sabato 2 giugno 2018

Il ’68 che inizia da bambino e non finisce da vegliardo, perché nostra patria è il mondo intero, ma nostra nazione è l’Italia “UN SESSANTOTTO LUNGO UNA VITA”, DA FASCIO E SVASTICA A GLOBALISMO BIO-TECNO-FASCISTA


Dopo la prima edizione, esaurita in 15 giorni, escono la seconda edizione italiana, ampliata di un buon terzo, e la prima tedesca, onorate dalla prefazione di Vladimiro Giacchè e tormentate dal mio disordine cronologico, geografico e tematico, di un racconto di vita tra rivoluzione, controrivoluzione, stagnazione, combattenti, amici del giaguaro e utili idioti. Chiedetela o ordinatela in libreria, o consultate www.zambon.net
E’ il cinquantesimo - mezzo secolo e pare ieri, ma anche un altro evo, altro pianeta – del fenomeno storico chiamato “Sessantotto”, “’68”, ma che abbraccia un intero decennio, 1968-1977, almeno in Italia dove è stato il più longevo. Se uno alla lettura di questo lancio lunghetto preferisce la volatile ma rapida soluzione audio, ecco il link dell’intervista fattami da Radio Cusano Campus: http://www.tag24.it/podcast/fulvio-grimaldi-il-68/.  E al seguente link  c’è anche una generosa recensione di Stefano Zecchinelli: http://www.linterferenza.info/cultura/un-sessantotto-lungo-vita/

 Un invito della Bundesrepublik all’eversore
Succede che  alla vigilia dell’epocale ricorrenza ricevo l’altamente sospetto invito della “Bundeszentrale fuer Politische Bildung”, organismo della Bundesrepublik che si definisce dedito alla “formazione della cultura politica”.  Mi chiedono, nella mia qualità, che per un governo neoliberista e Nato avrei dovuto credere invisa, di esponente del ‘68, neanche di primissimo piano, di scrivere un contributo per una raccolta di testi di testimoni dei vari paesi coinvolti: “Ci racconti il suo Sessantotto, una cinquantina di pagine… Insieme a quelle di militanti, analisti, storici, tedeschi e di altri paesi, formeranno una raccolta che accompagnerà una grande mostra ad Aquisgrana, da aprile ad agosto 2018, intitolata “Bagliori del futuro, l’arte dei sessantottini, ovvero il potere dei senza potere”.


Forse la scelta della mia persona è dovuta al fatto gli sarà capitata sotto gli occhi copia del quotidiano “Lotta Continua”, di cui sono stato direttore dal 1972 al 1975. E magari le cronache giudiziarie dei miei circa 150 processi o denunce per reati di stampa: record assoluto in Europa.  Comunque trovo iltitolo azzeccato, quello della mostra di Aquisgrana, per niente denigratorio, anzi proprio bello, ma che non ha dissolto i sospetti che non potevano non nutrirsi sulla genuinità degli intenti, la correttezza storica, l’imparzialità della valutazione politica di un governo che del ’68 è l’antitesi. Era, dopotutto, l’iniziativa di uno Stato che aveva “suicidato” in carcere i capi della RAF, Rote Armee Fraktion, gente della cui autenticità è stata prova, insieme ad altre, proprio quella esecuzione. Finale diverso da quello di chi, da noi, se l’è cavata e oggi pontifica da schermi e giornali ad avallo della colossale mistificazione di uno Stato complice.

Ma mi sono dovuto ricredere. Il mio testo, da reduce per niente pentito, abbastanza elogiativo nei confronti del movimento, intanto non è stato censurato e mi ha guadagnato i complimenti, direi quasi partecipi, del responsabile dell’intero progetto. La mostra di arti figurative, per le quali la raccolta fungeva da catalogo, aveva un carattere evocativo segnato da rispetto, addirittura ammirazione e rimpianto, per qualcosa di prezioso amaramente perduto. E tali erano anche  gli interventi dei politici del Land e della Repubblica Federale. Furbizia? Generosità nei confronti dei vinti? Spazi di imparzialità imposti da una tradizione di storici dignitosi? In ogni modo, nell’insieme, un’operazione democratica. Da noi inconcepibile.

In Italia, invece, sul cinquantenario si sono buttati a pesce pochi titolati e molti abusivi. Forse, se per il ’68 italiano hanno scelto me, anziché un Sofri, un Bologna, un Fofi, una Castellina, un Viale, un Mordenti, un Capanna, un Boato, un Erri De Luca che, insieme alle Alpi, scala le vette del sionismo, oppure altri, fasulli e millantatori, promossisi militanti o esperti ex-post per approfittare dell’ondata editoriale, è dovuto al  fatto che, forse, qualcuno della “Bundeszentrale” è incappato in una delle trasmissioni, interviste, tavole rotonde, del popolare giornalista e politologo Ken Jebsen. Jebsen, odiatissimo dalle truppe radical-trendy, russofobe e di complemento al sistema capital-globalista, è giornalista di riferimento in Germania per l’opinione antimperialista, antiliberista e sovranista. Ne sono stato ripetutamente ospite. E i vagliatori dei reduci del ’68 si saranno resi conto che, diversamente da molti dei sopra citati e di tanti altri, il sottoscritto non aveva cambiato casacca, trincea, amici e nemici, e che questa continuità poteva perciò essere più aderente a un progetto storico obiettivo, rispetto a chi da eversore si era fatto grillo parlante, da incendiario pompiere e perfino manganello dell’establishment.

Chi c’era e chi ci faceva
Rapidamente. Dall’intesa tra la “Bundeszentrale” e Zambon, editore di altri miei libri, il contributo alla raccolta dei vari sessantottini si evolve in libro: ““68 ein Leben lang”. Dal quale, visto la superfetazione di pubblicazioni, seminari, convegni, inserti, raduni vintage, abbiamo pensato, Zambon, il suo collaboratore Fabio ed io, non sarebbe stato inopportuno trarre anche un’edizione italiana. Più lunga di quella tedesca, visto anche che per caratteristiche di durata, molteplicità dei soggetti, spessore dell’elaborazione teorica e ricchezza di quella pratica, il Movimento in Italia supera per importanza storica e politica quello più effimero di Francia, Germania, paesi anglosassoni e, semmai, trova paralleli nelle resistenze latinoamericane, nelle lotte anticoloniali del Terzo Mondo, in Palestina e nel nazionalismo arabo, nell’antimperialismo del Vietnam, nelle rivolte civili. Dove perlopiù, tra le varie organizzazioni italiane, eravamo presenti da comunicatori e partecipanti. Nostri fratelli erano i Tupamaros, l’ERP, i fedayin, l’Ira, Irlanda del Nord, Palestina e Libano, Che Guevara, il Portogallo dei Garofani. Il PCI su queste cose si ingarbugliava e poi bloccava. L’onesto Berlinguer, scegliendo Nato e DC, gli aveva sparato la pera tossica finale. Il “manifesto” di Rossanda, Castellina e altri della tribù, ciurlava nel manico, calmierava, obnubilava il proletariato con una sovracultura astrusa e inaccessibile, destinata a farci sentire tutti inadeguati, cretini.

Quando Sofri e la sua conventicola presero a blaterare di socialimperialismo, concetto balordo e infondato, vollero inserire nella nostra galleria pure i Solidarnosc polacchi, mobilitati dal Papa guerrafondaio in Jugoslavia e finanziati da italiani, europei e americani embedded con la Cia, checchè si volesse dire del generale Jaruzelzki e dei sovietici, la crepa aperta nel movimento prese a sanguinare e  si sarebbe allargata fino al dissanguamento. Con i detriti di Solidarnosc il Nostro allestisce oggi rievocazioni spurie del ’68, dipanando un filo che, fin dal salto della quaglia da Lotta Continua a Pannella e Craxi, ai jihadisti ceceni, lo ha reso cantore, sulla pubblicistica berlusconiana e debenedettiana, di ogni operazione imperialista made in globalizzazione e russofobia. Altri del suo “giro”, si sono inguattati nelle alcove di lusso delle presstitute, con ovunque quell’esposizione e rilevanza che premia i venduti e offre soddisfazioni ai loro acquirenti.


Noterete che non c’è campagna di distrazione di massa dai temi che dovrebbero mobilitare quelli che stanno sotto, perlopiù gestite e finanziate da Soros e dai suoi apparati, che non veda in prima fila un “ex”: identificazione di paesi da radere al suolo perché guidati da “dittatori”; migranti da accogliere purchè sguarniscano di forze i paesi d’origine, si prestino alle nuove forme di schiavitù e abbattano i diritti dei lavoratori in quelli d’arrivo; tutta l’ossessiva panoplia  dei cosiddetti diritti civili, dai matrimoni unisex alle adozioni da uteri in affitto, alla criminalizzazione di un genere in quanto tale e la divinizzazione dell’altro in quanto tale, a fini di  frammentazione sociale e di ostilità indotte tra gruppi che perdono di vista il nemico comune.

Fin dalle prime battute il decennio insurrezionale ha visto chi, più che esserci, ci faceva. Serpeggiavano tra le file dei nostri soggetti rivoluzionari: operai, studenti, intellettuali, precari, sottoproletari, inquadrati in strutture autoritarie come esercito e polizia, combattenti contro la devastazione del patrimonio ambientale. Spesso mandati a estremizzare. Al momento giusto sparivano. Un’infima minoranza, ma di gente molto in vista, anche  perché fatta emergere apposta e bene attrezzata. Parte del merito della vittoria della controrivoluzione e della “restaurazione progressista”, le va riconosciuto. Insieme alla militarizzazione dello scontro affidato agli apparati dello Stato, a cominciare dal mai defunto Gladio, dai servizi esteri, dagli infiltrati che oggi il Sistema manda a imbrogliarci dagli schermi con versioni degne di quelle rifilateci sull’11 settembre.

Costoro, insieme a entusiasmi strabordanti la realtà, sbandate velleitarie, fanciullesche ingenuità, astute mistificazioni e brutale cinismo del nemico interno ed esterno, ci hanno scavato la fossa. Solo che fossa non era, ma cavità di un flusso carsico che si vede riemergere in altri tempi e altri luoghi, in forme e linguaggi diversi, ma che in comune con il nostro decennio hanno il gigantesco NO all’esistente che punta a diventare un gigantesco SI per il futuro. Una volta o l’altra riemergerà anche da noi. Nel recente voto il NO è già ricomparso. Ora si tratta di garantirci un SI come si deve.


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