Patria Grande”. Quella offensiva che,
con la caduta dell’Argentina in mano all’estrema destra filo-yankee, con la
sconfitta parlamentare del chavismo in Venezuela, con i tentativi di destabilizzazione
in Ecuador e Boilivia, aveva avuto il suo preludio nel golpe honduregno.
Percorsi,
grazie alle indicazioni e ai contatti fornitimi da Berta e da altri militanti,
come Lorena Zelaya, il paese da cima a fondo, dalle comunità
afro-latinoamericane depredate del loro habitat naturale per far posto agli
insediamenti turistici di lusso (da quelle parti si svolge l’oscenità dell’
“Isola dei famosi”), alle vaste terre boschive dell’Ovest e del Nord, terra del
popolo Lenca e di Berta.
Ovunque si
incontravano realtà sorte sotto la breve presidenza di Zelaya e a cui la
resistenza al golpe aveva dato ulteriore impulso, a dispetto della repressione
che vedevamo diventare ogni giorno più
brutale e cruenta, con intere comunità sottoposte a coprifuoco,
irruzioni, rastrellamenti, arresti e processi arbitrari, spesso costrette alla
fuga e all’esilio. Strutture della resistenza su vari piani,
dell’organizzazione campesina per la coltivazione e commercializzazione in
comune dei prodotti, della formazione autogestita di scuole per esclusi e
analfabeti, una formidabile radio dei Lenca a la Esperanza, fonte di
informazione alternativa locale e internazionale, motore delle mobilitazioni
per opporsi alle incursioni dei repressori. Una radio che il regime sabotava,
chiudeva ogni due per tre e che tornava ogni volta a trasmettere, addirittura, con
l’impianto sigillato, dai computer nella selva.
Da giornalista
di strada, sulle vie percorse dalle persone a piedi, le vie della liberazione, l’esperienza
dell’Honduras è stata una delle più belle, incoraggianti: la capacità di un
popolo di dire la sua contro tutto e contro tutti, di un popolo da niente,
ignoto e ignorato dal mondo, con meno soldi in tasca dell’ultimo scugnizzo,
fuori dalle cronache e dai racconti dei viaggiatori, però pieno di musiche e di
colori, ricchissimo di cuore e di mente su una terra saccheggiata e
desertificata dai predatori alla ricerca di oro, che sia legname, minerale,
acqua, zolla, una terra da riportare alla vita, da restituire ai suoi diritti e
ai suoi frutti umani. Con questo popolo de piè, in piedi, come dicono da quelle
parti, abbiamo cantato i canti del riscatto cubano, latinoamericano, indigeno,
consumato i pasti nelle mense dei volontari impegnati nel contrasto agli
affamatori, ingoiato negli occhi e nella gola i gas degli sguatteri in divisa
del padroncino gaglioffo locale e del padrone cannibale di fuori, schivato le
pallottole d’acciaio rivestite gentilmente di gomma. Ed è perenne il ricordo di
quella grata, al secondo piano di una scuola elementare, da cui usciva un coro
di bimbi e pioveva in strada sulle colonne degli sgherri di regime che davano
la caccia ai manifestanti: “Nos tienen
miedo porque no tenemos miedo”, ci temono perché non li temiamo, uno slogan
che dal 2009 continua a risuonare in tutto l’Honduras.
Il COFADEH è
l’associazione per i diritti umani che fin dagli anni che precedettero la
svolta progressista e democratica di Zelaya, sosteneva le vittime dei regimi
totalitari installati da Washington e servi della famigerata multinazionale
United Fruits e ne
denunciava e perseguiva legalmente i colpevoli. Berta Caceres mi presentò Berta
Oliva, che la dirigeva. Una piccola donna pulsante di energia, di passione e
indignazione. Era la vedova di un giovane militante assassinato negli anni ’90.
Quando andammo a intervistarla trovammo una folla di donne in attesa, quale
ferita dalle percosse degli sbirri, quale con un figlio ingiustamente
carcerato, quale con la casa distrutta dai paramilitari paralleli alle forze
della dittatura. Le pareti di tutte le stanze erano tappezzate di immagini di
vittime del prima e del dopo-Zelaya. Centinaia, quasi tutte giovani, moltissime
donne. Le due Berta, Oliva e Caceres lavoravano di conserva, insieme ad altre
donne erano l’avanguardia della resistenza. Come si poteva constatare in altre
parti del continente che si era messo in cammino, la nuova America Latina anticapitalista,
antimperialista e antipatriarcale, era donna.
Erano
passate alcune settimane dal golpe e, a Tegucigalpa, piazze e strade davanti
all’ambasciata Usa erano ininterrottamente presidiate da folle calate dai
borghi poveri sulle colline, mentre la grande via che dall’Università portava
al centro era bloccata dalle barricate degli studenti. Incontrai Berta Caceres
nella sede del sindacato, quartiere generale del Fronte Nazionale di Resistenza
Popolare (FNRP), dove le varie organizzazioni riunite nel Fronte preparavano
azioni di contrasto ai golpisti e poi ai loro successori pseudo-democratici ed
elaboravano il programma per una nuova assemblea costituente, richiesta
principale del movimento. Ricordo le parole di quella che mi era subito apparsa
come la leader più matura, con la più attenta preparazione ideologica e la perfetta
consapevolezza dei mandanti dell’attacco al suo paese e a tutta l’America
Latina, dei loro strumenti e obiettivi. Una militanza indigenista e femminista
che, però, si inseriva, senza sterili
settarismi, nel contesto dello scontro in corso tra popoli, capitalismo e
imperialismo.
“La nuova costituzione dovrà sancire i
diritti della donna, diritti politici, economici, sociali. Il diritto all’autodeterminazione
riproduttiva, cose che in nessun modo l’attuale costituzione riconosce. Abbiamo
avuto compagne e compagni che sono morti nella lotta per questi diritti”
“Noi siamo discendenti dei popoli indigeni
che hanno compiuto la più grande resistenza alla conquista. Questo non è mai
stato riconosciuto, mai compreso, neppure dalla sinistra. L’imperialismo e la
destra non si riposano. Li abbiamo sopravalutati e siamo rimasti come in
letargo. Nella crisi generale del capitalismo, loro hanno bisogno delle nostre
risorse, la biodiversità, il petrolio, la nostra cultura, i nostri saperi
ancestrali. Perciò non rinunceranno. Ed è questo il tempo in cui il movimento
sociale di sinistra, antimperialista, deve consolidare e rafforzare il suo
processo di emancipazione. Deve essere una risposta non solo locale o
regionale, ma internazionale, globale, contro il capitalismo”.
Ho poi di
nuovo visto Berta nel bel mezzo di una manifestazione davanti all’hotel in cui
l’OSA stava cercando di mediare, chiaramente sotto direzione Usa, per far
passare il processo elettorale. Bertha, diversamente dalla componente sindacale
del Fronte, non credeva alla possibilità che sotto l’oligarchia, che aveva preso
il potere con la violenza, istruita e diretta dagli yankee rintanati a
Palmarola, nella più grande base Usa del Centroamerica (la cui chiusura era
stata ventilata da Zelaya), alle forze dell’emancipazione potesse essere
riconosciuta la vittoria elettorale. Difatti da lì a poco, la farsa elettorale
allestita dai golpisti confermava l’assunto che, con una destra fascistizzante
e filo-Usa al controllo, nessun’alternativa di sinistra avrebbe mai vinto
elezioni. Ecco cosa la mia telecamera
strappò a Berta, mentre in un caffé ci stavamo riparando dai gas.
“Come popolo abbiamo il diritto di opporci
con ogni mezzo a chi ci reprime, di porre condizioni ai tiranni. Vogliamo
abbattere i dittatori, non vogliamo l’impunità per gli assassini del popolo
honduregno. Non riconosciamo elezioni che sono solo un circo politico inteso a
legittimare questo golpe. Non sarebbe solo tradire il popolo honduregno, ma
tutte le lotte di emancipazione in questo continente e nel mondo”.
La coscienza
internazionalista di questa grande rivoluzionaria latinoamericana e indigena, dovrebbe
far riflettere le tante sinistre o pseudo-tali delle nostre parti il cui
internazionalismo si è ridotto allo scimmiottare e riecheggiare i modelli
interpretativi della realtà forniti dai poteri dell’oppressione e rilanciati da
opportunisti e falsari autoproclamatisi difensori di diritti umani. Diritti
umani che con quelli per cui ci si è
battuti e ci si batte in Honduras non hanno niente da spartire. Forte di questo
retroterra politico e culturale, Berta non condivise la successiva decisione
del Fronte, sostenuta dalla componente sindacalista e contrastata da quella
indigena e studentesca, di mutarsi da movimento unitario e polifonico di massa
in partito politico, “Libre”, e di concorrere
alle elezioni del 2013. Promosse, con la sua organizzazione e altre, la
continuità e l’intensificazione della lotta di massa e della costituzione di
poteri alternativi sul territorio e in tutti gli ambiti della vita pubblica, per
impedire allo Stato autoritario di consolidarsi.
“Libre”, capeggiato dalla moglie di
Manuel Zelaya, Xiomara, perse le elezioni grazie a brogli scandalosi,
dimostrati e denunciati anche da organismi internazionali. E il paese ripiombò in mano a un’oligarchia
spietata nello sfruttamento e nella repressione, ma fortemente sostenuta ed
elogiata da Washington. L’Honduras
divenne la prima tappa della megaoffensiva condotta dall’imperialismo contro i
governi e i popoli latinoamericani che si erano sottratti alla mordacchia militare
ed economica di chi aveva sempre considerato il subcontinente suo cortile di
casa e fornitore gratis di materie prime. Il modello da moltiplicare era il
Messico, consegnato, con la cosiddetta “guerra alla droga”, alla militarizzazione
contro ogni forma di dissenso, al narcotraffico delle stragi e al saccheggio
delle multinazionali. Il Messico del “Nafta”, trattato di “libero” scambio con
gli Usa, precursore del TTIP con cui Washington e Wall Street intendono
incatenare l’Europa a una totale
subalternità.
Le
multinazionali tornarono a infierire su territori, comunità, risorse. La
repressione ha reso l’Honduras il paese in cui si viene ammazzati di più al
mondo. Soprattutto ambientalisti, difensori dei diritti umani, militanti
indigeni, quadri dei movimenti sociali. In un’impunità che rasenta quella del
Messico e riguarda il 92% dei delitti contro civili. Uno dei progetti più devastanti
e offensivi con riguardo a uno stato di diritto e alla sua sovranità, fu
quello, sponsorizzato da imprese Usa e avvallato dal regime, di creare una
serie di città-modello su terre sottratte ai loro abitanti. Insediamenti di
lusso, fortini dell’élite, totalmente esclusi dalla giurisdizione civile,
penale e amministrativa dello Stato, dove plutocrati USA avrebbero potuto
installare le proprie residenze e i propri business, liberi da ogni
condizionamento legale, sociale, ambientale. Un TTIP in miniatura.
Negli ultimi
tempi la battaglia di Berta e del Copinh si era andata concentrando sulla
difesa dei territori ancestrali degli indios Lenca, nel nord-ovest boschivo del
paese, dove le multinazionali, con il sostegno della Banca Mondiale,
procedevano a disboscamenti, costruzione di grandi bacini e dighe, centrali
elettriche, spesso finalizzate ad alimentare devastanti interventi minerari.
Tutto con conseguente esproprio violento dei contadini e cancellazione delle
loro comunità. Berta, a dispetto di costanti minacce di morte, di violenze
contro i suoi attivisti, di arresti sotto false pretese, si mise a capo anche
di questa lotta. Riuscì a sventare un progetto di diga e centrale idroelettrica
costringendo alla ritirata la Sinohydro, massima impresa mondiale nella
costruzione di dighe.
Ultimamente
il Copinh e Berta si battevano contro la privatizzazione del Rio Gualcarque,
terra sacra agli indigeni, e contro la
costruzione della diga di Agua Zarca, sempre in territorio Lenca. Il vice di
Berta, Tomas Garcia, impegnato nelle stesse lotte, era stato ucciso nel 2013.
Ma Berta era andata avanti. Fino a
quando la vendetta degli stupratori della sua gente e del suo paese non ha
raggiunto anche lei. Ammazzato con una fucilata, proprio nei giorni in cui ero
lì, anche Walter Trochez, giovanissimo, ma stimatissimo difensore dei diritti
umani e gay. Intanto l’Italia onorava l’Honduras con il campione GLBT Vladimir
Luxuria che vagolava per l’Isola dei Famosi con le mutande di Valeria Marini in
testa. Titolone di “Liberazione” in prima pagina: “Forza Vladimir!” E’ la
nostra sinistra..
Abbiamo
perso una combattente senza pari dello schieramento antimperialista, una donna
forte, intelligente, buona. L’Honduras ha perso una sposa, una madre, una
figlia. Noi piangiamo Berta insieme al suo paese orfano e ne grideremo il nome contro
l’ambasciata dell’Honduras a Roma. Là dove non vedremo di certo i bravi
pacifisti e nonviolenti, impegnati a protestare contro l’Egitto e contro l’uccisione
di uno che lavorava con tale John Negroponte, comandante di squadroni della morte e massacratore
del popolo che Berta difendeva. Coincidenze e contraddizioni della storia. Ci
rimane solo di sperare che l’invocazione dei figli di Berta, citata in
apertura, venga raccolta. Non solo dagli honduregni, ma dal popolo che Berta
considerava il suo, quello che nel mondo viene calpestato, si alza de piè, non s’arrende. Un altro fiore
dell’America Latina ci ha dimostrato come i/le Che Guevara non muoiono mai.
Sono "rivoluzioni" destinate a fallire perché non troncano le opposizioni capitaliste. Senza "violenza" posta rivoluzioni non si fa molta strada.....
RispondiEliminaLudovico
Mi dispiace dirlo e mi illudo pensarlo, ma fino a quando le masse popolari dell’america latina non si slegheranno dal condizionamento della cultura cattolica-biblica-evangelica e di tutte le varie degenerazioni che essa ha contribuito a ramificare nel continente, mai saranno realmente slegati da washington e quindi dall’europa colonizzatrice. Sono altresì convinto che Ratzinger abbia messo fine all’istituzione Chiesa così come Bergoglio abbia colto al volo il progetto di ‘umanizzazione’ di quella che è stata la più feroce macchina da guerra e il più oscuro supporto psicologico all’annientamento di tutto ciò che non era ‘occidente bianco’. Quello che da qui leggiamo come chiesa, là e non solo, si traduce in Pontifica Università Cattolica e collegi di varia ispirazione soprattutto Bon Bosco, The Church of Jesus Christ of Latter-day Saints i cui leaders, bianchi, si muovono tra partito repubblicano u.s.a. e business vari dalla forever living alle piantagioni ecologiche di copertura a multinazionali come deichmann che fondono business e teologia del ‘recupero’ . Nelle ultime elezioni in Giamaica la chiesa avventista del 7° giorno garantirà il ponte con Ted Cruz così come con chiunque vinca le elezioni statunitensi garantiti dalla david panton capital holdings, ex marito della combattiva e non più sprovveduta miss mondo. La ‘nuova chiesa’ è riuscita ben a separare le masse popolari da quelle realmente indigene, e questo è un bene, frazionando la popolazione semplice tra chi ce l’ha fatta e chi ce la può fare, ad uscire dalla povertà, in cambio di un tenore di vita illusorio e sempre comparato agli standard delle genti ‘bianche’, come se quello fosse lo snodo della libertà e della giustizia. Le valutazioni militanti ed estremamente avanzate rispetto al livello di conflitto occidentale vengono risucchiate nella necessità della chiesa di fare breccia nel disagio e nelle problematiche che essa stessa ha prodotto negli ultimi secoli (intervento di Stedile alla faziosa internazionalista dei popoli in vaticano). La voglia di occidente sta sgretolando l’america latina in fazioni ben finanziate e illuse per l’ennesima volta di potersi appropriare delle armi del nemico, ma il fine dell’egemonia bianca è sempre la terra e le risorse, oltre a giardini dove passare vacanze e pensioni. L’accondiscendenza delle presidenze della speranza chavista post-castrista è inevitabilmente regolata dalle propensioni popolari, stordite da internet e globo tv. Ma se piccola è la resistenza, grande sarà la vittoria.
RispondiEliminaMi scuso, volevo dire post-rivoluzione.
RispondiEliminaLe affermazioni di Dezzani sul Tuo conto sono una sbrodolata ipercomplottista ed il soggetto, pur bravo analista, non ne è nuovo. Se leggesse i tuoi interventi capirebbe che sei un meraviglioso, inguaribile e romantico rivoluzionario, il cui romanticismo porta a volte, forse, a fidarsi troppo del movimento spontaneo. L'insistenza di Dezzani e la sua incrollabile certezza del Tuo "doppiogiochismo" meriterebbero una denuncia, senonché mi viene da chiedere con quale criterio un giudice borghesuccio potrebbe dirimere la questione.....Che Guevara si è fidato dei contadini boliviani, che pare abbiano fatto la spia. Non era sicuramente un doppio giochista. Dezzani odora di sovranismo da lontano un miglio....
Con affetto e stima ( da non ricambiare per il mio filo post-stalinismo....)
Ludovico
Un bell'articolo su questa protagonista, nella giornata dell'otto marzo che le democratically correct preferiscono dedicare a personaggi perfettamente funzionali al sistema, come la Hillary Rodman (la quale, nonostante la mal celata misandria, si fa chiamare con Il cognome del marito), la rancorosa Boldrini, pronta a santificare ogni donna che denuncia un uomo ex marito ex compagno, nel segno del "tutto il potere alle donne" (ma quali donne? Quelle possibilmente giovani e di buona famiglia che fanno propri i valori occidentali del carrierismo e dell'individualismo) e delle tante associazioni antiviolenza e LGBT che di questa donna coraggiosa e pronta ad affrontare sacrifici, che denunciava le storture e lo sfruttamento delle risorse naturali ai danni delle comunita' locali da parte delle compagnie occidentali, cosi lontana dai desideri illimitati trasformati spesso in "diritti civili", non saprebbero bene cosa farsene. Amaro ma vero, una Chico Mendes del centro America, con la speranza che possano nascere altre. E che riescano a sensibilizzarne qualcuno in piu'anche da noi.
RispondiEliminaBravo Fulvio! Sei un "combattente" dell'informazione. Purtroppo la massa ama le favole e non comprende chi spiega l'amara verità. Ma noi dobbiamo "restare umani". Un abbraccio. Mauro.
RispondiEliminaGrazie Fulvio per informare quello che accade nell'Honduras, veramente è poco paragonato con la realtà, quella è guerra!
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