Qui si parla di muri e fumi che si abbattono sui viventi.
Dei fumi (ILVA) ci occupiamo dopo in fondo, con un contributo, al solito
problematico e illuminante, di Mario Monforte, al quale precedono alcune mie
osservazioni. Partiamo dai muri, crollati.
Ondate d’odio
Scampati a malapena vivi, ma ancora abbastanza lucidi, in
grado di distinguere tra verità e fake news, realtà e finzione, tra odio e
lotta dei subalterni; scampati per un pelo alle ultime ondate di odio
rovesciateci addosso da certe commissioni parlamentari, a certi sradicatori di
popoli, certe ragazzine che incolpano dello sfascio del clima chiunque abbia
più di trent’anni, certi euroboia, certi dirittoumanisti che non vedono l’ora
di farci scannare con i russi e i cinesi e, soprattutto, scampati allo tsunami
di odio per i comunisti, recentemente carburato dagli eunuchi nell’harem
satrapesco dell’Europarlamento… Mi sono fatto prendere la mano. Riprendo.
Scampati vivi a questi e altri diluvi d’odio, come al
solito scrosciati con particolare dovizia dal giornale New Age-Deep State
del gruppo che, fin dal 1969, in odio ai russi si separò dalla casa madre
(PCI), nell’anniversario di quando tutto questo iniziò, Berlino, novembre 1989,
abbiamo celebrato, che dico, ricordato, anzi, deprecato, quella data e
quell’evento a San Lorenzo di Roma. Locale angusto per contenere quella gran
folla, ma allargato oltre ogni orizzonte da una donna sulla parete, con
un’enorme bandiera rossa e ulteriormente nobilitato da Vladimiro Giacchè. Laureato
in filosofia e prestigioso economista, alle miserabilia della vulgata
reazionaria di destra e “sinistra” sulla “riunificazione” tedesca, ha risposto
con una slavina di dati e analisi da sotterrare tutta intera la torma dei celebranti
dell’uccisione della DDR, Deutsche Demokratische Republik, del suo mandante
Usa, del suo sicario, Kohl, e del suo palo, Gorbaciov. I due libri che ci ha
illustrato la dicono tutta: il suo “Anschluss-Annessione” (Ed. Diarkos) e
“La Perestroika e la fine della DDR” (Ed. Mimesi) di Hans Modrow,
dirigente SED (Partito dell’Unità Socialista) e ultimo premier della DDR.
Di Vladimiro Giacchè su euro, Grecia, migranti e affini,
potete trovare una bellissima intervista nel mio docufilm “O la Troika o la
vita”, mentre una sua prefazione, che vale tutto il libro, mi è stata
regalata per il libro “Un Sessantotto lungo una vita”.
Colonizzati e spogliati dai fratelli
Se vi capita l’occasione di confrontarvi con coloro che
blaterano di una “caduta del muro” che avrebbe fatto esultare gli insqualliditi
cittadini della DDR, agonizzanti sotto il regime Stasi – un servizio di
sicurezza che sta a quelli occidentali come i vigili urbani del mio borgo
stanno ai Navy Seals e ai sistemi occidentali di controllo biopolitico -
e inaugurato l’era dell’uguaglianza tra tedeschi e di pace e libertà nel mondo,
prendete una balestra e sparategli questi dati.
Unificazione o annessione?
Al tempo del crollo di un muro che era stato eretto per
impedire che spie, provocatori, infiltrati stillassero veleni capitalisti e
imperialisti nella Germania Orientale (tipo come succede oggi più che mai in
193 pasi del mondo), l’85% dei tedeschi dell’Est affermava la volontà di
restare indipendente. Le riforme, non verso il modello di Bonn, ma per un
socialismo democratico, di grandi figure come Hans Modrow e Christa Wolf,
vantavano il sostegno della maggioranza
della popolazione. Non era difficile intravvedere cosa sarebbe successo nel
fervore di destre e sinistre già allora unite: una Germania socialista in tutte
le sue componenti sociali ed economiche, privata della sua visione e del suo
ruolo geopolitici, depredata dei beni che, essendo dello Stato, erano dei
cittadini. Così fu. E anche peggio.
Il muro cadde in testa non solo ai cittadini dell’Est, ma a
mezzo mondo. L’era di pace si tramutò, con Bush, Clinton, l’altro Bush, Obama,
in era di guerre e terrorismi, senza limiti di spazio e tempo, tutti della
stessa matrice. Il potenziale industriale, una specie di mega-IRI, fu svenduto,
saccheggiato, o spianato. I nostri Draghi, Andreatta, Prodi, Amato, Ciampi,
impararono la lezione e procedettero in maniera analoga nel segno speculativo,
stavolta, di George Soros, già allora messaggero degli dei di Wall Street. Ci
ha pensato un ente unilateralmente gestito da Bonn, la Treuhand Anstalt,
per fare la parte del rottweiler che spolpa l’osso, una roba a metà tra un
mini-FMI e la camorra di Cutolo. Suo compito realizzato fu di passare ai grossi
gruppi tedeschi quanto valeva e poteva far concorrenza e, il resto, a farabutti
dello stampo dei nostri furbetti del quarterino, però all’ennesima potenza.
I terreni su cui
sorgevano le fabbriche erano dello Stato, ma furono ceduti ai manager degli
stabilimenti che se li vendettero e al posto di una fabbrica di scarpe, con
mille operai, sorse magari un centro commerciale, o un hotel di lusso, con
quaranta addetti. Disoccupazione di
massa, emigrazione di massa. Cambio da marco a marco, dall’illusorio 1 a 1 dei
primi giorni, a 1 a 350. Un popolo cui i pochi marchi ovest iniziali avevano
bucato le tasche, lasciandole vuote per decenni.
L’Opera Magna di Gorbaciov
Sei mesi dopo il muro, la produzione industriale era
ridotta del 35%, dal 1989 al 1991 il PIL, ora misurato alla capitalista, si
ridusse del 45%. Ottenuto dal cancelliere Kohl un prestito di 100 milioni
all’URSS in sfacelo, Gorbaciov diede via libera all’ingresso della Germania
unita nella Nato. Di conseguenza, non si sognò di chiedere ciò che la Germania
doveva all’Unione Sovietica: 500 miliardi di riparazioni per i danni
dell’invasione. Giacchè si chiede se fosse semplicemente scemo, o altro. Noi
non abbiamo dubbi: tutto il seguito e la scomposta passione del “manifesto”, e
di altri tentacoli e foruncoli dello Stato guerrafondaio USA, per il demolitore
dell’URSS e del suo alleato dalla migliore riuscita, avvalorano “l’altro”.
A Berlino, giorni prima
Poche settimane prima della fine del muro, attraversai la
DDR con mio figlio Oliviero. Naturalmente ci fermammo in un albergo di Berlino
Est, sull’Alexanderplatz, con in fondo le solenni statue di Marx ed Engels,
addolcite dagli alberi che le ombreggiavano, da gente che ci si fotografava e
bambini che vi si arrampicavano. Era quanto restava, dopo la guerra, della
meravigliosa Berlino del barocco, del neoclassico, del guglielmino, in parte
ricostruiti. Piena di caldi locali e localini, frequentati da poeti, musicisti,
studenti, spumeggianti di discussioni. Niente boutique di stilisti, niente
“wellness”, quella roba che sostituisce il sano vivere. Fighettume zero. La
riunificazione travolse tutto questo, ci diede la modernità
urbanistico-architettonica che vedete nel confronto delle immagini.
E’ lecito passare dall’antico al nuovo. Ma senza rompere,
insultare. Qui siamo passati al kitsch e a una volgare pacchianeria da Disneyland,
alla paccottiglia urbanistica che scimmiotta una Times Square, mille volte più
vera, e insulta la storia di una città e della sua cittadinanza. Ne cancella
l’anima. Al generale degrado, alla diseducazione urbanistica, al verticalismo
da parvenu ha dato una mano anche Renzo Piano. C’è da stupirsi se, oggi, nella
ex-DDR avanzano i movimenti politici che maggiormente ce l’hanno con questa
Germania? Costruita sul più spietato colonialismo inflitto a una parte della propria
popolazione. Quella fatta prima a pezzi dai bombardamenti di Churchill e
Roosevelt, poi privata di un terzo dalla Polonia e infine ridotta in ginocchio
dagli sprezzanti “fratelli” democratici all’ovest.
Un crollo che ha liberato i cavalieri
dell’Apocalisse
Ho parlato di dati, quelli inconfutabili fornitici e, in
parte, rivelatici, da Vladimiro Giacchè. Ne aggiungo uno, neanche tanto mio,
poiché semplicemente lapalissiano. Fatto cadere il muro, a forza di trucchi,
bugie, promesse, illusioni, tradimenti, corruzione, quello che è caduto è anche
un muro infinitamente più alto, lungo, robusto, che nel cuore e nella mente di
gran parte dell’umanità, la difendeva dalla retrocessione a tempi, scintillanti
per pochi, bui per molti, da cui il lavoro, l’intelligenza, il coraggio e poi
il sangue di milioni di uomini e donne, l’avevano riscattata. E questo a
prescindere dalla qualità che possa aver avuto, o non avuto, l’URSS di Stalin o
Brezhnev.
Sopra le macerie di quel muro, e di quest’altro muro nostro,
sono passati i quattro cavalieri dell’apocalisse, quelli dell’odio ontologico
che danno dell’odiatore a chi resiste: capitalismo, colonialismo, imperialismo,
scienza e tecnologia anti-vita, le armate della controrivoluzione. L’Europa, a
tirannia euro-carolingia, fondata sul totalitarismo sorveglianza-punizione,
punta a ricuperare i suoi fasti colonial-stragisti e, a forza di odii e
discriminazioni per chi non si sottopone al pensiero unico politicamente
corretto, consegna all’Africa depredata il Sudeuropa da svuotare di sé. Oggi
costoro, danzando sulle rovine della parte migliore della Germania,
festeggiano. Festeggiano anche molti berlinesi qualunque. Chissà se sanno cosa
festeggiano.
ILVA, quod non
fecerunt Sacra Corona Unita…
Alcune mie osservazioni molto rozze sull’Ilva, qualche
ricordo e poi estratti dall’analisi più approfondita di Monforte, anche più
realistica – nella fase attuale - dell’idea mia che, però, ritengo irrinunciabile
sul piano morale, sanitario, urbanistico, civile, e in vista di un futuro che
le innovazioni buone ci prospettano diverso.
Vivi a Tamburi e poi muori
Nel documentario “L’Italia al tempo della peste” racconto
Taranto al tempo dell’Ilva, gli incontri, le vittime, i combattenti, i
criminali, gli indifferenti. Madri, padri, bambini, medici, militanti,
Alessandro Marescotti, l’attivista e scienziato di Peacelink che, più di ogni
altro, con passione e competenza, da decenni scrive, parla, documenta,
denuncia, grida. Pochi lo ascoltano. Nessuno di coloro che hanno preso le
decisioni. Semmai i giudici che ce l’hanno messa tutta a bloccare la strage,
potere indipendente dello Stato, sabotato dall’altro potere. Marescotti mi ha
accompagnato per Tamburi, il quartiere dove le strade sono frequentate solo da
polvere nera, residui di metalli pesanti, ossidi. Dove a lottare contro le
polveri di carbone ci sono solo i murales. Mi ha indicato i quattro o cinque
pezzetti di prato, tossici, recintati perché i bambini non si azzardino a
giocarci a pallone. Non si gioca per le strade di Tamburi. Si gioca poco per le
strade di tutta la città, visto che all’Ilva si aggiungono cementifici,
raffinerie, depositi di carburanti, le navi Usa.
Poi sono salito nelle case dove, lungo la tromba delle
scale, panni appesi ad asciugare provavano a ridurre al minimo l’anneramento.
Negli appartamenti le donne, tutte con qualche parente ammalato o morto di
cancro e altre patologie da Ilva, mi facevano strisciare il dito lungo le
pareti per ritirarlo nero. E non era neanche una di quelle giornate del vento
da nord o nord-ovest, che il nero te lo spara fin nelle viscere, quando le
scuole chiudono per far vivere un altro po’ i bambini. Donne che mi chiedevano,
mortificate, di non riprenderle perché, hai visto mai, qualcuno in fabbrica
potrebbe prendersela col marito a causa di qualche verità, qualche pianto. Poi,
a faccia voltata, ululavano.
Basta!
Rientrando, con alcuni attivisti dell’organizzazione
“Cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, quelli che da decenni chiedono la
chiusura della “più grande acciaieria d’Europa” (così qualcuno, a petto in
fuori, glorifica il killer), ho deciso che non la si può pensare che come loro.
Il mostro va ucciso, punto. L’hanno tenuto in vita i complici, da Vendola a
Renzi e a tutti i governi fino ad oggi, con scudi e Salva-Ilva di un cinismo
complice, pari a quello di chi impicca o crocifigge prigionieri siriani, o
bombarda matrimoni afghani, o stupra manifestanti a Santiago. Poi ci sono coloro
che pensano che senza l’industria pesante, senza acciaio, in crisi ovunque e
ovunque nemico dell’ambiente e dei viventi, non si va avanti, resta senza
lavoro una comunità. Forse hanno ragione oggi, con questo modello di sviluppo,
dell’1% straricco e del resto che si dibatte tra fame e veleni. Sicuramente non
domani, visto che si parla di riconversione ecologica. Perché alimentare i
forni col gas, anziché col carbone e la truffaldina e letale truffa che vuole
l’Italia hub del gas (purchè non russo), è come i pannicelli caldi che i
Cinquestelle applicano al bubbone PD.
Taranto ha pagato. Ora basta. Hanno pagato tutti i luoghi
sui quali, con virulento odio cristiano-capitalista per la bellezza e per chi l’aveva
coltivata e ne godeva, si è abbattuto il fuoco velenoso del drago, cancellando
civiltà antiche, vite di ogni specie, incanti prodotti in faticosi secoli dalla
Natura, da Trapani a Capo Passero in mare, da Siracusa ad Augusta, a
Cornigliano, fiore avvizzito della Riviera di Ponente, alle spalle di Venezia
che sulla faccia viene schiaffeggiata da Grandi Navi e Mose, in tutto lo Ionio
e l’Adriatico, vietato a Ulisse e ai suoi marinai. E, per sempre, a Omero, che
sarebbe davvero il male assoluto. Sono scomparsi gli ulivi, la civiltà che
alitava tra i suoi rami e i suoi uomini, si sono mangiati il mare e le coste. A
forza di industrie pesanti, le potenze si sono gonfiate come rane. Ora
scoppiano. Ma scoppiano su cimiteri zeppi di gente che è morta di lavoro sotto
quella pioggia di rane, o non ce l’ha fatta neanche ad arrivare al lavoro,
spesso neppure alla scuola. Anche per un solo bambino divorato dal mostro,
l’Ilva deve scomparire come tale. Non mi si dica che la settima potenza del
mondo non saprebbe sistemare dieci, quindici, ventimila lavoratori. Già solo a
riaggiustare la Puglia. E poi l’Italia.
Qualcuno ghignerà: “Bravo, la decrescita felice”… Non lo
so. Ma l’ILVA ha da morì. Questo sì.
Sull’affaire acciaieria di Taranto … di Mario Monforte
…..E allora? La promessa dei
“grillini” in campagna elettorale del ’18 era di chiudere, sic et
simpliciter, lo stabilimento, assumendo cosí la piú che comprensibile
rivolta contro inquinamento-malattie-decessi (e ricevendo il 47% dei consensi
in città). Però il “nodo” sopra delineato dell’occupazione e delle sorti per
Taranto in particolare, e dell’importanza dell’acciaieria per l’Italia in
generale, rimane (certo, lo stabilimento è fatto male e situato peggio fin
dall’inizio, etc.: tuttavia, c’è ed è lí). E le soluzioni “grillesche” come
l’“alternativa” dell’«allevamento di cozze pelose» e l’uso dello stabilimento
come «archeologia industriale» per turisti e per scalatori (delle ciminiere), se
si vuole essere comprensivi, non costituiscono molto piú che battute di
spirito - che adesso fanno anche poco ridere. Da parte sua, il governo
Conte-bis ha dimostrato, e dimostra, sempre sic et simpliciter - senza
stare qui a fare troppi discorsi, inutili, e “distinguo”, fuorvianti
-, e ancora se si vuole essere comprensivi, la sua incapacità, la sua
inettitudine, la sua dannosità.
Che si dovrebbe fare? Ma quanto andava
fatto da tempo: assumere a carico statale il risanamento ambientale (dello
stabilimento e dell’intera area) e statalizzare l’acciaieria, onde preservare
non soltanto le condizioni dei lavoratori e impiegati (diretti e indiretti)
nonché l’economia della città e dell’area, ma anche per mantenere, e anzi
supportare, la nostra produzione di acciaio. E questo dovrebbe apparire
piuttosto evidente. Solo che … solo che ciò significa sia andare contro il
liberalismo economico scatenato, e imperativo (per il nostro paese …) dell’Ue
(è quello che viene chiamato con il nomignolo storpiato, e riduttivo, di
«neoliberismo»), sia dover ricorrere almeno all’uso (keynesiano) della «spesa
in deficit» (per investimenti produttivi): ossia sostenere la “bestia
nera” dell’Ue, e scontrarsi con l’Ue - contrastando le immancabili interne
“voci” (stolte) ostili: “oddio! Interventismo pubblico! Sovranismo!”. Ma il governo
Conte-bis è la “centrale” di queste “voci”, ed è precisamente il “pupillo” e il
“commesso” dell’Ue …..
Quinto Orazio Flacco così descriveva la terra miracolosa di Taras
RispondiElimina«E se il destino avverso mi terrà lontano,
allora cercherò le dolci acque del Galeso
caro alle pecore avvolte nelle pelli,
e gli ubertosi campi che un dì furono di Falanto lo Spartano.
Quell'angolo di mondo più d'ogni altro m'allieta,
là dove i mieli a gara con quelli del monte Imetto fanno
e le olive quelle della virente Venafro eguagliano;
dove Giove primavere regala, lunghe, e tiepidi inverni,
e dove Aulone, caro pure a Bacco che tutto feconda,
il liquor d'uva dei vitigni di Falerno non invidia affatto.»
Oggi le donne si incatenano a pochi passi dal ponte Girevole, nel cuore di Taranto. Con cartelli e scritte che richiamano i dati su malattie e morti nella città, chiedendo la chiusura delle fonti inquinanti e degli impianti dell’acciaieria ex Ilva. “+ 54 per cento di incidenza di tumori in età da 0 a 14 anni, + 21 per cento di mortalità infantile oltre la media regionale, + 20 per cento eccesso di mortalità nel primo anno di vita”.
In quanto a Berlino hanno abbattuto un (relativamente piccolo) muro ma ne hanno costruito uno mille volte più grande tra l’1% dei ricchi e il restante 99% al loro servizio. Questo è il vero muro da abbattere.
Pier