Isaias e Yemane
Eritrea,
ex-colonia italiana, poi sotto una brutale occupazione etiopica, liberatasi con
trent’anni di guerra di popolo e oggi al tempo stesso unico Stato dell’Africa a
rifiutare i modelli politici sociali ed economici dell’Occidente e qualsiasi
presenza militare Usa o Nato, e al tempo stesso paese più diffamato e
sanzionato del Continente. Per molti sta all’Africa come Cuba rivoluzionaria
stava all’America Latina. In ogni caso un paese inviso a imperialismo e
neocolonialismo, sottoposto a costante aggressività dal gendarme occidentale in
Africa, l’Etiopia, povero, ma in rapido ed equilibrato sviluppo, improntato al
principio dell’autosufficienza e della giustizia sociale.
Girando in
lungo e in largo, tra limpidissimo Mar Rosso, vette rocciose dell’altopiano,
bassopiano verdeggiante, semidesertico e desertico, passando da una
bellissima città all’altra, tutte con i migliori esempi dello stile architettonico
razionalista italiano anni ’20 e’30, incontrando centinaia di persone,
trovandomi in decine di situazioni sociali, non riesco a trovare l’ombra di una
conferma dell’uragano di accuse che si muovono a questo paese, presuntamente
oppresso da una feroce dittatura. Accuse mosse da anni da un coro mediatico che
già si era esercitato su altre nazioni orgogliosamente indipendenti, accuse
rilanciate da una commissione d’inchiesta dell’ONU che non ha mai messo piede
in Eritrea, ma ha prestato ogni ascolto al nemico etiope; accuse che sono alla
base di ingiuste e feroci sanzioni e che, per i soliti noti, dovrebbero
preludere a un’aggressione militare.
In effetti,
l’unico problema posto dall’Eritrea è di trovarsi in una delle posizioni
strategicamente più cruciali del pianeta, sullo stretto vitale di Bab el
Mandeb, di fronte allo Yemen, a cavallo tra Mar Rosso, Golfo di Aden, Golfo
Arabico e Oceano Indiano. Da lì passa il 40% del commercio mondiale E le flotte
Nato e Usa.
A Keren, a
metà strada tra altopiano e bassopiano, al centro del paese, incontro un
personaggio a cui avevo fatto la posta da molto tempo e molti chilometri. E’ Yemane Gebreab, appena di ritorno da
una seduta all’assemblea generale dell’ONU dove ha rappresentato il suo paese
nel contrastare le accuse della commissione d’inchiesta, del resto rigettate
dalla maggioranza dei membri. Yemane Gebreab è capo dell’Ufficio Politico del
movimento protagonista della lotta di liberazione, oggi al governo, il Fronte
Popolare per la Democrazia e la Giustizia. E’ anche consigliere speciale del
presidente Isaias Afewerki. In altre parole, il suo braccio destro.
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Grimaldi: Ciò che è stato previsto nella lotta di liberazione è stato mantenuto?
Siete soddisfatti?
Yemane: Non possiamo essere
soddisfatti. Sarebbe la fine della strada. Ma credo che la battaglia per la
democrazia e la giustizia in Eritrea, diversamente da quanto accaduto con molti
movimenti di liberazione, abbia mantenuto la sua visione. In molti paesi i
movimenti di liberazione conquistano il potere e poi si trasformano in classi
dirigenti. Prendono in breve tempo quanto di meglio il paese può offrire, e non
perché l’abbiano guadagnato, ma perché sfruttano il proprio potere.
Arricchiscono se stessi e le proprie famiglie e finiscono col separarsi dal popolo.
In Eritrea siamo rimasti fedeli al nostro impegno, seguiamo la stessa filosofia
della giustizia sociale, continuiamo a vivere semplicemente. A nessun
funzionario dello Stato è permesso di fare affari.
Per quanto
riguarda la traduzione della nostra visione nella realtà, ci vuole tempo. Con
gli investimenti abbiamo privilegiato le aree remote e più svantaggiate. Ci
siamo concentrati sulle opportunità per le donne creando un ambiente in cui
potessero far uso del loro talento, delle loro capacità.
Come nazione
abbiamo dovuto affrontare una storia complicata, una serie di aggressioni.
Viviamo in un ambiente ostile, difficile.
G. Nella
vostra Carta Magna si parla anche di una rivoluzione culturale, dei rapporti
tra esseri viventi, la modifica dei costumi., il problema delle mutilazioni
genitali… Vi siete riusciti?
Y. Si tratta di cose assai complesse.
Lo sviluppo economico e sociale intacca il pensiero, la mentalità, la pratica,
le abitudini, la cultura, di milioni di persone. Credo che qui, come in molti
paesi, la società tradizionale abbia dato un grande contributo alla solidarietà
umana. Viviamo in comunità che si assumono la responsabilità per le risorse
naturali, l’ambiente, l’educazione dei figli, l’osservanza della legge, persino
in assenza di organi deputati all’imposizione della legge. La società
tradizionale in Eritrea è stata la base per gran parte del pensiero
progressista. Abbiamo conservato i valori della tolleranza, la convivenza tra
religioni ed etnie, l’onestà, il lavoro su base comunitaria che superi gli
sforzi individuali, la comunità che assume la responsabilità per i deboli, gli
svantaggiati, i disabili. Certo, ci sono anche gli aspetti negativi nelle
tradizioni, riguardo all’istruzione, la sanità, la condizione della donna,
certi tipi di lavoro. Li stiamo superando e trasformando.
Ma la sfida
arriva anche da fuori. Siamo nell’era della globalizzazione, della tv
satellitare, di internet. La gioventù è molto coinvolta. Ci sono i vantaggi di
questa cultura, ma si è anche sottoposti alla violenza degli odi etnici,
dell’ideologia sessista, della grossolana mercificazione di ogni cosa. Tutte
cose negative che schiavizzano la mente. Danno l’idea che si possa continuare a
consumare senza produrre e senza rispetto. Come ci siamo finiti? Tutta la storia
del colonialismo, dello schiavismo, delle guerre e poi della lotta al
colonialismo, vanno viste fuori dal turbinio quotidiano di un’informazione
manipolata. Ma non è una sfida che un paese possa affrontare da solo. Si tratta
di un ordine del giorno regionale, continentale, globale. Solo su questa scala
possiamo davvero cambiare le cose.
Abbiamo
cercato di unire i valori buoni della nostra società e quelli del movimento di liberazione. Per
esempio, abbiamo creato un servizio nazionale sociale di cui fuori si parla
molto male, lo si distorce in costrizione. Invece è una grande impegno di forza
civile per i nostri giovani che vivono
in una società molto diversificata, di 9 gruppi etnici, di varie religioni, che
tutti devono vivere in armonia. Il Servizio Nazionale Sociale dà ai giovani di
tutti i gruppi e di diverso retroterra sociale, urbano o rurale, istruito o
meno istruito, la possibilità di vivere insieme per un tratto della vita,
promuovendo unità nazionale, integrazione, comprensione reciproca, tolleranza.
Li aiuta ad affrontare esperienze e difficoltà. E’ un elemento di formazione.
G. Molti
all’estero denunciano che il vostro servizio militare è esteso a tutta la vita.
Y. Dura sei mesi, punto. La stessa idea
che genera il Servizio Nazionale è proprio quella di non avere un esercito
permanente professionale. Non vogliamo che sulla società si imponga una cultura
militaristica. Sono persone che vengono istruite e armate per difendere il
paese. E’ responsabilità del popolo difenderlo. Non vogliamo soldati che si
identificano con il militare e, dunque, dopo il servizio in armi si passa a
quello civile, ma mai per periodi superiori ai 18 mesi. Certo, si può essere
richiamati. Siamo sotto costante pressione bellica e per la difesa della
nazione dipendiamo dal popolo.
G. Che
cosa ha motivato la vostra scelta tra un Fronte unico e un sistema
pluripartitico?
Y. Il Fronte è parte di noi, è organico
nella società. E’ la forza che ha combattuto per l’indipendenza. Ogni famiglia
eritrea ha un figlio o una figlia che hanno combattuto sotto il vessillo di
quel Fronte. E’ noi, è la nazione, è il governo, è inseparabile dalla nostra
storia. La creazione di partiti deve risultare da una crescita organica
all’interno della società. Non si può velocizzare. E’ una costruzione. E poi,
il multipartitismo è l’unica strada? E’ quella giusta? In Africa ci sono tanti partiti, ma davvero non
si può parlare di multipartitismo, di democrazia.
G. C’è
un modo nel Fronte in cui i vari settori della società si possano articolare ed
esprimre?
Y. Per la propria esistenza il Fronte è
sempre dipeso dal popolo. Non ha sostegni esterni, fonti finanziarie esterne.
La sua stessa esistenza dipende dal sostegno della popolazione, dalla sua
partecipazione. La popolazione è protagonista dell’azione del Fronte e di come
la rivoluzione si dispiega nella società. Abbiamo un dialogo costante,
occasioni d’incontro, anche con la diaspora. Ci sono varie organizzazioni di
massa, sindacati, livelli assembleari e strutture amministrative che promuovono
la partecipazione del popolo.
G.
Si parla di una nuova costituzione, di un imminente congresso del Fronte.
Y. Per il congresso, che verrà fatto,
non posso ancora darti una data definitiva. Ma vogliamo riesaminare la forma di
governo sulla base delle esperienze fatte negli ultimi vent’anni. Quelle
istituzioni furono definite immediatamente dopo la liberazione, nelle
condizioni di allora. Tante cose sono cambiate nel mondo nel corso degli ultimi
decenni. C’è la gigantesca questione della privacy, violata e da difendere. Chi
ha ora meno di 35 anni non fu coinvolto nella nostra prima costituzione, il 17
% della nostra popolazione non vi partecipò. Ora un’intera generazione deve
essere coinvolta nella nuova costituzione.
G.
Sul piano geopolitico, l’Eritrea si trova sotto la perenne minaccia di
aggressione da parte dell’Etiopia, sotto sanzioni ONU, sotto forte pressione
mediatica.
Y. Non si tratta dell’Etiopia in quanto
tale. Siamo vicini, abbiamo molto in comune. Il problema sono le grandi potenze
e questo risale alla fine della seconda guerra mondiale, quando si fecero certe
scelte rispetto al continente. Si decise per esempio che l’Eritrea non dovesse
diventare indipendente, ma fosse parte dell’Etiopia, perché ciò serviva gli
interessi degli Stati Uniti che puntavano a una base militare ed economica
dalla quale controllare l’area. Anche oggi, gli Usa, con la loro strategia
detta di “sicurezza nazionale”, pretendono di avere Stati pilastri in Africa e
uno dei pilastri deve essere lì’Africa Orientale con al centro l’Etiopia. Quinidi
qualunque crimine commetta l’Etiopia, le resta assicurato l’appoggio degli Usa.
Guardi a cosa succede in Somalia, nel Sud Sudan e cosa va succedendo in Yemen,
Iraq, Libia, Siria. La nostra situazione non va vista isolata dal resto: è tutto
il prodotto delle politiche seguite negli ultimi 25 anni, dopo la fine della
guerra fredda.
Queste
politiche devono essere riviste, ma occorre una volontà e una capacità, o che
gli Usa subiscano pressioni tali da fargli cambiare direzione. Ci vogliono una
pressione e una lotta comune dei popoli che intendono occuparsi del proprio
futuro e prendere in mano il proprio destino. Purtroppo quel movimento è stato
indebolito nel corso degli ultimi 25 anni. Le lotte ci sono ancora, ma sono
isolate. Non c’è coordinamento. Ogni paese prova a sopravvivere da solo, cosa
impossibile. Gli altri, infatti, lavorano in coordinamento.
Perfino i
media dei potenti influenzano il pensiero di coloro che vorrebbero cambiamenti
e liberazione. Finiscono col trovarsi dalla stessa parte di coloro che sono
responsabili di politiche sbagliate.
G. L’Italia, ex-potenza coloniale, porta una
pesante responsabilità nei confronti del vostro paese. Credi che l’abbia
assunta?.
Y. I nostri rapporti non sono
soddisfacenti .Pensiamo che, per ragioni storiche, culturali e anche personali,
questi rapporti avrebbero dovuto essere difesi e rinnovati. Noi crediamo che
l’Italia e l’Eritrea possano essere partner. Ne trarremmo entrambi grandi
benefici. L’Eritrea è stata la porta d’ingresso all’Africa per l’avventura
coloniale dell’Italia. L’Italia qui ha avuto la sua presenza più lunga e di più
forte impatto sulla società. C’è un passato comune su cui costruire. Purtroppo
l’Italia non la vede così. E’ molto difficile addirittura spiegarlo, tanto meno
convincere l’Italia ad aprire gli occhi sulle opportunità che si presentano in
questa parte del mondo.
Quanto
all’Eritrea, noi custodiamo tante cose, manteniamo la memoria. Se lei vede i
nostri cinema, i nostri caffè, mantengono tuttora i vecchi nomi, gli arredi.
Non abbiamo cancellato nulla, non vogliamo negare la storia. E vogliamo
mantenere i rapporti e continuare a lavorare con l’Italia.Ci sono molti amici
italiani che vengono e vogliono lavortare con noi, nel campo medio, nello sport,
nella scienza e industria, nell’archeologia e nella tecnologia.
G. Ci
sono i vostri nemici, chi gli amici?
Y. Vorremmo sviluppare rapporti
positivi con tutte le nazioni. Lavorare insieme sulla base del rispetto e dei
vantaggi reciproci. Poi ovviamente puntiamo a lavorare con i popoli, con
organizzazioni, movimenti, istituzioni, paesi, che condividono con noi la
visione di un mondo più giusto, in cui l’ambiente sia protetto, un mondo più
corretto, più equo, più umano.
G. Ci
sono potenze che non permettono alle nazioni di seguire percorsi diversi da
quelli che esse decidono. Voi siete piuttosto isolati, subite pressioni,
sanzioni, aggressioni. Noi abbiamo visitato un paese molto bello, abbiamo visto
una gioventù dinamica, creativa, intelligente. Ce la farete, Yemane?
Y. Lo credo. Credo che ce la stiamo già
facendo. A volte le difficoltà ti rendono più forte, ma anche più modesto, più
umile. Se pensi di avere sempre successo, rischi di diventare arrogante. Quando
perdi la tua umiltà, è allora che nascono i problemi.. Abbiamo questo vecchio
detto: “Non è la mancanza di cibo che ti uccide, ma quando ne hai troppo”.
Credo che siano state le difficoltà ad averci uniti e resi più umili, più
disposti a lavorare, più impegnati che mai. Credo che ce la stiamo facendo. Ma
non sarà facile.
davvero interssante...già ci avevi aperto gli occhi e la mente su questa fetta di mondo che ci ha già visto nel passato tragici protagonisti...e ora hai aggiunto altri tasselli molto importanti..solo una domanda..come mai dall eritrea se ne fuggono così in tanti?ne sbarcano tantissimi a lampedusa e altrove..o almeno così ci raccontano..come mai visto che le prospettive di quel paese non sono meno incerted che in quelle di un qualsiasi altro paese d africa?grazie comunque dell ottimo lavoro..andrea da pradappio
RispondiEliminaLella@ Intanto le cifre dei migranti eritrei vengono esagerate nel quadro della campagna mediatica contro quel paese. Poi, rimane il fatto che il paese è povero, sotto sanzioni, deve spendere molto per la difesa perchè attaccato ogni due tre anni dall'Etiopia, quindi c'è disoccupazione e molti giovani devono cercare fortuna all'estero. Inoltre agli eritrei in Europa si concede il diritto d'asilo politico automaticamente e, infine, tantissimi "eritrei", non sono tali, ma etiopi che si fanno passare per eritrei, appunto perchè ottengono subito l'asilo. Etiopi ed eritrei sono indistinguibili, molte etnie sono comuni.
RispondiEliminaGrazie Fulvio, come sempre. Ricordo ancora i servizi dei nostri media che mostravano gli eritrei che manifestavano fuori dal palazzo a Ginevra dove la commissione presentava il rapporto che hai citato. Secondo loro si erano riuniti per appoggiare la commissione contro la "dittatura", poi inquadravano la folla e i cartelli dicevano "Basta menzogne sul nostro paese".
RispondiEliminaIntanto il fronte del Sì sta usando le dimissioni di Renzi come scusa per attaccare il fronte del No. Addirittura un noto youtuber favorevole alla riforma è arrivato a definire Renzi "il Prometeo che aveva portato al popolo il fuoco della riforma, ma gli italiani ciechi, igoranti ed egoisti lo hanno usato per bruciare il loro benefattore". Fiero di essere ignorante, cieco ed egoista.
Non si parla piu' della Siria e di Aleppo. L'esercito regolare ha consentito a molti poveri cittadini "assediati" di essere finalmente liberati ed assistiti in ospedali da campo attrezzati dal "dittatore" e dai Russi, ma si vede che di Ong, di elmetti bianchi e vari non c'e' piu' traccia. Chi finisce nelle zone liberate non merita attenzione ne aiuti umnitari da questi santi protettori. Ho letto sul Corriere che Kerry avrebbe detto: "Aleppo e' persa ormai" ... che fa pensare che gli esportatori di democrazia cercheranno di rifarsi sostenendo direttamente la Turchia ed Israele. Cercheranno in ogni modo di forzare la mano anche alla nuova gestione Trump. Nel frattempo consoliamoci con la vittoria del No, ma anche qui I "signori dell'Euro" non molleranno facilmente. Ci riproveranno, non a caso le dimissioni di Renzi sono state "posticipate".
RispondiEliminaIncredibile ma vero. Stasera al Tg3 Lucia Goracci ha mostrato una scuola, appena riconquistata dall'esercito di Assad, che i ribelli avevano traformato in un piccolo bunker. E finalmente ha mostrato ai telespettatori prima dei flaconi di sostanze tossiche e poi le bombe chimiche artigianali costruite dai ribelli, specificando che le hanno usate contro i soldati siriani. Non riuscivo a credere ai miei occhi anche se poi, ricordando l'attaco di Goutha, si è ben guardata dall'accusare i ribelli di altri attacchi chimici. Che anche i media si stiano piano piano rassegnando alla liberazione di Aleppo?
RispondiEliminaxAnonimo: si parla del diavolo e spuntano le corna. Poco fa sulla mia mail c'e' la solita' Avaaz che accusa I governi (ovviamente quelli occidental e loro alleati, non lo hanno neanche specificato, per meglio dire la "comunita' internazionale) di aver abbandonato Aleppo al suo destino di "diventare in cimitero" al contrario degli eroici "Elmetti bianchi" che tale combriccola propone addirittura per il premio Nobel della pace, d'altrta parte se lo hanno dato ad Obama sulla fiducia, fiducia che non ha tradito, non si capisce perche' non darlo agli "esportatori buoni di democrazia". Mi chiedo se in quell servizio della Goracci sulla liberazione della scuola ci fosse per caso uno dico solo uno di loro che aiutasse I rifugiati appena liberati e peraltro bisognosi di cure. Non e' una domanda provocatoria, ma credo di sapere gia' la risposta.
RispondiEliminaE non ti sbagli caro Alex, infatti non c'era nessuno che aiutava i rifugiati. E per non farsi mancare nulla subito dopo mandavano in onda un servizio sulla manifestazione di Medici senza Frontiere davanti a Montecitorio per denunciare l'immobilismo dei governi occidentali su Aleppo. Con tanto di intervista al responsabile italiano dell'ONG che dichiarava "in nessuna guerra erano morti così tanti bambini". Certo, perchè tutti quelli morti sotto le bombe a Belgrado, Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, etc...non esitono, non fanno notizia perchè stanno dalla "parte sbagliata della Storia"(Killary docet).
RispondiEliminaIntanto Obama ci regala le sue ultime sparate prima di lasciare la Casa Bianca. Oggi ha dichiarato che Guantanamo, la "vergogna nazionale", va chiusa. Nessuno ha pensato di chiedergli come mai non lo ha fatto in 8 anni di mandato. Avrebbe potuto chiuderlo e restituire quel pezzo di terra al popolo cubano, se avesse veramente voluto dare un segnale forte di apertura.