Abbiamo
creato le condizioni per un processo di pace. Abbiamo stabilito una
collaborazione costruttiva e positiva con gli Usa e altri paesi , con le
forze dell’opposizione rispettabile in Siria che sinceramente vogliono porre
fine alla guerra e trovare una soluzione politica al conflitto. Voi, soldati
russi, avete costruito la strada… Ovviamente torneremo, se ce ne sarà la
necessità. In poche ore, la Russia può ricostituire le sue forze in Siria ed
essere in grado di affrontare una situazione fuori controllo utilizzando
l’intera gamma di mezzi a sua disposizione” (Vladimir Putin)
Bicchiere
mezzo pieno o mezzo vuoto? Intanto “il manifesto” si beve l’ultimo goccio di
credibilità
La trita metafora è rispuntata con virulenza
alla notizia del ritiro russo dalla Siria. Notizia imbarazzante per
l’Occidente. Tanto che, pur essendo di una notevole importanza geopolitica,
perfino storica, è svaporata dai media nel giro di 24 ore. Imbarazzo,
irritazione, frustrazione, di fronte a una Russia che, in un modo o nell’altro,
mantiene e accentua l’iniziativa e pone sistematicamente gli altri in
difficoltà di risposta. Così, attaccandosi alla liana lanciatagli dalle interviste
al presidente Al Sisi dai giornaloni italiani, sono tornati a volteggiare
sull’argomento nel quale si sentono imbattibili: Regeni. Sapete, il ragazzo
fatto trovare morto e torturato tra i piedi del governo egiziano, mentre stava
firmando con quello italiano una delle più grosse e reciprocamente proficue
intese economiche del nuovo secolo. Regeni, quel ragazzo arrivato da Londra, da
quella Oxford Analytica dei
superspioni e superkiller McCole e Negroponte. Un collaudato duo operativo
angloamericano che tutto vorrebbe tranne che Egitto e Italia si mettano
d’accordo sull’autosufficienza energetica e, dio ce ne scampi, sulla Libia,
togliendo al consorzio energetico-militare Israele-Turchia-Arabia
Saudita-Qatar, sotto regia Nato, il ruolo di protagonista unico nella regione.
Al Sisi, in un’intervista del tutto
ragionevole, assennata, convincente, aveva posto sulla bilancia un cui prodest di quella provocazione: il
sabotaggio dei buoni e fattivi rapporti italo-egiziani sul piano economico
(gas, infrastrutture) e geopolitico (Libia). Sabotaggio che non poteva non
essere gradito, sia a chi teme l’emergere di un Egitto di nuovo protagonista autonomo
sulla scena mediorientale, sia ai colonialisti occidentali che preparano
l’intervento militare per sbranare quel che resta della Libia. Inoppugnabili
dati di fatto. Per neutralizzare l’effetto che un simile ragionamento, fondato
su fatti e logica, rischiava di avere sull’opinione pubblica, i giullari del
sionimperialismo hanno riattivato le katiusce del fango contro l’immane
rompitore di coglioni degli assetti occidentali, il Pinochet del Cairo. Le
munizioni erano sempre quelle fornite dalla cara Fratellanza Musulmana cui 20
milioni di egiziani in rivolta e i militari avevano impedito di ridurre il
paese in un’Araba Saudita.
Embedded
Più furibondo di tutti, pur nel suo
piccolissimo, il “manifesto”, che ha per fonte e guida, privilegiata fino alla
sacralità, né l’osservazione fredda dei fatti, né la passione ideologica, ma
Amnesty International (Dipartimento di Stato) e Human Rights Watch (Soros).
Mobilitati idioti, ignoranti e infiltrati, è arrivato a spapagallare di
Amnesty, dopo gli anatemi contro il leader egiziano, anche quelli ai suoi intervistatori
di Repubblica e del Corriere, “che ormai
hanno perso totalmente il loro status di contropotere, in grado di mettere in
difficoltà i potenti anzichè stendere arazzi fiamminghi metaforici sotto i piedi dell’intervistato… alla faccia
del giornalismo come fonte di informazione…”
Secca dover difendere i massimi organi della
disinformazione nostrana, ma come evitarlo quando l’attacco proviene da un
fogliaccio pseudo- comunista e cripto-Nato che interpreta il suo “contropotere”
e il suo “giornalismo come fonte di informazione” nascondendo da un mese
dell’affare Regeni l’aspetto incontrovertibilmente più rilevante, anzi
decisivo, uscito su mille giornali e schermi e virale in rete: il giovane accademico, sostenitore dei
sindacati perseguitati, che lavora a tempo pieno per una lurida impresa di
spionaggio e provocazione, agli ordini
di un ex-capo-spione britanico, McLeod, e del politico Usa massimo esperto e
gestore di squadroni della morte e False Flag, dall’Honduras dei Contras,
all’Iraq delle stragi terroristiche (compreso l’assassinio di Calipari). Che
incommensurabile vergogna!
Colpi e
contraccolpi
I cripto-Nato del “manifesto” sono anche
quelli che la notiziona del ritiro russo l’hanno annegato sotto l’ennesima
alluvione di geremiadi sulla scelleratezza europea anti-rifugiati e l’infamia
anti-GLBTQ dell’universo mondo. Non così in rete, dove si sono subito scatenati
i pro e contro sulla decisione di Putin, per alcuni stupefacente, per altri
sconvolgente. Traditi gli uni e gli altri dalla spinta emotiva, o dall frenesia
di arrivare primi a illuminare il colto e l’inclita sulla portata
dell’accadimento. Che non è né una
ritirata di infingardi che abbandonano l’amico nel momento di massimo bisogno,
né il trionfo di una campagna che ha risolto ogni cosa e sbaragliato tutti.
Pochi dubitano del fatto che l’intervento
russo abbia sparigliato il gioco e messo alle corde i contendenti dello
schieramento anti-Damasco. Usa, Israele, Saud, Qatar,Turchia, con i rispettivi mercenari
Isis, Al Qaida-Al Nusra e frattaglie minori, islamiste o “moderate” che le
chiamino. Di certo c’è che, dopo cinque anni di incredibile resistenza di
popolo, la Siria non precipiterà nel gorgo libico. Le controparti, però, avuto sentore della mossa russa e consapevoli che
si verificava a coronamento di una loro semi-disfatta, hanno fatto la mossa del
cavallo. Per riprendere l’iniziativa, se non sul campo siro-iracheno, hanno
acceso altri due roghi: Libia e Libano. La fibrillazione deve rimanere, la
minaccia di una conflagrazione generale deve continuare a poterne discendere, in
Medioriente come nel mondo (da altre parti si riattizza l’incendio ucraino e si
procede contro la Cina nel Pacifico e contro Brasile, Argentina, Venezuela,
Bolivia in America Latina). Ne va della buona salute delle varie Lockheed-Martin,
Boeing, Raytheon, Northrop Grumman, General Atomics, insomma del famigerato complesso
militar-industriale. E dunque dell’intera economia Usa.
Non è che dal ritiro e dai negoziati di
Ginevra fiorisca ora la pace universale. In Libia c’è da evitare a tutti i
costi una soluzione fisiologica, cioè inter-araba, per la quale sarebbero
pronti e capaci Egitto e la coalizione laico-gheddafiana di Tobruk. Si attivino
i Fratelli musulmani e qualche loro intollerabile provocazione su cittadini
europei, meglio se italiani come Regeni, scafisti turchi accelerino il
trasferimento a Sirte di jihadisti scornati in Iraq e Siria. Dopodichè
armiamoci e partite, ascari europei. E su questo scenario Mosca deve ancora
dirci qualcosa, al di là del puramente virtuale sostegno, nel Consiglio di
Sicurezza, all’altrettando virtuale governo di unità nazionale rintanato tremebondo
a Tunisi.
Non va
in Siria? Proviamo in Libano.
In Libano proliferano gli attentati dei figliocci
wahabiti di casa Saud, Isis e Nusra. Si riprova a fomentare una nuova
“rivoluzione dei cedri”, stavolta innescata dalla guerra dell’immondizia e dalla
paralisi istituzionale. L’Arabia Saudita si rimangia i 4 miliardi di dollari
promessi per ammodernare un esercito che va punito perché, unito agli Hezbollah, insiste a far fronte alle
infiltrazioni jihadiste. Riyad opera perché tali infiltrazioni riescano a
spaccare in due il paese a partire dalla roccaforte sunnita di Tripoli nel
Nord. Ripartirebbe così la guerra civile 1975-1990 in un paese stremato,
privato a causa di tutti questi guai anche del sostegno finanziario del ricco
turismo del Golfo (Sauditi e Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno vietato
ai propri nababbi di frequentare i lussuosi agi di Beirut). La situazione
diverrebbe ottimale per una nuova invasione israeliana, da lungo tempo
vagheggiata per vendicare le due umilianti sconfitte di Tsahal nel 2000 e nel
2006 e assestare un colpo risolutivo a Hezbollah e al suo importantissimo ruolo
in Siria. Qualcuno tra gli strateghi di questo scenario pensa che così si
creerebbero le condizioni per far rientrare dalla finestra la vertenza con i
russi, ora unilateralmente sospesa, e chiudere finalmente il discorso Assad e
Siria unita e integra.
Ritiro
tattico, permanenza strategica
Ma, allora, il ritiro delle forze aeree russe
apre la porta a prospettive gradite agli aggressori? Bisogna vedere in che contesto avviene. Nei
cinque mesi del loro intervento i russi hanno stroncato la vitale fonte di
finanziamento del Califfato, distruggendone impianti e trasporti petroliferi.
Hanno tagliato le principali vie di rifornimento dalla Turchia. Hanno aiutato
le forze armate e le milizie di autodifesa siriane, assistite dagli iraniani e
da Hezbollah, a liberare il 24% del territorio conquistato dai jihadisti (quota
più significativa di quanto appaia perché il resto è in gran parte deserto e
semideserto disabitati), a liberare i governatorati di Latakia, Aleppo (tranne
poche sacche in città), Homs e Hama, ad avvicinarsi a Palmira e Raqqa in vista di
offensive possibilmente decisive. Saldamente installati nella base marittima di
Tartus e in quella aerea di Khmeimim, con il più avanzato sistema di difesa
antiaerea, S400, sul posto, insieme a una permanente presenza navale e aerea, i
russi sono in grado di tornare a intervenire nel giro di ore qualora venisse
sabotato quello che è il principale dei loro obiettivi, il raggiungimento di un
accordo di pace e di un governo di transizione presieduto da Assad, in vista di
elezioni (fissate al mese prossimo).
Va anche aggiunto che, dopo anni di finti bombardamenti
ed effettivi rifornimenti della Coalizione Occidentale al califfato in Iraq, il
centro di coordinamento dell’intelligence russo-iraniano-iracheno ha guidato le
forze di Baghdad a riprendersi ben il 40% del territorio perduto. E ora l’esercito,
le forze popolari, gli istruttori iraniani, stanno preparandosi all’offensiva
su Mosul (tanto ambita dai curdi…).
Risultati
dell’intervento russo
La
Russia mostrava al mondo di poter bloccare il mostro jihadista in quattro mesi,
cosa che non ha saputo (o voluto) fare la coalizione Golfo-Nato in anni. Impediva
la rimozione del legittimo governo di Bashar el Assad. Riconfermava la
sovranità e integrità territoriale dello Stato siriano contro la dilagante
pretesa imperialista dei regime change.
Ammodernava e consolidava con armi, dotazioni, intelligence, tecnologie
avanzate, un esercito siriano stremato da 4 anni di combattimenti e dalla
diserzione di ben 135mila reclute (oggi alle catene di montaggio tedesche). Aiutava
i siriani a liberare 400 città e oltre 100mila chilometri quadrati. Ripetutamente
bloccava i conati di soluzione bellica di Usa e Turchia (attacchi chimici
attribuiti ad Assad, no-fly-zone, zona cuscinetta sul lato siriano del confine
turco, false flag Cia a gogò). Mentre
faceva tutto questo, diversamente dai suoi antagonisti, Mosca perseguiva con
accanimento la via del negoziato e della mediazione. Boicottata pervicacemente
dagli attori statali locali, dall’opposizione in armi, mercenaria o autoctona,
dalle capitali occidentali da cui si ripeteva l’urlo “Assad se ne deve andare”.
Fino all’altro giorno. Fino a quando la
situazione creata da russi e siriani sul campo, non ha prodotto ripensamenti a
Washington e in una parte delle forze d’opposizione, a dispetto degli ancora
recalcitranti turchi, sauditi e qatarioti. Il gioco si è spostato a Ginevra.
Qui si misureranno i rapporti di forza venutisi a stabilire. In ogni caso Putin ne esce come colui che
ha usato le armi a difesa del diritto internazionale, dell’autodeterminazione
dei popoli, e a promozione del processo diplomatico. L’avrà anche fatto
nell’interesse della Russia, avrà anche voluto demolire il mostro jihadista creato
dall’Occidente prima che glielo si scatenasse addosso a casa. E allora? Gliene
vogliamo fare una colpa?
Prospettive
Cosa succederà ora non dipende solo dal Putin
militare e diplomatico. E’ vero che io non concordo con coloro che
attribuiscono facoltà decisionali totalizzanti a questo o a quest’altro leader,
o presidente. La moda imperante delle personalizzazioni non coglie quasi mai
nel segno. Vedo da sempre un teatro dei pupi in cui marionette si agitano e
burattinai nascosti le muovono. Poi, però, a volte saltano fuori burattini che
prendono vita e danno in escandescenze e, prima di essere ridotti alla ragione,
fanno casini. Vedi Erdogan, o Salman. Quanto alla Turchia, c’è chi pensa che le
nefandezze di questo Fratello Musulmano, serial killer e terrorista, ne rendano
fragile il potere. Forse non considera che un’opinione pubblica fascistizzata e
islamistizzata sostiene la repressione dei curdi, il militarismo espansionista
neo-ottomano, il pugno di ferro contro gli “anarchici”, l’atteggiamento duro
con l’UE. Lo si vede dai risultati elettorali, brogli o non brogli. Anche in
Germania nel ’33 e in Italia nel ’22, intellettuali e giornalisti venivano
bastonati e incarcerati, mentre il popolo marciava cantando “Die Fahne hoch”.
E, comunque, con Erdogan stanno la Nato e la
Merkel. Tanto che, nel plauso generale per la
“soluzione umanitaria” concordata a Bruxelles tra i due poli criminali
Ue-Ankara (altro che Al Sisi, Tommaso De Francesco!), in base a una schifosa selezione
razzista e di classe, nei lager del “paese sicuro”, perché fascista, vengono
rinviati a marcire neri, bruni e afghani, mentre giovani e forti siriani saranno
premiati con l’accoglienza UE per essere bianchi, istruiti e, soprattutto,
disertori renitenti alla leva e alla difesa della loro patria. Per aver
contribuito a fornire mano d’opera qualificata ai tedeschi, contemporaneamente spopolando
un paese che spera di divorare, lo psicopatico macellaio di Ankara riceverà 6
miliardi di euro e un buono-pasto a scadenza illimitata ai banchetti dell’élite
europea.
Gli fa da pendant europeo, in vista del
promesso connubio in UE, il più scatenato tra i capi del terrorismo. E se Merkel
lo ha preceduto premiando con una montagna di soldi le mattanze del socio
turco, lui ha ricuperato conferendo la Legion
d’Onore a Mohammed bin Nayef, principe ereditario saudita. Cerimonia celebrata
sulle rive del mar rosso. Rosso del sangue siriano, iracheno e yemenita.
Per la Nato, dopo i contraccolpi in Siria,
sono soddisfazioni.
Lavoro
lasciato a metà?
In ogni caso vedremo presto se Putin ha
lasciato il suo lavoro a metà, o se ha avviato una fase in cui il mondo potrà
sentirsi rassicurato che non tutte le ciambelle cotte dagli antropofaghi
riescono col buco. A parte di cosa verrà fuori dai negoziati di Ginevra, un dato storico, addirittua epocale, è
acquisito: il mondo non ha più una sola potenza-guida, ma è diventato di nuovo
multipolare. Di questo non possiamo che rallegrarci e renderne tributo a
Putin e grazie ai 5 militari russi caduti nell’impresa siriana.Turchi, sauditi,
Fratelli Musulmani vari e falchi statunitensi si ritrovano con un governo
siriano stabilizzato e difficile ormai da rimuovere con la forza. Non si rassegneranno,
ma, essendo una delle articolazioni di un potere che non si priva mai di una pluralità
di opzioni e che è più grande e più in alto di loro, come articolazione lo è la
fazione di Obama-Kerry, all’apparenza ora risoltasi alla mediazione, borbottando
dovranno quanto meno soprassedere.
Seguiranno le direttive di chi manovra i propri
strumenti a seconda delle necessità e opportunità. I sauditi si sfogano sullo
Yemen, i turchi, posti da
Bruxelles-Berlino sul piedistallo umanitario e su una montagna di soldi,
possono procedere con il genocidio dei curdi e, se non dall’Isis, continueranno
a gonfiarsi di petrolio dai giacimenti controllati dagli amici peshmerga
iracheni, i loro surrogati jihadisti hanno licenza di concentrarsi su Libia ed Egitto.
Con occasionali incursori in Occidente, là dove ai regimi democratici occorra giustificare
imprese coloniali, o repressione dei sudditi.
Rojava,
un postribolo
curdi
e ratti siriani a Kobane
In questo quadro si è insinuata una vipera o,
chiedendo scusa ai rettili dell’improprio accostamento, un gran figlio di
pessima donna. Proclamando la regione autonoma curda del Rojava, che è divisa
in tre cantoni e consiste in buona parte di territorio extra-curdo, sottratto ad
arabi, assiri e turcomanni, i curdi siriani, sostenuti militarmente dagli Usa,
hanno compiuto un’autentica mascalzonata. Come ha fatto dopo la disfatta dell’Iraq
il mafia-Stato di Barzani, garantito dagli Usa e fagocitato da Israele con il
suo petrolio e le sue terre fertili, i curdi siriani ora parlano di autonomia
regionale all’interno di uno Stato federale delle tante autonomie. Passa il
tempo, si consolida la presa su territorio, risorse, consenso o tolleranza
internazionali, complicità sionimperialiste, è l’autonomia si trasforma in
secessione. Esattamente come previsto da lunga data nei piani USraeliani di
smembramento etnico, confessionale, tribale, di tutte le nazioni arabe.
E’ un gioco sporco, quello dei curdi del PYD,
forse proprio per questo osannati dai
cripto-Nato sinistri come unica presenza democratica, nobile, emancipata nella
sua componente femminile. Per tre anni, hanno svolto il ruolo, concordato con Damasco
nel segno dell’unità nazionale, di difensori del proprio territorio da Al
Nusra, prima, e poi dall’Isis. Poi, prevedendo imminente la caduta di Damasco,
hanno cambiato cavallo. Come uno Scilipoti, o un Badoglio qualunque. Zitti
zitti si sono arruffianati i russi, che si fidavano, facendosi però aiutare da
bombe e rifornimenti Usa. Sono stati i primi a far entrare in Siria contingenti
ufficiali statunitensi, consentendogli di trasformare l’aeroporto agricolo di
Rmeilan in base aerea. Ora gli stanno facendo costruire una seconda base su
territorio invaso e occupato. Hanno coronato il tradimento dando vita a una
formazione mista, “Forze Democratiche Siriane”, insieme a detriti anti-Assad
siriani raccattati con le buone o con le cattive (vedi foto). E non ci deve
bastare l’ostilità che gli riserva il despota turco per assolverli.
La Storia, e non i farlocconi o ruffianoni
del “manifesto”, uniti nei peana ai curdi alla pubblicistica mignotta della
Nato, darà il suo giudizio su questa coltellata piantata nella schiena ai
siriani. A un popolo, una civiltà, che da quando si è liberata delle catene dei
cannibali coloniali, ha dovuto lottare incessantemente contro il revanscismo e
la voracità necrofila di Israele, contro i rigurgiti dell’oscurantismo feudale dei
petroschiavisti, contro potenze bianche cristiane per cui le parole democrazia e
libertà hanno titoli per esistere soltanto al centesimo piano di Goldman Sachs.
E i cui capi terroristi (Hollande) conferiscono la Legion d’Onore a
protagonisti di mattanze. La trincea siriana è la trincea dell’umanità. Non più
quella dei curdi.
Non sono tuttavia convinto dell’Egitto, difficile stabile da che parte della barricata si stia arroccando. Tutto fa credere che il suo governante sia un saggio, nondimeno la non aggressione da parte di usraele ed il silenzio indotto sulle rive del Nilo mi porta a pensare ad un gioco sporco, quello di Al Sisi.
RispondiEliminatango@ IL miglior criterio per valutare Al Sisi è vedere come lo tratta la lobby filo-israeliana. Peggio di Pinochet. E in questo caso il nemico del mio nemico è mio amico, bello o brutto che sia. Comunque non credere mai alle demonizzazioni occidentali. Ricorda Milosevic, Gheddafi, Assad, Fidel, Chavez.....
RispondiEliminaOltre ai personali schieramenti e visioni ideologiche di affezione o meno alla lotta dei popoli per l'autodeterminazione, o per i movimenti guerriglieri, o per le cause anti-imperialiste (la calata di decine di bus a Roma per Ocalan fu indubbiamente una forte espressione di solidarietà popolare invidiabile, ma erano altri tempi), un po' di gossip antagonista del complotto, assocerebbe sicuramente l'addestramento delle giovani donne kurde -oggi più che mai guerrila-beauty-style- a quelle che una mezza bufala del sito Aurora presentò come le donne del mossad, e cioè scarti di operazioni sex-spy stile love-parade-Tavistock internazionalista. Israele sarà pure odiosa nei modi e criminale nell'azione, ma il pensiero che muove la struttura è orribilmente conoscitore delle profondità oscure della mente occidentale e di chi vorrebbe diventarlo. L'addestramento da loro fornito a molte nazioni per reclutamenti ombra e addestramenti psicofisici, ha riempito scaffali di curriculum e dossier che ben delineano spaccati di generazione da quaranta anni a questa parte, da ricollocare in ogni settore della società creando maggioranza e opposizione, anonimamente e palesemente. Se non sbaglio dicono...con l'inganno facciamo fare guerre. E con lauti conti bancari. Tuttavia sono solo stipendi con la funzione di prestiti da restituire, interessi compresi. Dopo l'ennesima cooperante volontaria italiana appassionata di nutella e yoga. http://panjewish.org/2015/10/11/the-israel-kurdistan-special-relationship/
RispondiEliminaAnonimo con link panjewish@
RispondiEliminaFormidabile contributo. Grazie!
Quando sento continuamente dire anche da amici e compagni (che stimo per tutt'altri motivi), che bisogna a tutti i costi aiutare i curdi, è inevitabile che mi venga la domanda: ma tutti gli altri chi li aiuta? I drusi, gli alawiti, i maroniti, i greco-ortodossi, gli assiri e tutte gli altri gruppi etnici-religiosi che compongono quel mosaico che sono Siria, Libano e Iraq? A loro nessuno pensa? Non sono abbastanza trendy?
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