lunedì 23 settembre 2024

Israele, primo comandamento: odiare la verità PER DIR LE MIE VIRTU’ BASTA IL SILENZIO

 



Hanno assaltato, perquisito, razziato, devastato e chiuso la sede di Al Jazeera, una delle più prestigiose emittenti tv del mondo. Hanno bandito per 45 giorni la tv qatariota e ne hanno espulso i giornalisti. E’ successo sabato a Ramallah, Cisgiordania, secondo gli accordi di Oslo area sotto esclusivo controllo palestinese. Ma Abu Mazen, il quisling leader dell’ANP, dormiva.

Il 7 ottobre 2023, giorno in cui per impedire che Hamas, catturando coloni israeliani, ottenesse la liberazione dei 6.000 prigionieri palestinesi nelle sue carceri della tortura e della detenzione senza accusa, difesa, processo, lo scombicchierato esercito sionista aveva fatto alcune centinaia di vittime della sua stessa confessione. Per coprire la terribile cantonata e provare al mondo che ne erano stati colpevoli i palestinesi, ha poi ammazzato, a oggi, 41.000 donne, bambini e uomini a Gaza. Puntando con particolare fervore a chi di questi faceva il giornalista, a spanne oltre 170, senza contare i famigliari o passanti che vi si trovavano attorno e ne hanno condiviso la sorte.

Sempre a Gaza, tanto per dare un segnale, aveva polverizzato gli uffici di Al Jazeera e ne aveva assassinato i giornalisti e tecnici, estendendo l’operazione alla Cisgiordania, dove, col tiro di un cecchino IDF, ne aveva giustiziato l’ annosa corrispondente a tutti nota, Shireen Abu Akleh (prima che i video lo testimoniassero, l’”esercito più morale del mondo” ne aveva dato la colpa ai manifestanti palestinesi.

La strategia dello Stato più delinquente, dopo gli USA, di occultare quanto di brutto, di orrendo, va facendo da 80 anni a questa parte, era imposta dalla necessità vitale di mantenere nel mondo l’aura di perfezione morale, ammantata di vittimismo, che un’altra storia aveva conferito a tutt’altra gente. Sebbene questa strategia sia andata in frantumi grazie all’eroismo e al martirio di quei 170 e passa giornalisti ammazzati a Gaza, essa

viene ostinatamente e disperatamente perseguita. L’odio e la paura della verità prevalgono.

Nello Stato sionista ci sono stato tante volte, a partire del 1967, Guerra dei Sei Giorni. Visto che mi muovevo, necessariamente, con le loro colonne, mi ritenevano un embedded. Si accorsero, all’ufficio censura da cui la telescrivente inoltrava i miei dispacci a Roma, a Paese Sera e Vie Nuove, che tanto embedded non ero. Intervennero imponendo pesanti bande nere sulle parti di testo che non andavano bene. Ne venne una rissa tra me e un capitano addetto ai controlli, in seguito alla quale mi cacciarono dal paese e per alcuni anni restai persona non grata.

Avevo potuto percepire il lezzo di qualcosa che andava morendo, la libertà di stampa. Israele pioniere come sempre. Ancora non ammazzavano chi divergeva da menzogna o silenzio. Per alcuni anni restai persona non grata.

Altre volte, nel girare per Gerusalemme o Hebron, nell’incontrare i palestinesi nella zona a loro riservata da Oslo, ti sentivi addosso, incessantemente, i passi, gli occhi e le orecchie dei sorveglianti e sapevi che rischiavi, l’apprensione ti frenava penna e obiettivo, dovevi misurare i comportamenti. E ancora non ti sparavano.

Un passo avanti lo fecero nel Libano, quando, scampato alla fucileria della guerra detta civile, ma che era effettivamente tra patrioti antisionisti  anticolonialisti e proxy di Israele (falangisti maroniti), mi accorsi a Roma che le ore di riprese fatte mi erano state cancellate all’aeroporto di Beirut, aprendo ed esponendo al sole tutta la pellicola. Con ogni evidenza, opera degli stessi che poi avrebbero concepito i cercapersone esplosivi. L’aeroporto, come mi assicurarono poi gli amici di WAFA, l’agenzia di stampa palestinese, era notoriamente gestito da elementi fidati, istruiti dal Mossad.

Al tempo di “Piombo Fuso”, 2008-2009, egiziani e Hamas riuscirono a farmi entrare a Gaza. E’ stata la prova generale per la soluzione finale in corso. Una mattanza quasi solo di civili, mitraglia su cortei di gente con le bandiere bianche, ragazzi legati ai blindati in perlustrazione per fare da scudi umani, devastazione di tutto, case, acquedotti, fabbriche, depositi di viveri, campi coltivati, allevamenti, pesca, moschee, scuole, ospedali e loro personale. Averlo visto mi consente di misurare quanto sta accadendo oggi. Non ancora un genocidio, ma una messa in mora delle condizioni per vivere.

Il silenzio sui crimini sostanzialmente ha retto. Al mio “Araba Fenice il tuo nome è Gaza” non si sono aggiunte molte altre storie o immagini. Le cronache su “Piombo Fuso” sono poche e non esaurienti.

A Rafah, qualche mese fa, per una settimana, provai a entrare tra le case e le ossa frantumate di Gaza. Come tutti i colleghi, non ci riuscii. Nessun inviato che rappresentasse la stampa internazionale è mai riuscito a mettere piede, penna o obiettivo a Gaza. Il capolavoro di creatività sterminatrice realizzato dai sionisti a Gaza non deve essere visto, né documentato. Ne verrebbe fuori qualcosa che, rispetto alle scene da orrore e da ribrezzo che già ci hanno atterrito per merito del coraggio e del sacrificio di ragazzi gazawi dotati di cellulare, promette di annientare perfino quanto di servilismo e complicità ancora opera tra i media sicari e i poteri economici correligionari, a salvaguardia del silenzio e della distorsione.

Ci indigniamo di fronte alla quasi assoluta complicità, per manipolazione e, nel migliore dei casi, per astensione, dei nostri organi di stampa rispetto alla vicenda Assange. Abbiamo percepito alla sua liberazione, come una brezza fetida, un vasto sospiro di sollievo. Si percepiva un “ce lo siamo tolti dai piedi” e “dopotutto mica l’hanno sbattuto all’ergastolo”. Questi, ormai, non rischiano più neanche la più lieve tentazione di sputarsi in faccia guardandosi allo specchio.

Tutto questo, come il suo oscuro culto di morte, da Israele è portato ad altezze vertiginose. Ma non solo Israele, comunque avanguardia. E’ pratica corrente da quando hanno chiuso in pochi pugni stretti la quasi totalità dei media dell’Occidente Politico. Zelensky li ha tutti proibiti e in parte carcerati. Netaniahu replica. Da noi si censura sul metro di come i settori vincenti della Chiesa sistemavano gli eretici. Diffamando, silenziando. A bruciare, per ora, ci pensano solo gli israeliani.

A Belgrado sotto attacco NATO, nei primi giorni dei bombardamenti, 1999, siamo rimasti impolverati dalle macerie della TV di Stato (16 morti). A Baghdad, 2003, con la telecamera da un balcone sul Tigri, ho colto la disintegrazione del Centro delle Telecomunicazioni. A Beirut, nella fallita invasione del 2006, hanno raso al suolo il rione dove le sedi dei media si trovavano e da dove avrei dovuto trasmettere a “Liberazione”. A Tripoli, 2011, mi si è sbriciolato sotto gli occhi l’edificio in cui si concentravano tutte le comunicazioni del paese. Anche quelle di un esercito che non c’era.

Queste fonti di un’informazione che rischiava di demolire montagne di inganni e svelare oceani di crimini occultati, non dovevano funzionare. Non dovevano neppure esistere. La voce dell’altro non deve essere sentita. Le atrocità che gli si infliggono non devono essere raccontate. Tantomeno, nella società delle immagini, viste. La nostra ignoranza è la loro sopravvivenza. Lo sanno tanto bene che ora a New York, i vertici degli Stati, ONU, OMS, Banca Mondiale e FMI, tema “Patto per il Futuro”, faranno in modo che nel nuovo mondo, “sostenibile”, non vi siano parole e immagini sconvenienti. E neppure comportamenti. E neppure voti.

Israele si è portato avanti col lavoro. Come sempre.

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