A dispetto
che me ne verranno alcune ragionate obiezioni e un mucchio di biecamente
strumentali anatemi (reazionario, nazionalista, sovranista, populista,
rossobruno e via nella scia del sinistro sinistrismo), sento l’urgenza di
inserirmi con due parole nella diatriba scatenata da Salvini con la proposta di
tornare al servizio di leva obbligatorio, militare o civile. Per otto mesi. Io
ne feci 18 e se parto da me non è per il narcisismo di coloro che trattano il
mondo come se fosse una giostra di calcio in culo dove tutto è mosso dal perno
centrale e gli ruota intorno e quel
perno sarebbero loro. Avete presente Luciana Castellina, Furio Colombo, Roberto
Saviano, Mattia Feltri, Eugenio Scalfari, per restare sul ramo della
comunicazione?
Dal Parnaso alle stalle di Augia
Diciotto
mesi sul finire degli anni 50, appena finita l’università, quando avevo ancora
poca barba, tantissimo testosterone e lavoravo a Milano all’ufficio Stampa
della Mondadori, frequentando e promovendo la creme de la creme (la tastiera
non ha l’accento grave) della migliore intellettualità che l’Italia abbia avuto
da allora: Montale, Quasimodo, Moretti, Vittorini, Calvino, Fenoglio,
Palazzeschi, Bacchelli, Sereni, Arpino, Rea, Pratolini, Buzzati, Moravia… Li
elenco e richiamo l’aria che in quelle temperie respirava un giovinastro
appassionato di penna e lettura, per paragonarla a quella rancida e pervasa da
sudori e disinfettante che girava per le camerate di una caserma. Si può
immaginare il trauma. Superato quello già
non lieve della visita medica, tutti nudi con le mani incrociate sul bene
prezioso e il maresciallo della Sanità che ti tastava le gonadi per vedere se
eri affetto da qualcosa. I primi tempi di caserma erano da depressione. Ma non
si finiva depressi. Proprio perché si era in tanti e la comunanza dava forza. Incazzati,
magari, ma è diverso, è positivo. A me il militare ha fatto capire che ero
parte di qualcosa.
Prima i fatti, poi la morale
La prima
caserma era quella di Ascoli Piceno e la libera uscita, rigorosamente in
divisa, ci vedeva a Piazza del Popolo, inguattati nei portici a occhieggiare
ragazze i cui sguardi ci attraversavano come fossimo trasparenti. Il massimo
dei massimi era la cena-baraonda nella bettola del vicolo che ci costava un
terzo del soldo mensile. La seconda caserma, sempre da allievo ufficiale, era a
Caserta, allora mica la scintillante città di oggi, più un borgo espanso e
polveroso dove, per la libera uscita, c’era la reggia e una ragazza che ti
faceva la prestazione su un lettone dietro a una tenda sorvegliata dall’anziana
madre che faceva la maglia e dondolava una culla. Poi vennero, per il comando
di un plotone e poi di una compagnia, Roma e quello che allora era il buco di
culo del Nord Est e oggi una “ridente cittadina”: Sacile del Friuli, Brigata
Corazzata Garibaldi. Infine, il ritorno da Mondadori: allora ai militari si
conservava il posto.
Alla scuola
allievi di Ascoli dopo i tre mesi, si poteva volontariare per un’arma:
cavalleria, fanteria, alpini, commissariato, genio… Di solito, prese le tue
misure, venivi accontentato. Ma per i bersaglieri c’erano da superare alcune
prove, durette: percorso di guerra, salto mortale, arrampicate e soprattutto
una mezza maratona. Arrivai terzo, stremato, strisciando. Il colonello selezionatore
per questo decise di ammettermi, nonostante l’handicap inibitore degli
occhiali: “Sei un bersagliere”, disse. Scelsi i bersaglieri perché mi piaceva
correre e ne avevo letto le imprese nelle guerre d’indipendenza, soprattutto la
breccia di Porta Pia e, con quella, la fine dello Stato della Chiesa e, si
pensava, la fine del potere temporale del papa. Eppoi li circondava quell’aura
da tardo ottocento della Scapigliatura, irriverente e antibigotta, e da primo
novecento futurista, intriso di libertà di movimento, velocità, canzoni sbarazzine
e ragazze. Tutto questo simboleggiato dalle piume di gallo cedrone (poi di
cappone), “l’ala del bersagliere”, che doveva nella formula moderna, con la
corsa, spazzare la via ai mezzi corazzati.
Lamarmora, come salvare la pelle
Del generale
Lamarmora, il fondatore, non gradito ai Savoia, ma giudicato tra i migliori
strateghi della storia militare, mi aveva colpito un cambiamento dell’arte
della guerra. Con i suoi bersaglieri aveva posto fine all’avanzata compatta di schiere
di soldati, agevolmente falcidiati in massa dal nemico, le “onde umane” usate
da secoli con sommo disprezzo per le vite degli uomini. Aveva inventato il
metodo di far muovere i bersaglieri sul campo di battaglia in unità di tre,
sparpagliate, con sapiente uso dei ripari forniti dal terreno. Grande risparmio
di vite. Conservo ancora il cappello piumato, ma di tutto questo non ho la
minima nostalgia, anche perché è mescolato alla stupidità intrinseca della
gerarchia, a certe violenze implicite in chi si approfittava dell’essere
titolare di un rapporto dall’alto in basso, a fatiche immonde, a punizioni
immeritate, a un sottile, sempre presente, senso carcerario, del sentirsi alla
mercè di una volontà arbitraria. E quello che ai bersaglieri professionisti,
insieme alle altre specialità, vien fatto fare da comandi obbedienti a decisori
esterni al mio paese, non mi riguarda e mi ripugna.
C’era
comunque il buono e il cattivo. C’era il colonello che ti perseguitava con le
punizioni e la negazione dei permessi perché, con la tua confidenza data alla
truppa da ufficiale giustificavi gravi ma inconsistenti sospetti di
omosessualità; e c’era il capitano pittore che ti invitava nella sua
stanza a scoprire sul registratore Miles
Davis, Brassens e Paul Anka. C’erano le esercitazioni a fuoco in cui qualcuno
ci poteva rimettere l’incolumità di un braccio, o peggio, e c’era la
soddisfazione per aver passato la prova grazie a un coraggio e una lucidità che
pensavi di non avere.
E, per
chiudere sul piano personale, di molto buono per me c’è stato che, arrivato in
caserma da mangiapreti, sì, visto che venivo da un collegio di frati (per cui
Porta Pia), ma anche da destro dichiarato e convinto, e ne uscii da convinto
comunista. La prima condizione veniva da un passato infantile e adolescenziale
tra Figli della lupa e camicie brune in Germania, la seconda dall’incontro con il
carrista Marcello, universitario fiorentino (come me), figlio di ferroviere
comunista, comunista saggio ed elastico anche lui. A forza di libere uscite
sulla mia moto Zigolo, vane cacce comuni all’entità femminile, estenuanti
discussioni e il fatto che lui, nonostante mie ostinate stupidaggini, non mi ha
mai mandato a fare in culo, ho attraversato il rubicone.
La morale
Quello che
ho, abbiamo, hanno vissuto nei 18, poi 12, mesi di leva militare, mi fanno dire
che Salvini, per una volta, ha ragione. E’ un forte sostegno alla sua ragione
gli danno coloro che il servizio di leva lo abolirono: D’Alema, caporale Nato
in Jugoslavia, nel 1999 ne ventilò la fine, Berlusconi nel 2004 la sancì. Bei
tipetti, ottimamente motivati. Dalla Nato. Che tutto propone, pone e dispone
nel nostro paese. Un processo avviato e poi imposto a tutti i paesi del giro
che aveva iniziato a muoversi verso la fine della sovranità popolare, della
democrazia, della pace. Quelli di Stay
Behind, Gladio, che avevano mosso le pedine De Lorenzo, Borghese, Gelli e
stragisti vari, per un “regime change”
in salsa yankee, che allontanasse il PCI dal potere, si erano resi conto che
con quattro guardie forestali, un manipolo di ufficiali di medio rango, qualche
poliziotto e qualche Delle Chiaie, si andava per fichi. Che ci sarebbe voluto
l’esercito, l’aeronautica, la marina, o almeno grossi pezzi di questi.
Ma con un
esercito di leva, cioè di cittadini di tutti i colori, perlopiù portati alla
pace e alla vita senza avventurismi di sapore fascista, ovviamente niente da
fare. E neanche per mandare Giulio il bracciante, Oreste lo studente di
architettura, Mario l’operaio Fiat, Riccardo l’infermiere, Palmiro il
giornalista di Paese Sera a sparare e farsi sparare in Russia, Serbia, Iraq,
Sud Tirolo. Ci sarebbero voluti i volontari, i professionisti, i mercenari.
Quale mamma avrebbe potuto presentarsi all’ufficio di leva per strappare il
figlio, autodeterminato a fare la guerra, dalle grinfie del maresciallo
reclutatore?
Questa è la
considerazione basilare per porre fine al turpe allevamento di carne da cannone
e di combattenti, in casa e fuori, per il Nuovo Ordine Mondiale dell’élite
dollarocratica, a difesa dei confini della patria tra Herat, Mogadiscio,
Baghdad, Tripoli e dove cazzo la famiglia Rothschild e il suoi salottini
Trilateral, Bilderberg decidono di avanzare verso quel nuovo ordine. Poi ce ne
sono altre che con le guerre e armi c’entrano poco o punto. Pensate a otto mesi
in cui ragazzi tra i 18 e i 25 anni possono tirare fuori lo smartphone solo la
sera, in libera uscita. A questi giovanotti coccolati e rimpinzati dalla
famiglia fino a 40 anni (mica per colpa loro, s’intende) senza mai dover subire
l’affronto di un monte fisico o psicologico da superare, una difficoltà da
contenere o raggirare, un sopruso da subire senza farsene abbattere. Senza mai
aver dovuto affrontare un forte disagio ambientale, umano, morale, costretti a
convivere anche all’ingiustizia senza poterla scaricare su altri, ma dovendola
condividere.
Fare comunità
Ecco
condividere. Fare comunità. Da iperindividualisti che si era e come vorrebbero
che fossi: mors tua vita mea,
competere non cooperare. Ritrovarsi in un destino comune, anche se solo
temporaneo. Con gente che altrimenti avresti incontrato mai, con la quale mai
avresti pensato di dover, poter, condividere alcunché. Il siciliano e quello
della Valsugana, l’umbro e il leccese, quello che rientra dal laboratorio
genetico di Londra e quello del Rione Sanità. Il musicista e l’impiegato di
banca, lo studente e il figlio del contadino lucano, lo stronzo e il simpatico.
E dove tutto quello che hai alle spalle non conta nulla, e tocca remare: siete
nella stessa barca, branda, taverna, camera di punizione, guardia alla
polveriera, mangiate lo stesso rancio, condividete frustrazioni, attese e
resistenze. L’uguaglianza sociale sta lì e si rivela ottima cosa. Stai lì per
la collettività.
Dice che
oggi l’esercizio delle armi è a livelli tecnologici tali che in otto o 10 mesi
non si combina nulla. A parte il fatto che non è vero e che le tecnologie
militari e militariste sarebbe bene riconvertirle, anziché misurare l’angolo di
impatto del missile sulla base del frattale che si aggira tra il tuo schermo e
il satellite, o piuttosto che bardarti di macchinari con cui colpire quella che
sembra una famiglia al matrimonio, ma è un’accolita di terroristi, sarebbe bene
imparare come intervenire su un argine rotto dall’esondazione. Su un terremoto.
Esercito di popolo
Un esercito
di popolo non sarebbe neanche quello che abbiamo conosciuto nei decenni del
dopoguerra, sempre intriso di quell’impostazione gerarchica senza basi
valoriali civiche e consenso
legittimante. Noi di Lotta Continua, con l’organizzazione “Proletari in divisa”,
ci impegnammo a fondo negli anni ’70 per strappare alla politica e all’apparato
militare sclerotizzato su concetti addirittura pre-napoleonici, il diritto a
spazi democratici e di autodeterminazione dei soldati. L’idea, da riproporre
oggi per un’eventuale nuova leva, militare o civile, è quella dell’intima
connessione tra forze armate e società civile, territorio, istanze e bisogni
popolari. Un esercito scuola di costruzione della democrazia a partire dai suoi
cittadini organizzati in servizio di leva, dalla compartecipazione di militari,
comandi e politica nelle decisione riguardanti attività di difesa e di
intervento nelle problematiche nazionali, nell’assoluto rispetto dell’art.11
della Costituzione. Per cui missioni
all’estero, che non siano per aiutare a estrarre persone da sotto le macerie
del terremoto in Iran o nelle Filippine, neanche a sognarle.
Io che, per
i casi della vita, avevo colorature e marcature tedesche profonde, da militare
ho scoperto gli italiani e mi sono scoperto uno di loro. A livello personale
avevo fatto come Garibaldi, l’unità d’Italia. E non salti ora fuori il solito
rampognoso a parlarmi delle nequizie dei garibaldini, del Mazzini e del
Garibaldi massoni (altra massoneria quella), magari pagati dagli inglesi (e
bene fecero), dei Savoia chiaviche colonialiste, dei briganti del Sud e degli
ottimi Borbone. Tutto giusto, ma l’unità d’Italia andava fatta, storicamente,
moralmente, politicamente, economicamente, culturalmente. Lo chiedeva la sua
lingua. L’avevano chiesto Dante e Leopardi. L’hanno chiesta quelli della
repubbliche insorte da Roma a Napoli a Milano, a Venezia. E chiedono di
conservarla, mantenerla, coltivarne le radici, senza le quali non si hanno
fioriture e passa il glifosato mondialista. Quello che non fa prigionieri.
Un tempo la
battaglia per l’esercito di popolo e contro il mercenariato dei professionisti
la combattevano quelli che la pensavano come il mio compagno carrista Marcello.
Quelli che sono contro l’esercito di popolo sono anche quelli che inneggiano
alla cessione della sovranità di popolo a Juncker e a Draghi. Diceva Calamandrei,
oggi ricordato dal “Fatto Quotidiano”: “L’esercito
di popolo, questo è Garibaldi”. La
cui rivoluzione non poteva essere un pranzo di gala. Poteva essere fatta meglio.
Come ogni cosa. Ma guai se non ci fosse stata.
Gentile Dott. Fulvio Grimaldi, sono totalmente in accordo con il suo articolo riguardo la leva militare e gli argomenti che ha trattato a suo sostegno. Come altre volte ho scritto, attendo gli aggiornamenti del suo blog e la disamina dell'attualità politica Il racconto che lei ne fa è un piacere a cui non rinuncio, neppure in vacanza, come ora. A proposito di vacanza, auguro a lei come a tutti i lettori dei suoi articoli un sereno ferragosto. La tragedia di Genova rende tuttavia molto amara questa celebrazione. Mi consenta di esprimere tutta la mia solidarietà alle famiglie delle vittime e alla città di Genova. Il moncone del ponte rimasto in piedi vigilerà in difesa delle vittime e ci ricorderà per un pezzo la tragedia.
RispondiEliminaMa desidererei, Dotto Grimaldi, che una volta, se ne avrà voglia e tempo, tornasse sull'argomento dell'Unità di Italia, sul quel periodo storico e i suoi protagonisti. Credo sarebbe interessante conoscere meglio il suo punto di vista, la sua rilettura in chiave storica e politica. Spesso mi è capitato di leggere circa l'argomento suoi commenti piuttosto lapidari e, mi scusi, non ne capisco il perché anche piuttosto scocciati. Sono argomenti che forse non riguardano la stretta attualità, suo argomento principe e tuttavia è mio parere, e quello di molti altri, quelli hanno tracciato un solco in questo paese da cui ancora non si è ancora definitivamente venuti fuori.
In attesa, grazie!
Cordiali saluti
Sono pienamente d'accordo sul servizio di leva, come servizio da prestare al proprio paese,(non mi piace un esercito professionistico) per tutti (ma proprio tutti), magari di 4/6 mesi, riguardante lo svolgimento di attività di difesa e di intervento nelle problematiche nazionali, nell’assoluto rispetto dell’art.11 della Costituzione. Ma sottolineo con il coinvolgimento di tutti ( abili, e diversamente abili,alti, bassi, belli e brutti) e sai perchè? Perchè ai miei tempi, della mia generazione, dalle mie parti, fui uno dei pochi a partire 12 mesi, come autista, dopo la laurea, a 25 anni, perchè alla visita ero risultato ("aimè") perfettamente sano. Gli altri invece, i miei compagni,erano stati tutti riformati(per insufficienza toracica, per la vista e amenità varie ) o forse avevano saputo pregare, nel modo giusto, i loro santi in paradiso.
RispondiEliminaConcordo! Anni fa non avrei mai pensato di essere favorevole al servizio di leva. Oggi sono consapevole dei veri intenti che si celavano e si celano dietro la sua abolizione; abolizione travestita da liberta' e indipendenza....Quante volte siamo stati "utili idioti" di quelli che erano i reali progetti del Potere!In questa attuale Societa' plastificata, virtualizzata ed edonistica la leva potrebbe avere per giunta una salutare funzione educativa, come del resto esaustivamente detto nel tuo articolo.
RispondiEliminaSicuramente Fulvio ti attirerai un bel po' di strali!
Rossana
Rossana@
RispondiEliminaGrazie dell'intelligente condivisione, Rossana dal bel nome. Quanto hai ragione sugli utili idioti! E ne rimangono tanti!
Quanto agli strali, San Sebastiano mi fa un baffo.
Fred@
RispondiEliminaLa ringrazio della condivisione e anche dell'accenno alla tragedia causata dai criminali della società Autostrade nella Genova dove ho vissuto l'adolescenza e gli studi.
Mi sono ripetutamente espresso sul Risorgimento e la necessità storica, politica, culturale dell'unità d'Italia. D'accordo, perlopiù di passaggio, ma in occasione del 150° anche in misura più ampia. E ogni volta ne ho ricavato gli strali velenosi dei nostalgici dei regni e contadi e dei borboni. Non capisco cosa intende con "solco da cui non si è ancora venuti fuori". Quello da cui non si riesce a uscire e l'oblio imposto da incoscienti e collaborazionisti dell'imperialismo a quella che è la stagione più alta del nostro processo di formazione.
Buongiorno Dott. Grimaldi,
RispondiEliminagrazie della sua gentile risposta. Mi chiede cosa io intenda con quell'espressione nel commento al suo ottimo articolo "solco da cui non si è ancora venuti fuori". Credo che il solco da cui non si è venuti fuori sia stato descritto da una moltitudine di persone più colte e argute di me e tuttavia mi riferisco alla sovrastruttura che partecipò attivamente all'unità di Italia. Ai poteri che interferirono con le necessita patriottiche di rivoluzione e coesione, per un solo stato e una sola patria. Le condizioni post rivoluzionarie delle classi subalterne non migliorarono le proprie condizioni. La realtà vide il fiorire di diseguaglianze tra Nord e Sud, tra borghesia e proletariato e purtroppo tra stato e potentati locali tutt'ora in atto. Sono certo che lei ha già elementi a sufficienza per intuire a cosa io mi riferisca, non ho le sue stesse capacità di sintesi e di scrittura ed è per questo che le chiedo se un giorno vorrà rileggere e descrivere con ampiezza quel periodo storico che vide trionfare gli insorti ma secondo me ed altri pure le stesse élite che tutt'ora impongono il loro potere e i loro interessi. Sono convinto che leggere il suo punto di vista sulle ragioni, sulle motivazioni ufficiali e non che mossero Garibaldi, l'aristocrazia e la comunità internazionale a formare un esercito ed a scatenare la guerra civile sarebbe estremamente interessante e formativo.
Grazie ancora per il suo grande ed interessantissimo lavoro.
Fred@
RispondiEliminaLa ringrazio per il gentile e intelligente commento e per i generosi apprezzamenti. Credo che Lei, meglio di me che non sono uno storico ma un giornalista di strada che orecchia qua e là, saprebbe descrivere adeguatamente quel periodo storico che, tra bene e male come in ogni rivoluzione, ha forgiato la nostra nazione, visto con che precisione e profondità vi fa accenno. Comunque il suo è un valido stimolo a studiare meglio quel processo.
Gentile Dott.Grimaldi, capisco se l'argomento l'annoia e se trova tedioso il mio ulteriore invito. Io la seguo nel suo lavoro e torno ad incitarla a scrivere dell'argomento di cui al precedente commento. Quando vorrà.
RispondiEliminaGrazie
Veramente scandaloso quanto successo a Genova, l'ennesima tragedia annunciata stile Vajont. Sono passato diverse volte su quel ponte per lavoro e ricordo che proprio l'ultima volta, vedendo lo stato di degrado in cui versava e gli infiniti cantieri di lavori di rattoppo, ho pensato che fosse vicino al crollo.
RispondiElimina