venerdì 5 novembre 2010

DAI ROTOLI DELLA SIERRA MAESTRA: le due vite di Vladimir Pérez


O siamo capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell’intelligenza.
(Ernesto Che Guevara)

Con la rivoluzione diventiamo più noi stessi, non meno.
(George Orwell)

Cari compagni, questo non è il solito post. E' il tentativo di un racconto breve. Abbiate indulgenza per la lunghezza, ma converrete forse che l'argomento la richiede.


Vladimir (con gli occhiali) nella sua prima vita.

Maggio 2030. E’ stato un ritrovamento fortuito e fortunato che ha permesso di gettare luce sulla vicenda di un illustre cubano che, nel corso della sua esistenza, ha vissuto due vite del tutto contrapposte. La prima, certo non la migliore, era rimasta del tutto occultata, se non per vaghi e reticenti riferimenti di coloro che le sono sopravvissuti. Dell’altra, una vera catarsi, conosciamo invece imprese di cui il popolo cubano, protagonista della sua Seconda Rivoluzione anche per merito di uomini come Vladimir, non cesserà mai di essere memore e orgoglioso. Un coltivatore di caffè della Sierra Maestra, dalla quale partirono entrambe le rivoluzioni, quella di Fidel e del Che e quella che ci riscattò dopo gli anni bui del periodo detto “revisionista”, all’inseguimento del suo cane era penetrato in una grotta celata da folta vegetazione. Sotto fitto fogliame, intrecci rampicanti, in una crepa della roccia aveva visto lumeggiare del metallo. Scoprì che si trattava del contenitore di una vecchia maschera antigas, di quelle cilindriche in uso fin dalla seconda guerra mondiale. Eliminati strati di ruggine, l’interno rivelò un fascio di carte strettamente arrotolate che, in virtù di tale previdente sistemazione, avevano conservato l’integrità delle fibre e degli scritti che vi erano stati incisi. Si presume dalla grafìa che le carte siano state compilate da un'unica mano, quella che ha firmato il documento qui di seguito con Fidel Vladimir Pérez Casal.

Il rotolo, che da allora è stato chiamato “Della Sierra Maestra” ed è custodito nel Museo della Seconda Rivoluzione, oggi, a 15 anni dal ritrovamento, è stato finalmente reso pubblico. Intanto, presupponendo che anche i resti dell’eroe si possano trovare nel luogo della scoperta del Rotolo, ne continuano le ricerche nei recessi più profondi della caverna. Dei diversi cartilli rinvenuti nel cilindro metallico, secondo fonti attendibili attinenti alla lotta per la Seconda Rivoluzione Cubana, le autorità ne hanno per ora reso noto solo uno, l’unico peraltro che si riferisca alla prima vita di Vladimir e che ne è una specie di confessione indirizzata a un ignoto compagno di allora. Pare che tutti gli altri documenti parlino degli eventi successivi al riscatto umano e politico compiuto dall’autore, in particolare degli eventi che accompagnarono la nascita della Seconda Rivoluzione e la relativa lotta armata nelle Sierra Maestra. Ecco il documento reso noto.

Sierra Maestra, 12 maggio 2015.
Ho l’impressione che la ferita al costato inflittami da una pallottola dell’esercito traditore abbia aperto una foro dal quale sento che mi sta sfuggendo la vita. Non ho voluto pesare sui compagni impegnati nell’avanzata verso Guantanamo e mi sono ritirato in questa grotta, in attesa di qualche infermiere ritardatario. Può darsi che mi si ritrovi qui ancora in vita e allora le carte che sto scrivendo me le porterò appresso e pregherò chi mi sarà vicino nell’ultima ora di renderle pubbliche dopo la mia morte. Tre di questi scritti sono indirizzati ai miei famigliari, ai comandanti della nostra armata di liberazione, a un’analisi dei compiti che dovrà intraprendere questa nostra Seconda Rivoluzione. Uno lo dedico a un compagno che ho incontrato cinque anni fa, a Milano, nel Congresso dei nostri amici di Italia-Cuba, quando ero consigliere politico dell’ambasciata del mio paese a Roma. Sarò tedioso per molti, ma sento come imprescindibile obbligo morale, prima ancora che politico, riconoscere il mio errore e fare ammenda per l’offesa arrecata a un compagno italiano di cui avrei dovuto conoscere le qualità prima di ingiuriarlo davanti a un folto e sconcertato pubblico. Potrebbe sembrare una bega personale, tale la definì con molta ignavia il presidente dell’Associazione di Amicizia Italia-Cuba, alla cui onestà ed etica ben altro intervento a correzione della mia protervia e ignoranza e a difesa del compagno sarebbe stata richiesta. Ma quella vicenda tra due persone ne contiene un’altra che la trascende: la mia aggressione rappresentava simbolicamente lo scontro storico tra due posizioni: quella di una grande rivoluzione che, impermeabile ad interrogativi, dubbi, correzioni, andava avvolgendosi in una crisi di identità e di prospettiva e l’altra che insisteva a difendere i principi basilari della scelta socialista, anche attraverso dure critiche, comunque animate da spirito rivoluzionario ed antimperialista.
Il Congresso Nazionale dell’Associazione di Amicizia Italia-Cuba
Il Congresso di Italia-Cuba, di un’associazione antica e gloriosa, ma allora afflitta da pesanti sintomi di involuzione, staticità, appiattimento sui comunicati ufficiali di un governo in piena transizione verso nuovi approdi sociali e politici, volgeva al termine. Avevamo ascoltato, nel corso dei lavori assembleari, solo pochi interventi di delegati che si ponessero l’obiettivo di proposte concrete di rinnovamento e di riesame delle valutazioni
da dare ai contradditori processi in atto nella mia isola. Ce n’erano già state nei congressi precedenti, così mi fu riferito, ma non avevano suscitato reazioni decisive in organi dirigenti che, un po’ come a Cuba, perpetuavano forme e contenuti in un perenne sforzo di autoconservazione. Un uragano, invece, erano le voci che si limitavano a sciorinare gli immutabili elogi alla nostra rivoluzione, al socialismo in marcia, alla perfezione del nostro processo, per quanto alquanto diverso da quello originario, all’hasta la victoria siempre.

Devo ammettere che, nel mio ruolo di neo nominato consigliere diplomatico, con scarsissima conoscenza delle personalità, dinamiche e posizioni interne all’associazione, ma burocraticamente forte della mia funzione di rappresentante della, diciamo così, casa madre, furono questi inni sciolti ai governanti del mio paese a lusingarmi. Mi confortavano nel riposante assunto che, vista tanta appassionata apologia, tutto lì andava per il meglio e che solo menti malevole e magari assoldate dall’imperialismo potevano mettere in dubbio il luminoso avanzare del nostro popolo verso giustizia e prosperità. Irritanti, nella mia prosopopea da piccolo burocrate ignaro, mi suonavano i pur rari riferimenti a presunti contrasti apertisi nel nostro corpo sociale e anche nella nostra dirigenza in seguito al colpo di barra dato al paese, dopo tanti decenni di coerenza ideologica, dal nuovo presidente Raul Castro e dal suo entourage di anziani militari che avevano sostituito in gran parte i quadri della seconda e terza generazione rivoluzionaria cresciuta all’ombra del comandante Fidel. Quanto ai ripetuti inviti di molti compagni acchè l’associazione allargasse il suo raggio d’azione all’America Latina, visti i grandi processi di integrazione politica, ideologica, sociale, in atto nel continente, il ruolo importante che vi svolgeva Cuba, l’offensiva imperialista contro l’insieme dei paesi progressisti riuniti nell’Alleanza Bolivariana dei Popoli (ALBA) che stava letteralmente accerchiando la nostra isola, li ritenevo poco pertinenti. Condividevo la posizione del presidente Marinoni: “Siamo nati come associazione di solidarietà con Cuba e tale resteremo”.

Ci misi qualche tempo, stimolato anche dalla tardive riflessioni che mi suscitò lo scontro con Fulvio Grimaldi, indefesso sostenitore, anche con opere giornalistiche e documentaristiche diffuse in Italia all’estero, a rendermi conto che la sopravvivenza del mio paese era meglio garantita da chi avesse l’esatta percezione del quadro geopolitico nel quale Cuba era andata inserendosi. L’esclusivo concentrarsi di ogni attività, comunicazione e rapporto di Italia-Cuba sulla sola Cuba, non permetteva di vedere questo quadro d’insieme e, quindi, di incidere con maggiore efficacia su un’opinione pubblica che di Cuba da decenni sentiva, sempre uguale, tutto e il contrario di tutto, nel bene delle sue voci e nel male di quelle del nemico, e che si stava invece appassionando, specie nelle sue nuove generazioni, tanto assenti nel gerontocomio che era diventata l’associazione, ai tumultuosi processi di emancipazione latinoamericani. Devo ammettere che qualche interesse non proprio limpido poteva annusarsi alla base di questa monotematicità, sia da parte italiana, visti i riconoscimenti e le franchigie riservati dall’Avana ai suoi sostenitori, sia a Cuba, dove l’esclusiva dei rapporti con l’associazione garantiva la totale e lealistica concentrazione di ogni suo impegno a favore dell’unico soggetto cubano. Senza sbandamenti e sprechi di energie verso, che so, il Venezuela di Hugo Chavez, la Bolivia di Evo Morales, il Nicaragua di Manuel Ortega, l’Ecuador di Rafael Correa, tanti altri. Alla luce dell’accoglienza data da questi paesi ai rifugiati cubani scampati alla controrivoluzione del 2012, ho potuto constatare l’illogica e antistorica fallacia di tali pretese isolazioniste.

applausi

Il fattaccio
Il compagno Fulvio, nel corso dell’ultima cena del Congresso, si avvicinò al mio tavolo dove ero circondato da una decina di compagni, alcuni dei quali mi allietavano di una benevolenza come sempre al limite dei salamelecchi. Intendeva offrirmi in regalo due dei suoi documentari sull’America Latina: “Il ritorno del Condor” su golpe e resistenza in Honduras e “L’asse del bene”, sui movimenti e governi progressisti dell’America Latina, da Cuba al Venezuela, dalla Bolivia all’Ecuador, al Paraguay, al Nicaragua. Purtroppo seppi solo più tardi che nella gran parte dei suoi lavori audiovisivi sull’America Latina, Cuba figurava al primo posto ed era descritta come il faro sociale ed internazionalista del continente. Nelle giornate precedenti avevo in tutti i modi evitato di incontrare e addirittura salutare questo compagno, che pure appariva assai popolare in settori dell’associazione. Anzi, il mio atteggiamento intendeva esprimere una rancorosa ostilità che Fulvio probabilmente sperava di dissipare, o quanto meno di chiarirne le ragioni, facendomi quell’omaggio. Ancora oggi, a distanza di molti anni e nelle condizioni difficili in cui mi trovo, forse quelle che concluderanno la mia vita, quell’errore mi pesa e scrivo queste note per liberarmi di un senso di vergogna, tanto più fondato perché l’episodio, all’apparenza non di importanza stellare, racchiudeva in sé il nocciolo di una questione strategica: rivoluzione o riformismo.

Prima di riferire lo spiacevole proseguio dell’incontro, occorre fornire qualche elemento a spiegazione del mio comportamento. Da poco arrivato a Roma per l’incarico di numero due dell’ambasciata, ero stato subito circondato, direi assediato e vezzeggiato, pronube una connivente segretaria, da una folla di compagni di Italia-Cuba e altri che si proclamavano protagonisti, e in parte lo erano, della solidarietà con Cuba e della totale dedizione anche ai suoi nuovi dirigenti. Mi rasserenava, a dispetto delle tempeste dialettiche che agitavano Cuba, questa acritica adesione alla politica del nuovo presidente, politica pur contrassegnata da drastici cambiamenti rispetto al passato. Visto che perfino Fidel nell’intervista a un giornale statunitense, oltre a numerosi intellettuali, gran parte del mondo studentesco, settori della popolazione più povera, aveva dubitato del buon funzionamento del corso fin li seguito dal mio paese, questa devozione incondizionata, senza se e senza ma, era un vero balsamo per il mio animo di burocrate alieno dalla messa in discussione di un apparato che mi aveva promosso a una posizione di tutto rilievo.

Per venire alla nostra vicenda e alle ragioni della mia manifesta avversione, menziono in particolare un gruppetto di tali apologeti che del compagno Fulvio avevano insistentemente denunciato atteggiamenti secondo loro incompatibili con la famosa formula del “senza se e senza ma” e che dovevano far pensare a un autentico sabotatore del buon nome di Cuba. Eccellevano in descrizioni denigratorie, quando non infamanti, tale Lucky Baciagalline e tale Frank Forchettoni. Gli davo ascolto e credito anche perché mi erano stati descritti come i più assidui tra i sostenitori del mio paese, l’uno con pubblicazioni e convegni, l’altro con munifiche spedizioni di aiuti. Riuscii a penetrare oltre la nebbia delle maldicenze e calunnie solo dopo la mia uscita da quella che chiamerei “la mia prima vita”. Una vita che oggi rinnego e che si era andata dipanando nell’atmosfera di una rivoluzione che aveva finito col perdere il passo, si era sclerotizzata in una dirigenza gerontocratica autoperpetuantesi e di conseguenza aveva coltivato burocratizzazione, corruzione, inefficienze, e le conseguenti insofferenze di una popolazione in arretramento di garanzie sociali. La mia supponenza e indifferenza alla verifica di fatti e persone erano il prodotto di tale atmosfera. Il burocrate non ha bisogno di verificare quanto gli viene riportato, specie se a lanciare secchiate di fango contro figure non allineate e coperte, spesso quelle il cui lavoro potrebbe mettere in ombra il loro, sono sempre dei lustrascarpe che ti confortano nel tuo stato burocratico di stella fissa.

Così fui facile preda dei veleni che, avvolti nello zucchero degli elogi incondizionati, venivano rovesciati sul compagno Fulvio, sulla sua integrità professionale e di amico del popolo cubano. Preda resa ancora più disponibile dalla denuncia del carattere critico nei confronti dei processi in corso a Cuba che numerosi articoli di Fulvio avrebbero assunto, tanto da non renderli dissimili, secondo i detrattori, dagli attacchi mossi a Cuba dalle centrali della disinformazione e diffamazione imperialiste, come riprese dai media italiani più anticubani. Per la verità, mi ero accontentato, con sufficienza burocratica, dei resoconti fattimi di tali articoli, mentre solo più tardi, a incarico diplomatico esaurito e conscio delle carenze etiche e politiche che lo avevano contrassegnato, mi presi la doverosa briga di leggere tali scritti attentamente e col rispetto dovuto a un giornalista che da una lunga vita era impegnato per Cuba, per i popoli in lotta, contro l’imperialismo. A fronte delle menzogne e strumentalizzazione degli organi del nemico, stavano in quegli scritti preoccupazioni, perplessità, sacrosanti interrogativi su un processo politico cubano che stava scrivendo pagine del tutto diverse da quelle fin lì compilate. Indubbio che questo fosse nel pieno diritto, anzi nel dovere, di un compagno e amico che, non succube o opportunista sicofante di un qualche “partito guida”, credeva negli ideali proposti a Cuba e al mondo fin dal 1959, vittoria della rivoluzione. Nella mia sicumera non ebbi nemmeno il sospetto che un qualsiasi processo fatto a una persona, tanto più a un compagno di lunga lena, richiede indagini che per primo coinvolgano lo stesso soggetto incriminato. Specie se le accuse provengono da calunniatori che, per definizione, sono impostori.

Furono questi precedenti a determinare la villania e la dissennatezza della mia reazione. Indegna di un rivoluzionario e, nel caso specifico, del professionista di una seria diplomazia. Offertimi i due documentari, li respinsi con gesto violento tanto da farli volare lungo il tavolo. Allo sgomento di Fulvio risposi con rabbiosa accusa: “Tu sei diventato un problema!”. Mi chiese spiegazioni. Reagì nel modo più offensivo: “Tu non sei un compagno!” E invitai con esplicito gestaccio il mio interlocutore ad allontanarsi. Fulvio si allontanò mettendo giustamente in dubbio la mia qualità di compagno, qualità assai diversa evidentemente da quella dei tanti cubani, in basso e in alto, che Fulvio aveva potuto vantare come amici, a partire da Elio Gamez, in precedenza presidente dell’Associazione Cubana di Amicizia con i Popoli. Questo accadde. Nella mia ottusa, tipicamente burocratica e autocompiaciuta convinzione delle verità riferitemi da diffamatori per il proprio tornaconto di competitori per i favori di Cuba, le costernate parole di alcuni commensali mi entrarono da un orecchio per uscire dall’altro.

Cercavano, coloro che Grimaldi lo conoscevano da lunga pezza, di dirmi come il compagno fosse da almeno quattro decenni l’accanito promotore, con mezzi comunicativi tra i più diffusi in Italia, delle ragioni di Cuba, con innumerevoli articoli, conferenze in mille città, anche all’estero, ben tre documentari prodotti e diffusi a sue spese. Che la sua militanza, provata del tutto disinteressata, gli aveva procurato persecuzioni e costi umani e materiali, come quando subì la perdita del lavoro e lesione d’immagine venendo cacciato dal quotidiano di Rifondazione “Liberazione” per avervi sostenuto le ragioni di Cuba al tempo dei processi del 2003 contro i mercenari terroristi degli Usa. Argomentazioni concrete, ma che non filtravano attraverso la blindatura di pregiudizi che le calunnie mi avevano costruito attorno. Neppure volli sovvenirmi delle parole di Hugo Ramos, mio illustre e da tutti amatissimo predecessore all’ambasciata, uno che il grano dal loglio, opportunisti e traffichini da sinceri e attivi compagni, sapeva distinguere e che di Fulvio era stato per anni affettuoso amico.

Mi venne riferito, purtroppo tardi, che gli stessi soggetti erano arrivati a tempestare Aleida Guevara di maldicenze su Grimaldi, finendo col convincerla, come poi dimostrò con un atteggiamento altrettanto ostile come il mio, che questo compagno, il quale produceva a suo spese lavori su e per Cuba e li andava propagando in tutto il paese e fuori e non aveva nemmeno mai ambito a una carica di rilievo nell’Associazione, ipocritamente tutto questo faceva solo per arricchirsi con i suoi prodotti giornalistici e per arrivare a prendere in mano l’intera associazione. Una specie di traffichino e golpista. L’assalto ad Aleida, purtroppo credulona e anch’essa aliena dal confrontarsi direttamente con il calunniato, era dovuta alla bassa invidia per essere stato il circolo di Grimaldi, povero e disperso in lande culturalmente desertificate, capace di allestire un incontro pubblico con Aleida coronato da eccezionale successo di pubblico, specie giovanile. Di questa miserabile operazione era stato autore ancora una volta il Forchettoni, personaggio, seppi poi, che da decenni, con la sua rancorosa frenesia competitiva, aveva compromesso in buona misura i rapporti e il lavoro dei compagni in quella regione.

Una eminente esponente dell’associazione aveva, parlando al Congresso, biasimato chi si permettesse di lamentare che troppo spesso le esternazioni di Italia-Cuba fossero stancamente appiattite sui comunicati e sulle interpretazioni ufficiali del governo cubano. “Di Cuba hanno il diritto di dirci come stanno le cose solo i cubani”, sentenziò. Applaudii. Noi cubani amiamo assicurare gli amici che, non essendo perfetti, apprezziamo le critiche. Ma per molti si trattava di una formula di rito e assai più gradita era l’incondizionata adesione. Allora non mi sovvenne che internazionalismo, proprio quello praticato con tanto impegno e tanti successi dal mio paese, vuol dire solidarietà, ma anche scambio, discussione, tutto ciò che poteva, in trasparente spirito rivoluzionario, far riflettere e arricchire gli interlocutori. Posto che, da compagni, tutti si trovavano sullo stesso piano di dignità e di diritto alla dialettica. Non ha ripetuto tante volte, Hugo Chavez, grande propulsore dell’unità latinoamericana e del suo progresso umano, che i più preziosi suggerimenti, le proposte, le utili critiche in merito, gli venivano da Fidel?

Fu al mio ritorno a Cuba, un paese assai diverso da quello nel quale ero cresciuto e le cui condizioni mi avrebbero presto convinto a dare un contributo alla Seconda Rivoluzione, che iniziai a confrontare quanto mi stava sotto gli occhi con le domande e i dubbi e le riserve avanzate nei suoi lavori dal compagno che avevo pubblicamente ingiuriato e coperto di disprezzo. Cosa che, ripeto, in particolare per un diplomatico risulta del tutto inaccettabile, pur si fosse trattato di un avversario. Ricordo ora con gratitudine alcune delle questioni che da questo attento osservatore delle vicende del mio popolo furono poste nei suoi articoli e interventi. Le cito, partendo da quelle che dai soliti opportunisti in affanno per assicurarsi favori cubani mi erano state descritte come veri e propri crimini di lesa maestà. Solo anni dopo capii che la prostrazione davanti a Fidel che queste malelingue vantavano come massima virtù, di rivoluzionario e socialista non avevano proprio niente. Erano piuttosto manifestazioni di servile opportunismo feudale come si trattasse di un satrapo, tali da offendere lo stesso Fidel. Erano anche il lascito tossico di un’abitudine antica all’obbedienza assoluta nei confronti di un capo consacrato infallibile, religioso o politico che fosse, della quale anche molti di noi cubani, in particolare dell’apparato burocratico, eravamo succubi: venerare i capi ci pareva garantisse il mantenimento e la crescita dei nostri privilegi.

Chiedeva, nei suoi scritti il compagno da me così improvvidamente offeso, cosa significasse il plauso che Fidel aveva offerto alla consegna del Premio Nobel per la pace a Obama, nemico mortale di Cuba e aggressore genocida di paesi e popoli, un plauso che aveva suscitato interrogativi tra tutti i compagni dell’America Latina (interrogativi ovviamente banditi dalle disciplinate vestali dell’associazione italiana). Poneva la domanda sull’opportunità che rivoluzionario della massima autorevolezza, come Fidel, accostasse alla figura di Martin Luther King quella di un presidente degli Usa che andava sterminando razze di colore scuro in tutto il mondo. Manifestava perplessità sull’utilità che Fidel sciogliesse un lamento sulle persecuzioni subite dagli ebrei, descritti come i più perseguitati di tutta la storia umana, di fronte al fatto che lo Stato degli ebrei e la potentissima lobby ebraica sono da sessant’anni impegnati nel furto della Palestina e nello sterminio del suo popolo. Si chiedeva anche come mai questo acuto demistificatore delle menzogne imperialiste potesse aver attaccato Ahmadi Nejad, presidente di un paese vittima di costanti complotti USraeliani, assumendo per buone le deformazioni propagandistiche delle sue dichiarazioni sull’olocausto (mai da lui negato) e sull’eliminazione di Israele (eliminazione che riguardava invece lo stato razzista sionista). Ricordava come, già qualche tempo prima, il comandante avesse criticato le FARC colombiane (piuttosto che il presidente narcofascista Uribe), sia per insistere su una lotta armata da lui considerata obsoleta (ma cosa ne avranno pensato i guerriglieri che hanno vinto in Nepal, o quelli che controllano metà India?), sia per non voler consegnare i prigionieri, militari e politici di regime, se non in cambio dei propri compagni rinchiusi nelle carceri della tortura di Uribe. Sono domande che venivano poste proprio alla luce del rispetto, della fiducia e dell’affetto che si nutrivano per il comandante e, prima ancora, per la rivoluzione cubana.

Altre domande avanzate e che allora mi sembravano quasi sacrileghe e oggi, alla luce della lotta che stiamo conducendo risultano addirittura profetiche, riguardavano l’improvvisa decimazione di gran parte della nostra giovane classe dirigente, compresi i due amatissimi Perez Roque e Carlos Lage, sostituiti da anziani militaridel giro di Raul Castro. Epurazioni giustificate, molti mesi dopo, con il pretesto di un video in cui i reprobi si permettevano di sbertucciare i capi supremi, procedura che rimandava a trascorsi assai cupi in quello che per noi era stato il paese e il partito guida. Tanto più che, da attendibili fonti venezuelane, si era saputo che le lettere di autoaccusa attribuite al ministro degli esteri e al vicepresidente erano un falso. Dal momento che voci certamente non sospette dalla stessa Cuba, ma anche della sinistra latinoamericana, ipotizzavano la non sorprendente, anzi fisiologica, presenza di due linee politiche, una aperturista, l’altra legata al rigore socialista e antimperialista, doveva sembrarmi legittimo che si pretendesse chiarezza su questa salutare dialettica in atto. In ogni caso, era perfettamente ragionevole la considerazione che se Raul aveva cambiato il 64% del gruppo dirigente, compresi quasi tutti i ministri, delle due l’una: o andavano criticati i predecessori, per aver fallito il compito, o i successori, per aver effettuato un golpe di palazzo. O avevano torto quelli di prima, o quelli del dopo. Nell’un caso o nell’altro la critica era un dovere rivoluzionario., mentre schierarsi acriticamente sia con gli uni che con gli altri rivelava come minimo debolezza di logica.

Sierra Maestra, Prima Rivoluzione

Il licenziamento entro l’anno di mezzo milione di lavoratori dello Stato, e di oltre un milione in cinque anni, con parole d’ordine che più tardi risultarono sospette anche a me come “efficienza”, “pragmatismo” e “produttività”, attenuato da prospettive di “autoimpiego”, cooperative, allargamento del settore privato (visto che in quello pubblico non si riusciva più a insufflare impeto rivoluzionario), per le quali non si vedevano né il potenziale produttivo, né i relativi finanziamenti; la concentrazione, ancora una volta, sullo sviluppo dell’industria turistica che aveva fatto risorgere una classe di speculatori e parassiti; il rafforzamento di una piccola borghesia già venuta alla luce e, dunque, della divisione in classi minacciata dall’allargamento antiegualitario della forbice salariale e dall’abolizione progressiva dal paniere dei bisogni essenziali riservato ai settori poveri in penosa crescita; gli sviluppi da molti definiti di “riforma liberale” e da Raul Castro “cambiamento strutturale e concettuale, sul modello vietnamita o cinese”, paesi già socialisti e passati, pur sotto il partito unico comunista, a un capitalismo di multinazionali predatrici che spaccava la società in sfruttatori e sfruttati; l’affermazione di Fidel, preoccupante per quanto reinterpetrata, che il “modello cubano non era esportabile e non funzionava più neanche a Cuba”…

Ebbene tutto questo, affiancato all’ennesimo rinvio di un Congresso del partito che avrebbe dovuto, esso, prendere decisioni che apparivano tali da mutare l’intero quadro politico, economico e sociale, aveva suscitato ovunque più o meno dichiarati interrogativi e campanelli d’allarme. Interrogativi propri, non dei nemici di Cuba e del socialismo, che anzi se ne compiacevano, ma di coloro che avevano creduto nella rivoluzione socialista, nel modello cubano ispiratore dei cambiamenti in tutta l’America Latina, e che avevano presenti analoghe strategie adottate dall’Unione Sovietica in un declino che aveva rinviato alle calende greche l’emancipazione dell’umanità tutta. Grimaldi, nello specifico, aveva potuto testimoniare sul posto la drastica involuzione del Vietnam sul finire degli anni 90, quando si verificò un durissimo conflitto tra partito e esercito, da un lato, e governo e apparato economico, dall’altro, esattamente sugli stessi temi emersi a Cuba. Conflitto risoltosi tragicamente con la vittoria totale del capitalismo e con l’ingresso massiccio dei corruttori delle multinazionali. Gli ufficiali vietnamiti, pensate, venivano addirittura spediti a formarsi nelle scuole di guerra statunitensi!

Un accadimento, in particolare, aveva turbato non solo il giornalista da me offeso, ma tanti che, piuttosto che chierichetti della religione cubana, si ritenevano sinceri e disinteressati amici del popolo cubano e della sua rivoluzione, prima ancora dei suoi necessariamente mutevoli apparati dirigenti. Grimaldi nel 2003 era stato licenziato da “Liberazione” per aver scritto un articolo in difesa delle buone e provate ragioni di Cuba nel condannare una gruppo di criminali che avevano, prezzolati dal nemico, complottato contro il proprio paese. L’allora capo del partito della Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, aveva invece condiviso le contumelie e falsità che la stampa imperialista aveva indirizzato contro Cuba. Nell’anno del mio incontro con Grimaldi, quei traditori del proprio popolo erano stati rilasciati per iniziativa della Chiesa cattolica e pressioni della Spagna. Senza che ciò venisse contrastato da Cuba, ora quei detenuti vennero insigniti della qualifica di “prigionieri politici”, anzi “di coscienza”. Grimaldi, allora, si era dunque esposto per niente?
E perché si è voluto assegnare alla Chiesa Cattolica, non certo un protagonista della rivoluzione socialista, un ruolo decisivo nel rilascio, anziché deciderlo autonomamente in sede di governo o partito? Devo ammettere che, a dispetto della nostra passività nel fornire risposte, furono molti che si rammaricarono perché in cambio dei 52 e passa terroristi rilasciati, non si fosse pretesa la liberazione dei Cinque cubani ingiustamente da 11 anni detenuti nelle carceri Usa, solo per aver indagato sulle trame terroristiche della mafia di Miami contro la propria gente.

Scrivo queste note mentre dall’apertura della grotta, in questa sierra ingravidata tanti anni fa della Prima Rivoluzione, vedo lampeggiare il rosso vibrante del fiori flamboyant, una delle nostre stupende piante nazionali. Da molto in lontananza, dalle valli verso Guantanamo, mi arrivano le detonazioni dei nostri cannoni, non so se attutite dal filtro di questa lussureggiante vegetazione, o dal lento venir meno del mio sangue, della forza.. Guantanamo è già presa? Si avanza verso Santiago? Giorni fa mi era arrivata la notizia della presa di Camaguey, quella su cui puntava il Segundo Frente, mentre la colonna del Nord si avvicinava a Santa Clara, rinnovando le emozioni che avevo provato ai tempi dell’università, ancora in pieno vigore rivoluzionario, leggendo le imprese del Che e del treno delle bande di Batista fatto saltare. Devo trovare la forza per finire questo scritto, se non altro per il debito che ho nei confronti di un compagno di anni fa, visto che spero di aver già pagato, con l’impegno e il sacrificio nella Seconda Rivoluzione, il debito che accumulai negli anni delle mie deviazioni burocratiche.

Rientrai da Roma in una Cuba che, nel giro di quei quattro o cinque anni in cui ero stato all’ambasciata, aveva conosciuto mutamenti profondi. Le aperture del primo decennio del secolo erano diventate voragini. Invano vi si erano opposti, non solo i dubbiosi della prima ora, ma perfino coloro che quelle aperture avevano iniziato e che se le erano poi viste sfuggire di mano, sottratte e potenziate proprio da quella nuova piccola borghesia che si era fatta largo attraverso le crepe burocratiche e reazionarie dello Stato. Uno Stato minato alla base dalle infiltrazioni di un neoliberismo che, nelle intenzioni, doveva essere limitato al superamento della grave crisi economica, ma sempre sulla via verso un socialismo che, però, si era incominciato a definire “socialdemocratico”. Accanto all’azienda agricola israeliana, la più grande e la più discussa dai compagni, erano arrivate le corporation del Nord del mondo. Per agevolarle gli si era srotolato davanti il tappeto rosso di forti esenzioni fiscali, bassi salari, niente sindacalizzazione, deroghe alla nostra legislazione ambientalista, esportazione degli utili. E perfino un campo da golf di 18 buche per manager e nuovi ricchi. Devo dire che fu questo particolare, apparentemente irrilevante, a far fermentare nella mia coscienza una valutazione finalmente autonoma e ragionata. Non era stata, emblematicamente, quella serie di campi da golf sottratti alle terre dei contadini di Hanoi, che vi si erano ripetutamente sollevati contro, una specie di sparo di partenza per la successiva disintegrazione del modello socialista in Vietnam?


Vladimir nella Seconda Rivoluzione

Al mio ritorno, correva l’anno 2014, già era partita nella clandestinità la lotta per la Seconda Rivoluzione. Alcuni dei dirigenti di allora, salvo Fidel che si era dato alla macchia, ritiratisi dalla politica, avevano ceduto il passo a un nuovo ceto di trafficoni, speculatori, collaborazionisti, esecutori di privatizzazioni e deregolamentazioni totali, fortemente sostenuti dagli Stati Uniti, prodighi di milionate di turisti e centinaia di investitori, con l’intelligence e la sicurezza affidate, come in molti paesi latinoamericani, a specialisti israeliani. Altri dirigenti e moltissimi quadri intermedi e bassi, sostenuti da una popolazione in crescita sia di povertà che di collera, si erano uniti agli organismi clandestini di opposizione che erano andati sorgendo in città, villaggi, campagne. Il loro programma era ancora quello della sovranità e della giustizia sociale elaborato dai grandi compagni della Prima Rivoluzione. Di terra in terra correva già la parola d’ordine della Seconda Rivoluzione, nei centri abitati, come negli anni ’50, si erano formati gruppi di azione partigiana e i primi fuochi di guerriglia si andavano accendendo nelle sierre. Baracoa era stata sottratta al controllo dei militari del regime revisionista e vi accorrevano da tutto il paese, dal Venezuela, dall’Honduras, dalla Bolivia, volontari per l’imminente lotta di guerriglia sulle montagne, compresi i missionari della salute e dell’istruzione che Cuba andava mandando un tempo in giro per il mondo. Mi aggregai a questi.

Concludo, attirando l’attenzione su quanto fossero fondate le preoccupazioni e perfino le critiche, allora duramente respinte, che, ottusamente, da malintenzionati e disonesti mi venivano presentate come segni di inimicizia e offesa a Cuba. Quando scoprii il degrado sofferto dall’isola e la coraggiosa e nobile risposta che il mio popolo seppe opporgli, mi dovetti battere il petto per non aver visto, attraverso la caligine della presunzione e della fiducia malriposta, la luce di quella che era una rivendicazione di libertà di opinione e di critica, al servizio della rivoluzione. Furono anche le parole di Fulvio, spogliate delle interpretazioni strumentali e diffamatorie, a ricompormi in unità con i diritti, le rivendicazioni, la rivolta del mio popolo. E a farmi partecipe della Seconda Rivoluzione, alla quale dedico quanto mi rimane di vita, insieme ai documenti che con questa firma termino. Hasta la victoria siempre.
Fidel Vladimir Pérez Casal, Primo Frente, Sierra Maestra, 12 maggio 2015.













12 commenti:

  1. ma quali punti di domanda!questo è puro spirito lisergico e psichedelico,un passo avanti nel mondo dei blog!Io fulvio su molte cose non condivido la tua posizione,però umanamente e anche per alcune cose politicamente ti stimo molto!
    Questo racconto potrebbe essere visto come una smargiassata,ma è eccezionale.

    ciao!

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  2. Grazie e tutti quelli che hanno scritto dopo i ???????????????????
    E grazie anche ai pnti interrogativi.
    Già avevo temuto di aver scritto con un rosso di Cerveteri di troppo...
    Fulvio

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  3. Immaginavo che il congresso di Milano sarebbe andato a finire in vacca..e questa racconto è il migliore dei reportage possibili! Gia', una Seconda Rivoluzione è proprio quello che ci vorrebbe per Cuba,da quelle parti non si stanno regolando. Oggi ho incontrato in aeroporto una dipendente italiana della "Cubana de aviacion" ; mi ha detto che stanno licenziando il 50% dei dipendenti,usando un trucchetto di cui Marchionne sarebbe orgoglioso : ne licenziano 4 per volta,cosi' manco gli danno la cassa integrazione.
    Comunque non ce la faccio a voler male a Fidel per certe sue uscite, credo che facciano parte del suo tipico "smignottare oratorio". Parla degli ebrei come "popolo piu' perseguitato",poi pero' finisce per condannare Israele come "lo stato piu'arrogante del mondo" e ache peggio. Allo stesso modo si congratula con Obama per il Nobel poi dice che da parte sua accettarlo è stato un "atto cinico" e che dovrebbe restituirlo perchè ha mandato altri soldati...e perchè sono stati gli USA ad affondare la nave sudcoreana.I dubbi mi vengono,come vengono a te, quando ne parla come di un "prigioniero dei militari" a rischio incolumita'.Bah!Staremo a vedere...

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  4. Caro Valerio, ma difendendo Fidel che dice una cosa e poi l'altra per compensare, non teorizzi il cerchiobottismo, vizio della politica politicante? Non si fa solo confusione? E poi il colpo al cerchio è sempre più debole di quello alla botte. Fidel sa benissimo che la sua perorazione antiscientifica per gli ebrei (cioè immancabilmente Israele sionista), in un momento in cui Israele sprofonda in una disistima crescente, rimbalza in tutto il mondo e viene sfruttata alla grande. Come l'attacco ingiustificato a Ahamdi Nejad sulla base di balle imperialiste. La critica, davvero debole, del paese "più arrogante" sparisce subito. Così per le doppiezze relative a Obama. L'elogio al Nobel ha causato uno tsunami, il ripensamento non lo ha sentito nessuno, se non a Cuba. Eppoi, tutte queste uscite vanno collocate sullo sfondo di quanto sta succedendo a Cuba: arcivescovi protagonisti, delinquenti rilasciati, privatizzazioni galoppanti, licenziamenti a cazzo di cane, cacciata di validi dirigenti rivoluzionari... Con affetto,
    Fulvio

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  5. una seconda rivoluzione non indebolirebbe ulteriormente un paese che scopriamo debole?No!
    E perchè?Per quali motivi?Da chi dovrebbe partire,non diciamo il popolo che è tutto e niente,ma da quali settori del partito e dell'esercito?
    si,son tutte domande che potrebbero farti incazzare,ma il mio intento è avere la visione concreta e chiare di un pensiero,il tuo non del tutto sbagliato

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  6. A Davide. Di solito le rivoluzioni vanno fatte perchè necessarie e volute, che riescano o no. Conta provarci. Comunque il mio pezzo era storicamente fantastico. Avevo ipotizzato, per assurdo(?), che gli attuali cambiamenti da libero mercato e privatizzazione avessero potuto agevolare un intervento reazionario, da fuori (USA) o da dentro (nuova piccola borghesia). Sono cose già successe altrove ahinoi, demolendo granitiche certezze. E che poi si fosse insediato un regime di destra, ovviamente da spazzare via con la seconda rivoluzione. Scusa, ma la prima è forse venuta da esercito o partito? Viene da dove deve venire.
    Fulvio

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  7. se è vero che cuba si è alfin arresa al kapitalismo, diventa "in cuba"
    oggi comunque è il 711!
    7111917 numerologicamente 999 termination
    il capitalismo è in estrema decomposizione. puzza. seppelliamolo.
    Cum Panis! EVOLUZIONE!
    NON COMPETIZIONE!

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  8. strano che proprio ora sia caduto un aereo cubano Atr-72 della Aereocarribean mentre da Santiago de Cuba era diretto all'Avana. non credo alle coincidenze. la solita terza ed ultima mossa usa&jet..ta?
    anche in pakistan...eni...mattei altra "con vergenza"?

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  9. Chiaramente non tollero il cerchiobottismo,sarebbe come perorare il famoso "meno peggio". Avevo letto quelle dichiarazioni da un'ottica esclusivamente dialettica. Per intenderci : tattiche da oratore da foro romano, che prima elogia e blandisce l'avversario e poi lo attacca,avendo quest'ultimo come scopo reale. Ci vedevo la buona fede,insomma. Se è come le intendi tu ,beh è meglio che l'amato vecchio appenda la barba al chiodo.Ha dato tantissimo, alla sua veneranda eta' puo' anche cedere il passo.
    Con la speranza e il cuore, spero di aver visto giusto io .Ma con la razionalita' (visti purtroppo i fatti!!) e il "pessimismo della ragione" hai probabilmente visto giusto tu!Saludos,Valerio

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  10. Bello questo racconto-articolo, forse un poco autocelebrativo ma abbastanza risonante,alfine, sulla situazione cubana piú che su quella del nostro cortiletto Italia-Cuba: emblema di come i governi e la diplomazia siano tanto avulse,lontane
    dalla vera politica che analizza i moti e le sinergie all'interno della societá per interpretarla in primis e incanalare queste forze contro il caos che crea l'uomo senza una coscienza(la maggioranza)
    ,lasciato libero. E a favore della sua evoluzione in chiave individuale attraverso la cultura e di massa con la crescita economica.
    Continuiamo cosí. Hasta siempre.

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  11. Bello questo racconto-articolo, forse un poco autocelebrativo ma abbastanza risonante,alfine, sulla situazione cubana piú che su quella del nostro cortiletto Italia-Cuba: emblema di come i governi e la diplomazia siano tanto avulse,lontane
    dalla vera politica che analizza i moti e le sinergie all'interno della societá per interpretarla in primis e incanalare queste forze contro il caos che crea l'uomo senza una coscienza(la maggioranza)
    ,lasciato libero. E a favore della sua evoluzione in chiave individuale attraverso la cultura e di massa con la crescita economica.
    Continuiamo cosí. Hasta siempre.

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