Non domandarci la formula che mondi possa
aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un
ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Eugenio Montale, “Ossi di seppia”)
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Eugenio Montale, “Ossi di seppia”)
Jack Duddy, 16 anni, primo ucciso
nella Domenica di Sangue, accompagnato da Padre Daly sotto le pallottole dei
parà britannici. Foto Fulvio Grimaldi
Tranquilli. E' lungo quanto un instant book. Ma c'è tutto Ferragosto e io per un po' non apparirò. Buon Ferragosto.
Ci sono i romanzi di formazione e ci sono le esperienze di formazione. La
mia è racchiusa nelle 16 ore che vanno dalle 14 del 30 gennaio 1972 alle 06 del
31 gennaio.Tra quando partì la marcia dei diritti civili a Derry a quando, dopo
il massacro, poi iconizzato come Domenica di Sangue, sfuggendo aille ricerche
dell’esercito britannico, raggiunsi Dublino e consegnai ai giornali e alla
radio della Repubblica irlandese le pellicole e i nastri di quanto avevo
fotografato e registrato. Avevo vissuto la tragedia palestinese, la Guerra dei
Sei giorni, la brutalità della guerra tra Stati giocata sul raggiro e il sacrificio
dei sudditi, il feroce razzismo contro una popolazione cui usurpare la terra e
da togliere di mezzo. Avevo già avuto prove di come si sopprimono voci
sconvenienti per il potere del momento: la censura israeliana controllava i
miei reportage da trasmettere a Paese Sera e sbianchettava qua e là. E’ vero
che, alla fine, mi buttò fuori, quando è troppo è troppo, ma fu più che altro
per un alterco con un capitano dell’esercito che abusava dei caduti e
prigionieri arabi.
A Derry fu diverso. Fu lo spostamento dell’asse del pianeta come lo
conoscevo. Ascoltai la parola – falsa - che mondi pretendeva di aprire, per
dirla alla Montale, ed ebbi in sorte la facoltà di dire la parola – vera - che
ne aprì davvero. La prima era delle autorità di Londra e dei media embedded (già allora! Più che mai) che
vollero far passare una strage di civili inermi, pianificata e compiuta a
sangue, mente e governo freddi, per la difesa di un reparto di parà aggredito
dai “terroristi” dell’IRA. E avevano falciato 30 persone in fuga, tra i 15 e 60
anni, ragazzini, donne, anziani, che avevano avuto l’ardire di chiedere case,
pane, lavoro, pari dignità e nutrivano un sogno: la patria riunita, il crimine
storico annullato, la ferita sanata. La mia parola era quella della fotocamera
e del registratore, insieme a quella di 20mila cittadini del ghetto
repubblicano della Derry Liberata. E perciò punita, insanguinata, mutilata. E
aprì mondi, quelli feroci e protervi e quelli innocenti e umani, e li contrappose facendoli arrivare al mondo, a dispetto di tutti. I mondi dei grandi e potenti, degli infami, dei
bugiardi, degli assassini, dello Stato della “Prima Democrazia della storia”.
L’esperienza di formazione furono quelle 16 ore, il romanzo di formazione il
racconto che quel giorno ci dettò. E imparai, a Genova del G8,
Gerusalemme, L’Avana, Damasco, Tripoli, Belgrado, Baghdad, l’11 settembre e
affini, ovunque, a chi dare retta e chi tenere sotto il laser della diffidenza.
Se abbia funzionata lo possono dire gli altri.
Scrivo da Belfast, Irlanda del Nord. Da qualche tempo è partita una terza
inchiesta sulla strage compiuta dai paracadutisti britannici a Derry, il 30
gennaio 1972. Io c’ero. Sono passati 44 anni. Questa inchiesta, imposta dai
famigliari delle vittime per l’insoddisfacente esito delle precedenti due,
condotte dallo Stato britannico, è affidata alla polizia nordirlandese, Police Service Northern Ireland (PSNI),
nuova denominazione di quella che, fino agli accordi di pace del Venerdì Santo
1998, si chiamava Royal Ulster Constabulary (RUC) ed era un a setta di fanatici
picchiatori orangisti.
Nel lungo trasferimento, con passaggio a Londra, mi accompagnano
riflessioni sugli avvenimenti concomitanti. Ora questo immenso, sempre
spettacolare, costantemente metamorfico, cielo nordico e insulare mi sposta in
un’altra dimensione, fuori da tutto il resto, in un passato che non passa mai,
che ho vissuto, che rivivo.
Su un muro di Belfast leggo: “The
bricks they may bleed / and the rain it may weep / and the damp Lagan fog /
lulls the city to sleep. / Its to hell with the future / we’ll live in the
past, / may the Lord in his mercy / be kind to Belfast”. Azzardo una
traduzione: “Possono sanguinare i mattoni
/ può lacrimare la pioggia / e la nebbia umorosa del Lagan / placare nel sonno
la città. / Vada al diavolo il futuro / noi vivremo nel passato, / che il Signore
pietoso / sia gentile con Belfast”.
Fatemi dire una cosa: se vi interessa andare subito
alla ciccia, cioè sull’ Amarcord nordirlandese, scritto in occasione della mia
testimonianza a Belfast per la terza inchiesta sulla strage di Derry, potete
saltare le prime pagine e andare subito al titoletto: A Belfast (e Derry) con
amore.
Baraonda, putiferio, pandemonio, alle mie spalle. Non ti sei ripreso dalla
prima, dalla seconda, dall’ennesima mazzata, terroristica, politica, mediatica,
sociale, che te ne arriva una nuova. Non ti lasciano il tempo per pensarci,
metabolizzare, reagire. La demenza ossessiva degli Usa, che a noi viene venduta
come interventismo umanitario, ora anti-Isis, ha riscatenato la guerra alla
Libia. Nel lupanare Italia le ancelle Pinotti, Mogherini, Gentiloni, offrono
allo zio d’America intrattenimenti nelle alcove di lusso di Sigonella, Trapani
Birgi, Augusta, Aviano. Un magistrato sensibile allo Zeitgeist, tempestivamente dissequestra a Niscemi il centro di
comunicazioni belliche MUOS. Cosa non si farebbe per impedire che l’Egitto,
nostra grande occasione per far soldi e beccare energia, ma ahinoi inviso allo
zio, si occupi lui del suo vicino arabo e magari cacci a calci davvero Fratelli
Musulmani e loro braccio armato jihadista, come ha fatto in casa sua. Sia mai! Il
titolare del postribolo si/ci distrae con giochi che occultano un’operazione di
annientamento dei poveri, di gentrificazione della città e di militarizzazione
della società, detta “Olimpiadi”. Copia soft brasiliana dell’annichilimento di
siriani, iracheni, libici. Vorranno provarci da noi nel 2024. Se, con UE, BCE,
TTIP, ci saremo ancora. Felici i britannici – operai, contadini, studenti,
impiegati, pensionati, malati, bifolchi, ignoranti, xenofobi, detriti della
“democrazia” UE- che l’hanno scampata con il Brexit.
Il Papa e i suoi santi
Dall’alto del vicariato di un Onnipotente che di guerre e nequizie non gli
va di fermarne neanche una come si dice che potrebbe, il papa di una religione
che ha guidato e benedetto un millennio e mezzo di stermini, promette che non
sono le religioni a fare le guerre. A farle no. A benedirle sì. Chi le fa,
Bergoglio non lo dice. Sarebbe imbarazzante: ha appena santificato un papa che,
buttando per aria un equilibrio mondiale, ha scatenato la guerra infinita; ha
appena trascinato in giro la ripugnante mummia di un santo che si faceva le
stigmate con l’acido e facilitava le guerre mussoliniane andando in giro a
picchiare socialisti e comunisti; sta per fare santa una megera che nei suoi
tuguri negava anestetici ai malati terminali, si curava in cliniche di lusso
svizzere e se la faceva con Papa Doc, Somoza, Reagan e altri tagliatori di
teste del giro occidentale. Lo dico sottovoce, ché i miei amici quassù sono
cattolici…
I popoli sono ancora vivi
Baraonda, pandemonio, nubifragi di menzogne. Buttando per aria i
millenaristici progetti del Nuovo Ordine Mondiale, popoli in eccesso, da
sfoltire e annichilire, si rifanno sotto e minacciano di far saltare i piani.
In Iraq e Siria succede l’inverosimile, l’incalcolato: i cattivi avanzano e
vincono. Al mercenariato imperiale si prospetta la disfatta. Panico in
Occidente. Mobilitate tutte le lingue al guinzaglio, dal “manifesto” ai media
veri. Sminuire il ruolo delle forze governative. Far figurare i fidati curdi,
seppellire le offensive patriottiche sotto una valanga di accuse di atrocità
contro civili e ospedali (a commetterle ci pensano gli ascari jihadisti),
specie ad Aleppo che, se cade, parrebbe proprio la fine; far sorgere dalle
ceneri di Al Nusra, emuli di Isis quanto ad atrocità, l’araba fenice dei “ribelli
moderati”, un ectoplasma. Far arrivare di corsa ad Aleppo rinforzi per migliaia
di terroristi (con tanti saluti al presunto distacco di Erdogan dalla Nato). E
là dove proprio non si possono negare i successi governativi verso Mosul e
Raqqa, trangugiare il fiele e pompare il “decisivo appoggio” Usa e della
Coalizione. Oltre a spedire subito altri reparti speciali Usa e Nato, anche
italiani (Iraq, Libia), ovviamente di
nascosto dal parlamento, a far finta di combattere il califfo e a impedire che la di lui sconfitta si
traduca nella liberazione di paesi e popoli.
Sullo sfondo di questa apocalisse inflitta, in un modo o nell’altro al
mondo islamico, parte anche in Europa, a forza di burattini con ascia, coltello,
bomba o carabina, la strategia del “daje al musulmano”. Che poi non è che l’antipasto
del ”daje ai sudditi tutti”, Stato di Polizia e di Guerra interna ed esterna
necessitato dai quattro gatti al comando, giustificato e accettato dai milioni di
topi in virtù di tutti quei coltelli, mitra, asce, camion. E qui, lasciatemelo
dire, la cosa più fastidiosa, anzi ripugnante, il cui fetore di ipocrisia mi si
è infiltrato fin nel British Airways che volava verso Londra, era questa
gigantesca rottura di coglioni inflitta ai musulmani di casa nostra dai buoni e
bravi cristiani perché, belando belando, venisserero a pregare con noi in
chiesa e a dimostrare, a noi bravi e buoni, che anche loro potevano, con
qualche sforzo, diventare bravi e buoni, quasi come noi, una volta denunciati e
rigettati tutti i loro rigurgiti infernali. Che pena loro, che schifo nostro,
che melassa immonda. Assimilazione, integrazione: trucchi del razzismo
eurocentrico.
A farci trangugiare tutta questa merda, e anche di più, tipo la salvezza
dal mattocchio Trump affidata all’arpia mentecatta e serialkiller Hillary
(candidata prediletta del “manifesto”, del Pentagono, di Wall Street e di tutta
la criminalità organizzata dei due emisferi), provvede la riduzione ad unum dell’informazione, come
esemplificata da Stampubblica, dal nominato “manifesto” e dall’occupazione
militare della tv con vivandiere e prosseneti estratti dall’inesauribile
serbatoio italico di militanti della prostituzione, nel caso presstituzione.
Londra contro Darth Vader (e contro gli studenti)
Nel passaggio per Londra ho fatto in tempo ad assistere al commissariamento
del paese deciso come primo ed epocale provvedimento da Theresa May, un altro
virgulto della tendenza imperante a sbattere dame, allevate a sangue proletario,
a capo delle armate che devono convincere i macellati a farsene una ragione.
Commissario delle isole britanniche dove i diritti umani vengono ora definiti
da robocop, tale Sir Bernard Hogan-Howe, di Scotland Yard e del giusto
retroterra dinastico, ha immediatamente adottato i provvedimenti resi urgenti e
indispensabili dall’accoltellamento di una turista americana dalle parti del
British Museum, ovviamente di stampo Isis (di accoltellamenti ne succedono a
Londra in media 109 all’anno). E io e i 64 milioni di abitanti del Regno Unito
ci siamo sentiti altamente protetti contro le imperversanti coltellate, nonché
contro il “prossimo attentato di cui non è questione se accadrà, ma solo quando”
(lo ha promesso il capo di Scotland Yard e se non lo sa lui), dall’esibizione, ripresa
a reti unificate britanniche (e mondiali per dare l’esempio), di un manipolo di
guerrieri da incutere terrore a Darth Vader, oltreché al cittadino medio di cui
si fantastica che se ne dovrebbe sentire rassicurato. Infatti, a farlo sentire
al sicuro dal califfo, queste presenze, al 90% robot e al 10% umani, non lo
perderanno più di vista
neanche un secondo. Riguarda in particolare i milioni che fanno la coda
alle food bank, mense dei poveri, cioè
quelli contro i quali il regime, con il decisivo appoggio di Bruxelles, “adopera
la fame per tenere diosperate e deboli queste persone che non riescono ad
accedere al lavoro a cauisa di un circolo vizioso creato ad hoc per fare il
profitto dei job centre, cioè del
regime e delle grandi aziende impegnate a distruggere il welfare” (parole del
regista Ken Loach, vincitore a Cannes, sbertucciato dal “manifesto” perchè
troppo direttamente politico).
Corazza in kevlar, casco con telecamera, radio e faretto, carabina
d’assalto semiautomatica Sauer MCX con visore ottico e flash, in alternativa
fucile di precisione Accuracy da franco tiratore, pistola semiautomatica Glock
17, in alternativa fucile a pompa Remington 870, equipaggiamento idraulico per
scassinare porte e finestre, scudo in kevlar, piede di porco rinforzato per
penetrare edifici, sega circolare per accedere a vetture ed edifici, scala
pieghevole, motocicletta enduro BMW F800GS da 200km/h, elicottero, gommone.
Tutta roba, come la sceneggiata dei supercontrolli biometrici negli aeroporti,
del tutto indifferente al terrorista che deve accoltellarti al bar, o farti
saltare per aria al cinema, ma determinante per spegnere ogni velleità di
insubordinazione del cittadinio vessato e incazzato. Come contrappunto al
dinamismo securitario di Madame May, è bello osservare il relax del
predecessore Cameron che si riprende
dalla botta Brexit sguazzando al largo della Corsica in calzoncini da 300 euro
per una vacanza familiare da 18mila. Ignaro del fatto che non essendoci pietà
per gli sconfitti neanche tra i vampiri, a casa lo attende lo scandalo,
tracimato da tutti i tabloid, dell’aver indicato alla regina, per l’elevazione
alla Camera dei Lord, una serie di traffichini e malfattori il cui unico merito
è di aver finanziato – corrotto – Cameron e il suo partito. Cose che da noi,
alla luce dei rapporti carnali tra Renzi e le lobby degli affari, farebbero
l’effetto di una cacchetta di mosca sul polsino. .
Dear old Belfast
Nella tappa Londra-Belfast il mio vicino, uno studente di fisica di
Middlesbrough, mi ragguaglia sul crollo delle iscrizioni all’istruzione
superiore, dal 67% al 61% in un anno, a causa del costo annuale degli studi
universitari salito con Cameron (quello del costume da 300 euro) a 9000
sterline, 10.600 euro. Dice che si tratta di selezione per censo. Ma subito si
consola a leggere sul Daily Mail che il magistrato di Manchester ha incriminato
un predicatore musulmano “per avere
espresso opinioni contrari ai valori britannici”. Mi ha fatto riandare ai
rastrellamenti di islamici del nostro grande Alfano, ‘ndo cojo cojo, “in difesa del nostro stile di vita”. Sia
lui, lo studente di Middlesbrough, sia il vostro cronista, eravamo un po’
perplessi sul significato, vuoi del nostro “stile di vita”, vuoi dei “valori
britannici”. Ma di questi ultimi avrei presto avuto esaustiva contezza
all’arrivo in Irlanda del Nord. Come se non li avessi frequentati da mezzo
secolo a questa parte.
A Belfast (e Derry) con amore
La polizia nordirlandese, un tempo formazione settaria a integrale
composizione unionista, fiancheggiatrice delle bande paramilitari protestanti
filobritanniche, ferocemente repressiva nei confronti della comunità
cattolico-repubblicana-nazionalista, è stata riformata nell’ambito del processo
di pace e degli accordi del 1998 ed è ora a composizione pluralista. Su sollecitazione
dei congiunti delle vittime della Domenica di Sangue (30 gennaio 1972) ha
avviato una terza inchiesta sui fatti e sulle responsabilità della strage di 14
civili a Derry, in occasione di una pacifica marcia per i diritti civili. La
prima, diretta da un Lord Widgery, allestita in fretta e furia a un mese dal
massacro, si è risolta in una farsa indegna, tesa ad accreditare le menzogne
della versione governativa. Fui pesantemente intimidito dal presidente e dai
suoi sgherri pseudogiuridici e si tentò in ogni modo di impedirmi di raccontare
quello che avevo visto, registrato, fotografato, dall’irruzione dei
paracadutisti britannici sulla coda del corteo alla fine della sparatoria:
l’intero eccidio.
La seconda durò dal 1998 al 2010 e, diretta da Lord Saville, tentò di
rimediare parzialmente allo scandalo di Widgery stabilendo delle responsabilità
per singoli ufficiali e militari, ma evitando accuratamente di puntare sul
governo di Ted Heath che aveva ordinato l’operazione con lo scopo di stroncare
un movimento dei diritti civili che durava da 4 anni e aveva raccolto il
sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Lì, almeno, tennero conto delle
mie registrazioni audio e fotografiche che, insieme a poche altre (alla stampa
era stato inibito l’accesso alla zona del corteo), dimostravano la realtà dei
fatti e mi permisero di contestare passo per passo la versione ufficiale.
Nessuno dei parà era stato chiamato a pagare per il suo ruolo di assassino
di civili inermi, né le autorità per le loro menzogne, né i membri del governo
per le loro responsabilità, né una stampa vergognosamente allineata. Da ciò la
rabbia e l’insoddisfazione della comunità repubblicana di Derry e le pressioni
per una nuova inchiesta, 44 anni dopo l’evento. La gente di Derry non sono tipi
che mollano. E fanno bene: quella vicenda è diventata il paradigma della
resistenza di popolo ai soprusi e ai crimini del potere, alle frodi dei media,
alla passività degli ignavi.
Sbarco in una città bella come sempre, sotto quell’immenso e volubile cielo
nordico che ci si ferma a guardare come fosse un film d’avventura. Camminando
per viali e vicoletti, mi sento curiosamente sollevato, quasi euforico, a mio
agio. Non è solo il caldo bagno nella nostalgia, nei ricordi di quando, dal
1969 in poi, venivo quassù da cronista della lotta, prima civile, poi armata,
di una comunità repressa e decimata, non da anni, da secoli. Da quando gli
occupanti britannici, nel ‘600, deportarono metà della popolazione per offrire schiavi,
manodopera gratis e che si poteva uccidere, ai coloni nelle Indie occidentali,
prima ancora della tratta degli schiavi africani. A quando Oliver Cromwell ne
decapitò o squartò coloro che non si convertivano al protestantesimo. A quando,
metà ‘800, una carestia indotta dagli inglesi con un parassita della patata
(tipo il colera trasmesso con panni infetti ai pellerossa) gli distrusse ogni
raccolto e di nuovo né fece morire oltre un milione. Fino alla repressione nel
sangue della rivolta di Pasqua del 1916, socialista, repubblicana, indipendentista,
che però portò all’indipendenza del 1922. Indipendenza mutilata dalla
spaccatura del paese in due (vecchia strategia imperialista, vedi Iraq, Libia,
Siriia, Jugoslavia…) con le sei contee del Nord, nel frattempo colonizzate
pesantemente dall’immigrazione presbiteriana scozzese, trattenute sotto la
ferula di Londra. Ecco i valori britannici che quel predicatore non
coltivava.Valori per cui gli irlandesi erano semplicemente troppi, figliavano
troppo, parlavano la lingua sbagliata, erano della religione sbagliata, stavano
nel posto sbagliato.
Belfast è nobile, a volte altezzosa, perlopiù familiare e affettuosa..
Ricca, al centro, di eleganti rimembranze liberty e decò, alternate al
neoclassico monumentale con tratti di fortilizio del primo ‘800. I tanti
opifici e magazzini in mattoni rossi che inondano di luce rossastra la città,
rimandano al glorioso passato operaio, manifatturiero e cantieristico (qui fu
costruito il Titanic) e oggi, nella città dei servizi e di un residuo portuale
dove si riparano le piattaforme petrolifere, si sono aggiornati in nuove
funzioni, culturali e commerciali.
Ci sono i ricordi con le loro vedute e i loro odori ancora vivi, è vero. Ma
c’è anche un presente che contribuisce alla sensazione di armonia che avvolge
la mia passeggiata. Ne scoprò il motivo nella scomparsa di un tormento iroso
che mi scivola addosso in Italia quando sto tra la gente, nella metro, in
treno, per strada, nel parco. Qui di gente in coma, neanche tanto vigile,
collegata al suo cellulare e ai suoi cavi come un agonizzante alla bombola d’ossigeno,
se ne vede punta. Sì, un paio di giovani sulla panchina. Ma sull’autobus, nel
pub, per la via, niente. Piuttosto si guarda in giro, si vede, si chiacchiera.
Più scemi, più arretrati di noi? Vero il contrario. Eppoi una considerazione
frivola, ma mica tanto, sempre a spiegare quella lietezza. L’ossessione degli
shorts, del pantaloncino ultracorto, di una massa femminile indistinta che si
affanna ad attirare sguardi su uno spicchio di natica, ad allungare la gamba
cortina e magari cellulitica, non c’è. Questa dissennata fregola di
omologazione che fa tutte copiare tutte e cancella ogni diversità e creatività
personale (invise al sistema), che annulla anziché esaltare l’effetto gamba
nuda, qui non c’è. Ci sono donne, ragazze, che si vestono in mille maniere, si
inventano per l’occasione, l’umore, l’intenzione. Più arretrate di noi?
Io vi canto una canzone che in Irlanda sanno
già / che vi
parla della libera Belfast
quando in via delle cascate tutti sulle barricate / dichiarammo la repubblica a Belfast. / Con la guardia popolare che va in giro a perlustrare / si è sicuri nella libera Belfast / dalla radio clandestina puoi sentire ogni mattina / le notizie della libera Belfast.
quando in via delle cascate tutti sulle barricate / dichiarammo la repubblica a Belfast. / Con la guardia popolare che va in giro a perlustrare / si è sicuri nella libera Belfast / dalla radio clandestina puoi sentire ogni mattina / le notizie della libera Belfast.
Così noi, di Lotta Continua, presenti in Irlanda del Nord più di
chiunque altro e diffusori della sua lotta, cantavamo la esistenza di popolo. Con Ciaran,
che è il legale delle famiglie di Derry e mio, giriamo per i quartieri dove
vivevo in famiglia, in quelle casette minuscole e poverissime nelle quali
veniva chiusa la comunità da emarginare, matchbox
houses, case-scatole di cerini, dove la mattina bimbetti mi portavano
caramelle e da dove partivo con la Canon e la cinepresa Beaulieu 16, a
documentare esclusione, repressione, ribellione, scontri, sparatorie, eroismi,
morti e ferite, canti e balli di rivolta e bevute di Guinness. Un po’ a Falls
Road, un po’ ad Andersonstown, un po’ ad Ardoyne. E quando a notte fonda i
soldati facevano irruzione e scaraventavano per aria tutto, il ricercato se la
svignava dal retro e spariva nel reticolo delle back alleys. Gli irlandesi suonano e cantano, qualsiasi cosa accada
e, come sempre nei momenti di grandi emozioni rivoluzionarie, di passaggi
d’epoca, i canti sgorgavano come ruscelli di montagna ed erano la cronaca
parallela che diventava storia.
Libera Comune di Derry
A Derry avevo assistito all’indimenticabile giorno della liberazione,
inizio di Free Derry, quando alcune centinaia di ragazzi e ragazze a mani nude,
con poche molotov e molti sassi, dalle alture del ghetto repubblicano a
Creggan, fecero precipitare a valle a gambe levate armigeri con fucili,
rivoltelle, caschi, scudi, mazze, blindati, per finire a rinchiudersi nella
cittadella protestante, protetta dalle mura medievali. Durò tre anni Free Derry,
una piccola Comune di Parigi. Ci ricapitai quando, nel 1971, Londra introdusse
l’internamento e aprì i campi di concentramento, da allora diventati d’uso
comune per insubordinati, da Israele agli Usa. Alla deflagrazione di collera
popolare contro i rastrellamenti a casaccio e in massa dei “sospetti”, vera
pulizia etnica, contro l’occupazione militare dell’ultima colonia d’Europa
accompagnata dalla licenza di devastare, bombardare, uccidere data ai
paramilitari unionisti dell’UVF e UDA, iniziò ad affiancarsi l’IRA (Irish
Republican Army), ramo Provisional
(quello Official, pseudomarxista, ma
pesantemente infiltrato, è presto scomparso), organizzata in battaglioni di volontari. Internamenti di migliaia,
maltrattamenti, tortura, il famigerato campo Long Kesh, i prigionieri
irriducibili nella protesta, gli scioperi della fame, il poeta combattente
Bobby Sands lasciato morire dalla Thatcher, le bombe nei pub piazzate dai
servizi segreti, un intero popolo insorto. Città e quartieri liberati e
off-limits. Il più feroce dei padronati imperiali messo alle strette.
Intervistai a Dublino Sean McStiofain, capo di Stato Maggiore dell’IRA e
l’anziano Joe Cahill, veterano della campagna degli anni ’50. McStiofain,
arrestato e processato dal regime rinnegato di Dublino, resistette per
settimane con lo scipero della fame e della sete. Fu allora che i terroristi di
Stato presero a dare del terrorista a chi al terrorismo di Stato non si
piegava. Morì nel 2001, ancora militante delle cultura irlandese, in una casa
su cui era scritto: “Quii si parla gaelico”, la lingua “sbagliata” per gli
inglesi. Di marcia in marcia, di baruffa in baruffa con gli sbirri unionisti
della polizia RUC che ci vessavano ininterrottamente con perquisizioni,
blocchi, divieti, arroganza, offese, anche sputi, fino di nuovo a Derry, inizio
gennaio 1972, con le truppe d’occupazione ancora fuori da Bogside e Creggan, il
ghetto. Ogni pomeriggio, finito il lavoro, o, più spesso, esaurito il vuoto
della disoccupazione (all’80% inflitta ai cattolici), i ragazzi di Free Derry
andavano a contestare, alla barriera tra ghetto e cittadella protestante, il
divieto –“motivi di sicurezza” - di
accedere al resto della loro città. Ed erano nail bombs, petrol bombs, stones
e Fuck you. Ed era vita, contro
esclusione. Dal lato opposto, gas tossico CS, idranti di acqua colorata,
pallottole d’acciaio rivestite di gomma, mazzate. Un limite alla violenza che
sarebbe saltato domenica 30 gennaio.
La marcia
Facciamo che sia quel giorno di 44 anni fa. Per me è ieri, oggi, domani. Sono
le 14 del 30 gennaio e il sole dal cielo limpido si riflette sulle facce di
20mila manifestanti. Davanti un camion e lo striscione CIVIL RIGHTS. Niente sound system, si canta: We shall not be moved… We shall overcome… tanto per far capire
che non si marcia solo per noi, ma anche insieme ai milioni che in quegli anni
marciavano in mezzo mondo contro gli stessi signori. Giù dal quartiere Creggan
sulla collina, fin dentro Bogside, a valle. Verso la grande piazza dopo gli
ecomostri all’ingresso, ove rinchiudere formiche tracimate dalle matchbox houses. L’appuntamento è sul piazzale
all’ingresso delle casette di Bogside, parlerà Bernadette Devlin, pasionaria
del movimento. Sto in coda alla marcia, la testa è già sotto il palco, 100
metri più in là. Un rombo fortissimo, da dietro alle mie spalle sbucano
velocissime due, tre, quattro, tanti Saracen, blindati degli occupanti. Alcuni
si fermano all’altezza mia. Altri procedono verso il comizio, ma sono fermati
da una barricata. Da quelli vicini a me e a pochi metri dagli ultimi cento,
duecento della marcia, sbucano grossi insetti in uniforme, con maschere antigas
per proboscide, lunghe carabine, grossi bastoni. Si sentono colpi. Qualcuno
dalla folla si volta, distorce il viso atterrito, urla “Its live!”, pallottole vere. Inizia la strage. Uno, con alamari e
greche, dall’alto della torretta grida: “Thirty
is the limit”, ci fermiamo a trenta abbattuti. Perfetto: alla fine saranno
14 morti e 16 feriti, trenta. Si trattava del Colonello Michael Jackson, poi
rincontrato in Kosovo con la Nato, accanto ai narcokiller dell’UCK.
Il sangue
Mia
foto di Jack Duddy morente
Non ci credo ancora, ma per fortuna ci credono la fotocamera e il
registratore: un ragazzo corre, cade, alza il braccio, un parà si avvicina, gli
monta sopra, gli spara in testa, si allontana, il corpo resta, inerte. Un altro
ragazzetto sorpassa correndo un parà , si copre il viso, gli grida ”Don’t shoot, don’t shoot”, il parà
spara. Una donna, madre di sei figli, crolla, dalla coscia esce e pencola un grosso
pezzo di carne sanguinolenta e granulosa, qualcuno cerca invano di rimetterlo a
posto. Un giovane, segaligno, balza davanti ai parà. Grida: “Shoot me, shoot me!” . E’ colpito al
fianco, cade di schianto. Altri, sotto i colpi, lo sollevano e lo portano in
una casa. In mezzo allo spiazzo davanti all’alveare di cemento un ragazzo,
quasi un bambino, è steso inerte a terra. Noto il suo maglione strappato, una
faccia bianca bianca, le braccia allargate, come in croce. Mi avvicino, la
faccia sta diventando gialla, dalla bocca pulsa sangue. Si avvicina un prete.
E’ Padre Daily , poi vescovo di Derry. Si inginocchia, vorrebbe aiutare. Troppo
tardi, piange, gli somministra i suoi riti. Si avvicinano, sotto gli spari, un
infermiere e un uomo anziano. Sollevano il corpo, si muovono, gli spari
continuano, il prete li precede con un fazzoletto imbevuto di rosso che agita
sopra la testa, piegato in due, per evitare le pallottole che fischiano.
Non reggo, si disfa la tenuta professionale. Urlo “Bastards, stop it, stop it”. Uno mi punta, qualcuno mi dà uno
strappo all’indietro, grida “Ma sei matto?”
Tre colpi in rapida successione scheggiano il muro alle mie spalle. Ci
riproveranno, quella volta con sei fucilate, quando da un primo piano mi
affaccio a fotografare altri capitoli del massacro. Molta gente s’è rifugiata
oltre l’alveare, resta un gruppetto schiacciato dal terrore contro un muretto,
sotto tiro. Ci muoviamo anche noi, carponi, uno davanti a me è colpito, schizza
di lato, poi riprende a strisciare. Ce la fa. Ce la facciamo, siamo oltre
l’edificio, sul retro. Salvi. IL resto è urla, pianti, bestemmie, imprecazioni,
invocazioni. Un uragano.
Mia
foto di Barry McGuigan
Salvi? Nel cortile dietro un uomo di mezza età steso a faccia in su,
immobile.Temerario, incredibile, un altro gli si avvicina strisciando sulla
pancia, lo raggiunge, gli fa la respirazione bocca a bocca, gli pompa il torace.
Continuo a scattare foto. Dall’angolo dell’occhio vedo un altro uomo, grande,
grosso, mezzo pelato, che prova a venire fuori da sotto la protezione di una
tettoia per assistere anche lui i due schiacciati sull’asfalto. Uno schianto,
l’uomo fa mezzo giro su se stesso, crolla, viso al cielo. Mi avvicino e
fotografo, al posto dell’occhio una voragine. Poi altri corpi girato l’angolo.
Una ragazza urla fuori di senno: un amico le si stava avvicinando correndo, le
cade ai piedi colpito alla schiena, se l’era tirato addosso, le aveva
sussurrato: “Non farmi morire da solo”
. Sulla barricata verso Free Derry Corner stanno raggomitolati altre due corpi,
non si muoveranno più. Il padre di uno dei due sale su quel monte di ferraglie
e legna e vi trova il figlio senza vita. Gli si accovaccia accanto. Viene
falciato da un colpo. Sopravvive. Dall’altro lato della strada, Glenfada Park,
da dove erano riusciti a spararci anche dietro al palazzo, è una carneficina.
Sei corpi, nessuno più di vent’anni.
A Dublino, per gridare al mondo l’infamia e la verità
Rattrappiti in un portone, sentiamo la sparatoria pian piano affievolirsi.
Arriva un gruppo di ragazzi, quelli che tenevano in piedi la Libera Comune di
Derry, probabilmente dell’IRA. Mi avvertono che la radio militare britannica
aveva trasmesso l’ordine di arrestare a tutti i costi il fotografo italiano.
Erano alla caccia del mio materiale, più che di me. Eravamo rimasti in due,
giornalisti e fotografi stranieri, io e un francese. insieme a qualche abitante
con macchinetta fotografica, a documentare la strage di Stato. La stampa
internazionale era stata bloccata dietro dalle transenne dell’esercito. Ma noi,
cronisti di strada senza i mezzi per i grandi alberghi, stavamo già nel ghetto,
ospitati dalle famiglie, dalla parte giusta. Non previsti. I ragazzi mi tirano
via, mi portano nel profondo di Bogside, dove i militari non si azzardano:
salvare il materiale! Da una casa,
passando sento l’urlo di una donna straziata: “La maledizione di tutte le generazione di irlandesi, passate e future,
su voi, maledetti!”. Nella casa dove mi nascondono, tè e zuppa calda. Poi,
alle 18, tg della BBC, appare, bolso e tronfio, il comandante in capo, Generale
Ford: “Cecchini dell’IRA ci hanno sparato
dai tetti degli edifici, abbiamo dovuto rispondere, abbiamo sparato quattro
colpi, ci sono dei feriti”. Non s’è trovato un colpo, in mezz’ora di
sparatoria, che non fosse venuto dai fucili SLR in dotazione ai parà e che non
fosse stato sparato ad altezza d’uomo. L’IRA non c’era. Saggiamente aveva avuto
l’ordine di non partecipare, di non subire provocazioni. Sarebbe stato un
massacro, altro che 14 morti. Era quello
che Londra avrebbe voluto.
Di notte è Martin McGuinness, comandante della brigata IRA di Derry, 18
anni, a contrabbandarmi, nella benevola nebbia per tratturi e sentieri, oltre
frontiera, nella Repubblica. Altri compagni mi aspettano di là e mi portano di
corsa a Dublino, in tempo per la ribattuta dei quotidiani e per il giornale
radio del mattino. Escono le mie foto, le registrazioni degli spari e delle
uccisioni, la mia testimonianza. Parte lo sgretolamento della versione
pianificata da Londra: un attacco dell’IRA che avrebbe portato all’auspicata
militarizzazione del confronto con la popolazione delle marce, dei sassi e
delle barricate. Un confronto che l’esercito di sua maestà avrebbe risolto in
quattro e quattrotto riportando l’ordine imperiale in Ulster, la dominazione
degli amici unionisti, la sottomissione dei turbolenti in cerca di uguaglianza
e di patria unificata.
Non è andata così. Non allora. Ne sono venuti trent’anni di “troubles”, guai, come venivano chiamati,
con una lotta armata e popolare che puntava all’ultima decolonizzazione
d’Europa. Poi venne il “venerdì santo” del 1998, l’accordo per il disarmo delle
formazioni militari, la pacificazione. Il grande tradimento per chi aveva
sostenuto l’urto e la speranza per tanti anni, il solliievo e la rassegnazione
per chi non ne poteva più di terrorismo di Stato, di bombe, miseria, paura,
carcere, morte. E Gerry Adams, che oggi nega il suo ruolo di comandante Ira, e
Martin McGuinness, che non lo può proprio negare, sono i leader dello Sinn
Fein, il partito già dell’unificazione, considerato il braccio politcio
dell’Ira, ministi nel governo di coalizione con unionisti e fascisti,
felicemente moderati. Anzi McGuinness s’è detto grande amiico di Ian Paisley,
il facinoroso e brutale capo dell’estrema destra unionista, copertura di tutte
le bande fasciste che hanno imperversato sotto copertura dello Stato. E che,
diversamente dall’IRA, non si sono sognati di consegnare le armi. E continuano
a usarle. Di unificazione dell’Irlanda tutta non si parla più, a dispetto delle
generazioni di irlandesi di cui gridava quella donna di Derry. Qualcuno nella
resistenza non si rassegna. C’è ancora un grumo di IRA, la “Real IRA” e la
“Continuity IRA”. Cosa e quanto abbiano dietro non si sa. Mi dicono che la
gente è stanca.
Bobby Sands
Non del tutto. Nel percorso che con Ciaran, avvocato degli oppressi,
sfruttati e combattenti, abbiamo fatto per i quartieri contrapposti di Belfast,
tuttora divisi dalla muraglia detta grottescamente “linea della pace”, si
respira un’atmosfera che a me pare esattamente quella di 50, 40, 30, 20 anni
fa. All’occhio, tranne un’aggiustatina data al grattacielo all’inizio di Falls
Road e poi a tutte le matchbox houses dei
quartieri repubblicani, nulla è cambiato. C’è addirittura una manifestazione
che protesta contro il divieto del Comune di far arrivare una marcia contro
l’internamento in centro città. Già l’internamento esiste ancora, a tempo
indeterminato, senza imputazione, difesa, processo. Basta esserci stati, esserne usciti, tornare
a essere “sospetti”. Ma soprattutto ci
sono ancora tutti i magnifici murales, un arte popolare che ha ispirato i
writers di tutto il mondo e si restaurano e ne nascono altri. Quelli a Bobby
Sands e agli altri scioperanti della fame, quelli contrro l’internamento,
quelli della rivolta di Pasqua e, a Derry, la mio foto di Jack Duddy e Padre Daly sta
ancora sulla facciata e nel museo. E ovunque il tricolore della Repubblica.
Uguale dall’altra parte del muro, a Shankill Road, roccaforte protestante,
ogni casa una Union Jack, graffiti e murales che secernono odio virulento,
minacciano vendette. Ci sarà pure la pace, l’intesa, la collaborazione tra i
paramilitari protestanti e gli ex-Provisional Gerry Adams e Martin McGuinness.
E nessuno lassù fiata più di unità
irlandese, Martin avrà giocato a bocce con il fascista bombarolo Paisley (ora
defunto), ma qui lo scontro è più vivo che mai. Per quanto i cattorepubblicani
abbiano visto dissolversi sotto la croce di Sant’Andrea la prospettiva dell’unità
nazionale e gli unionisti protestanti abbiano invece ottenuto quel che
volevano: la regina e niente odiosa repubblica. E sostanzialmente lo stesso
potere di prima, appena riverniciato di democrazia, in attesa del prossimo set,
ogni volta la resa dei conti.
Murale UVF
Nei tre giorni che sono stato sotto quello smisurato cielo e tra le
vibrazioni di quelle passioni, c’è stata la grande marcia contro l’internamento
e lo scontro sul passo sbarrato; nella contea di Tyrone uno striscione celebra
il militante dell’UVF Jey Somerville,
assassino di un gruppo di musicisti cattolici,
provocando tumulti e scontri con
la polizia che si rifiuta di togliere lo striscione; di conseguenza c’è un
alterco tra il capo della polizia e deputati del partito socialdemocratico
(cattolico); a Dungannon l’UVF innalza una serie di manifesti commemoranti Billy
Wright, altro pluriassassino unionista e anche qui la polizia provoca trambusto
in parlamento per non aver rimosso la provocazione. I governi di Londra e
quello coloniale di Belfast istituiscono una “Commissione Indipendente che
controlli le attività paramilitari repubblicane e lealiste”. Il pretesto:
l’uccisione di un secondino torturatore da parte di un’unità di combattenti
repubblicani. La comunità repubblicana denuncia l’unilateralità dell’organismo
che pare interessato soprattutto all’opposizione repubblicana. Un vasto murale
che rappresenta la rivolta di Pasqua a Dublino appare a Falls Road e succede un
putiferio nel parlamento provinciale. Per contrappasso in Ormeau Road gli unionisti inaugurano un monumento
costato 11mila sterline che festeggia i 5 civili cattolici ammazzati nel 1992.
Una tavola rotonda tra il vice primo ministro McGuinness, ex-IRA di Derry, e Il
capo della polizia, George Hamilton (quello che non rimuove i manifesti UVF),
centrato sui temi della riconciliazione viene pesantemente contestato sia da
destra (unionisti) sia da sinistra (repubblicani).
La mia Derry, il mio Bloody Sunday sono andato a raccontarli, per la terza
inchiesta, alla giuliva e gentile funzionaria della PSNI Julie Morrison e al
gioviale e amichevole ”detective sergeant” Peter Billingsley. Passando per una
serie di porte blindate, sbarramenti, soglie elettriche, corridoi, cancellate
dalle ferrose mandate, nella centrale della polizia nordirlandese, mi è venuto
come un flash di quando potei visitare, quattro decenni fa, il “Maze”, come i
prigionieri chiamavano il campo di internamento più terribile, Long Kesh.
Quello in cui, per rifiutarsi di vestire gli abiti dei detenuti comuni, i
combattenti e resistenti sono rimasti nudi per anni, spesso al gelo. Ma, rassicurante,
era con me Ciaran che ne ha viste tante. E anche i due poliziotti non erano
male.
E così che scorre la vita nel Nordirlanda. E qualche volte si ferma. Quella
di Padre Daly, che sotto i miei occhi, sfidò le pallottole di Sua Maestà per
soccorrere un ragazzino, si è fermata quando ero ancora lì. Me l’ha riferito
Ciaran.Tracimavano ricordi, sensazioni, come un’alluvione. Avrei voluto dirle
in giro, a un mondo dal rapido oblìo. Sono grato alle redazioni della BBC di
Belfast e poi di Derry per avermene dato l’occasione. Alla fine mi è venuto da
piangere. Capita ai vecchietti. Ora le ho raccontate a voi.
Il
varco è qui? (Ripullula il frangente /
ancora sulla balza che scoscende…) / Tu
non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. (Eugenio Montale, Le Occasioni)
La mia
foto sulla prima facciata di Derry
diventa l’icona di Free Derry e di Bloody Sunday
Bellissimo articolo. Mi ha lasciato senza fiato.
RispondiEliminaUn caro abbraccio virtuale.
Mario.
Grazie Fulvio per questo pezzo davvero incredibile.
RispondiEliminaSei uno dei pochi rimasti di cui ci si possa fidare, poveri lettori mainstream....
ormai tutti "brainwashed" dal grande fratello Matrix imperante.
Grazie ancora di cuore per questo articolo stupefacente ed unico.
Max
Grazie a tutti.
RispondiEliminaTroppo generosi.
Solo l'amarcord di un vecchio rimbambito...
Meraviglioso!
RispondiEliminaLudovico
Grazie Fulvio per questa bellissima pagina di giornalismo sul campo, vero, autentico, quello che dovrebbe essere un pezzo di giornalismo e che invece non è quasi più ormai, stretto tra velinari e presstituti/e di ogni risma.
RispondiEliminaGrazie Fulvio un abbraccio e un sereno Ferragosto
RispondiEliminaStraordinario! Come sempre.
RispondiEliminaOttimo articolo, grazie per questo prezioso contributo. Spero che la verità venga finalmente a galla, anche se sarà dura. Intanto volevo segnalarvi questo articolo trovato quasi per caso: http://www.balkaninsight.com/en/article/croatian-director-reported-for-jasenovac-camp-film-07-15-2016
RispondiEliminaL'articolo riporta che la Lega Anti-Fascista Croata ha presentato una denuncia penale all'uffico del procuratore di stato, accusando il regista Jakov Sedlar per pubblico incitamento alla violenza e all'odio interetnico. Il regista ha realizzato un film "Jasenovac-La Verità" incentrato sul campo di concentramento di Jasenovac dove durante la 2°Guerra Mondiale gli Ustaša uccisero 83.145 persone tra serbi, ebrei, rom ed oppositori. Nella denuncia la lega accusa il regista di avere falsificato i fatti e minimizzato le cifre facendo credere che esse siano state falsificate dai partigiani di Tito. In una scena ha addirittura mostrato un fotomontaggio di una prima pagina di giornale (che il regista sostiene essere autentica) dove il campo viene definito un "mito comunista". La lega teme che il film possa rianimare l'odio nei confronti della minoranza serba (o almeno quello che ne è rimasto dopo la grande epurazione della Krajina). Il film ha scatenato molte polemiche anche da parte della Comunità Ebraica Croata, pare che si sia mosso persino l'ambasciatore israeliano in Croazia. Nei commenti due ottimi interventi di un utente che durate l'occupazione nazista ha perso 17 famigliari, rinchiusi assieme ad altre 80 persone in una chiesa ortodossa a cui poi gli Ustaša hanno dato fuoco. Nel 1995 ha perso gli ultimi 5 parenti che gli erano rimasti durante "Operation Storm". Nell'altro intervento commentava il proscioglimento di Milosevic chiedendo dove sono ora tutti coloro (media, Carla del Ponte, Wesley Clark, Bill Clinton, Madeleine Albright) che lo hanno accusato negli anni demonizzando lui ed il popolo serbo. Non poteva mancare la reazione di un altro utente che non essendo in grado di controbattere (probabilmente per ignoranza) si è limitato ad accusarlo di essere un "revisionista negazionista".
Grazie a tutti per gli apprezzamenti generosi e grazie all'ultimo Anonimo per le informazioni sulla nuova operazione antiserba, evidentemente mirata a tenere la Serbia sotto tiro, in vista di adesioni a Nato e UE. Mi riprometto di scrivere qualcosa sull'assoluzione di Milosevic nei prossimi giorni. Saluti e buon Ferragosto.
RispondiEliminaLeggere e conoscere anche attraverso foto, verità scomode al potere, mi crea ulteriore allergia verso questo finto governo democratico....no, scusate, democristiano
EliminaUn pezzo emozionante. Grande giornalista ma anche scrittore. Grazie, e buon lavoro!
RispondiEliminaBuon ferragosto anche a te, Fulvio, e grazie per questa preziosa testimonianza. Come già ti scrivevo, è davvero un peccato che non riesca a recuperare i tuoi negativi dei decenni passati. Faccio un appello a tutti coloro che li conservano, in qualche scantinato o faldone, a tirarli fuori dalla muffa in cui li hanno sepolti e a restituirli al loro legittimo proprietario. con un moderno scanner per negativi potrebbero essere restituiti a nuova vita e far parte di una galleria virtuale o, stampati ancora sotto ingranditore, di una mostra itinerante. Lo riscrivo, a maggior ragione, perché è evidente che alcune di queste impressioni ai sali d'argento siano diventate iconiche, simbolo di Storia: per giunta, senza quel lavoro di preparazione "pro consecratio" che han subito le scene immortalate della bandiera a stelle e strisce a Iwojima o quella dell'URSS sul Reichstag. Spero che qualcuno di loro si faccia vivo.
RispondiEliminaUn caro saluto e grazie ancora.
Paolo
Uno splendido articolo, da presentare come esempio ai giovani giornalisti che si cimenteranno con la professione di inviati in zone di Guerra. La lucidita' nei momenti drammatici nel riprendere e ricordare momenti topici, consapevoli anche dei rischi che tale professione comporta. Sarebbe bene raccontare ai giovani queste storie dell'Ulster, di cui non si parla quasi piu'. Piuttosto ho notato che tali eventi sono stati ricordati spesso in varie canzoni, da quella allora censurata di Paul Mc Cartney a quella piu' famosa degli U2 "Sunday bloody sunday". puo' esserche abbiano contribuito a farne parlare e fare conoscere tali eventi?
RispondiEliminaAlex 1@ Grazie. Permettimi di ricordarti che la denominazione Ulster è quella usata dagli unionisti e da Londra, per sottolineare la separatezza dall'Irlanda. I repubblicani usano Northern Ireland, o Six Counties, Sei contee, quelle strappate alle altre.Sicuramente McCartney e gli U2 hanno contribuito alla conoscenza e alla memoria. Ma erano anche simpatiche le canzoni che noi di Lotta Continua componemmo per l'Irlanda, "Libera Belfast" e "Libera Derry" tra le altre.
RispondiEliminaGrazie Fulvio, è sempre bello sentire la tua voce e vedere che c'è qualcuno con una coscienza.
RispondiEliminaClaudio
Caro Compagno Fulvio...ho letto con immensa emozione il tuo diario irlandese e volevo ringraziarti per avermi ricordato una pagina di storia purtroppo persa nell'oblio del tempo che passa. Troppo facile dimenticare, molto semplice rimuovere e mettere da parte per chi resta e per chi non è colpito nel cuore e nell'anima da queste azioni violente e repressive del potere colonialista e capitalista. Il caro Vittorio Arrigoni ci ha insegnato a restare umani di fronte ad ogni sopruso e violenza gratuita e ingiustificata ...ma a volte e negli ultimi tempi sempre più spesso ti sale una rabbia dentro che restare umani diventa cosi'difficile e complesso che alla fine resti come frastornato e quasi impaurito di te stesso e di quello che dentro di te desideri veramente. Sono con te e con i parenti orfani dei loro ragazzi che hanno perso la vita nelle insanguinate strade di Derry City in quella maledetta domenica di gennaio....io non sono ancora un vecchietto come tu allegramente ti definisci ma solo a leggere il tuo racconto mi sono commosso e lacrime hanno solcato il mio viso...grazie ancora Fulvio...
RispondiEliminaHASTA SIEMPRE
COMPAGNOPABLO
Si piange sempre quando si parla di Irlanda del Nord,terra di Martiri e martirii.
RispondiEliminaComplimenti