sabato 30 dicembre 2023

COME SE NE ESCE?----- PER LO STATO SIONISTA NON C’E’ SCAMPO.

 


Maurizio Criscione di 9MQ intervista Fulvio Grimaldi

https://www.facebook.com/9MQ.cronaca.attualita/videos/331443953090545

 

In occasione di una bella iniziativa a Reggio Emilia, Circolo ARCI Fenulli, su Gaza e la Palestina, è stata discussa la vexata questio, la più “vexata” (lungamente dibattuta) di tutte: Come se ne esce? Come si esce da uno Stato colonialista, razzista, predatore e vessatore di un popolo, che conduce un genocidio da più di 80 anni, in forma strisciante che via via si acutizza, fino a puntare oggi alla “soluzione finale” della totale eliminazione.

Scartata l’ipotesi dei due Stati, uno grande e potente, l’altro debole, frammentato e privo di sovranità e agibilità, da sempre sabotata e ora ufficialmente affossata dal regime sionista, evidentemente irrealistica la convivenza in uno Stato unico di carnefice e vittima, la risposta che si imporrebbe è: non c’è via d’uscita. Così si è espresso a Reggio anche un esimio relatore.

Invece la via d’uscita c’è, l’unica realistica, l’unica possibile, l’unica giusta. E’ imposta da criteri geopolitici, economici e, soprattutto, demografici. Per lo Stato sionista non c’è futuro. Anche perché la Storia ci conferma come non ci sia colonialismo che non sia stato sconfitto.

In Israele e nei territori occupati e sequestrati ci sono 7, 45 milioni di ebrei, al 90% immigrati, a fronte di 7,53 milioni di palestinesi, compresi i cittadini arabi di Israele, che sono il 21% della sua popolazione. Gli ebrei sono già una minoranza tra il 46 e il 47% e il loro tasso di riproduzione è fortemente inferiore a quello palestinese. L’abominevole umiliazione dei civili maschi di Gaza, denudati, bendati, legati ed esibiti in ginocchio alle telecamere, porta il segno di questa debolezza israeliana. Disseminati in campi profughi tra Libano, Giordania, Iraq, Siria, Egitto, altri 5 milioni di palestinesi sono decisi, non meno di quando furono espulsi, a esercitare il diritto al ritorno, sancito dall’ONU.

Aggiungiamo che Israele, con i suoi 7.450.000 abitanti ebrei, è circondata, volendo assediata, da 450 milioni di arabi che, grazie alla sapienza politica della Resistenza e all’immenso sacrificio del popolo palestinese di Gaza, hanno preso in misura decisiva coscienza del carcinoma colonialista. Su quei 450 milioni è problematico esercitare il ricatto, o eventualmente la rappresaglia, della bomba atomica israeliana. Ne verrebbe contaminata a morte la stessa Israele.

Il rapporto di forza numerico volge ulteriormente al peggio per Israele alla luce del costante e accresciuto esodo dei suoi giovani più formati, soprattutto verso Canada, Australia e Regno Unito. Poco meno di un milione si sono trasferiti negli Stati Uniti, 20.000 in Germania nel primo ventennio di questo secolo. 470.000 israeliani hanno abbandonato il paese dopo il 7 ottobre e l’operazione “Alluvione di Al Aqsa”. Le spinte sono l’insufficiente disponibilità di occupazione ad alto livello, la perenne insicurezza, il disgusto, ora accentuato, per quello che l’esercito israeliano è disposto a fare, con conseguente desiderio di sottrarsi alla leva e al servizio di riserva. E di evitarne i possibili esiti: al 28 dicembre, erano oltre 500 i caduti israeliani (ammessi dal molto reticente governo). E gli 80mila evacuati dalla zona nord di Israele a causa del conflitto con Hezbollah, cosa costeranno? Quanto resisteranno negli alberghi, o in altre soluzioni d’emergenza, prima di decidere di emigrare? Non resta, probabile, possibile, necessaria, che la via d’uscita, non vista dal mio amico relatore a Reggio Emilia.

la seconda Intifada, 2000-2005, quella guidata dal sei volte ergastolano Marwan Barghouti, tuttora in cima alle preferenze nel caso di quelle elezioni nei territori occupati che il collaborazionista Abu Mazen nega dal 2006 (quando le vinse Hamas). Provocò, quell’insurrezione di massa, la prima grande crisi di Israele da quella della guerra del 2003, quasi persa. Una crisi economica e sociale, determinata dalla diffusa insicurezza, oscurò l’orizzonte della Grande Israele. Si invertì il flusso dell’immigrazione, gli arrivi cessarono del tutto e si erano fatte massicce le partenze. Il turismo, importante voce del PIL, era svanito. Proprio come in questi mesi. Gli investimenti esteri si erano ridotti al lumicino. Aggiungiamo la lacerazione senza precedenti all’interno della società ebraica, dovuta sia al progetto autocratico, con la guerra alla magistratura, di un esecutivo corrotto, sia al cinismo mostruoso dell’abbandono degli ostaggi, abbandono più ai propri bombardamenti che a Hamas

A questo crollo si era cercato rimedio con la sollecitazione all’insediamento, nei territori nominalmente assegnati da Oslo ai palestinesi, di coloni attirati da condizioni di estremo favore fiscale e disponibilità di territorio. Gli 800.000 insediati e armati, oggi impegnati a terrorizzare e devastare i centri abitati e le coltivazioni palestinesi, non hanno compensato la fuga dei residenti.

Oggi la situazione è enormemente peggiorata. Il blocco imposto dagli Houthi alle navi dirette ai porti israeliani, o a questo Stato in qualche modo collegate, il disagio causato all’economia mondiale, hanno determinato un’ulteriore vulnerabilità di Israele. Tra possibile guerra totale con il Libano, l’inefficienza totale e il caos registrati il 7 ottobre, con forze armate che sparano ai propri cittadini, le perdite e l’orrore di Gaza che destabilizzano psicologicamente la società, la consapevolezza che ogni concertazione con gli Stati arabi (gli Accordi di Abramo) è sfumata nel rogo innescato a Gaza e che, anzi, il voto all’ONU dimostra che Israele ha contro 153 paesi su 193, ogni regolamento dei conti favorevole a Israele sul lungo periodo si è tramutato in utopia. Tutto il disegno imperialista e neocolonialista del Medioriente è stato messo in discussione dall’intelligenza politica di Hamas.

Risulta definitivamente escluso da Israele, ma probabilmente da tutte le parti in causa, al di là di ipocriti auspici, l’opzione dei Due Stati diseguali. Appare reso impossibile, oltrechè dall’assoluta indisponibilità dello “Stato degli ebrei”, come sancito per legge nel 2018, dall’abisso scavato dai successivi regimi sionisti dell’apartheid, dell’odio, della violenza repressiva, lo Stato unico binazionale. Potrebbe, Israele, procrastinare la fine dello Stato sionista, deportando milioni di palestinesi nei paesi arabi, a partire dal Sinai egiziano. A me esponenti del vertice politico egiziano hanno assicurato che si tratterebbe di una linea rossa tale da innescare una guerra, in cui non è difficile calcolare quanti altri nemici di Israele, oltre allo Yemen degli Houthi, entrerebbero in campo. E dopo le debacle di Afghanistan e Ucraina, sarebbe disposto un impero in crisi a rischiare un’ulteriore, oneroso conflitto al quale si oppongono i quattro quinti del mondo?

L’isolamento globale, che mina la capacità di manovra di Israele e, altrettanto, quello di un impero in profondissima crisi economica, sociale e geopolitica, porteranno al ridimensionamento dell’entità sionista- Questo si verificherà sul piano delle complicità internazionali, come su quello del suo potenziale militare (senza i rifornimenti statunitensi, Israele è una tigre di carta), del resto strumentalmente sopravvalutato. Come dimostrano le due guerre al Libano perse e l’incapacità, in tre mesi, di neutralizzare una striscia di terra lunga 40 km e larga 10, per quanto decimata e spianata dai bombardamenti. Isolamento che avrà le conseguenze più incisive sul piano dei rapporti economici, degli scambi, degli investimenti con chi viene universalmente considerato uno Stato paria. La campagna BDS, Boicotta Disinvesti, Sanziona, dovrebbe raccogliere adesioni sempre più vaste.

I coloni, formazione violenta, di chiara natura fascistoide, dovranno tornare ai paesi d’origine. Li imiteranno tutti coloro che ritengono non si possa convivere con gli “animali palestinesi”. Sarà l’inizio della decolonizzazione. Resteranno a vivere assieme ai palestinesi gli ebrei perbene. Come succedeva prima dell’avvento del sionismo.




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