(Tra parentesi riferisco con gioia che il mio
precedente articolo “Eritrea, ce ne fossero!” ha raccolto un numero
spropositato e superiore al solito di attenzione e consensi, sia nei commenti al
blog, sia in Facebook, sia per email e sms. Segno che non tutti e, forse, neanche
tanti, si rendono vittime o complici delle campagne di diffamazione che da anni
vorrebbero colpire questo paese libero, indipendente e disobbediente. C’è luce
in Africa, ma anche in fondo al tunnel).
Il 22 maggio in Italia, nelle varie città
dove è concentrata la diaspora eritrea, e il 24 maggio in Eritrea, 5 milioni e
passa di cittadini di quel paese celebrano trent’anni di lotta armata di
liberazione, una strepitosa vittoria contro i colonialismi congiunti etiopico,
statunitense, italiano e britannico, un quarto di secolo di libertà di una
nazione pacifica, coesa, multietnica, multireligiosa e di resistenza vittoriosa
ad aggressioni e ingerenze neocolonialiste e imperialiste.
Una luce per i popoli dell’Africa sottoposti
ad aggressioni militari o economiche, devastati dai predatori multinazionali,
oppressi da fantocci asserviti al controllo e allo sfruttamento neocoloniali,
incaprettati militarmente da basi e forze d’occupazione euro-atlantiche,
strangolati da debiti-capestro inflitti dagli organismi finanziari e
commerciali internazionali. Tutte catene di cui l’Eritrea si è liberata e resta
libera.
Una
luce in Africa, un’isola di giustizia nel Corno
E’ un piccolo paese di montagne, vulcani,
bassopiani e altopiani, coste, isole, deserti e semideserti. Un pezzo di Africa
come l’immaginario collettivo dipinge il continente quando riflette sul “mal
d’Africa”: capanne, foresta tropicale, dune di sabbia, milioni di acacie, sicomori
possenti, spiagge sconfinate, oasi, etnie dai costumi e dalle confessioni
variegate che vanno dall’animismo al monoteismo, antichissime testimonianze
archeologiche tra incisioni rupestri e templi raffinati. Ma anche città
moderne, urbanistica sapiente, agricoltura avanzata, industria adolescente in
maturazione. Investimenti stranieri dei pochi che sfidano le sanzioni e le
rappresaglie Usa. Ambiente naturale affascinante come pochi, ma duro e a volte
ostico, scarsezza di risorse naturali delle quali negli ultimi tempi si è però
scoperto una nuova potenzialità. Povertà contenuta e combattuta, aggravata
dalle solite criminali sanzioni di cannibali che si sono visti sfuggire la
preda, ma affrontata attraverso un’equa distribuzione del disponibile, senza
gli abissali divari di classe che lacerano le società occidentali. E quelle
africane dove l’Occidente sta nella cabina di comando, cioè tutte le altre.
ONU, origine controllata USA
In Eritrea tutti vivono in dignità e nessuno
muore di fame. L’ONU, che pure allestisce cosiddette commissioni per i diritti
umani (e stavolta li ha affidati alla presidenza dell’Arabia Saudita, paese in
mano alla nota eccellenza democratica e dei diritti umani garantiti da
scudisciate e mannaie) incaricate di fare le pulci a tutti i paesi la cui
orbita non gira attorno al sole statunitense, ha dovuto classificare
istruzione, sanità e distribuzione della ricchezza tra le migliori del Sud
Globale.
Nessuno dei paesi confinanti può vantare dati
analoghi. Le siccità che imperversano periodicamente nella regione e che, con
particolare virulenza negli ultimi anni, hanno decimato le popolazioni delle
altre due componenti del Corno, Somalia ed Etiopia, quelle sopravvissute, nel
primo caso, alla disintegrazione voluta da Usa, Nato e Stati clienti africani
e, nel secondo, a predazioni e corruzione di una classe dirigente che ha messo
all’asta le vaste risorse del paese. Classe dirigente che ha collocato l’Etiopia al 173° posto su 178 paesi per
Indice di sviluppo umano.
La
vittoria dell’acqua e dei campi
In Eritrea, priva di corsi d’acqua che non
siano essenzialmente stagionali e torrentizi, una serie di dighe ha permesso di
raccogliere e conservare l’acqua piovana e così di realizzare sistemi diffusi
di irrigazione. Ne è nata un’agricoltura che, in questo caso, ha davvero fatto
fiorire il deserto. Non c’è gita “fuori porta” dalle luminose ed eleganti città
eritree, Asmara, Massaua, Keren, Agordat, Barentu, che non ti faccia incrociare
montagne alte fino a 3000 metri, terrazzate da valle a vetta, rigogliose di
colture e verdeggianti di rimboschimenti. Un’opera di trasformazione dell’ambiente
naturale cui, accanto ai quadri usciti dai nuovi istituti agrari o rientrati da
quelli stranieri, dà un contributo volontario la comunità locale e lavorano i
giovani impegnati nella parte civile del servizio militare. Se da noi
militari-robocop ci puntano i mitragliatori a ogni angolo di strada e a ogni
stazione di metro o treno, lì i 18 mesi di servizio obbligatorio diventano in
massima parte contributo alla società.
Soldati
del popolo
Nel Grand Guignol con il quale i media del
mai rassegnato colonialismo occidentale ci rappresentano questo fiero e
indipendente paese (sul modello Iraq, Libia, Siria, Venezuela, Egitto…) che,
nonostante tutte le difficoltà e le malevolenze, ha il difetto, imperdonabile
nell’era del neoliberismo, di camminare sulle proprie gambe senza chiedere
niente a nessuno e senza indebitarsi con gli antropofaghi, la leggenda di un
servizio militare senza fine, praticamente una forma di lavoro forzato a vita,
riveste il ruolo del cattivo più cattivo di tutti. Oggi nessuno deve fare più
di quei 18 mesi. Ma dovrà essere pronto a difendere la patria nel caso che gli
Usa, l’Occidente, decidano di rilanciare per l’ennesima volta il vassallo
etiopico all’assalto dell’ex-colonia.Le ripetute aggressioni belliche di Addis
Abeba sul finire del secolo scorso, la continuata occupazione di territorio
riconosciuto dalla normativa internazionale all’Eritrea, le ricorrenti minacce
del regime etiopico di rinnovare l’attacco, hanno costretto alcuni della generazione passata di prolungare la ferma.
Gli eritrei sono attorno ai 5 milioni, gli etiopi rasentano i 100. I primi
dispongono delle armi strappate al nemico nei trent’annidi lotta. I secondi
sono armati dalla Nato, dai compari del Golfo, dagli Usa a suon di centinaia di
milioni di dollari.
Anch’io ho fatto 18 mesi di naja. Primo
Reggimento Bersaglieri. Mi ci aveva portato il ricordo di Porta Pia e della
fuga del papa. Un anno e mezzo a correre dietro ai carri armati, sparacchiarsi addosso a salve, farsi
angheriare da ufficiali idioti e sottufficiali zio Tom, rompersi i coglioni in
esercitazioni da operetta, o nello squallore culturale di un ambiente
decerebrato. Poi ancora richiamato per “aggiornamenti” (ero ufficiale), anche
per via delle pessime “note personali” rimediate da un colonello comandante che
interpretava le mie frequentazioni anticlassiste con i bersaglieri semplici
come prova di orripilante omosessualità.
Non servivamo a niente, neanche a intervenire
su una frana, un alluvione, neanche a tirare giù un gatto dalla grondaia.
L’unica cosa che mi piaceva era la corsa e che ci si univa tra italiani diversi,
essendo di leva, cioè di popolo, tra sfigati di classi e ambiti solitamente
lontani. Positivo era anche che si imparava a sparare e a muoversi sul terreno,
elementi che mi sarebbero venuti utili tra i fedayin palestinesi. Difficile
mandarci in guerre criminali, o usarci per colpi di mano oligarchici. Poi
sarebbe venuto il professionismo, il mercenariato pretoriano dell’élite, specie
quella Goldman Sachs, da usare in interventi umanitari in Kosovo, Iraq,
Afghanistan, Somalia, nell’invasione del mare e delle coste somali fatta
passare per guerra ai pirati, nelle fucilate ai pescatori indiani. Altro che
Porta Pia e Lamarmora.
Se ci dovessero provare con l’Eritrea, e
sicuramente qualcuno degli psicolabili nel vertice Nato ci sta pensando, questi
bravi ascari Nato se la dovrebbero vedere con chi crede al proprio paese e non
alla busta paga, o all’impunità. Con chi da sessant’anni ha sbaragliato o
tenuto a bada chiunque provasse a rompere.
Un
Corno che non ammette eccezioni
Nel Corno d’Africa ci sono due cattivoni e
uno buono. Quello buono è l’Etiopia che da quando cacciò gli assassini di massa
Badoglio e Graziani, con Haile Selassiè, Menghistu, Meles Zenawi e, ora, Hailemariam
Desalegn, ne ha adottato e migliorato metodi e obiettivi. Gli oppositori,
specie se studenti, specie se osano presentarsi alle elezioni, vengono buttati
in carcere e fatti sparire per sempre, ai dimostranti si risponde con la
mitraglia, alle minoranze (che poi capita che siano maggioranze) si sottraggono
le terre, se ne cacciano gli abitanti e le si svendono a cinesi e australiani.
E’ venuto ad Addis Abeba Gianni Pitella, capogruppo dei Democratici e
Socialisti tra gli eunuchi dell’europarlamento, a irrorare di
euro-riconoscimenti ed euro-plausi la democrazia etiopica e a deplorare,
insieme ai suoi soddisfattissimi ospitanti, la sprovveduta e pericolosissima
decisione della Commissione di dare all’Eritrea 200 milioni di euro in aiuti
all’agricoltura (l’Eritrea, pur sotto sanzioni micidiali, rifiuta aiuti e
prestiti). Cifra del tutto spropositata rispetto al modesto contributo Usa di
centinaia di milioni di dollari all’apparato militare etiopico, installato tra
decine di basi militari statunitensi e israeliane e adoperato nel corso degli
ultimi decenni, oltreché per la repressione interna, per ripetute guerre alla
Somalia (o, meglio, ai suoi insorti anticolonialisti) e all’Eritrea.
Certi
nostalgici
I primi occupanti furmmo noi, al tempo di
Crispi che, nel 1890, proclamò l’Eritrea colonia italiana. La prima. Seguirono
la Somalia nel 1908 e l’Etiopia nel 1935. Tutto finì nel 1941, con la cacciata
per mano dei britannici. C’è ancora chi rivendica meriti alla colonizzazione
italiana. In particolare per l’Eritrea si arriva a dire, di un paese con una
sua distinta e connotatissima identità storica che si perde nella notte dei
tempi e che andava anche al di là delle attuali dimensioni territoriali, che
l’avrebbe inventata l’Italia, determinandone le linee di confine. Una
sciocchezza antistorica a cui, del resto, hanno risposto tre o quattro
generazioni di eritrei che si sono battute, durante trent’anni, per la
ricostituzione della loro nazione. Si attribuiscono alla dominazione coloniale
italiana, profondamente razzista e di apartheid ante litteram, meriti quali
quelli dell’urbanizzazione, delle eccellenze architettoniche, dello sviluppo di
aziende meccaniche e agricole.
Ma si dimentica che ogni cosa fatta dagli
italiani era destinata a loro esclusivo uso, costume e profitto, con gli
autoctoni relegati in posizione abiettamente subordinata, da manovalanza al
servizio dei padroni coloniali, di carne da cannone per guerre di sterminio in
Libia ed Etiopia (gli Ascari), da prestatrici di obblighi sessuali, mascherati
da matrimonio “a tempo”, con figli meticci perlopiù disconosciuti e
abbandonati, una popolazione privata dei servizi elementari, con l’istruzione
che non doveva superare la Quarta elementare e la segregazione in quartieri seclusi.
Le grandi realizzazioni viarie e ferroviarie che attraversavano il paese erano
riservate a scopi militari, o a trasporti import-export di esclusivo interesse
coloniale.
Grande è la responsabilità dell’Italia
nell’umiliazione di questo popolo, nello
sfruttamento della sua terra e nell’uso cinico delle sue giovani generazioni,
per lo più ragazzi espropriati della propria terra, orfani di padri uccisi
dagli italiani, rimasti privi di risorse, per le proprie guerre di conquista.
Una responsabilità mai assunta e anzi appesantita dalla totale mancanza di
resipiscenza ed elaborazione del proprio passato coloniale, del proprio
gigantesco debito, pervicacemente mistificato sotto la formula esoneratrice
degli “italiani brava gente”. Quanto a elaborazione delle proprie colpe
storiche, anzi, si vadano rivedere a rivedere le sevizie di donne e uomini dei
nostri baldi carabinieri al tempo di Restore
Hope nella Somalia da noi e dalla Nato massacrata, la Libia rasa al suolo
(e oggi in predicato per nuovi sfracelli colonialisti) dopo averne ucciso un
terzo della popolazione al tempo di Mussolini, il sostegno al regime
sanguinario di Addis Abeba che pare proseguire i genocidi perseguiti da
Badoglio e Graziani e poi dai fantocci autoctoni dell’imperialismo, Selassiè,
Menghistu, Zenawi, Desalegn…
Isaias Afeworki visto dagli euro-atlantici
Abominevole poi, in particolare tra i
cripto-Nato che si dicono di sinistra, mosca cocchiera “il manifesto”, il del
tutto stonato acuto del tenore italiota che vuole eccellere nel coro imperiale
e canta le presunte sciagure e infamie dell’Eritrea. Avvoltolandosi nella
coperta intrisa di colera (come quella passata ai pellerossa) dei diritti umani
a firma Clinton-Obama, questi sinistri alzano il volume della demonizzazione
che i frustrati spossessati da Asmara lanciano contro un paese che non ci sta e
che, presto o tardi, deve essere ridotto alla ragione. Mancando qui la materia prima
per una rivoluzione colorata alla NED, Usaid, Cia e Mossad, toccherà trovare
l’equivalente di Al Qaida, o dell’Isis, da far esplodere tra le case degli
eritrei. Gli etiopi, come sempre, sono disponibili. E quella pseudo sinistra se
ne farà carico, come con Rossana Rossanda al tempo delle “brigate
internazionali” contro Gheddafi, o con Tommaso Di Francesco nei giorni del
missile Regeni contro l’Egitto.
L’Eritrea
ruba il posto alla Nato
l punto è che l’Eritrea sta dove sta, cioè in
un luogo che più cruciale e ambito dal punto di vista geostrategico non ce ne’è
sull’intero globo terracqueo. All’imbocco del Mar Rosso, con il porto di Assab,
già ambito dai genovesi della Rubattino alla fine del 19° secolo, a suo
controllo con l’arcipelago delle Dahlak, allungata verso il Nord di fronte a
Yemen e Arabia Saudita, a cavallo del Golfo di Aden, sentinella sullo Stretto
di Bab el Mandeb che apre verso il Golfo Arabo-Persico e l’Oceano indiano. Da
qui passa qualcosa come il 40% dei trasporti mondiali di petrolio, sangue del
capitalismo, di merci e materie prime, piedistallo di re dollaro. Come si può
consentire a un pretenzioso, impertinentemente autonomo paesuccolo “sottosviluppato”
di occupare e controllare una tale chiave delle sorti del mondo? Di sottrarlo
al legittimo titolare di ogni incrocio e rondò, la Nato (già installata nel
calzino di Gibuti)? Dunque campagne di
satanizzazione articolate sulle solite invenzioni propalate dalle apposite agenzie,
Amnesty, HRW, Ong, dirittoumanisti assortiti e assoldati: dittatura,
repressione, annientamento di ogni opposizione, torture, fughe di massa,
sparizioni forzate, lavoro schiavistico. Lo scivolo indipensabile per passare
alle sanzioni, ai sabotaggi, alle provocazioni, su su fino all’aggressione
militare con forze surrogate e guidate da proprie teste di cuoio.
Eccola,
la “dittatura” Poi
uno gira per il paese e non s’imbatte in altro che in vigili urbani a controllo
di una gara ciclistica. Prende il caffè in città in mezzo alla gente con
ministri (dell’Agricoltura, Informazione, Sanità, Energia) senza body-guard e
con uno stipendio da 5000 nakfa (300 euro), pari a quello degli operai
specializzati nella miniera di rame a Bisha, incontra chi gli pare che gli dice
ciò che gli pare. Anche che il lavoro scarseggia e che perciò toccherà emigrare
anche a lui. Senza sanzioni, magari,.sarebbe potuto rimanere. Puoi incontrare
così anche Isaias, il presidente, già leader della trentennale lotta di
liberazione e poi ricostruttore e ammodernatore del paese, contro tutto e
contro tutti e, dunque, simbolo e garante dell’unità nazionale, padre della
patria. Nel nostro emisfero si perpetuano nei decenni le dinastie, i Bush, i
Clinton e, soprattutto, si perpetuano nei secoli i rappresentanti della stessa
tribù, degli stessi portatori e dominatori di interessi. Ma tant’è, è Isaias
Afewerki che viola la democrazia dell’alternanza.
L’Eritrea
live
Ho attraversato monti, valli, coste e rupi,
deserti e città d’Eritrea, ho incontrato le donne, i giovani, gli agricoltori, delle rispettive
organizzazioni di massa in cui si
articola il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDJ). Ho parlato
con chi è rientrato dall’estero e chi vi vuole emigrare. Ho scambiato
tantissime chiacchiere con gente per strada, baristi, riciclatori di lamiere e
plastica, studenti, insegnanti, pittori,
cineasti, poeti, esponenti di una creatività culturale e artistica che appare
più ricca e fervida di tante società del
Sud Globale. Ho anche incontrato donne e uomini della diaspora, emigrati alla
ricerca di opportunità che scarseggiano in patria, ma fedeli al loro paese,
ansiosi di tornarvi e di impegnarvi quanto da noi hanno acquisito. Non sono
riuscito a farmi denunciare la famigerata dittatura e i suoi orrori. So che ci
sono richiedenti asilo politico, anche disertori come ne abbiamo visto tra i
giovani siriani, ma parlano solo alle autorità, alle Ong e ai media di
“tendenza”. Del resto un’opposizione si è manifestata. Fu dopo l’ultima guerra
lanciata e persa dall’Etiopia. Una dozzina di dirigenti, con in mezzo anche
l’ambasciatore italiano, brigavano con il regime di Addis Abeba, il nemico
storico appena ricacciato oltre confine, e con esponenti occidentali, per far
fare all’Eritrea la fine che oggi si sta prospettando al Venezuela, al Brasile,
all’Argentina. Quei fautori della “normalizzazione” sono in galera.
Uno sconsolato e chiaroveggente amico di
questo blog ha scritto in un commento al precedente arrticolo “Eritrea, ce ne
fossero!”: “La Libia è persa, L’Ucraina è
persa, il Sudamerica è perso, la Siria non sarà mai più la stessa (e così
L’Iraq). L’Uccidente avanza, bombarda,
distrugge, conquista…” E poi lamenta
“il tentennare, il mediare, il lisciare
il pelo all’Uccidente che sbrana o si appresta a farlo con chi persegue saggezza,
equilibrio, prudenza, lungimiranza che alla fine pagheranno…Siediti sulla riva del fiume e aspetta… poi
arriva l’alluvione”.
L’Eritrea non è così. Mi ha mostrato di non
essere così. Voglio fermamente credere che non sarà così. Nessun popolo ha
lottato per trent’anni, contro i più feroci poteri del mondo, tutto insieme,
cattolici, ortodossi, musulmani, animisti, nove etnie, tanti linguaggi, tante
culture, quale con il piede nell’evo dei miti, quale con il passo nella
contemporaneità. Nessun popolo ha affrontato e battuto ulteriori aggressioni
militari, economiche, mediatiche di potenze cento volte più forti, senza, per
un quarto di secolo, retrocedere di un centimetro dal destino che si è
assegnato, quello dell’indipendenza vera, del contare sulle proprie forze, del
non inchinarsi a nessuno. Oggi l’Eritrea
celebra le nozze d’argento con la libertà. Sono pochi, nel continente, a
poterlo fare.
Nel mio ritorno nel paese che, giovane di penna, avevo
incontrato giovane in armi, mi ha accompagnato ora per ora, luogo per luogo,
uno dei personaggi più straordinari che abbia mai incontrato. Un intellettuale prestigioso,
eritreo come nessuno e cosmopolita, un compagno rivoluzionario con cui
discutere di Bob Dylan come di False Flag dell’imperialismo terrorista, di
Foucault come dei depistatori radical chic, di Spoon River come
di Gramsci, l’italiano marxista più amato in tutto il Sud Globale, e pour cause. Con lui ci siamo
sbattuti sul fuoristrada tra i massi vulcanici dell’altopiano, a piedi nelle
sabbie roventi del Barka, al caffè preparato con carbonella, spezie e incensi
nel tucul che ha scoperto l’architettura bioclimatica migliaia di anni fa, al
bar littorio “Impero” davanti alla tazzina di chai allo zenzero. Mi ha regalato
l'Eritrea che vive, come 45 anni fa i guerriglieri del Fronte mi avevano
regalato l'Eritrea che combatte. Quest’uomo si chiama Ilias Amarè. Dedico l’articolo a lui, ma anche a tutti gli eritrei
che mi hanno tenuto per mano in questo cammino. Vorrei che qualcuno gli
traducesse il mio saluto, in inglese o, meglio, in tigrino.
Per citare il CIA factbook 1.usa.gov/1Tepkkc
RispondiEliminaL'Eritrea ha un tasso di migrazione stimato nel 2015 dello 0%
Qualcuno avverta il manifesto.
Questi dato é sul sito che ho linkato della CIA, sotto Eritrea, people and society, net migration rate
EliminaNoi ho cercato dati antecedenti al 2015
Ma guarda che combinazione. Oggi pomeriggio, in auto, mi è capitato di sentire su Radio3 un pezzo d’intervista alla scrittrice Erminia Dell’Oro che presentava un suo libro su un immigrato eritreo in Italia. Letto l’articolo di Fulvio, mi sono imposto di completare il giramento di balle che quello spezzone aveva avviato. A volte ci si deve tappare il naso, con tutti gli altri orifizi, per comprendere in quale liquame siamo immersi. L’intervista si può ascoltare qui, buona nausea:
RispondiEliminahttp://www.fahrenheit.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-9ec66e25-d150-41fe-9be7-9769977b69e6.html#p=0
La signora è figlia di coloni italiani. Magari non vorrà dire niente , “però aiuta” come diceva George Bernard Shaw. Addirittura Wikipedia la descrive come cittadina eritrea.
Dico subito che non ci troviamo di fronte a una Shirin Ebadi o a un Liu Xiaobo che vorrebbero vedere i loro paesi rasi al suolo e ridotti in schiavitù. La Dell’Oro ammette che non ci sono militari in giro ma, al tempo stesso, afferma che la leva dura all’infinito: fantastico, gli eritrei hanno inventato l’arma che rende le truppe invisibili! L’intervistatore ringhia “l’Eritrea è una specie di Corea del Nord” e la (ex) colona, come il cane di Pavlov, sbava e sentenzia “sì, è una dittatura senza libertà di stampa e di espressione”. Ho l’impressione che abbia voluto rendere l’intervista (e il libro?) appetibili per i gusti occidentali, condendoli con la vulgata del povero immigrato in fuga dal feroce dittatore. Un po’ come il gelato fritto nei ristoranti cinesi.
Eppure in quest’intervista sembra abbastanza equilibrata nel descrivere l’Eritrea:
http://www.eritrealive.com/eritrealive-intervista-erminia-delloro-asmara-addio/
Possibile che un essere umano, a seconda che parli con un sito filoeritreo o con una radio preposta ad inocularci la quotidiana dose di comesiamofortunatiavivereinoccidente, possa dire due cose opposte senza che gli venga voglia di buttarsi nel cesso e tirare la catena? Io lavoro in impianti di trattamento rifiuti e, parafrasando Socrate, più conosco gli umani e più apprezzo la rumenta.
Anonimo@ Mi puoi dare un link o un'informazione più dettagliata per quel CIA factbook sull'Eritrea?
RispondiEliminaCiao Fulvio!
RispondiEliminaE grazie ancora di averci portato in terra d'Eritrea, che ammetto conosco pochissimo, ma che davvero mi accorgo meriterebbe davvero di essere studiata, come del resto un intero continente lasciato, volutamente, terra incognita. Un solo spunto di riflessione sui terrazzamenti: il livello di civiltà di un popolo si riconosce anche da come si rapporta al territorio, lo modella nel rispetto dell'ambiente circostante e dei fragili equilibri che lo compongono. Quella cinese antica, era definita anche civiltà idraulica, proprio per come era riuscita nei millenni a governare terra e acque, indispensabili nel ciclo del riso. Noi invece molliamo i terrazzamenti su colline e montagne e costruiamo sui letti dei fiumi... e ci consideriamo civiltà superiore.
Un caro saluto.
Paolo
Ciao Fulvio
RispondiEliminaGrazie sempre per quello che scrivi.
Volevo chiederti, perché l'Italia (TUTTA) sia i partiti d'opposizione che quelli al governo girano la testa nei confronti dell'Eritrea.
Quando gran parte dei paesi europei hanno o stanno instaurando normali relazioni diplomatiche con scambi di inviti e visite in Eritrea, noi in modo ipocrita facciamo finta di niente, mentre per mille ragioni storiche e contemporanee dovremmo essere in prima fila.
Io sono italiano ed esigo dai miei rappresentanti di governo, che dai partiti di opposizione una spiegazione UFFICIALE del perché di questo isolazionismo nei confronti di un Paese dove noi siamo stati responsabili di tante nefandezze.
Un saluto e grazie di nuovo
Massimo@
RispondiEliminaPerchè l'Italia è più serva della Nato degli altri. Pensa all'Egitto e come, utilizzando la spia Regeni, ci siamo martellati i coglioni mandando per aria accordi economici (ENI, il gas, eccetera) che ci sarebbero stati di grande beneficio. E subito sono arrivati americani, francesi, britannici a prendere il nostro posto. Stesso mdiscorso con la Libia dove, al tempo di Gheddafi, eravamo i primi partner.
Siamo servili al punto da castrarci.
E poi, con l'Eritrea, forse c'è la classica sindrome dell'ex-colonialista seccato di aver perso la preda.
http://www.indexmundi.com/it/eritrea/tasso_di_saldo_migratorio.html
RispondiEliminaRispondo io per anonimo
Ludovico
https://www.youtube.com/watch?v=i4LgsHMaV38
RispondiEliminaScusate se divago. Ieri ho capito come funziona il "Bonus Renzi" ed il Jobs Act: essendo passato da interinale a tutelato (sic!) crescente ho dovuto presentare il 730. Morale: " ci dispiace, ha avuto troppe detrazioni. Ci deve 1.500 € tasse. 300 € al mese per cinque mesi". Prendo 1.000 euro al mese, parlando 7 ore al telefono in tedesco ed in inglese. Non proprio un lavoro banale. Dovrò "vivere" con 700 euro al mese da luglio a novembre. Sapete dove si trova la Caritas?
RispondiEliminaCaro Anonimo, secondo il senso comune ed i commenti da salotti Tv saresti anche fortunato perchè "bene o male un lavoro ce l'hai (!), pensa ai milioni di disoccupati, od ai profughi che hanno perso tutto" (salvo poi dire, gli stessi, anche dopo dieci minuti che "se ne devono tornare a casa, non possiamo mantenerli tutti"). Mal tempora currunt, e non riesco a capire perchè se in Francia un pò si incazzano, qui a parte qualche flebile mugolio di Camusso e vari, quasi nulla si muove.
RispondiEliminascondo quel sito e' dal 2004 che dall'Eritrea non esce nessuno, mi sembra un dato poco veritiero
RispondiEliminasono nato e vissuto fino al 50 all'Asmara ,questo articolo non contiene una sola verità , neppure storica , direi scritta da uno di sinistra che cerca solo di sminuire il fascismo
RispondiEliminamettendo invece in cattiva luce solo gli italiani che , costruirono strade ferrovie scuole ospedali , e indegna e vergognosa ,