sabato 3 dicembre 2016

QUALE ERITREA? PARLA IL BRACCIO DESTRO DEL PRESIDENTE ERITREO. Intervista a Yemane Gebreab

Isaias e Yemane

Eritrea, ex-colonia italiana, poi sotto una brutale occupazione etiopica, liberatasi con trent’anni di guerra di popolo e oggi al tempo stesso unico Stato dell’Africa a rifiutare i modelli politici sociali ed economici dell’Occidente e qualsiasi presenza militare Usa o Nato, e al tempo stesso paese più diffamato e sanzionato del Continente. Per molti sta all’Africa come Cuba rivoluzionaria stava all’America Latina. In ogni caso un paese inviso a imperialismo e neocolonialismo, sottoposto a costante aggressività dal gendarme occidentale in Africa, l’Etiopia, povero, ma in rapido ed equilibrato sviluppo, improntato al principio dell’autosufficienza e della giustizia sociale.

Girando in lungo e in largo, tra limpidissimo Mar Rosso, vette rocciose dell’altopiano, bassopiano  verdeggiante,  semidesertico e desertico, passando da una bellissima città all’altra, tutte con i migliori esempi dello stile architettonico razionalista italiano anni ’20 e’30, incontrando centinaia di persone, trovandomi in decine di situazioni sociali, non riesco a trovare l’ombra di una conferma dell’uragano di accuse che si muovono a questo paese, presuntamente oppresso da una feroce dittatura. Accuse mosse da anni da un coro mediatico che già si era esercitato su altre nazioni orgogliosamente indipendenti, accuse rilanciate da una commissione d’inchiesta dell’ONU che non ha mai messo piede in Eritrea, ma ha prestato ogni ascolto al nemico etiope; accuse che sono alla base di ingiuste e feroci sanzioni e che, per i soliti noti, dovrebbero preludere a un’aggressione militare.


In effetti, l’unico problema posto dall’Eritrea è di trovarsi in una delle posizioni strategicamente più cruciali del pianeta, sullo stretto vitale di Bab el Mandeb, di fronte allo Yemen, a cavallo tra Mar Rosso, Golfo di Aden, Golfo Arabico e Oceano Indiano. Da lì passa il 40% del commercio mondiale E le flotte Nato e Usa.

A Keren, a metà strada tra altopiano e bassopiano, al centro del paese, incontro un personaggio a cui avevo fatto la posta da molto tempo e molti chilometri. E’ Yemane Gebreab, appena di ritorno da una seduta all’assemblea generale dell’ONU dove ha rappresentato il suo paese nel contrastare le accuse della commissione d’inchiesta, del resto rigettate dalla maggioranza dei membri. Yemane Gebreab è capo dell’Ufficio Politico del movimento protagonista della lotta di liberazione, oggi al governo, il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia. E’ anche consigliere speciale del presidente Isaias Afewerki. In altre parole, il suo braccio destro.

**************************************************************************
Grimaldi: Ciò che è stato previsto nella lotta di liberazione è stato mantenuto? Siete soddisfatti?

Yemane: Non possiamo essere soddisfatti. Sarebbe la fine della strada. Ma credo che la battaglia per la democrazia e la giustizia in Eritrea, diversamente da quanto accaduto con molti movimenti di liberazione, abbia mantenuto la sua visione. In molti paesi i movimenti di liberazione conquistano il potere e poi si trasformano in classi dirigenti. Prendono in breve tempo quanto di meglio il paese può offrire, e non perché l’abbiano guadagnato, ma perché sfruttano il proprio potere. Arricchiscono se stessi e le proprie famiglie e finiscono col separarsi dal popolo. In Eritrea siamo rimasti fedeli al nostro impegno, seguiamo la stessa filosofia della giustizia sociale, continuiamo a vivere semplicemente. A nessun funzionario dello Stato è permesso di fare affari.

Per quanto riguarda la traduzione della nostra visione nella realtà, ci vuole tempo. Con gli investimenti abbiamo privilegiato le aree remote e più svantaggiate. Ci siamo concentrati sulle opportunità per le donne creando un ambiente in cui potessero far uso del loro talento, delle loro capacità.

Come nazione abbiamo dovuto affrontare una storia complicata, una serie di aggressioni. Viviamo in un ambiente ostile, difficile.

G. Nella vostra Carta Magna si parla anche di una rivoluzione culturale, dei rapporti tra esseri viventi, la modifica dei costumi., il problema delle mutilazioni genitali… Vi siete riusciti?


Y. Si tratta di cose assai complesse. Lo sviluppo economico e sociale intacca il pensiero, la mentalità, la pratica, le abitudini, la cultura, di milioni di persone. Credo che qui, come in molti paesi, la società tradizionale abbia dato un grande contributo alla solidarietà umana. Viviamo in comunità che si assumono la responsabilità per le risorse naturali, l’ambiente, l’educazione dei figli, l’osservanza della legge, persino in assenza di organi deputati all’imposizione della legge. La società tradizionale in Eritrea è stata la base per gran parte del pensiero progressista. Abbiamo conservato i valori della tolleranza, la convivenza tra religioni ed etnie, l’onestà, il lavoro su base comunitaria che superi gli sforzi individuali, la comunità che assume la responsabilità per i deboli, gli svantaggiati, i disabili. Certo, ci sono anche gli aspetti negativi nelle tradizioni, riguardo all’istruzione, la sanità, la condizione della donna, certi tipi di lavoro. Li stiamo superando e trasformando.

Ma la sfida arriva anche da fuori. Siamo nell’era della globalizzazione, della tv satellitare, di internet. La gioventù è molto coinvolta. Ci sono i vantaggi di questa cultura, ma si è anche sottoposti alla violenza degli odi etnici, dell’ideologia sessista, della grossolana mercificazione di ogni cosa. Tutte cose negative che schiavizzano la mente. Danno l’idea che si possa continuare a consumare senza produrre e senza rispetto. Come ci siamo finiti? Tutta la storia del colonialismo, dello schiavismo, delle guerre e poi della lotta al colonialismo, vanno viste fuori dal turbinio quotidiano di un’informazione manipolata. Ma non è una sfida che un paese possa affrontare da solo. Si tratta di un ordine del giorno regionale, continentale, globale. Solo su questa scala possiamo davvero cambiare le cose.

Abbiamo cercato di unire i valori buoni della nostra società  e quelli del movimento di liberazione. Per esempio, abbiamo creato un servizio nazionale sociale di cui fuori si parla molto male, lo si distorce in costrizione. Invece è una grande impegno di forza civile per i nostri giovani  che vivono in una società molto diversificata, di 9 gruppi etnici, di varie religioni, che tutti devono vivere in armonia. Il Servizio Nazionale Sociale dà ai giovani di tutti i gruppi e di diverso retroterra sociale, urbano o rurale, istruito o meno istruito, la possibilità di vivere insieme per un tratto della vita, promuovendo unità nazionale, integrazione, comprensione reciproca, tolleranza. Li aiuta ad affrontare esperienze e difficoltà. E’ un elemento di formazione.

G. Molti all’estero denunciano che il vostro servizio militare è esteso a tutta la vita.

Y. Dura sei mesi, punto. La stessa idea che genera il Servizio Nazionale è proprio quella di non avere un esercito permanente professionale. Non vogliamo che sulla società si imponga una cultura militaristica. Sono persone che vengono istruite e armate per difendere il paese. E’ responsabilità del popolo difenderlo. Non vogliamo soldati che si identificano con il militare e, dunque, dopo il servizio in armi si passa a quello civile, ma mai per periodi superiori ai 18 mesi. Certo, si può essere richiamati. Siamo sotto costante pressione bellica e per la difesa della nazione dipendiamo dal popolo.

G. Che cosa ha motivato la vostra scelta tra un Fronte unico e un sistema pluripartitico?

Y. Il Fronte è parte di noi, è organico nella società. E’ la forza che ha combattuto per l’indipendenza. Ogni famiglia eritrea ha un figlio o una figlia che hanno combattuto sotto il vessillo di quel Fronte. E’ noi, è la nazione, è il governo, è inseparabile dalla nostra storia. La creazione di partiti deve risultare da una crescita organica all’interno della società. Non si può velocizzare. E’ una costruzione. E poi, il multipartitismo è l’unica strada? E’ quella giusta? In  Africa ci sono tanti partiti, ma davvero non si può parlare di multipartitismo, di democrazia.

G. C’è un modo nel Fronte in cui i vari settori della società si possano articolare ed esprimre?

Y. Per la propria esistenza il Fronte è sempre dipeso dal popolo. Non ha sostegni esterni, fonti finanziarie esterne. La sua stessa esistenza dipende dal sostegno della popolazione, dalla sua partecipazione. La popolazione è protagonista dell’azione del Fronte e di come la rivoluzione si dispiega nella società. Abbiamo un dialogo costante, occasioni d’incontro, anche con la diaspora. Ci sono varie organizzazioni di massa, sindacati, livelli assembleari e strutture amministrative che promuovono la partecipazione del popolo.

G. Si parla di una nuova costituzione, di un imminente congresso del Fronte.

Y. Per il congresso, che verrà fatto, non posso ancora darti una data definitiva. Ma vogliamo riesaminare la forma di governo sulla base delle esperienze fatte negli ultimi vent’anni. Quelle istituzioni furono definite immediatamente dopo la liberazione, nelle condizioni di allora. Tante cose sono cambiate nel mondo nel corso degli ultimi decenni. C’è la gigantesca questione della privacy, violata e da difendere. Chi ha ora meno di 35 anni non fu coinvolto nella nostra prima costituzione, il 17 % della nostra popolazione non vi partecipò. Ora un’intera generazione deve essere coinvolta nella nuova costituzione.

G. Sul piano geopolitico, l’Eritrea si trova sotto la perenne minaccia di aggressione da parte dell’Etiopia, sotto sanzioni ONU, sotto forte pressione mediatica.

Y. Non si tratta dell’Etiopia in quanto tale. Siamo vicini, abbiamo molto in comune. Il problema sono le grandi potenze e questo risale alla fine della seconda guerra mondiale, quando si fecero certe scelte rispetto al continente. Si decise per esempio che l’Eritrea non dovesse diventare indipendente, ma fosse parte dell’Etiopia, perché ciò serviva gli interessi degli Stati Uniti che puntavano a una base militare ed economica dalla quale controllare l’area. Anche oggi, gli Usa, con la loro strategia detta di “sicurezza nazionale”, pretendono di avere Stati pilastri in Africa e uno dei pilastri deve essere lì’Africa Orientale con al centro l’Etiopia. Quinidi qualunque crimine commetta l’Etiopia, le resta assicurato l’appoggio degli Usa. Guardi a cosa succede in Somalia, nel Sud Sudan e cosa va succedendo in Yemen, Iraq, Libia, Siria. La nostra situazione non va vista isolata dal resto: è tutto il prodotto delle politiche seguite negli ultimi 25 anni, dopo la fine della guerra fredda.

Queste politiche devono essere riviste, ma occorre una volontà e una capacità, o che gli Usa subiscano pressioni tali da fargli cambiare direzione. Ci vogliono una pressione e una lotta comune dei popoli che intendono occuparsi del proprio futuro e prendere in mano il proprio destino. Purtroppo quel movimento è stato indebolito nel corso degli ultimi 25 anni. Le lotte ci sono ancora, ma sono isolate. Non c’è coordinamento. Ogni paese prova a sopravvivere da solo, cosa impossibile. Gli altri, infatti, lavorano in coordinamento.

Perfino i media dei potenti influenzano il pensiero di coloro che vorrebbero cambiamenti e liberazione. Finiscono col trovarsi dalla stessa parte di coloro che sono responsabili di politiche sbagliate.

G. L’Italia, ex-potenza coloniale, porta una pesante responsabilità nei confronti del vostro paese. Credi che l’abbia assunta?.

Y. I nostri rapporti non sono soddisfacenti .Pensiamo che, per ragioni storiche, culturali e anche personali, questi rapporti avrebbero dovuto essere difesi e rinnovati. Noi crediamo che l’Italia e l’Eritrea possano essere partner. Ne trarremmo entrambi grandi benefici. L’Eritrea è stata la porta d’ingresso all’Africa per l’avventura coloniale dell’Italia. L’Italia qui ha avuto la sua presenza più lunga e di più forte impatto sulla società. C’è un passato comune su cui costruire. Purtroppo l’Italia non la vede così. E’ molto difficile addirittura spiegarlo, tanto meno convincere l’Italia ad aprire gli occhi sulle opportunità che si presentano in questa parte del mondo.

Quanto all’Eritrea, noi custodiamo tante cose, manteniamo la memoria. Se lei vede i nostri cinema, i nostri caffè, mantengono tuttora i vecchi nomi, gli arredi. Non abbiamo cancellato nulla, non vogliamo negare la storia. E vogliamo mantenere i rapporti e continuare a lavorare con l’Italia.Ci sono molti amici italiani che vengono e vogliono lavortare con noi, nel campo medio, nello sport, nella scienza e industria, nell’archeologia e nella tecnologia.

G. Ci sono i vostri nemici, chi gli amici?

Y. Vorremmo sviluppare rapporti positivi con tutte le nazioni. Lavorare insieme sulla base del rispetto e dei vantaggi reciproci. Poi ovviamente puntiamo a lavorare con i popoli, con organizzazioni, movimenti, istituzioni, paesi, che condividono con noi la visione di un mondo più giusto, in cui l’ambiente sia protetto, un mondo più corretto, più equo, più umano.

G. Ci sono potenze che non permettono alle nazioni di seguire percorsi diversi da quelli che esse decidono. Voi siete piuttosto isolati, subite pressioni, sanzioni, aggressioni. Noi abbiamo visitato un paese molto bello, abbiamo visto una gioventù dinamica, creativa, intelligente. Ce la farete, Yemane?


Y. Lo credo. Credo che ce la stiamo già facendo. A volte le difficoltà ti rendono più forte, ma anche più modesto, più umile. Se pensi di avere sempre successo, rischi di diventare arrogante. Quando perdi la tua umiltà, è allora che nascono i problemi.. Abbiamo questo vecchio detto: “Non è la mancanza di cibo che ti uccide, ma quando ne hai troppo”. Credo che siano state le difficoltà ad averci uniti e resi più umili, più disposti a lavorare, più impegnati che mai. Credo che ce la stiamo facendo. Ma non sarà facile.

7 commenti:

  1. davvero interssante...già ci avevi aperto gli occhi e la mente su questa fetta di mondo che ci ha già visto nel passato tragici protagonisti...e ora hai aggiunto altri tasselli molto importanti..solo una domanda..come mai dall eritrea se ne fuggono così in tanti?ne sbarcano tantissimi a lampedusa e altrove..o almeno così ci raccontano..come mai visto che le prospettive di quel paese non sono meno incerted che in quelle di un qualsiasi altro paese d africa?grazie comunque dell ottimo lavoro..andrea da pradappio

    RispondiElimina
  2. Lella@ Intanto le cifre dei migranti eritrei vengono esagerate nel quadro della campagna mediatica contro quel paese. Poi, rimane il fatto che il paese è povero, sotto sanzioni, deve spendere molto per la difesa perchè attaccato ogni due tre anni dall'Etiopia, quindi c'è disoccupazione e molti giovani devono cercare fortuna all'estero. Inoltre agli eritrei in Europa si concede il diritto d'asilo politico automaticamente e, infine, tantissimi "eritrei", non sono tali, ma etiopi che si fanno passare per eritrei, appunto perchè ottengono subito l'asilo. Etiopi ed eritrei sono indistinguibili, molte etnie sono comuni.

    RispondiElimina
  3. Grazie Fulvio, come sempre. Ricordo ancora i servizi dei nostri media che mostravano gli eritrei che manifestavano fuori dal palazzo a Ginevra dove la commissione presentava il rapporto che hai citato. Secondo loro si erano riuniti per appoggiare la commissione contro la "dittatura", poi inquadravano la folla e i cartelli dicevano "Basta menzogne sul nostro paese".

    Intanto il fronte del Sì sta usando le dimissioni di Renzi come scusa per attaccare il fronte del No. Addirittura un noto youtuber favorevole alla riforma è arrivato a definire Renzi "il Prometeo che aveva portato al popolo il fuoco della riforma, ma gli italiani ciechi, igoranti ed egoisti lo hanno usato per bruciare il loro benefattore". Fiero di essere ignorante, cieco ed egoista.

    RispondiElimina
  4. Non si parla piu' della Siria e di Aleppo. L'esercito regolare ha consentito a molti poveri cittadini "assediati" di essere finalmente liberati ed assistiti in ospedali da campo attrezzati dal "dittatore" e dai Russi, ma si vede che di Ong, di elmetti bianchi e vari non c'e' piu' traccia. Chi finisce nelle zone liberate non merita attenzione ne aiuti umnitari da questi santi protettori. Ho letto sul Corriere che Kerry avrebbe detto: "Aleppo e' persa ormai" ... che fa pensare che gli esportatori di democrazia cercheranno di rifarsi sostenendo direttamente la Turchia ed Israele. Cercheranno in ogni modo di forzare la mano anche alla nuova gestione Trump. Nel frattempo consoliamoci con la vittoria del No, ma anche qui I "signori dell'Euro" non molleranno facilmente. Ci riproveranno, non a caso le dimissioni di Renzi sono state "posticipate".

    RispondiElimina
  5. Incredibile ma vero. Stasera al Tg3 Lucia Goracci ha mostrato una scuola, appena riconquistata dall'esercito di Assad, che i ribelli avevano traformato in un piccolo bunker. E finalmente ha mostrato ai telespettatori prima dei flaconi di sostanze tossiche e poi le bombe chimiche artigianali costruite dai ribelli, specificando che le hanno usate contro i soldati siriani. Non riuscivo a credere ai miei occhi anche se poi, ricordando l'attaco di Goutha, si è ben guardata dall'accusare i ribelli di altri attacchi chimici. Che anche i media si stiano piano piano rassegnando alla liberazione di Aleppo?

    RispondiElimina
  6. xAnonimo: si parla del diavolo e spuntano le corna. Poco fa sulla mia mail c'e' la solita' Avaaz che accusa I governi (ovviamente quelli occidental e loro alleati, non lo hanno neanche specificato, per meglio dire la "comunita' internazionale) di aver abbandonato Aleppo al suo destino di "diventare in cimitero" al contrario degli eroici "Elmetti bianchi" che tale combriccola propone addirittura per il premio Nobel della pace, d'altrta parte se lo hanno dato ad Obama sulla fiducia, fiducia che non ha tradito, non si capisce perche' non darlo agli "esportatori buoni di democrazia". Mi chiedo se in quell servizio della Goracci sulla liberazione della scuola ci fosse per caso uno dico solo uno di loro che aiutasse I rifugiati appena liberati e peraltro bisognosi di cure. Non e' una domanda provocatoria, ma credo di sapere gia' la risposta.

    RispondiElimina
  7. E non ti sbagli caro Alex, infatti non c'era nessuno che aiutava i rifugiati. E per non farsi mancare nulla subito dopo mandavano in onda un servizio sulla manifestazione di Medici senza Frontiere davanti a Montecitorio per denunciare l'immobilismo dei governi occidentali su Aleppo. Con tanto di intervista al responsabile italiano dell'ONG che dichiarava "in nessuna guerra erano morti così tanti bambini". Certo, perchè tutti quelli morti sotto le bombe a Belgrado, Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, etc...non esitono, non fanno notizia perchè stanno dalla "parte sbagliata della Storia"(Killary docet).

    Intanto Obama ci regala le sue ultime sparate prima di lasciare la Casa Bianca. Oggi ha dichiarato che Guantanamo, la "vergogna nazionale", va chiusa. Nessuno ha pensato di chiedergli come mai non lo ha fatto in 8 anni di mandato. Avrebbe potuto chiuderlo e restituire quel pezzo di terra al popolo cubano, se avesse veramente voluto dare un segnale forte di apertura.

    RispondiElimina