Julian Assange, 49 anni, nel 2018 e nel 2020,
torturato in carcere a Londra
DOMENICA A ROMA, PIAZZA DEL POPOLO,
ORE 16. SABATO A MILANO, PIAZZA LIBERTY, ORE 17.
In treno blindato con capotreno il Direttore
Se pensate che il giornalismo italiano abbia toccato il
fondo, avete modo di aggravarvi e constatare che, oltre il fondo, c’è un
sottofondo, come nelle valigie o nelle macchine dei narcos, dove ormai sguazza
l’intera compagnia che deve convogliarci sui carri bestiame verso dove ci
vogliono rinchiudere Bilderberg e i suoi sguatteri. Di stazioni il treno ce ne
ha fatto percorrere già parecchie. Saltiamo quella fatiscente di “Regeni”, dove pare che in sala d’aspetto giacciano
ancora vecchi rotoli del Mar Morto che raccontano di un giovane italiano dai
suoi eliminato in Egitto perchè da agenti egiziani scoperto al servizio della multinazionale
di spionaggio Oxford Analytica, diretta dall’inventore degli Squadroni
della Morte, John Negroponte e, quindi, fiduciario bruciato.
Ci hanno lasciato affacciare sulla fermata “Zaki”, dove ci distribuivano giornali dai titoli cubitali su Patrick
Zaki, altro giovane, stavolta egiziano, in Egitto torturato, scudisciato con
cavi elettrici, elettroshockato. Lo diceva l’associazione sorosiana di cui Zaki
faceva parte e, dunque, lo dicevano tutti i giornali italiani, ma nessuno di
quelli egiziani, o di altri paesi. Già perché lì, come ci ha spiegato il controllore
“Amnesty”, c’è la dittatura, con 60mila prigionieri “politici” (nessuno
dell’ISIS che imperversa da un capo all’altro) e ne spariscono 10 al giorno e
li torturano tutti, mentre da noi no. Nessun cittadino viene mai fermato,
tantomeno picchiato e torturato. Solo se osa usare la formula iettatrice No
Tav, o No Bellanova, oppure, evidente teppista o sovversivo, insulta il
pubblico ufficiale chiedendo perché lo stiano pestando. Ma guai se qualche
paese osa interferire con le nostre forze dell’Ordine, o con la nostra
magistratura. Un po’ di rispetto per un paese sovrano, che cazzo!
Alla fermata successiva, “Fatto
e Gabanelli”, solo una gran pila di giornali spiegazzati e buttati. A
malapena si riusciva a leggere di Patrick Zaki, ma neanche più una riga su torture,
scudisciate con cavi ed elettroshock, “non ce n’erano i segni visibili”, né lui
l’aveva mai detto. In compenso c’erano il capostazione Travaglio e la
telegrafista Gabanelli che, a dispetto di continue assoluzioni dei capi ENI,
Descalzi e Scaroni, vogliono cacciarli, e magari torturarli, perché a forza di
estrarre petrolio per noi italiani dai megagiacimenti egiziani di Zhor, insultano
i martiri Regeni e Zaki, e questo è niente, se si pensa che, d’accordo col
dittatore Al Sisi, sottraggono il business ai nostri amici americani,
britannici, olandesi, francesi di Exxon, BP, Shell, Total…
Ne abbiamo passate altre, di stazioni, col treno bestiame
allestitoci dal giornalismo italiano. Interessanti le fermate “Sardine 1”, “Sardine 2” e “Sardine 3”, tutte vestite Benetton, insignite del Nobel
per le Gaffe e galleggianti spensierate su barchette marca Soros, in un mare di
petrolio. Nella prima folle festanti e branchi di pesce. Nella seconda, pesce
congelato nei banchi del mercato Soros, avvolto amorosamente in giornali come
“il manifesto” o “Repubblica”, o nell’immancabile appello di Fra Zanotelli. Nel
terzo, a Napoli, dove sono meno boccaloni, banchi vuoti e pesci andati a male
nei secchi.
La stampa di Mordor
Tutto questo per celebrare l’impeccabile deontologia, il
votarsi alla verità fino all’estremo sacrificio, sotto la guida assennata e
moralmente impeccabile di editori purissimi, grandi capitani di un’economia
tesa a soddisfare i tanti bisognosi a discapito dei pochi privilegiati, che ai
loro giornali allegano in omaggio pezzetti del proprio sacro cordone
ombelicale. Ù
Quel treno poi, dopo molte altre stazioni, a un certo punto
filava dritto, non credevamo ai nostri occhi, verso alcuni corpi legati sui
binari. Vicino, sempre più vicino. Orrore! Uno sembrava Julian Assange! A questo punto
abbiamo sfondato le porte da vagone a vagone e ci stavamo avventando sui
macchinisti perché si fermassero prima della carneficina. Non se ne davano per
inteso…
Assange e gli altri
Ma qui incomincia la storia di Julian Assange, e anche di
Chelsea Manning e di Edward Snowden e di altri che gli anglofoni chiamano “whistleblower”
(fischiatori) e noi “eroi dell’informazione”, “combattenti della verità”,
“Illuminatori dell’oscuro Regno di Mordor”
Coloro che pazientemente seguono i miei scritti sanno già
che Julian Assange, australiano, 49 anni, è rimasto per 7 anni, dal 1911, prima
protetto dal presidente Correa, poi recluso dal presidente Moreno su ordine
USA, in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Vi si era rifugiato perché
inseguito da un’accusa di stupro mossagli in Svezia dalla polizia che aveva
alterato la deposizione di una donna in cui questa negava di essere stata
violentata, e per la quale nella capitale inglese era stato fermato e poi
rilasciato sulla parola. Solo dopo nove anni la Procura svedese, per l’accusa ovviamente
subornata dalla Cia, ha dovuto chiudere il caso. Per sette anni non ha visto
che molto raramente un suo legale, qualche amico giornalista, un gatto. Niente
luce del sole. I suoi visitatori venivano illegalmente spiati da un’agenzia
spagnola che ne apriva telefoni e computer e ne rubava i dati.
Su richiesta degli Usa, che ne hanno preteso l’estradizione
per 17 capi d’imputazione, eminentemente di rivelazioni di segreti di Stato,
spionaggio e collusione col nemico, che prevedono 175 anni di galera, cioè la
morte vivente, Scotland Yard il 19 aprile 2019 irrompe nell’ambasciata (Moreno
aveva ricevuto in cambio 1,5 miliardi di aiuti statunitensi), ne estrae a forza
Assange e lo sbatte per 50 settimane – poi rinnovate - in una prigione di
massima sicurezza, in isolamento. Isolamento che schianta la salute fisica e
mentale del detenuto, tanto da far dichiarare al Relatore Speciale dell’ONU
sulla Tortura, Nils Melzer, che Assange rischia la morte da tortura fisica e psicologica.
In una prima udienza, il giornalista australiano appare incapace di capire le
procedure, fa fatica a ricordare il suo nome. Solo su richiesta firmata dai
decine di altri detenuti, ad Assange viene sospeso l’isolamento. Le sue
condizioni migliorano leggermente. Al padre che, indefesso, gira il mondo per
sostenerne la causa, appare invecchiato di vent’anni.
Tortura
Lunedì 24 febbraio è prevista una nuova udienza sull’estradizione
e a fine maggio altre. Nel mondo, non in Italia, i colleghi di Assange nei
media, sostenuti da grandi mobilitazioni popolari intensificano la lotta contro
l’immane sopruso inflitto al più coraggioso di tutti noi. I carcerieri del
Regno Unito e degli Usa, nell’imbarazzo per quella che è smascherata come la
più criminale violazione della libertà di stampa e d’espressione, in un mondo
occidentale già strangolato da mille censure e bavagli, contano di far morire
Julian in carcere. Alla fine, per dribblare l’ostacolo costituito da una
deontologia del Quarto Potere che si vuole cane da guardia contro il Potere e
che approva ogni verità sottratta ai frodatori, sono ricorsi al mezzuccio
infinitamente tentato e infinitamente fallito: Assange, strumento dei russi, perché
le sue pubblicazioni avrebbero danneggiato Hillary Clinton al tempo delle
elezioni del 2016, rivelandone i finanziamenti ai terroristi islamici in
Medioriente. Danneggiare una come l’assassina della Libia, non è difficile.
Quanto ai russi, non ne sono stati troppo contenti quando, anche di Mosca,
Assange ha pubblicato almeno 800 documenti riservati su sistemi di controllo.
Chi ci rappresenta
Voglio dare massima evidenza alla circostanza, altamente
lusinghiera per un paese di lavapiatti
del principe, che vede una stampa italiana tacere, o al massimo borbottare, su
questo epocale tentativo di colpire uno per educarne tutti gli altri alla
definitiva sottomissione in cambio di guiderdoni. Nulla di sorprendente quando
in piazza per Giulio Regeni, o per qualche altra mistificazione della
malapolitica, si vedono prontissimi sempre la Federazione Nazionale della
Stampa e l’Ordine dei Giornalisti, con i rispettivi capoccia. Per i
perseguitati in un modo che neanche Torquemada, nessuno mai. Cosa c’entrano
loro con sabotatori delle menzogne del Potere, o con un giornalista che sarà
esempio di verità e coraggio da qui alla fine del mondo?
Chelsea
Julian, direttore della piattaforma Wikileaks, che da due
decenni rivela al mondo, con milioni di dati, documenti diplomatici e militari,
gli orrori perpetrati dagli USA e dalle potenze alleate in tutto il mondo attraverso
guerre, massacri come quello dei marines che mitragliano a morte, divertendosi,
undici civili innocenti a Baghdad, torture, colpi di Stato, rapimenti,
assassini mirati. Gran parte di queste prove gli vengono fornite da un
giovanissimo analista dell’Intelligence militare, Chelsea Manning, diventato
donna dopo l’arresto e tuttora in carcere, dopo sette anni e mezzo per aver diffuso
documenti classificati, di nuovo, dal 9 marzo 2019, per rifiutarsi di
testimoniare contro Assange davanti all’obbrobrio giuridico di una giuria
segreta che non lo libererà mai. Multata di 1000 dollari per ogni giorno di continuato
rifiuto, Chelsea ha dichiarato: “Non cederò mai”. Anche lei è detenuta in
condizione che sono state definite inumane dal Relatore Melzer. Del resto si
tratta di quelli di Guantanamo e Abu Ghraib.
Edward
A partire da Edward Snowden, rivelatore dello spionaggio
Cia e NSA su tutti i telefoni e computer del mondo e che, unico a scamparla, nel
2013 riesce a rifugiarsi a Mosca, , di questi eroi dell’informazione, del
rispetto per un pubblico che ha diritto di sapere, soprattutto le malefatte dei
suoi governanti, la Storia del mondo può incidere sulle sue tavole del giusto e
del bene, i nomi nobilissimi, le imprese esemplari. Nomi ed imprese di un
giornalismo che, in Occidente, per la maggior parte, ha tradito la sua missione.
Il sacerdozio al servizio del vero e del reale trasformato in codardo oltraggio
e servo encomio a vantaggio delle più
brutali, sanguinarie e bugiarde oligarchie dal tempo di Johannes Gutenberg,
inventore della Stampa nel 1455.
Viviamo in un mondo oscuro come descritto in Mordor daTolkien,
e prima da Huxley e Orwell, dove la
segretezza è diventata un cielo come quello finto di Truman Show e la trasparenza
è stata sostituita dal muro di quel film. Dove gli autori di crimini, tipo
quello dell’elicottero dei marines, o i torturatori di Guantanamo, vanno liberi
e onorati e chi ne racconta i delitti va in galera, o finito prima. Al processo
“internazionale”, ma delle sole quattro potenze vincitrici, in base a leggi
retroattive, furono impiccati 14 tra gerarchi e generali, non tutti ugualmente
colpevoli. Nessuno ha mai processato
mandanti ed esecutori di Hiroshima o Nagasaki. Non si perseguono più i crimini
di guerra, le obbedienze agli ordini ingiusti. Nessuno stupratore yankee di donne
irachene è mai stato incriminato.
Quello contro Julian Assange è chiaramente un processo contro
quanto ci resta di giornalismo non venduto e comprato. E’ la minaccia di stare
in guardia, giacchè ora può capitare anche a te, se non stai ai patti dell’informazione
ai tempi neoliberisti dell’oligarchia globalizzatrice e del pensiero unico e
politicamente corretto. Seguirà a questa morte del giornalismo, a questa
capillare vittoria della censura, la tirannide. E questa non è mai responsabile
di nulla: unaccountable, come si dice in inglese. Basta che contro i
dissidenti, i complottisti, i residui investigativi, i diversamente politici,
si pronunci la parola “ODIO”, ed è fatta. Del resto non sapremo mai più niente.
Ora ci ritroviamo in piazza per Assange, la grandissima
Chelsea, altro che Antigone, Edward Snowden, l’integrità di tutti noi. Forse non
tanti qui, ma tantissimi in un mondo meno addormentato. Si vedrà se siamo
riusciti a fermare quel treno maledetto, con i giornalisti chiusi dietro le
porte blindate e, sulla motrice, le bandiere a stelle varie.
Breve descrizione e alcune foto dell'evento
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