Un’occhiata alle più recenti epifanie del progetto terrorista della coalizione Usa “Guerra al terrorismo”. Per la verità sono parecchio stufo, a ogni stormir di False Flag, fatte poi garrire al vento dal pneuma delle larghe intese mediatiche, di indicare le marchiane e rozze imperfezioni dell’operazione. Quelle che se avessimo ancora una categoria giornalistica definibile tale e non una accolita di muselidi ammaestrati, dovrebbero dilagare a caratteri cubitali da schermi ed edicole. Viene da morir dal ridere su come questi, con tutti quei collaudi alle spalle, dalla Maine a Pearl Harbor, dal Golfo del Tonchino all’11 settembre, da Charlie Hebdo al culmine del grottesco bavarese di Monaco, continuino a esibirsi in tessuti complottisti lacerati dall’incompetenza e dalla convinzione che, come i giornalisti sono tutti acquistabili, anche noi cittadini siamo tutti scemi. Viene da morir dal piangere a constatare che, in effetti, siamo tutti scemi. Quasi tutti, quasi scemi. Basterebbe lo stereotipo di ogni attentato: il personaggetto stralunato, borderline, già carcerato, zeppo di casini, abbondantemente fuori di testa, tutto fuorchè credente suicida, mai combinato niente di islamico, che o scappa, o viene ucciso prima che possa obiettare “ma non mi avevate detto….”, o sparisce in qualche carcere e non se ne parla più. Perlopiù ucciso, come il figurante di Berlino.
Sono tanto bravi a fornire identità false ai loro sicari quanto questi sono incapaci di non “perderle” nei punti giusti. E’ comportamento logicissimo per un terrorista rendersi irriconoscibile col passamontagna (Charlie Hebdo), o addirittura non comparendo per niente sulla scena (11/9), epperò portarsi appresso i documenti è lasciarli in bella vista talchè li possa trovare anche il più Clouseau degli ispettori. Per poi scatenare una caccia all’uomo transnazionale che militarizzi anche le panchine dei parchi e metta in riga chi aggrotta le sopracciglia e diffonda “fake news”.
Nelle macerie polverizzate in nanoparticelle delle Torri Gemelle, Clouseau trova il passaporto intonso del capo-dirottatore, Atta; sul cruscotto dei giustizieri di Charlie Hebdo, l’indefettibile Inspecteur Clouseau cattura la carta d’identità di uno dei fratelli Kouachi (entrambi uccisi da un battaglione di robocop che li poteva catturare più facilmente di uno scippatore); e, ora, sotto il sedile del camion, dopo appena due giorni (occhiute e rapide queste forse speciali tedesche!), Herr Inspektor Klouseau riesce a scoprire il documento di identità del gironzolone tunisino Anis Amri, soggetto classico delle montature terroristiche, con la sua storia di disturbato mentale.
Chiude definitivamente il ciclo di questi geni investigativi l’Ispettore Clouseau italiano che, in un “controllo ordinario del territorio”, incappa a Milano nel fuggiasco Amri e, coma da ordine di servizio, non può esimirsi dal farlo secco. Tocca a lui, come a tutti gli altri figuranti. Bocca tappata, mandanti e complici svaporati. Ammette il questore di Milano: “Potrebbe sembrare paradossale”. Ma no, per carità, quale paradosso. Non è così, facendo “ordinari controlli del territorio”, che ti capitano tra i piedi terroristi masskiller da far fuori? E’ la prassi. Che Omero se la rida pure. Avrà le sue ragioni.
Chi ci guadagna
Ovvio che ognuna di queste patetiche e ripetitive sceneggiate convincerebbe d’acchito il più diffidente dei San Tommasi che nessuno dei così identificati e messi a tacere c’entra una cippa con l’attentato. Chi c’entra sono con ogni probabilità coloro che di questi figuranti, estratti da bettole, CIE, carceri, o liste nere di “sospetti” compilate in vista dell’evento, hanno fatto trovare le generalità e allertato la serie di ispettori Clouseau. Anche perché si tratta dei mandanti di tutti gli ispettori Clouseau impiegati per la bisogna da coloro al cui vantaggio sistematicamente si risolvono queste operazioni. Quale vantaggio?
A) Distogliere l’attenzione da un’altra operazione, ben più originale e gravida di ripercussioni geostatiche e geodinamiche: l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara. Operazione di portata enorme, avvertimento chiaro a chi a Mosca, russi, turchi, iraniani, stava cercando di sistemare la Siria escludendo la banda dei suoi uccisori e a loro discapito. Ma anche imbarazzante per un’opinione pubblica investita dall’uragano russofobo che sta travolgendo la verità percepita dagli americani e occidentali tutti, peggio del ciclone Matthew spianatore di buona parte della costa Ovest.
Quando, nei micidiali colpi di coda di Obama e dei suoi mandanti neocon, si finisce con attribuire agli intrighi di Putin l’elezione del Golem Trump, quando si attribuiscono a Putin e ai russi i crimini che Nato e Golfo hanno commissionato ai mercenari di Aleppo, quando si raffigura la Russia nei panni dell’orso avviato a sbranare la civiltà occidentale, si è oltre i bolscevichi che mangiano i bambini. Ma soprattutto si rende l’assassinio di un ambasciatore un fatto umanamente comprensibile, quasi naturale, quasi… auspicabile. E qualcuno, sopravvissuto all’uragano, potrebbe arrivare a concludere che l’assassinio dell’ambasciatore è il culmine logico di quella campagna. Che poi, altrettanto logicamente, dovrebbe portare alla grande guerra finale, ovviamente umanitaria.
B) Far dimenticare la prova provata che a lanciare contro la Siria (e quindi contro la Libia, l’Egitto, la Nigeria, l’Iraq, l’Europa, Boston, New York) la peste jihadista e a gestirla e dirigerla ovunque, fino al ridotto di Aleppo Est, sono stati Usa, Israele, la Nato e i loro alleati nella regione, visto che russi e siriani sono riusciti a mettergli il sale sulla coda. La cattura nel bunker di Aleppo Est di alcune decine di ufficiali della coalizione anti-siriana, tra cui statunitensi e israeliani, tedeschi e britannici, seguita al missile russo che ne aveva decimato altre decine settimane fa, colma anche l’ultimo centimetro quadrato di dubbi che fossero sopravvissuti negli utili idioti della “guerra al terrorismo”.
C) Giustificare alle plebi psicotizzate fino al panico l’adozione di ulteriori misure repressive che perfezionino lo Stato di polizia necessario alle guerre contro popoli e classi interne. E quindi più militari e polizia per le strade, più occhiute telecamere, più intimazioni ai gestori di internet di denunciare e sopprimere le “fake news” di chi obietta cose come queste qua, più poliziotti nelle scuole a schiacciare il virus del bullo che domani si evolverebbe sicuramente in terrorista. Più orecchi e occhi clandestini nei nostri smart-phone, citofoni, televisori e computer
Le allegre donnine di penna e microfono
Non per nulla scattano al fischio del lenone, come un solo presstituto, i prestatori d’opera del lupanare mediatico e si adoperano a spostare questi fattarelli ai margini di foliazioni e schermi invasi, invece, dal logoro remake di Berlino. Il ragazzo di bottega della brigata , “il manifesto”, si distingue come al solito: il primo giorno Ankara in pagina 9 dopo 8 pagine di Berlino, in pagina 5 al secondo giorno, niente al terzo, quando Berlino svettava ancora, con fotone, dalla prima pagina in poi. L’assassinio dell’ambasciatore di una delle tre massime potenze del mondo, tutte coinvolte in una partita per la vita o la morte del pianeta, assume un rilievo pari a un fatto di cronaca nera. Il nuovo disvelamento di sgherri Nato che vengono presi con le mani nella marmellata del genocidio del popolo siriano ed esibiti alla stampa mondiale, non varca la portineria delle redazioni. La ratio di queste operazioni mediatiche, dettate dall’intelligence di riferimento, è semplice: sbattiamo in prima pagina il cattivo che uccide vittime buone e seppelliamo in ultima la vittima cattiva uccisa, se non proprio da un buono, da uno che, comprensibilmente, umanamente, ha voluto vendicare i bambini di Aleppo massacrati dai russi (come scrive anche, sul solito “manifesto” il solito “liberal” della lobby).
“Warum?” Loro lo sanno.
Eccelle, come sempre, nelle acrobazie depistatrici, la lobby talmudista. I Colombo, i Coen. “Warum?”, perché?, scrive Leonardo Coen (me lo ricordo che bazzicava attorno al giornale Lotta Continua, di cui allora ero direttore, ma non gli demmo retta) interpretando la domanda che i tedeschi si porrebbero a proposito di questa sequenza di attentati sul loro suolo. Il riflesso condizionato della sua congregazione gli impone di spostare l’attualità al passato dell’ “eterna e incancellabile colpa del popolo tedesco”, l’olocausto. Già, perché quel “warum?” ripeterebbe il “perché? che si chiedevano gli ebrei mentre venivano sterminati dal nazismo”. Prendono sempre la palla al volo, questi qua. Eppure la risposta, quanto meno al primo “warum?” la conoscono meglio proprio loro. I tedeschi, anche se viene pestato un bacherozzo, devono ricordarsi, convincersi, di aver ammazzato 6 milioni di ebrei.
Andrej Karlov, l’ambasciatore ammazzato dal poliziotto turco, da quarant’anni in diplomazia, era un protagonista del dialogo tra Turchia, Iran e Russia, mirato a organizzare l’evacuazione dei civili e mercenari da Aleppo Est e, poi, a estendere il discorso a una soluzione politica dell’aggressione. Non è la prima volta che esponenti russi sono presi di mira, non solo verbalmente, come nel caso di Boris Johnson, ministro degli Esteri britannico, che, conscio del suo ruolo, sollecitava assalti alle ambasciate russe, o Samantha Powers, rappresentante Usa all’Onu, che esigeva si ponesse fine ai crimini contro l’umanità commessi dai russi ad Aleppo e in tutta la Siria, o John Kerry che asseriva la Russia aver superato ogni limite della vergogna.
A che gioco gioca Erdogan?
Mentre è evidente il coordinamento tra l’assassinio inteso a mandare in frantumi l’eventuale avvicinamento di Ankara a Mosca e a sabotare l’intesa a tre per uscire dal marasma mediorientale e, poche ore dopo, l’attentato al mercatino di Natale berlinese che doveva spostare su quest’ultimo l’attenzione e il turbamento dell’opinione pubblica, meno chiare appaiono le mosse di Erdogan. Proviamo a mettere insieme la spedizione congiunta russo-turco-iraniana per la pace, il perdurante flirt Ankara-Mosca, le accuse di Erdogan al rivale ospitato negli Usa, Fethullah Gulen, sia per il golpe, sia per l’omicidio di Karlov, dove Gulen sta per Cia, e poi l’assalto turco ad Al-Bab, città di 60mila abitanti posta tra Aleppo e il confine turco. L’operazione “Scudo dell’Eufrate”, lanciata dal principale padrino dell’Isis nella regione per impedire il congiungimento tra i cantoni a maggioranza curda in Siria, ma soprattutto per rubare territorio alla Siria e farlo ottomano, aveva già conquistato la vicina Manbij. La direttrice è chiara: dal confine turco a Nord va dritta come un fuso verso Aleppo passando per Manbij e Al-Bab.
Erdogan afferma che l’offensiva sarebbe diretta contro lo Stato Islamico (peraltro suo figlioccio), avrebbe causato la morte di un migliaio di militanti dell’Isis e ne avrebbe distrutto un ingente quantità di mezzi e armi. Ma fonti indipendenti, e la stessa Reuters, non hanno rilevato grossi scontri. Più probabile che forze tra loro amiche abbiano concordato una tranquilla evacuazione dei terroristi. Che, come quelli di Mosul, potrebbero aver avuto via libera per Raqqa, oppure per Idlib. Già, perché qui si prospetta una bella operazione a tenaglia su Aleppo liberata: da Nord le forze turche, da Est, da Idlib, dove si sono rifugiati i terroristi Isis e Al Nusra evacuati da Aleppo, una bella controffensiva facilitata dai turchi. Magari senza riuscire a riprendere la seconda città siriana, ma per passare dallo scontro militare, perso, alle autobombe, sempre vincenti. E per riaccendere i lamenti e le geremiadi sulla città martire. Ovviamente martirizzata da Putin e Assad. Con i quali i conti restano tutti da fare. Almeno finchè nello studio ovale ci troviamo ancora l’assassino seriale più prolifico della storia Usa.
Giusto l'altra sera a Blob hanno fatto rivedere il rifugiato africano che aveva zittito Gasparri chiedendogli come mai i presunti terroristi non vengono mai catturati vivi.
RispondiEliminaBuon Natale e Buon Anno caro Fulvio.
Articolo magistrale, caro Fulvio. Purtroppo penso che se il clichè viene ripetuto significa che il popolo bue ci crede. Pazienza.
RispondiEliminaBuone feste a te e grazie per il lavoro che svolgi.
Ad majora!