mercoledì 20 maggio 2009

GUERRA, QUESTA SCONOSCIUTA




















Nessuno è più schiavo di coloro che falsamente pensano di essere liberi
(Johann Wolfgang von Goethe, 1749-1832)

Educare una persona significa renderla inadatta a essere uno schiavo
(Frederick Douglass, schiavo fuggitivo, abolizionista, giornalista, 1818-1895)

Giovedì 21 maggio, a Roma in Piazza Navona, dalle ore 11 alle ore 20.00 si svolge una giornata di mobilitazione contro la guerra, le basi militari, la Nato, le armi nucleari, lo scudo stellare, gli F35.
C’è da tirare un sospiro di sollievo grande come uno tsunami. Parole (e relativi concetti e relative battaglie) come “guerra”, “Nato”, “basi”, e di conseguenza la sovranità italiana concultata e cancellata in progressione geometrica dal 1945 ad oggi, complici proprio tutti gli attori politici della Repubblica, salvo gli “illuminati” della rivolta 1968-1977, sono svaporate dall’agenda della sedicente sinistra italiana. Insieme a esse si sono dissolte nei teneri effluvi della compatibilità (detta anche “connivenza”) termini come “imperialismo” e “internazionalismo”. E’ solo da qualche nicchia antagonista, benemerita assai, che si sprigionano ancora a volte questi Leitmotiv, che tutto comprendevano, di alcune generazioni in lotta contro quella che era giustamente percepita come la locomotiva della lotta di classe condotta dal capitalismo mondiale contro classi e popoli da subordinare (in proposito merita di essere consigliato l’opuscolo “Resistenza Antimperialista vs Nuovo Grande Medio Oriente”, pubblicato a Milano da Resistenze Metropolitane).

Tranne un fugace accenno nella lista della spesa elettorale del PRC, di guerre non c’è ombra nei programmi e nelle campagne per le europee dei criptodestri del PD, del loro sospensorio svendoliano di “Sinistra e libertà”, della lista unitaria con la falce e il martello. Questa è gente che ha votato con Prodi un 24% di spese militari in più, l’adesione allo scudo stellare, gli stragisti F35 di Novara, la creazione del narcostato Kosovo, il colonialismo ammazzapopoli in Iraq, Afghanistan, Libano. Questa è gente che non ha urlato di sdegno quando Prodi ha spappagallato, su ordine del macellaio Olmert, “Israele è Stato ebraico”, etnicamente pulito. Questa è gente che si è “rinnovata” con un funzionariato di reduci spiegazzati e mettendo a capo del Nord Est per le europee la pacifinta Lidia Menaguerra che ciabattava nel sangue dei bambini afghani blaterando di “riduzione del danno” (lo sconcio di presentare questa maleinvecchiata al fosforo bianco nella circoscrizione del Dal Molin!). La Nato di cui, attizzato dai suoi macelli in Jugoslavia, ci ha fatto ascari d’assalto il barbiere di Gallipoli con i baffetti, il carro bestiame da mattatoio agganciato alla locomotiva imperialista da un Berlinguer che diceva “mi sento più sicuro nella Nato”, Dead man walking Bertinotti che si fa lustrascarpe degli anfibi della Folgore in Libano, l’intero territorio nazionale butterato dal vaiolo Usa, anche nucleare, una classe politica essudata come percolato dalla discarica dei valori nazionali di indipendenza e autodeterminazione, ecco il paesaggio nel quale formicola il verminaio sociale italiano. E c’è qualcuno che si ostina a narcotizzarsi pensando di poter collocare in un simile territorio la riconquista di lavori stabili e salari adeguati, pensioni affidabili e istruzione per uomini liberi, media onesti e prevalenza della vita sul cemento, vittorie di Stato sulla criminalità organizzata (che è poi nient’altro che collisione/collusione della criminalità dei pizzini con la criminalità organizzata dei decreti e dei consigli d’amministrazione), riconoscimento e fratellanza per gli umani costretti a lasciare le loro terre dagli sfracelli e dalle rapine di quelle stesse mafie con la coppola o il maglioncino girocollo, addirittura un diverso rapporto di forze tra le classi.

Ogni tanto, a un pubblico che strabuzza gli occhi a sentir parlare di sovranità (l’ho imparata eminentemente giracchiando per il Sud del mondo, dove la sanno più lunga assai) racconto di quella famigliola che si dibatteva inutilmente nell’incendio della propria casa, visto che la società immobiliare aveva negato al capofabbricato le bombole antincendio e gli aveva invece riempito le tasche di fiammiferi. Hai voglia a manifestare contro le fiamme, se non interrompi prima il flusso dei fiammiferi e sottrai ai magazzini dell’immobiliarista gli estintori. Si chiama antimperialismo. In Venezuela, per dire, la rivoluzione bolivariana poco spazio di manovra avrebbe conquistato se non avesse tagliato le unghie alla piovra imperialista, cacciando a pedate i suoi tentacoli DEA, ALCA, spie, provocatori, istruttori militari, vampiri multinazionali, FMI, terroristi Cia-Mossad e spalloni di dollari per i proconsoli locali. In tutti questi paesi, messi neanche tanto peggio di noi in fatto di subordinazione al megapadrone, due aspirazioni vengono prima di ogni altra, come avevano priorità assoluta, rovesciando l’assunto di tanti partiti comunisti di obbedienza Yalta, anche tra i popoli della lotta al colonialismo della seconda metà del secolo scorso: l’istruzione e la sovranità. Conoscere per lottare contro l’imperialismo, lottare contro l’imperialismo per conoscere. E’ nella sconfitta dell’imperialismo che si aprono i varchi per la liberazione di classe. E’ l’imperialismo che garantisce ai suoi maestri di casa, da Mubaraq a Netaniahu, da Karzai a Al Maliki, da Prodi a Berlusconi, strumenti e metodi, cultura e armamentari comunicativi, per il dominio sulla marca. E se oggi, da Reagan a Obama, lo strumento per l’assoggettamento o l’annichilimento è la “guerra al terrorismo”, sifonata dagli autoattentati dell’11 settembre 2001, da noi i servizi segreti a conduzione Cia e Mossad hanno represso l’insurrezione di classe, ieri, con le operazioni da Piazza Fontana a Moro e, in questi giorni, con le sceneggiate del terrorismo islamico, le invenzioni dell’anarcoinsurrezionalismo, fino alle evocazioni di rigurgiti brigatisti dal parapiglia attorno al palco di Gianni Rinaldini a Torino. Un parapiglia mistificato in aggressione da parte dei sindacati di base cui energumeni Cgil volevano negare la parola, già accordata. Tutti d’accordo nella criminalizzazione dei contestatori, dalla Marcegaglia allo sputafuoco Calderoli, dall’ovvio caporale di riserva Bertinotti a un “manifesto” che per la Cgil nutre la malsana passione del signor Masoch.

Non sarà anche perché è in quegli ambiti sindacali che vivono ancora tracce di antagonismo vero, come tra gli studenti che, diversamente da quanto apprezza lo svendoliano “manifesto”, non si accontentano di clowneggiare altermondialisticamente con arieti di cartapesta attorno alle inaccettabili zone rosse del G8, nelle quali gli accademici dell’impero programmano l’ottundamento dei loro cervelli? C’è lì, infatti, un profumo di antimperialismo ormai dismesso e divenuto intollerabile a olfatti trinariciuti e che però aleggia da Atene a Parigi, da Torino a Madrid, da Gaza a Caracas, da Kabul a Mogadiscio. E sono ormai da anni solo quei portatori di lucidità strategiche non contaminate da pragmatismi riformisti che, Cobas in testa, insistono a incidere il grumo centrale della metastasi imperialista di dominio e di guerra.

Tutti, quindi, a Piazza Navona, contro la guerra, le basi, la Nato, l’imperialismo. E mi auguro di non trovarci quei sagrestani dei diritti umani che sono tornati a suonare le campane a stormo per la martire Aung San Suu Kyi. La signora, i cui apostoli hanno l’ufficio centrale all’ombra della Casa Bianca, come quelli del Darfur ce l’hanno lì e a Tel Aviv, ha violato il dispositivo dei suoi arresti domiciliari ospitando per due giorni e due notti un clandestino statunitense, arrivato nella villa a nuoto e di conseguenza è finita in carcere. Lo sapeva. Subito strilli e strepiti per l’offesa all’eroina dei diritti umani, perfino premio Nobel. Come se il Nobel fosse un certificato di santità: pensiamo a Kissinger, Peres, Begin, Sadat… Ce n’è di delinquenti tra i laureati dai dinamitardi di Stoccolma. Il “manifesto” ha sciolto le briglia a “Lettera 22”, un manipolo di corrispondenti più compatibili che moderati, implacabilmente antislamici, cui ha praticamente appaltato l’Asia. Prima ancora che il processo alla signora iniziasse, lo stigmatizzavano “a porte chiuse”. Li ha dovuto correggere nientemeno che il tg: il processo è aperto a chiunque, anche ai giornalisti esteri. Proviamo a essere maligni e a pensar male: sono imminenti le elezioni generali in Myanmar e per una nuova costituzione che trasferisce il potere dai militari ai civili. Nell’ipotesi che le votazioni dessero ragione all’attuale governo e non ai “democratici” da libero mercato e globalizzazione capitalista (è il programma di A.S.S.K.), quale marchingegno migliore che far violare a qualche provocatore le regole imposte alla signora, farla processare per questo, onde tornare a denunciarne la persecuzione e la vittoria elettorale che sarebbe stata sicura, ma viene negata dall’arresto? E’ un’ipotesi. Che però riceve un certo credito sia dagli stretti legami che il Myanmar intrattiene con la Cina, grande investitrice e acquirente del suo gas a dispetto delle multinazionali occidentali, come anche dal formidabile appoggio (solo politico?) dato da Washington a certe tribù secessioniste armate, proprio ai confini della Cina, cui si potrebbe dare il compito di riattivare l’industria degli stupefacenti stroncato dalla giunta militare? C’è puzza di Darfur, di Dalai Lama, grande sodale di Suu Kyi. Miasmi alimentati dalle immancabili flatulenze pannelliane e ora, in qualità nientemeno che di “inviato speciale dell’Unione Europea per Birmania/Myanmar”, da quel Fassino accreditatosi alla “comunità internazionale” (Washington) con la “Sinistra per Israele” e, più recentemente, con l’applauso ai respingimenti maroniani di un’umanità in eccesso. Non ci dica ora qualche misirizzi che facciamo il tifo per Myanmar o per la Cina. Nessuna simpatia per i governanti di Myanmar, ma anche, nella nostra ignoranza incartata negli stereotipi di una interessatissima propaganda, nessun giudizio apodittico. Stesso discorso per la Cina. Degli amici e della cause dei radicali, di Fassino e dell’imperialismo, comunque, non c’è da fidarsi. Mai. Come c’è da sentire puzza di bruciato quando su qualcosa che è caro ai padroni di ogni risma si forma un’unanimità generale, sinistra inclusa. Quasi sempre, forse sempre, si tratta di carro guidato dall’omino di burro verso il paese dei somari, con sopra, festanti, i grulli della sinistra. L’unanimità va a beneficio dei padroni, da Gesù al grande consorzio dei diritti umani. Ricordate le voci bianche della “sinistra” nel coro che, sulla tomba della Jugoslavia assassinata dalla Nato, celebrava “la primavera di Belgrado”?

Questa sinistra accondiscendente tracima di un eurocentrismo spocchioso, sciocco e ignorante. I suoi dogmi viaggiano su binari diversi,ma in parallelo con quelli del capitale. L’arroganza unita alla stupidità o alla scaltrezza (che sono entrambe nemiche dell’intelligere) genera mostri. Vedi Berlusconi, vedi D’Alema, vedi il Dead man walking in cachmere. Nel mondo chi si è liberato da padroni interni o coloniali lo ha fatto quasi sempre adottando paradigmi e percorsi diversi dai nostri. Anzi, coloro che laggiù insistevano ad applicare quelli nostri di solito finivano con il mettere bastoni tra le ruote alla liberazione, quando non arrivavano addirittura a puntellare dittatori come in Argentina, Bolivia, o nemici del proprio paese come, anche oggi, in Iraq e in Italia.

C’è da chiedersi con che faccia noi ce ne andiamo in giro, osceni nelle nostre brache calate, a insegnare e redarguire. La bambina Zenab, 13 anni, ma la maturità di chi ha guardato nel buco nero dell’universo e ha tenuto gli occhi aperti, l’ho conosciuta nella sua casa di Gaza, occupata, devastata e imbrattata di merda e ingiurie dai beccai israeliani che a Zenab hanno ucciso 29 parenti, padre, madre e fratelli compresi, Prima con le granate in casa, poi a mitragliate contro chi fuggiva con le bandiere bianche. Zenab, tra quattro mura crepate in un oceano di macerie, racconta tutto nel mio dvd “Araba Fenice, il tuo nome è Gaza” . Alla fine Zenab è esplosa in domande che erano atti d’accusa come scorrono nel sangue di ogni palestinese: “Ci hanno cacciati nel 1948 e ci hanno preso le nostre terre, hanno distrutto i nostri villaggi, hanno separato i figli dai genitori… e noi dovremmo dirgli grazie? Ci hanno fatto una guerra dopo l’altra, ci hanno comprati e venduti, ci hanno presentati al mondo come fossimo selvaggi e terroristi per isolarci da tutti… e noi dovremmo dirgli grazie? Ora su quel che rimane sono passati sopra come una tempesta di sabbia, cercando di seppellirci per sempre… e gli dovremmo dire grazie? Quando muore un bambino israeliano si commuove e protesta il mondo, da noi ne hanno ammazzato a centinaia e non si muove nessuno. E dovremmo dirgli grazie? Noi abbiamo un prigioniero, Shalit, loro ne tengono in carcere 11mila, anche bambini e donne. Uno contro 11mila! Ma noi non torturiamo Shalit. Noi siamo palestinesi, siamo umani".

C’è qualcuno ancora in questo paese che ponga domande simili in relazione alla Nato? Questa Nato del KOMBINAT eurostatunitense da braccio della morte che maramaldeggia sulla nostra politica e spadroneggia sul nostro territorio. Che ci mette alla mercè di criminali escatologici come lo sono tutti i presidenti scaturiti dalla bulimia delle élites statunitensi, l’illusionista per farlocconi Obama in testa. Questa Nato che ha mandato per il mondo nostri cittadini, marmorizzati dai neuroni agli ormoni, ad ammazzare innocenti e giusti a migliaia e a morire da fessi a decine, che corrompendo, sventrando, schiavizzando popolo dopo popolo nostro amico, ci ha tagliato il cordone ombelicale con il resto del genere umano. Questa Nato che della nostra casa ha fatto un postribolo di lenoni e zoccole. Questa Nato che si gonfia ogni giorno di più succhiando la nostra sanità, istruzione, natura, sicurezza. E il cielo – o piuttosto la reazione degli esseri umani - voglia che finisca come la rana che voleva farsi bue. Un mio amico, grande poeta cubano, Victor Hugo Lores Pares, direttore dell’entusiasmante Museo della Marcia del popolo combattente all’Avana, mi ha così definito la Nato: “ E’ la forca dell’umanità ”. E noi le dobbiamo dire grazie?

Sull’affondamento in mare o nel deserto dei fuggiaschi dai disastri seminati nel mondo dall’Occidente si è innescata una bella gara tra il ministro di polizia, il ministro dell’Offesa e qualche consanguineo del PD, per chi difende con maggiore ferocia le mura della fortezza imperiale e delle sue casamatte più esposte. Si tratta di competere per il voto alle europee. Ancora una volta il modello è Israele, dove il laburista Barak e i kadimisti Olmert e Livni si contendevano il primato di chi incitava con maggiore entusiasmo Tsahal allo sterminio dei palestinesi, di chi schiacciava con più cemento e coloni fascisti le terre e vite di coloro che hanno il torto di essere arrivati prima, ma di non essere ebrei. Tanto bene gli è andata che poi hanno vinto dei nazisti dichiarati, neanche più mimetizzati dalla farsa dei Due Stati. Da noi, più a destra dei due gaglioffi razzisti citati non c’è che Dart Fener e la Morte Nera.

Termino con una breve risposta a un gentile lettore (vedi commenti al post “Modello Israele”) che mi chiede alcune opinioni. Premettendo che non sono la Sibilla cumana, preciso che: 1) sulla vicenda Rinaldini ho già detto la modesta mia nel contesto qui sopra, ma ritengo che la versione dello Slai Cobas valga almeno gli schiamazzi dei compatibili. Io poi sono io che ha goduto come una lucertola per la cacciata di Lama dall’Università; 2) sulla vicenda Calabresi e sull’idea dell’opinionista da autoscontro Mughini secondo cui Adriano Sofri era “informato dei fatti”, non posso e non voglio esprimermi, se non per dire che questo Sofri, trombettiere di tutte le guerra, filosionista sparato e intellettuale da altalena, ha imbrattato la grande storia di Lotta Continua e, dunque, anche la mia e rappresenta il peggio del trasformismo italiota; 3) alla richiesta di chi voterò per l’onanistico parlamento di un’Europa natoizzata non ho ancora pronta la risposta. La croce su falce e martello potrebbe prolungare la vita al simbolo (che non sempre è stato alla propria altezza), ma fa anche il lifting a una serie di personaggi ammuffiti come abiti in naftalina. Ciao.

4 commenti:

  1. Ciao Fulvio, non sapevo niente della manifestazione di domani a Roma (evidentemente le fonti d'informazione alternativa che frequento non sono tanto alternative...) ma farò di tutto per esserci.
    Ho visto che non hai fatto menzione del PCL di Ferrando, che ne pensi di lui?

    Ciao e grazie per il tuo lavoro,
    David

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  2. Caro David,
    Mi pare che ne abbia fatto menzione.
    Quando nelle ultime righe parla di "falce e martello" non vedo a chi si possa alludere se non al PCL, visti i giudizi espressi in precedenza sugli altri, in questo ed in altri post, dall'ottimo Fulvio.
    Saluti.
    Karl.

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  3. “Araba Fenice, il tuo nome è Gaza” è il titolo dell’ultimo documentario di Fulvio Grimaldi, sulla recente invasione di Gaza da parte di Israele (è il sesto documentario che Grimaldi realizza sulla Palestina). Sullo stesso argomento Grimaldi ha anche scritto “Di resistenza si vince”, in uscita da Malatempora.




    Il documentario mostra le difficoltà imposte da Israele per riuscire ad arrivare a Gaza tramite l’unico valico praticabile, quello egiziano di Rafah. Solo un prolungato sit-in davanti ai cancelli chiusi, messo in atto dai (pochi) giornalisti internazionali, e dai (pochissimi) politici presenti, ha messo il governo egiziano in tale imbarazzo da obbligarlo finalmente a disobbedire al diktat israeliano, aprendo i cancelli alla stampa internazionale.

    Quello che Grimaldi ha trovato a Gaza in parte già lo conosciamo, e in parte lo si può immaginare. Ma l’autore del documentario è andato oltre la facile “iconografia” del corpo mutilato e del territorio martoriato, …

    … cercando la strada che lo porta direttamente al cuore della gente.

    Con quel prezioso tocco di umanità, umile e generoso insieme, che già aveva contraddistinto il suo “Americas Reaparecidas”, Grimaldi riesce a metterci in diretto contatto con i sentimenti degli abitanti di Gaza, senza mai scadere nel facile sentimentalismo. (L’unico “sentimentalismo” a cui Grimaldi non riesce a rinunciare, volendo essere onesti, e quello di “Bella Ciao”, il motivo che ogni tanto fa un nostalgico capolino dagli angoli più impensabili del racconto. Ma la sua ingerenza “politica” nel lavoro complessivo è nulla, e si può solo accoglierla con il dovuto rispetto verso chiunque abbia il coraggio di restare sempre fedele alle proprie idee, specialmente quando diventano meno popolari).

    Di fronte a questo documentario infatti si può solo affermare che se tutti coloro che amano fregiarsi del titolo di giornalista avessero un centesimo del coraggio e dell’integrità morale di Fulvio Grimaldi, il mondo non starebbe dove si trova oggi.

    Il lavoro di Grimaldi va anche interpretato come un omaggio a quei pochi giornalisti veri, che in Medio Oriente come altrove hanno perso la vita a causa del “fuoco amico”, che ultimamente si è dimostrato molto poco amico di chiunque si metta in cerca della verità.



    Chiudiamo riportando alcune frasi di Grimaldi, tratte dalla parte finale del documentario:

    Centinaia di bambini uccisi, il pianificato avvelenamento di tutto un popolo, il contemporaneo scatenarsi della violenza dei coloni in Cisgiordania, l’orribile muro del lager Cisgiordano, dichiarato illegale dalla Corte di Giustizia, la provocatoria espansione delle colonie, le inenarrabili vessazioni inflitte alla popolazione occupata con il furto dell’acqua, della terra, dei coltivi, la distruzione delle case e dei campi, gli oltre settecentomila posti di blocco, la frantumazione della continuità del residuo territorio palestinese, gli annunci di ulteriori pulizie etniche di Netanyahu e Libermann, lo scandalo del silenzio e della complicità di tanti governi e dei media, hanno determinato una svolta storica. L’olocausto si è spostato dall’Europa in Palestina.

    Grimaldi auspica poi una reazione, davvero indignata e finalmente efficace, da parte delle popolazioni dell’occidente, lasciando aperta la porta ad un futuro in cui i palestinesi – i sopravvissuti, se non altro - possano finalmente vivere liberamente in casa loro.

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    Massimo Mazzucco

    Il libro di Fulvio Grimaldi “Di resistenza si vince” sarà presentato a Roma da Granma/Malatempora, giovedì 28 maggio alle ore 19:00, in via dei Gelsi 111. Seguirà la proiezione del documentario “Araba Fenice, il tuo nome è Gaza”.

    Info e contatti: 338 – 5805710

    Il blog di Fulvio Grimaldi

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