lunedì 30 novembre 2020

Nagorno Karabakh – Iran: obiettivo Mosca --- ASSASSINIO FAKHRIZADEH, UN’ALTRA GUERRA? ---- Chi, come, perché

 



“Il Mossad è un’organizzazione criminale con la licenza” (Tamir Pardo, ex-capo del Mossad)

Attentato, com’è andata davvero

 

Tra le tante versioni che circolano, quello più attendibile in base a fonti non interessate è esemplificata nella mappa. Per certo non è credibile la fesseria di una mitragliatrice automatica, su un mezzo poi fatto saltare in aria. Operazione in grande stile, invece, con la partecipazione di 62 persone delle quali 12 in azione armata. 1) Il convoglio dello scienziato di tre vetture blindate entra nella rotonda da cui si arriva alla cittadina di Asbard. 2) Salta per aria un’autobomba che abbatte un traliccio, provoca un blackout nell’area e colpisce la vettura di coda. 3) Un’auto Hyundai Santa Fè con 4 passeggeri, quattro motociclette e due cecchini, è appostata al lato opposto. Da qui si apre il fuoco dopo l’esplosione che ha bloccato le macchine.4) Uno del commando trascina Fakhrizadeh dalla macchina e lo finisce sulla strada, dove, infatti, resta una larga pozza di sangue.

Perché il governo di Ahmed Rouhani parla di un’operazione assai meno complessa? Perché si tratta di occultare l’inefficienza dei servizi di sicurezza a protezione dello scienziato, denunciata anche dagli ambienti militari, e l’impressionante grado di infiltrazione di elementi nemici e di collaborazionismo interno. Una debolezza che contrassegna l’intero mandato dell’attuale presidente, espressione, dopo gli anni di Ahmadinejad e nonostante i tentativi di contrasto dei cosiddetti “radicali”, o “conservatori”, di quelli che in Occidente vengono magnificati come “”moderati”. Come spesso succede, la divisione di classe si traduce in divisione geopolitica: da una parte il popolo, antimperialista e per la sua sovranità, dall’altra l’élite, propensa alla consociazione nel segno del mercato senza confini.

Non c’è, oggi, terrorismo che non sia di Stato


I tempi del terrorismo anarchico sono passati da cent’anni. Oggi il terrorismo, in tutte le sue forme, è, accanto alle varie tecniche di frantumazione della coesione sociale, un’arma per ridurre l’umanità al dominio di pochissimi. A volte, colpisce chi viene definito cattivo e nemico. Altre, infierisce, con incredibile cinismo, sulla propria gente. “Propria”, per modo di dire. Difficile che tra i 3000 delle Torri abbia potuto esserci un Rockefeller, un Cheney, la sorella di Sharon. Ricordate, a certuni era stato detto di non andare al lavoro quel giorno… E,
si parva licet… s’è mai trovato nelle stragi nostrane, nere o mafiose, un banchiere, un ministro, un cardinale, uno con la villa a Portofino? E se qualche pezzo grosso c’è stato, tipo generale o magistrato, perlopiù si trattava di un socio che dava noia all’establishment.



In ogni caso, lo abbiamo imparato in Siria, Libia, Iraq, e ora di nuovo in Nagorno Karabakh, anche se non agisce in prima persona, ma utilizza contractors sotto varie bandiere, il terrorismo è sempre di Stato. E oggi le guerre le fa fare ai terroristi. Le sue centrali operative non si trovano mai lontane dalle capitali di Stati occidentali. Per quanto la loro propaganda, ricorrendo alla tecnica del bue e dell’asino, si affanni a farle comparire, puri ologrammi, in quelle di Stati orientali. Tipo “L’Iran è il massimo diffusore del terrorismo”.

Netaniahu: facciamolo fare a Trump



L’attacco turco-azero-israeliano, con innesco e contributo, precede, non casualmente, ma in una studiata strategia, l’iniziativa di mettere le cose in Medioriente, Eurasia e tutt’intorno alla Russia, davanti al fatto compiuto. Poi, la grottesca affermazione che agenti del Mossad avrebbero ucciso un capo di Al Qaida a Tehran, doveva collegare la loro creatura terrorista a quel paese, creando il presupposto diffamatorio per un’escalation.Sempre puntando al Caucaso, direzione Mosca, c’è infatti  da disintegrare lo scoglio persiano. Magari prima che Joe Biden si installi nella Casa Bianca e debba, lui, iniziare un’altra guerra, dopo quelle in atto, tutte lanciate dai suoi padrini di oggi.

Il presidente Trump aveva provato, anche con certi regali, tipo la capitale a Gerusalemme, ad attenuare le pressioni di Israele e della sua rappresentanza obamian-neocon perchè muovesse guerra all’Iran, ritirandosi dal trattato nucleare e moltiplicando le sanzioni. Contemporaneamente riduceva il proprio contingente in Siria e sospendeva l’attivazione delle bande jihadiste in Siria e Iraq, a suo tempo messe in campo da Obama e dagli alleati turchi e del Golfo. C’era anche l’Egitto, del fidato Fratello Musulmano Morsi, prima che, con Al Sisi, si schierasse con Damasco, addirittura con proprie truppe (il che contribuisce a spiegare la virulenza anti-egiziana, col pretesto Regeni, del “manifesto”, di tutta la stampa atlantico-sionista, di Roberto Fico e altri virgulti del Deep State).

Mancano meno di due mesi all’investitura di un presidente, minus habens quanto Bush Jr, cui si può far fare quel che si vuole. Ricattabile quanto l’altro e portato alla vittoria dalle più sporche elezioni mai viste negli USA che, pure, ne ha pratica storica, in casa e fuori. Far fare al predecessore il botto grosso che tolga di mezzo l’ultimo baluardo antimperialista nella regione tra Golfo Persico, Caucaso e Cina, è il piano emerso nell’incontro a tre, semisegreto ma fatto intendere, tra Pompeo, Netaniahu e Bin Salman in Arabia Saudita.  Piano da far partire con l’attentato al capo degli scienziati nucleari iraniani e comandante delle Guardie della Rivoluzione, Mohsen Fakhrizadeh.

Pompeo, l’infiltrato neocon alla corte del re

Se ne è compiaciuto Pompeo, meno Trump. Comprensibilmente così, se si pensa che il Segretario di Stato, da sempre un falco di guerra, è stato subìto da Trump, come altri ministri, per tenersi buoni gli avversari del governo profondo. Si ricordi il suo costante sabotaggio dei tentativi di dialogo nei confronti di Russia, Nordcorea, Libia, del disimpegno dall’Europa e altri nodi geopolitici. Una vera serpe in seno.



E’ dai tempi di Khomeini e, soprattutto da quelli del migliore presidente che la rivoluzione islamica abbia prodotto, il modernizzatore e coerentemente antimperialista Mahmud Ahmadinejad, che il paese più aggressivo del Medioriente, unico dotato di armi nucleari,  spasima per aggredire quello meno aggressivo e senza armamenti atomici. Laico, uomo non solo del popolo, di cui ha favorito il confronto con l’alta borghesia occidentalizzante (quella di Rouhani), grande amico di Hugo Chavez (se ne ricorda il pianto alla morte del “Comandante”), Ahmadinejad ha favorito il superamento di certi arcaismi del costume, la libertà delle espressioni culturali (il grande cinema iraniano), ha tenuto la barra dritta, pur sotto sanzioni, su una politica di sovranità nazionale, anche in campo nucleare. Impegnato nella difesa della Siria, del Libano, dell’Iraq, l’Iran non poteva non guadagnare una grande autorità politica e morale nella regione e, quindi, diventare la bestia nera di Israele.

Quello nucleare era il settore dello sviluppo iraniano indirizzato all’uso civile e medico e all’elettrificazione, che nemmeno l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), nei suoi momenti meno subalterni agli USA, con le sue libere ispezioni ai siti di ricerca nucleare, ha saputo denunciare come indirizzato alla bomba.

Il bue (nucleare) all’asino

Mentre accusava di dittatura islamica e di violazione dei diritti umani l’Iran, Netaniahu era l’amico che sterminava i palestinesi di Gaza, faceva saltare le case in Cisgiordania, sottraeva terre ai territori palestinesi e li cementava con insediamenti illegali; corrompeva l’Autorità Nazionale Palestinese con l’eterno collaborazionista Abu Abbas; proclamando “Israele Stato degli Ebrei”, escludeva dalla comunità il 20% della popolazione, gli arabi d’Israele. Accusava l’Iran di volersi fare la bomba atomica, mentre nei suoi arsenali deteneva da 200 a 400 ordigni nucleari e in mare ormeggiavano sommergibili atomici con armamenti nucleari, estratti dai sensi di colpa dei tedeschi

Rimaneva l’altra accusa di Netaniahu. Quella indimostrata e indimostrabile, per assenza di oggetto, di un Iran sponsor del terrorismo internazionale, fedelmente rispapagallata dai media con l’osso in bocca sotto al tavolo. Che vale quella a Saddam di albergare armi di distruzione di massa e di avere partecipato agli attentati dell’11 settembre, o l’altra ai russi di eliminare oppositori col veleno, o di aver invaso l’Ucraina. Il metodo del bue che dà del cornuto all’asino è, almeno da Pearl Harbor, pratica corrente del terrorismo di Stato. Che, nella sua stanca e grossolana ripetitività, risulterebbe ridicola, non fosse per gli schiamazzi ottundenti dei gazzettieri.

Terrorismo, mandanti e sicari MEK



Ho girato buona parte dell’Iran verso la fine del secondo mandato di Mahmud Ahmadinejad (2009-2013). Il suo Iran era cosa del tutto diversa da quello del prima e del dopo. A dispetto delle sanzioni, un paese in piedi, determinato, ospitale, tollerante, fiero nella resistenza. E soprattutto socialmente equo.

Non c’è città o borgo, da Tehran a Shiraz, da Isfahan e Persepoli e Mashhad, che non sia stato ferito nella vita e nei beni dal terrorismo sponsorizzato da Israele e Usa ed eseguito dai sicari dei Mujaheddin del Popolo (Mek). Abbiamo incontrato decine di famiglie a cui da attentati terroristici erano stati sottratti inermi e innocenti amici o parenti. Il MEK è una setta di fuorusciti che si dicono marxisti-islamisti, coltivata e armata da Washington, prima rifugiata in Iraq e da lì cacciata, poi a Parigi, tutelata da Sarkozy e, infine, dotata dai protettori statunitensi di una base in Albania. Da quel paese, confortevole ambiente per ogni tipo di criminalità, opera nell’ìmpunità. Di solito il loro era un terrorismo stragista che colpiva a casaccio, per seminare terrore e sfiducia. Gli assassinii mirati, più difficili e complessi, venivano con ogni probabilità eseguiti da coloro che li avevano massicciamente praticati contro palestinesi.

 Il generale e lo scienziato: la difesa e lo sviluppo

 



 
Mohsen Fakhrizadeh e Kassem Soleimani

Fakhrizadeh non è l ‘ultimo degli scienziati del cui assassinio si vanta a bassa voce il Mossad e che, in ogni caso, va fatto risalire a Israele e USA, sia che sia stato compiuto da propri agenti, o da sicari del MEK. Una provocazione sanguinosa del gangsterismo israeloamericano a spese di un personaggio di altissimo profilo, impegnato nello sviluppo di un paese isolato e sotto micidiali sanzioni. Segue quella contro il generale, Qassem Soleimani, assassinato da un drone statunitense a Baghdad. Qui si trattava di impedire che al governo di Tehran arrivasse un altro Ahmadinejad, come l’aria che tirava in Iran lasciava presagire, e di punire chi aveva sconfitto i mercenari dell’ISIS.

Prima del capo degli scienziati iraniani, erano stati uccisi in attentati, perlopiù con la tecnica delle raffiche da motocicletta, altre eccellenze della ricerca, come Masud Alimohammadi, Majid Shahariari, Darius Rezaeinejad, Mostafa Roshan.

In nessuno di questi casi, si trattava di colpire un programma che puntasse all’armamento atomico. L’obiettivo era piuttosto di colpire la vena giugulare dello sviluppo scientifico, tecnologico ed economico di un giovane, grande e militarmente forte paese, elemento centrale di un’intesa antimperialista mondiale, forte alleato di Cina e Russia, ostacolo alla globalizzazione neoliberista, all’accerchiamento della Russia e alla creazione del Nuovo Medioriente made in Israele, Turchia, Nato e USA.

L’obiettivo ultimo e come arrivarci: soft o hard? Cuba o Siria?

Cosa ci si ripromette da un’operazione terroristica così clamorosa? Di caricare sulle spalle di un presidente in uscita l’ottava di quelle guerre per la quale alla cosca di Bush e Obama non ci sono stati né il tempo, né l’occasione, né il favore degli alleati europei e dell’opinione pubblica statunitense e internazionale, dopo le sette condotte da loro e ultimamente addirittura affidate a terzi. Iniziare un’altra guerra? Meglio farla lanciare a Trump. Che se la veda lui con i pacifisti. Questo è sicuramente l’intento di Israele che, da sempre, persegue lo scontro diretto e conta, anche con i suoi delegati nell’establishment statunitense (intelligence, apparato militar-industriale), oggi in grande spolvero, di arrivarci sfruttando la transizione a Washington.



Biden, un autentico disabile mentale, non conta niente. Però dietro ha il partito democratico con le sue variegate componenti. Quella obamiana, quella dell’accordo nucleare del 2015, con cui Washington ottenne da Rouhani una specie di resa economico-industriale. In cambio, l’Iran sarebbe stato liberato delle sanzioni. Sanzioni feroci, arrivate addirittura a impedirgli di acquistare medicinali per i suoi malati oncologici. Obama aveva traccheggiato sulla guerra, ritenendo che sarebbe stata più efficace e meno costosa la tecnica, già collaudata con successo a Cuba, ma poi bloccata. L’approccio soft dell’infiltrazione, dell’addomesticamento, dell’illusione della convivenza, magari, nel caso di Cuba, agevolata dai flirt col papa. Con gli strumenti della manipolazione propagandistica e della promessa economica, che avrebbero favorito il consenso sociale e, dunque, l’indebolimento della resistenza.

A provocazione risposta, a risposta guerra?

Ali Khamenei al funerale


L’assassinio del padre dello sviluppo scientifico ed industriale iraniano parrebbe indicare che quelli che puntano allo scontro, che non pensano di aver tempo da perdere, stanno arrivando alla prova di forza. L’Iran è, più dell’ondivaga Russia, il vero contrappeso al Nuovo Medioriente a guida israelo-saudita, armata dagli USA. La sua è un’influenza, oltrechè politica, ideologica e morale e, dunque, di lungo e profondo periodo. Tornare alla diplomazia, ai trattati, all’apparente compromesso, potrebbe significare perdere il momento buono e, anche, fare, con gente come gli iraniani, un buco nell’acqua.

Chi non se lo può permettere è Netaniahu. Un Iran in fiamme svierebbe l’attenzione dai suoi processi e, forse, sventerebbe le condanne e l’uscita dal proscenio politico. Quello che gli occorrerebbe, per far funzionare la trappola, è una risposta iraniana di almeno pari impatto. Ali Khamenei, la vecchia guida suprema che, insieme alle Guardie della Rivoluzione, rappresenta la parte più viva del popolo iraniano, ha detto: “Calma. A tempo debito”.

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