Questa storia sarà lunghetta, ma trattandosi di una svolta geopolitica e
sociale epocale in un’area cruciale del mondo e che sconvolgerà assetti e
opinioni consolidate….
Nel docufilm “Eritrea, una stella nella
notte dell’Africa”, nelle
presentazioni che ne ho fatto in giro in Italia e in Europa (ne esistono anche
le versioni inglese e francese) e negli articoli scritti sull’argomento, oltre
a raccontare il vissuto di questo piccolo ed eroico paese, per mio fortunato
caso così intimamente intrecciato al mio, ho insistito sul formidabile ruolo di
resistente antimperialista e anticolonialista assunto da quel popolo e dalla
sua dirigenza nei sessant’anni della sua lotta di liberazione e della sua
esistenza indipendente. Unico paese, sui
52 (o 53, se includiamo la repubblica Saharawi), ad aver rifiutato sia presenze
militari statunitensi, francesi o neocoloniali di qualunque natura, sia ricatti
condizionanti di organismi sovranazionali tipo FMI, BM o WTO. Avevo senz’altro
ragione. Ma ce l’ho ancora?
Nell’affrontare le campagne di diffamazione e menzogne
condotte dai media e governi della “comunità internazionale” a sostegno del
revanscismo colonialista euro-atlantico, tutte basate su ignoranza o/e malafede
e nelle quali si distingueva ancora una volta la mosca cocchiera del ritorno
coloniale in Africa, Alex Zanotelli, ho ovviamente fatto leva su realtà
conosciute, dati oggettivi, ma anche, non impropriamente credo, su una mia
quasi cinquantennale condivisione delle vicende eritree. Credo, dunque, di
esserne un testimone, oltreché indubbiamente appassionato, credibile.
Con la
guerriglia eritrea
Autunno 1977. Da un piccolo centro yemenita sul Mar
Rosso, Mokha, poco a Sud del grande porto di Hodeida, che oggi la coalizione
Saudi-UAE a madrinaggio franco-Usa sta cercando di occupare per togliere al
popolo yemenita massacrato l’ultima via di rifornimento, mi imbarcai con un
gruppo di donne eritree rifugiatesi in Yemen per sfuggire ai bombardamenti
etiopici e che ora rientravano al loro paese, Barasole, in Dancalia. Allora lo
Yemen, governato da un presidente illuminato, Ibrahim el Hamdi (poi fatto fuori
dai sauditi, anche lui), aveva accolto migliaia di profughi eritrei. Attraversato
nel nero della notte lo stretto braccio di mare, dribblando motovedette e
pattugliatori etiopici, arrivammo a Barasole, un villaggio di maestose e antiche
capanne di legni intrecciati che viveva di capre, pesca e resistenza
all’invasore dalla vicina Assab, ancora non liberata. Qualcuno aveva seguito le
nostre mosse e, poco dopo la festosa cerimonia di accoglienza dei profughi e
degli ospiti, Phantom del colonello Mengistu, dittatore “rosso” dell’Etiopia,
rasero al suolo quasi tutto: capanne, capre, barche. Con le donne ci salvammo
scampando nelle grotte laviche alle spalle del villaggio.
Dopo Franco Prattico, collega che aveva fatto una capatina
in Eritrea negli anni ’60, prima fase di una guerra contro l’annessione
compiuta dall’imperatore Haile Selassiè, fiduciario degli angloamericani, nel
1971 ero stato l’unico, e per molto tempo l’ultimo, giornalista italiano a
visitare e partecipare all’impari lotta di un popolo di 4 milioni contro uno di
100.
Accompagnati, protetti, nutriti da un gruppo di
guerriglieri del FLE (Fronte di Liberazione Eritreo, non ancora scissosi con la
nascita del FPLE), per 1000 km tra andata e ritorno (a piedi) da Kassala, al
confine con il Sudan, attraverso Tesseney, Barentu, Agordat, Keren, sfidammo le bombe e le pattuglie etiopiche fino alle colline sopra
Asmara.
Dopo la spedizione in Dancalia del 1977, un anno dopo
tornai nelle zone ormai liberate del bassopiano occidentale, per constatare
come il combattente con il Kalashnikov si fosse mutato in contadino con la
zappa, in insegnante con la penna, in medico nell’ambulatorio improvvisato, in
muratore della ricostruzione, in urbanista tra le macerie. La nascita di una
società libera, equa, emancipata, il recupero di valori propri e la marcia
verso nuovoeconsapevolezze. Tornai ancora, nel ’90, con una troupe della Rai,
sperando di poter documentare l’offensiva vittoriosa finale, la presa di Asmara
e Massaua, la definitiva liberazione compiuta nel 1991. Ma mi venne negato
l’ingresso. Troppo pericoloso, mi dissero.
Forse la ragione era un’altra. Negli anni precedenti,
la divisione tra le due organizzazioni, FLE e FPLE, fondata non tanto su
intransigenze ideologiche (in entrambi era presenta la componente marxista),
quanto su riferimenti internazionali e composizione confessionale
(musulmani e animisti del bassopiano,
FLE, cristiani nell’Altopiano, FPLP), aveva prodotto due sanguinose guerre
civili. Forse dovevo scontare i mie rapporti con il FLE, per quanto nati ai
tempi dell’unione, che poi mi avevano visto comunicatore e propagandista della
vicenda eritrea in Italia e fuori durante gli anni della guerra,
dell’indipendenza, della demonizzazione.
Ritorno
nell’Eritrea liberata e… satanizzata
Con Sandra Paganini, nella primavera di due anni fa,
realizzammo il documentario sopra ricordato. Girammo un paese in piena
evoluzione, attraversammo una società che ci dette l’impressione della serenità
e dell’impegno collettivo, con tanto di volontariato civile dei giovani (dai
media interpretato come servizio militare perenne), in piena effervescenza
culturale, artistica, cinematografica, letteraria, sanità e istruzione avanzate
e per tutti,con sacche di arretratezza infrastrutturale nelle comunicazioni e
nell’energia, ma con poli di sviluppo industriale di tutto rispetto e con
un’enorme sensibilità ecologica di chi presiede allo sviluppo. Tutto questo
tanto più meritevole alla luce delle feroci sanzioni imposte dai soliti Usa e
UE, per presunte violazioni di diritti umani, violazioni che andavano tradotte
essenzialmente in rifiuto alla subordinazione coloniale. E da valutare anche
tenendo conto della condizione di non pace-non guerra, che i padrini
dell’Etiopia imponevano alla piccola nazione multietnica e multiconfessionale
attraverso le ricorrenti incursioni militari del potente vicino, riluttante a
rassegnarsi a un accordo di pace, Algeri 2000, sancito dall’ONU e che assegnava
all’Eritrea le aree di confine disputate.
Nel percorrere l’Eritrea dai fantastici fondali del
Mar Rosso all’estremo est semidesertico di Barka, attraverso le città,
ottimamente conservate, dei grandi architetti razionalisti italiani, incontrando
costantemente un popolo ospitale, ciarliero, sorridente, pregno delle sue
diverse tradizioni e costumi, musiche, mercati, abitazioni, non si poteva non
stupire di fronte alla sua resilienza, pari solo all’incredibile sofferenza
subita dalla violenza coloniale. La violenza dell’apartheid italiana, con i
giovani assoldati a forza tra gli “ascari” per le nostre guerre di sterminio,
del tiranno etiopico Hailè Selassiè, al cui paese l’ONU aveva associato l’Eritrea
senza tener conto dell’univoca volontà popolare contraria, e poi del successore
gradito all’URSS, colonello Mengistu Haile Mariam, entrambi impegnati in un
genocidio cui, per sopravvivere, l’Eritrea ha dovuto opporre trent’anni di
lotta di Davide contro Golia. E i nostri media, i nostri politici, i nostri
missionari colonialisti alla Zanotelli osavano infliggere a questo popolo l’oltraggio
della diffamazione e delle menzogne imperiali! Ributtante.
Il presidente eritreo e il primo ministro etiope
Davide
e Golia: riconciliazione
Ora è successo quanto avrebbe potuto succedere cinque
lustri fa evitando, tra le tante distruzioni e tragedie, anche i 70mila morti
della guerra. Il nuovo primo ministro etiope, capo di uno dei più armati e
tormentati paesi dell’Africa, Abiy Ahmed, dopo aver proceduto a una
pacificazione interna del colosso del Corno, liberando prigionieri politici e
fermando la repressione nei confronti della maggioranza Oromo (la sua), ha
dichiarato di accettare il verdetto di Algeri e quindi di restituire
all’Eritrea l’area di Badme e altre, occupate al termine della guerra 1998-2000.
Subito dopo, ha ulteriormente fomentato la sorpresa di osservatori e governi in
tutto il mondo precipitandosi ad Asmara, capitale del paese nemico, osteggiato
e martirizzato dalla fine della colonizzazione italiana (1943) per lo
stupefacente abbraccio della riconciliazione. Più che altro, della fine delle
mire abissine sul piccolo, ma strategicamente cruciale, vicino.
Di colpo, sembra, che un dissidio feroce, senza
remore, si sia tramutato in pace, amicizia e, come hanno ripetuto quasi
ossessivamente ad Asmara i due presidenti, Abiy Ahmed e Isaias Afeworki: “amore”.
E, sembra, che la popolazione, accorsa in massa a festeggiare l’abbraccio nella
capitale e nelle piazze del paese, con i suoi padri, fratelli, madri, sorelle,
figli sacrificati per la libertà dall’aggressore,
abbia condiviso questi sentimenti e propositi (salvo qualche protesta anti-eritrea
nelle zone restituite). Ristabilite le relazioni diplomatiche, le
telecomunicazioni, progettati scambi e collaborazioni a tutti i livelli. Tutto
bene per l’Eritrea, che ha ricuperato il territorio sottratto, esce dall’incubo,
dalle pesanti incombenze economiche, del non pace-non guerra e, forse, sarà
riammessa, senza condizioni e senza sanzioni (l’ha detto il segretario ONU, pappagallo di Washington, Guterres)
nel concerto della “comunità internazionale”. Tutto bene per l’Etiopia che si
toglie dal fianco la spina di un modello politico, sociale, economico e ambientale
pericolosamente contagioso e, soprattutto, riacquista accesso al mare nei porti
di Massaua e Assab.
Tutto bene pere il mondo, nel punto più cruciale del
pianeta per i passaggi da Sud a Nord e da est a ovest? Qui la questione si fa
geopolitica e presenta risvolti che, non
si sa come, si inseriranno nel progetto strategico dell’Eritrea, come l’abbiamo
conosciuta: faro di indipendenza,
libertà, non allineamento, giustizia sociale. L’Etiopia, ora potente amica, è da
sempre guardiano nel Corno e nell’Africa degli interessi occidentali, ora
tornati virulentemente predatori e militaristi. Non vi sono per ora segni che
il governo Abiy Ahmed, pur sempre espressione di una coalizione in cui il
Fronte Popolare Rivoluzionario del Tigray, avverso all’indipendenza eritrea da
sempre, ha un peso determinante, voglia abbandonare questo ruolo che gli ha
permesso di diventare il paese più armato del continente e che continuano a
farlo incombere, con pressione enorme, sui vicini problematici per l’Occidente, Eritrea,
appunto, e Somalia. Ma anche Sudan e Egitto, di cui controlla le vitali acque
del Nilo. Vai a vedere se chiederà a Usa e Israele di sgomberare le proprie
numerose basi puntate contro ogni eventualità sgradita in Africa, Oceano
Indiano e Golfo. Quelle da cui droni e caccia Usa vanno sistematicamente a
bombardare i villaggi somali, col pretesto di colpire gli Shabaab, guerriglia della resistenza detta terrorismo. Vai a
vedere se porrà un freno ai predatori e devastatori del land-grabbing, sauditi o cinesi, o desertificatori di terre e acque,
come i digaioli di Impregilo.
Etiopia,
Saudia, EAU, amici del giaguaro
Se tutto questo sta per ora in grembo a Giove, di
certo ne è precipitata sullo stretto di Bab el Mandeb, sul Mar Rosso e sul
vicino Yemen, la base militare che Asmara ha permesso agli Emirati Arabi Uniti
(EAU) di costruire ad Assab, concedendogliela in affitto per molti anni e
ricavandone evidentemente un buon guiderdone per la sua economica asfissiata
dalle sanzioni. La cosa risale all’anno scorso. Ne avevamo chiesto ragione ai
diplomatici eritrei che avevano negato il fatto. Ma l’unanime informazione
della stampa e le fotografie satellitari confermano il desolante sviluppo. E ora, da quella base partono pure i voli e i
contingenti di Abu Dhabi (dio non voglia, di nuovi ascari eritrei), che ha già occupato
il Sud dello Yemen, per completare l’assassinio perpetrato dalla coalizione
franco-statunitense-saudita del disgraziato paese (niente magliette rosse per
questo genocidio?). Un paese poverissimo, ma strategico, da sempre sottoposto
alle sevizie saudite, che aveva sperato di sollevarsi da colonialismo,
dispotismo e sottosviluppo con la rivolta di popolo, nel 2011, contro regimi fantocci
impostigli dai nemici storici al pari di quanto succede in Somalia.
Altro pezzo di antimperialismo che se ne va?
Viene da pensare a Cuba del tardo
castrismo, battuta dai papi, che omaggia Obama “uomo sincero”, che si apre alle
sette evangeliche, che privatizza metà della sua economia, che fa sventolare
stelle e strisce sul Malecon. Dunque: riconciliazione e amicizia con l’Etiopia,
avamposto imperialista in Africa e protagonista di un modello economico dettato
dai precetti predatori del nuovo colonialismo. Accesso del potente vicino ai
porti eritrei, quelli dai quali l’Eritrea indipendente e non obbediente
ricavava un suo significativo ruolo strategico. Implicita collaborazione di
Asmara alla feroce distruzione del popolo yemenita che, ai tempi della lotta di
liberazione eritrea, ne aveva ospitato i profughi e le organizzazioni. Rapporti
sempre più stretti, a partire da aeroporti, porti e base concessi (e da Abu Dhabi
potenziati), con il satrapo del Golfo impegnato nella conquista imperialista di
uno Yemen genocidato e il cui potere finanziario condizionante parrebbe
irresistibile. E, sullo sfondo, un’Eritrea che, attraverso questi nuovi
rapporti, esce dall’ostracismo imperiale (e zanotelliano) ed entra in un
contesto di cui le colonne portanti sono Usa, UE, Israele e quei rigurgiti di
orrido totalitarismo familistico che sono i nababbi del Golfo.
Che ve ne pare? Primum vivere? A me viene da piangere. Solo ai palestinesi e agli
arabi avevo impegnato tanta parte del mio dentro e fuori quanto agli eritrei.
Il privato è geopolitico
E tornando all’intreccio tra quel paese
e la mia modestissima persona, ve ne racconto le ultime evoluzioni, prima per
me assolutamente sbalorditive, ma poi interpretate nel segno del
parallelismo con i grandi mutamenti sopra illustrati. Quando decisi, due anni
fa, di fare qualcosa per rettificare l’immagine che la stampa mercenaria, i
coltivatori dello sradicamento delle popolazioni africane e mediorientali
insistevano a dare dell’Eritrea, non incontrai proprio l’entusiasmo dell’ambasciatore
a Roma. Mi era stato anticipata la negazione di qualsiasi assistenza nel lavoro
e negli spostamenti in Eritrea, della
quale conoscevo le limitazioni ai movimenti degli stranieri. Arrivati, Sandra e
io, ad Asmara, le aspettative pessimistiche furono sbaragliate da una collaborazione
generosa, cordiale, intelligente, contatti e interviste con le massime autorità,
piena libertà di movimento e di contatti con la gente, gli intellettuali, i
contadini, le donne, gli operai. Ci accompagnò per l’arco delle tre settimane
di attraversamento di terre ed eventi Elias Amarè, un grande giornalista
eritreo, un pensatore e attivista rivoluzionario, imbevuto di teoria e pratica
marxista e africanista. Non avrebbe potuto andarci meglio. E, alla fine, ci
lasciammo con grandi, forti e sinceri abbracci e condivisioni, convinti di un’eterna
amicizia.
Confezionato il lungometraggio di 90
minuti “Eritrea, una stella nella notte
dell’Africa”, con l’aiuto del responsabile media della comunità eritrea
di Roma, Daniele Sillas, di madre eritrea e padre italiano, allestimmo una
serie di presentazioni di grande successo di pubblico tra Roma, Milano, Firenze.
Il Campidoglio ci accordò addirittura la sala della Protomoteca, richiesta alla
sindaca Raggi dalla senatrice 5 Stelle Bertorotta. Per l’annuale festa della
comunità romana, nella ricorrenza dell’indipendenza, era stata prevista una
grande esposizione delle centinaia di foto che avevo scattato nel corso delle
mie spedizioni nella guerriglia. Lavorammo anche a una versione inglese del
film (più tardi ne avrei fatta anche una francese). La distribuzione delle
copie Dvd in queste occasioni pubbliche ci avrebbe, almeno parzialmente,
risarcito del costo complessivo sostenuto da esclusivamente
nostre non cospicue tasche. Recupero necessarie, in assenza di qualsiasi altra
fonte di finanziamento, per continuare l’attività di videoinformazione altra.
Poi tutto cambiò. Niente mostra delle
foto. Pretesa dell’addetto stampa Daniel di gestire per conto suo il prodotto,
protetto da mio copyright, nei paesi anglofoni, rifiuto di pagare la confezione
inglese da lui ordinata al montaggio e, inconcepibile e oltraggioso, una serie
di accuse scritte in rete secondo le quali tutta la nostra operazione aveva carattere
mercantile e di lucro personale, per cui non se ne voleva più sapere. Lucro di
cui, nei 22 documentari realizzati tra Medioriente, Vietnam, Balcani, Latinoamerica,
Italia, non s’è mai visto neppure un centesimo. Alle ripetute richieste di spiegazione,
di rettifica, di smentita dell’assurdo comportamento, offensivo per noi, ma
disastroso per la continuità di un’informazione onesta sull’Eritrea, quindi
autolesionista, non ha mai risposto nessuno dei nostri interlocutori.
In un primo momento ho attribuito questo
tonfo nella scorrettezza al fatto che le mie foto dell’Eritrea, poi riprodotte
nel film, erano state scattate durante la mia frequentazione dei combattenti
del FLE (non del FPLE, che allora non esisteva) e che questo poteva aver suscitato
il gretto e antistorico risentimento della fazione vincente, appunto l’FPLE.
Poi m’è venuto in mente che, nel film, avevo denunciato la feroce aggressione
allo Yemen e che avevo ripetutamente chiesto agli eritrei, disturbando forse,
se fosse vera l’installazione militare degli Emirati ad Assab. Ho già detto che
nessuno mi ha mai risposto e spiegato niente. Neanche il compagno marxista.
Ora, alla luce degli eventi di Asmara e di Abu Dhabi, una spiegazione me la
posso dare da solo. Le mie foto, il nostro film, i miei discorsi e articoli non
sono più in linea con l’Eritrea nuova edizione. E a 84 anni, avendone dedicati
oltre la metà anche agli eritrei, opponendomi insieme a loro a pallottole,
bombe e maldicenze, quella spiegazione è dolorosa. Mi auguro che non lo sia
anche per il popolo amico eritreo.
Esistono rivoluzioni senza delitti, errori, orrori? Non c’è dubbio che tanti ne sono stati inflitti al Sud, ma altrettanti e peggio alla Vandea e ad altri vittime delle unificazioni nazionali. Ma senza quel processo, nei quali c’erano socialisti e patrioti sinceri come Pisacane e quelli delle varie repubbliche e vespri massacrati. Saremmo entrani nella modernità con i feudatari siculi e con Ferdinando II?
RispondiEliminaIl dato è che ora c’è l’Italia e mi pare inutile recriminare. Il meglio di questa nazione lo auspicava dai tempi di Dante. Tagliare le radici fa seccare gli alberi e le “sinistre”, seppellendo il Risorgimento, hanno creato un albero secco.
Fulvio
Ferdinando II viene però spesso presentato come un sovrano "progressista" PER l'epoca avendo promosso l'industria meccanica e tessile e costruito la prima ferrovia. Di certo non si sarebbe preso briga di unificare l'Italia, di qui la questione se il Sud sarebbe progredito di più senza il saccheggio violento di risorse economiche ed umane da parte dei Savoia. Con le migrazioni che si sono succedute nei decenni.
RispondiEliminaAspetto sempre l'invio di nuovi articoli..sono "pezzi" pregiati che val sempre la pena di leggere e commentare..anzi invito tutti quelli che frequentano questo prezioso blog ad approfondire ed allargare sempre più la discussione.. è un bene per tutti..ma stavolta..lo confesso..ci sono rimasto male..l Eritrea no..per favore.. anche questo popolo che anche attraverso o tuoi articoli ho imparato ad apprezzare, povero ma dignitoso,combattivo,mai domato,gettato tra le fauci cannibali dell'impero dominante..spero proprio che stavolta ti sbagli caro Fulvio..Andrea
RispondiEliminaAndrea Sintoni@
RispondiEliminaDifficile che mi sbagli dopo aver frequentato l'Eritrea dal 1971 a oggi. A parte l'utile pacificazione, seppure con un gendarme dell'Uccidente, inammissibile è l'intesa con i nababbi che squartano l'amico Yemen e la base loro concessa per l'eccidio.