Nella
nostra condizione di schiavi coloniali non riuscivamo a vedere che la “Civiltà
Occidentale” nasconde dietro alla sua scintillante facciata una muta di jene e
sciacalli. E’ l’unico termine da applicare a chi si aggira per realizzare
“compiti umanitari”. Una belva carnivora che si nutre di genti disarmate. Ecco
cosa fa all’umanità l’imperialismo. (Che Guevara,
all’Assemblea Generale dell’ONU, 1964)
Per
quante critiche possano essere la situazione e le circostanze in cui vi
trovate, non disperate; è proprio nelle occasioni in cui c’è tutto da temere
che non bisogna temere niente; è quando siamo circondati da pericoli di ogni
tipo che non dobbiamo averne paura; è quando siamo senza risorse che dobbiamo
contare su tutte; è quando siamo sorpresi che dobbiamo sorprendere il nemico. (Sun
Tzu, L’arte della guerra)
Ci
siamo seduti dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati.
(Bertold
Brecht)
Fra poche ore, con le elezioni presidenziali in
Venezuela, dove Hugo Chavez si candida al terzo mandato, scocca un’ora decisiva
per l’intero continente e, come succede col sasso gettato in acqua,
l’increspatura delle onde arriverà ai lidi più lontani. In che contesto si
inserisce questo avvenimento epocale? Scendiamo per l’America Latina, dall’alto
in basso. Con l’eccezione del Nicaragua dei sandinisti (che ieri ha annunciato
di aver creato più posti di lavoro a tempo indeterminato di tutto il
Mesoamerica), dal Rio Bravo al confine colombiano, imperversa la
militarizzazione neoliberista e narcotrafficante imposta dagli Usa con colpi di
Stato, elezioni truccate, finti socialdemocratici ed effettivi fantocci. Il
Messico di Neto, ladro delle vittoria di Lopez Obrador, insanguinato
dall’incessante carneficina di cartelli e militari, entrambi controllati dagli
“specialisti” Usa, e l’Honduras della decimazione degli oppositori al
post-golpista Lobo e dei contadini nelle aree sequestrate dai latifondisti
delle monoculture, sono i modelli di una riconquista strisciante del “cortile
di casa” yankee. Con quelle basi militari che Zelaya, presidente liberal honduregno rovesciato dal golpe di Obama, voleva chiudere, l’intervento
diretto di militari Usa contro i settori sociali in lotta (Misquitos), la DEA
nuovamente regolatrice dei percorsi ed equilibri del narcotraffico, il
corridoio, che deve assicurare il transito della droga dalla Colombia al
famelico mercato Usa e alle sue banche, è stato consolidato e blindato.
Il
Centroamerica normalizzato, mannaia sul Venezuela
La regione tra Caraibi e Pacifico torna ai nefasti Usa
degli anni ’70-’80, quando marines, squadroni della morte e gorilla locali la
chiusero in una morsa che costò centinaia di migliaia di vittime civili.
Strumenti aggiornati sono, oltre a quelli praticati allora, i cartelli della droga
e la bande criminali giovanili, pandillas,
frutto dell’emarginazione e della fame, e una militarizzazione gestita da specialisti
Usa, finalizzata a reprimere ogni accenno di protesta sociale. Tra Guatemala,
Salvador e Honduras, triangolo Nord della fascia centrale, gli indici di
violenza sono i più alti del mondo e l’Honduras, tornato amerikano, ha ora
superato il Messico come numero di omicidi, anche di giornalisti. A che tutto
si svolga secondo i piani sinergici Pentagono-Cia-DEA , ai termini dei nuovi trattati
di sottomissione conclusi tra Usa e questi paesi (“Associazione di Sicurezza
Civile dell’America Centrale” e “Iniziativa Rergionale di Sicurezza per
l’America Centrale”, creature di Obama che estendono i precedenti Plan Colombia e Plan Merida) ci pensano
le forniture militari, quadruplicate rispetto a dieci anni fa, l’incremento
degli effettivi militari nel ruolo di poliziotti, la militarizzazione della
polizia, la corruzione colossale di tutti i gangli dello Stato, così resi
ricattabili, e, last but not least,
l’ultimo ritrovato delle guerre e repressioni imperiali, i droni, Già
volteggiano su tutto il Centroamerica, come su Afghanistan, Pakistan, Yemen,
Somalia, gli stessi Usa, capaci di tutto vedere e di tutto colpire, secondo le
liste di assassinandi “su sospetto” compilate da Obama.
La Colombia, costellata di 7 basi nordamericane, ha
sostituito al brutale narcofascista Uribe il “moderato” Santos, arresosi alla
forza di un movimento di massa , la Marcha
Patriotica, che ha imposto il negoziato tra regime e l’invincibile
guerriglia delle FARC, ma mantiene il ruolo di eventuale strumento bellico
contro il Venezuela. Con l’eccezione dell’Ecuador di Correa, la costa del
Pacifico che va dalla Colombia attraverso il Perù fino al Cile, è in mano a
vassalli mascherati (Ollanta Humala), o dichiarati (Sebastian Pinera), che si
vedono però affrontati da indomabili movimenti di contestazione, di studenti e
masse popolari in Cile e di comunità indigene e campesine nel Perù. Paraguay e
Uruguay sono finiti sotto le grinfie Usa, il primo con il colpo di Stato che ha
defenestrato Fernando Lugo, il secondo condotto dall’ex-tupamaro Mujica dalla
speranza del riscatto, dopo decenni di dittatura, alla desolazione del rientro
negli schemi repressivi del neoliberismo.
Brasile e Argentina hanno in comune la difesa della
sovranità e dell’autonoma politica estera dalle incursioni Usa e UE, il primo con
aspirazioni subimperialiste e dominio del mercato e la seconda impegnata con
Cristina Kirchner in un difficile, ma progressivo spostamento verso
un’autentica socialdemocrazia. Le varie alleanze di carattere
politico-economico, Mercosur, Unasur, Alba, Celac, hanno però tutte un segno di
integrazione continentale, indipendenza economica, riscatto sociale e rifiuto
delle interferenze esterne al continente, al punto che perfino regimi di
destra, succubi degli Usa nei trattati di libero scambio, come il Cile e la
Colombia, non hanno potuto che schierarsi con il resto del continente contro il
golpe in Paraguay. Con l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che in
passato determinava esiti di conflitti favorevoli agli Usa, fortemente
indebolita da questi organismi interstatuali da cui Washington è esclusa,
l’egemonia imperialista sull’America Latina è ridotta ai brandelli delle
roccaforti militari sparse sul continente e delle operazioni di
destabilizzazione affidate a movimenti separatisti, spesso indigeni con la
copertura di più o meno fondati integralismi ecologici. Questi, finalizzati anche
a suscitare nelle sinistre mondiali critiche e opposizione ai paesi della
svolta progressista o radicale.
Il motore dei cambiamenti verificatisi in America Latina
dagli ultimi fuochi neoliberisti del Novecento, con l’argentinazo del 2001, i movimenti insurrezionali trionfanti in
Bolivia ed Ecuador con successive vittorie elettorali delle sinistre
antimperialiste in questi paesi, come in Nicaragua e Venezuela, è fuor di ogni
dubbio la rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez. Il miglioramento delle
condizioni di vita di popolazioni storicamente emarginate e oppresse, il
ricupero della dignità nazionale, la spinta all’integrazione di popoli uniti da
lingua, cultura, storia di lotte anticoloniali, nel solco di Martì e Bolivar,
il potenziamento economico e diplomatico derivato da una configurazione
planetaria che al dominio degli Usa ha sostituito la collaborazione con grandi
aree strategiche (Iran, Cina, Russia, Africa, India), la grande attenzione
all’ambiente, sono tutte medaglie che, per primo, si può fissare al petto
l’ex-capitano dei parà che, attraverso le più democratiche delle elezioni,
confortate dalla mobilitazione popolare contro ogni reazione, ha dimostrato la
possibilità del cammino verso il “Socialismo del XXI Secolo”. Sono questi
antecedenti a fare delle elezioni del 7 ottobre la pietra filosofale che
trasforma il piombo della dipendenza e del sottosviluppo in oro rivoluzionario
per tutto il continente.
Rivoluzione
bolivariana
Una sconfitta di Chavez rischia di implicare, venendo a
mancare il protagonista e l’ispirazione ideologica della spinta al cambiamento,
l’arretramento generale per l’intera regione. La sua vittoria, resa prevedibile
da un vantaggio sull’avversario Capriles, che da sempre si aggira intorno ai venti
punti, comporta il rafforzamento del blocco più o meno antiliberista, ma
uniformemente antimperialista e la messa all’angolo dei rigurgiti reazionari e
collaborazionisti. L’effetto emozionale, psicologico, oltrechè economico e
politico, dell’ennesima vittoria di Chavez, su noi sprofondati nella crisi
costruita per derubarci e annichilirci, sui popoli in resistenza, con conferma
e accelerazione dell’alternativa latinoamericana al necrocapitalismo
neoliberista, antidemocratico e guerrafondaio, sarà incalcolabile. L’Impero e i
suoi regimi sguatteri hanno ben presente l’effetto contagio sull’oceano dei
deprivati del fenomenale riscatto delle masse popolari realizzato in Venezuela
con le varie missioni sociali (casa, salute, istruzione, indigeni, donne,
lavoro) e la riorganizzazione dello Stato dal basso, con le nazionalizzazioni
strategiche, con i consigli comunitari sul territorio e i consigli operai nelle
fabbriche, dotati di poteri d’intervento e decisione. La povertà ridotta del
40%, un’istruzione capillare, con le decine di nuove università pubbliche
gratuite, che, insieme ai movimenti di base a sostegno e sollecitazione del
chavismo, ha elevato a livello generale la coscientizzazione politica della
popolazione, la sovranità alimentare perseguita con i km zero e l’intervento statale
su produzione e distribuzione che ha tagliato le unghie ai supermercati
oligarchici e multinazionali, sono modelli a cui guardano milioni di
latinoamericani privati di giustizia sociale, emancipazione politica e
culturale.
Ho ancora luminoso il ricordo di quel Mercal di tutti i Mercal locali, che si svolge ogni mese, immenso, in Avenida Bolivar
di Caracas, dove folle di famiglie, anziani, donne, acquistano tutto a prezzi
ridotti della metà, godono di visite oculistiche e mediche gratis, si suona, si
canta, si balla,in quell’allegria che viene evocata in ogni discorso del
Comandante. La spesa pubblica per investimenti del welfare rappresenta il 61% di
tutti gli introiti dal 1999 al 2011. Prima era del 36%. I dati ONU confermano che
il Venezuela è oggi il paese latinoamericano con meno diseguaglianze. Particolare
rimbombo non può non aver suscitato la nuove legge “antiforneriana” del lavoro,
con la riduzione dell’orario da 44 a 40 ore, un aumento dei salari che è il più
alto del continente e il rifiuto dei licenziamenti a discrezione del datore di lavoro.
Contro Chavez e la rivoluzione bolivariana, che ancora si
muove nell’ambito dell’economia mista mercato-socialismo, ma nelle parole del
presidente punta a un’accelerazione verso la fine del capitalismo, si è
candidato alla presidenza Henrique Capriles Radonski, figlio di madre ebrea
polacca e di padre ebreo sefardita (la comunità ebraica venezuelana è stata
coinvolta ripetutamente, e fin dal tempo della serrata padronale post-golpe del
2001-2, in manovre di destabilizzazione. Si tratta del miliardario (in dollari)
rampollo della più reazionaria componente dell’oligarchia golpista, già
governatore dello Stato di Miranda, deputato e sindaco, protagonista del golpe
che inaugurò una dittatura di 48 ore, privatizzatore accanito, fautore del
ritorno della PDVSA, l’ente petrolifero di Stato, alle condizioni pre-Chavez di
terra di razzìa dell’oligarchia e di controllo delle corporations Usa. Foraggiato da fondi Usa, sostenuto da una pletora
di Ong teleguidate da organismi cripto-Cia, come NED, USAID, Freedom House,
Amnesty, per la penetrazione dal basso, garante dichiarato dell’accordo
capestro di libero scambio (ALCA) con gli Usa, collegato a fazioni fasciste
come Tradicion, Familia y Propiedad,
a guida del partito di estrema destra Primero
Justicia, ora confluito nella coalizione antichavista MUD (Mesa de La Unidad Democratica), Capriles
non pare avere la credibilità necessaria a sovvertire il pronostico che
favorisce il vincitore di ben 14 successive elezioni. Il suo tentativo di
mascherarsi da difensore degli interessi popolari con la promessa di mantenere
e “migliorare” le misiones sociali, è
ridicolizzato dal proposito di riprivatizzare la PDVSA, principale
finanziatrice di tali misiones, in
virtù del fatto che il Venezuela è il quarto produttore mondiale di idrocarburi
e il detentore dei suoi giacimenti più cospicui.
La
triade della reazione
Hugo Chavez viene attaccato da tre lati. Uno, del tutto
irrazionale e irrilevante, popolare tra residui trotzkisti, è quello del
massimalismo presunto marxista che gli imputa di non aver subito liquidato ogni
proprietà privata, di essere affetto da caudillismo, di offrire un ulteriore
alito di vita al capitalismo in crisi mortale. L’altro denuncia, con qualche
fondamento, la formazione di una cosiddetta “boliburguesia”, con riferimento al consolidarsi di un ceto
dirigente burocratico che mirerebbe essenzialmente alla conservazione dello
status privilegiato acquisito all’ombra della ”rivoluzione”. Un fenomeno che
conosciamo, in proporzioni sicuramente più gravi, in tutte le esperienze di
“socialismo realizzato”, con particolare evidenza recente nella Cuba delle
riforme di mercato. Qui il compito dell’alternativa bolivariana non poteva
facilmente essere completato nei pur fattivi 13 anni del governo chavista. Si
trattava di rivoltare come un calzino un paese le cui strutture erano corrose
fino al midollo da una classe dirigente ladra, inetta e corrotta, prona a ogni
diktat statunitense. Ci sarà pure un nuovo ceto medio “bolivariano” che ha
avuto modo di inserirsi nei gangli dello Stato, ma non pare questa l’insidia
maggiore. Piuttosto, con la lenta e faticosa formazione di nuovi quadri
dirigenti rivoluzionari corre parallela anche la necessità di completare la
bonifica di apparati, come il giudiziario e la polizia, intrisi di
revanscismo e sostenuti occultamente dai
nemici interni ed esterni di Chavez. Il tridente d’attacco è completato dalle
mene di Cia e Mossad, alimentatrici del grave problema di una sicurezza urbana
compromessa dalla criminalità di strada e che tirano le fila delle costanti
infiltrazioni terroristiche di paramilitari colombiani.
Nessuna di queste armi controrivoluzionarie pare oggi in
grado di sovvertire il pronostico elettorale e di destabilizzare in profondità
l’assetto di Stato e società. Numerosi segnali, addirittura confortati da
minacce di spericolati rappresentanti diplomatici Usa, indicano che nel Nord
dell’emisfero ci si sia rassegnati alla stanca ripetizione di quanto tentato in
precedenti elezioni, in particolare nel 2004, in occasione del referendum per
la revoca del mandato di Chavez chiesto dall’oligarchia. Lo schemino è quello,
alquanto logoro e screditato, messo in atto anche in Russia contro Putin e in
Iran contro Ahmadi Nejad: vittorie eclatanti dei candidati sgraditi negate
dall’accusa di brogli mosse dalle cancellerie occidentali, dai loro mercenari
mediatici e da piazze incendiate per la bisogna. Grottesco, se si pensa alla
limpidezza di elezioni condotte e risolte sotto il cappello a stelle e strisce,
dal Messico all’Iraq, dall’Afghanistan all’Honduras, da Haiti alla stessa
metropoli di Bush Primo e Secondo.
In Venezuela, nella carenza di altri strumenti
propagandabili, si deve fare di necessità virtù e si punta alla migliore delle
ipotesi: una jacquerie innescata da denunce di brogli urlate dal coro mediatico,
tuttora sotto controllo oligarchico (nel sistema elettorale automatizzato
giudicato il più trasparente e sicuro di tutto l’emisfero), che possa portare a
interventi repressivi tali da poter gridare alla dittatura e invocare
interventi esterni, diretti, o per interposta Colombia (a cui parecchio
costerebbe, vista la funzione di quinta colonna interna che la sua robusta
guerriglia e l’impetuosa nuova opposizione politica assumerebbero, sul modello
del PKK curdo e delle sinistre in Turchia a contrasto del bellicismo
antisiriano di Erdogan). Intanto, secondo molti, un campanello d’allarme e una
prima prova di terrorismo destabilizzante sono stati, a fine agosto,
l’esplosione e l’incendio di Amuay, la più grande raffineria del paese, una
delle maggiori del mondo, garanzia del controllo nazionale sul ciclo
petrolifero che prima era delocalizzato nelle raffinerie Usa. 40 morti e scatenamento dell’informazione oligarchica
su presunte responsabilità della gestione statale. Insicurezza e panico, basi
su cui costruire un discontento di massa, campagne di demonizzazione e
interventi esterni. L’inchiesta è in corso.
Voci
della rivoluzione
Juan Contreras lo incontro a Caracas nel quartiere “23
gennaio”, casamatta rivoluzionaria fin dai tempi della lotta armata contro
dittatori e despoti della seconda metà del secolo scorso. Militante
rivoluzionario marxista, con la solita passione latinoamericana per Gramsci, è
il fondatore e leader della Coordinadora
Simon Bolivar. Il suo quartiere, roccaforte proletaria da quando il
dittatore Jimenez sconvolse Caracas con il modernismo straccione
dell’urbanistica da massimo sfruttamento del suolo, vanta la più bella distesa
di murales della capitale. Narra le vicende di una lotta che origina nell’800
della liberazione anticoloniale e prosegue fino ai temi e obiettivi di oggi.
Immancabile su tante pareti Che Guevara, mentre sulla parete in fondo alla sala
delle assemblee, tra le tante di lotte in giro per il mondo, pende una bandiera
dei nostri Cobas.
“La base
fondamentale del nostro processo è il movimento popolare che ha ancora molti
compiti davanti a sé”, dice Juan.
“Tra quelli principali è liberarsi della vecchia struttura dello Stato, marcata
dalla logica del capitale. Chavez sottolinea il problema della transizione alla
maniera di Gramsci: siamo intrappolati in uno Stato che rifiuta di morire e uno
Stato che rifiuta di nascere. Dobbiamo liberarci delle vecchie strutture,
quelle che impediscono l’avanzata del processo guidato da Chavez. Ci sono alcuni
al vertice che pensano di poter imporre una rivoluzione dall’alto, ma noi ci
troviamo in una fase di passaggio e senza la forza e le idee del movimento di
massa non si andrebbe avanti. Dall’8 ottobre di quest’anno, il giorno dopo le
elezioni presidenziali, il nostro obiettivo deve essere di contribuire a
costruire una vera democrazia, rappresentativa e, come diciamo noi,
protagonica. Protagoniste le masse. Il processo dal 1998 al 2012 è stato un
processo di risveglio politico, di maturazione delle coscienze, di consegna
alle masse di strumenti di riscatto sociale, economico e culturale. Ora è il
tempo per passare all’incasso, con il popolo che assume il suo ruolo storico di
protagonista. Non viviamo in una società perfetta. Abbiamo ancora un sacco di
cose da fare, ma almeno conosciamo i nostri problemi. Stiamo costruendo una
nuova società fondata sul lavoro di donne e uomini che, inevitabilmente, hanno
debolezze.
Sono le idee e le parole di gente come Juan Contreras, e
che lui auspica continuino ad essere quelle di Chavez e della sua squadra, che
hanno posto il Venezuela al centro della geografia del pianeta. Sono i fatti e
i propositi che mandano i brividi per la schiena di chi conta di trasformare
questa geografia, la comunità sana dei popoli e delle classi, in dittatura dell’1%.
Nel deserto che stiamo attraversando noialtri, dove non c’è riflesso d’acqua ma
solo luci di miraggio, siamo al punto dove la speranza è l’ultima a morire. Ma
dal Venezuela, dall’America Latina, si aprono sorgenti che promettono di far
fiorire i deserti. Travolgendo coloro che ci vogliono convincere che l’ultima
speranza è quella di morire.
Ed intanto, rabbiosa per la sconfitta militare ma sopratutto politica dei suoi mamelucchi, la Turchia decide di attaccare direttamente la Turchia, con il democraticissimo Obama pronto a seguirlo a ruota, cosi' potra' evitare l'accusa di essere "troppo morbido con gli arabi". Solita pistola fumante, mi riporta con la mente a Saraievo, dove ogni azione militare della Nato o dei suoi sgherri militari ( i tagliagole addestrati in Afghanistan a supporto del traditore Divac)o mediatici (giornalisti mainstream che arrivavano a pagare i ragazzi perche' simulassero una "corsa sotto il fuoco" nell'attraversare la "via dei cecchini", ovviamente serbi o comunque yugoslavi per quei giornalisti) era sempre giusta ed addirittura "troppo timida", cosi' dicevano spesso i telegiornalisti. Se saranno solo "scaramucce" di frontiera non lo so, ma credo che sia una fase per saggiare la resistenza siriana davanti ad un esercito regolare. Tuttavia mi sembra possibile che presto seguira' un'allineamento con l'aggressore da parte di altri paesi imperialisti e dell'Italia con il suo ministro atlantico e filo israeliano Terzi.
RispondiEliminaCirca 15 anni fa sentivo su di una trasmissione radio la lettura di un articolo di un giornale americano, forse il Washington Post, nel quale si diceva che l'amministrazione di allora auspicava il regime change nel Medio Oriente per creare una sorta di "Nuovo Impero Ottomano" probabilmente per mettere le mani su quell'area strategica, togliere risorse energetiche e sbocchi commerciali a Russia e Cina, e condizionare l'Europa. Allora poteva sembrare fantascienza, ma adesso dopo le guerre alla Yugoslavia, Iraq, Libia e Siria tutto sembra drammaticamente verificatosi. Spero pero' che le resistenze di quelle nazioni combinate all'opposizione delle masse alla guerra imperialistica, deboli in Italia, ed ancora contraddittorie nel resto dell'impero, ma tenaci nei paesi aggrediti, faccia fallire questo progetto di conquista neocoloniale, i cui costi sociali e politici sarebbero pagati dalla classe lavoratrice anche qui da noi. Questi sono i veri "costi della politica" al confronto dei quali le appropriazioni indebite delle mezze tacche di consiglieri regionali sono veniali ragazzate.
Vi segnalo il seguente articolo molto interessante sulle elezioni in corso in Venezuela; nel post si denunciano comportamenti scorretti in campagna elettorale, attraverso massicce campagne telefoniche, falsi operatori, con marcato accento messicano, di una inesistente agenzia di sondaggi elettorali (Centro Intercontinental de Estudios para la Democracia), “informano” su di una imminente morte di Hugo Chávez e ventilano scenari di possibile guerra civile. http://cambiailmondo.org/2012/10/03/venezuelamessico-carlos-slim-e-telmex-inviano-telefonate-minatorie-a-migliaia-di-famiglie-venezuelane/
RispondiEliminaio non starei tanto a far le pulci a Chavez,chi fa lo schizzinoso evidemente se lo può permettere,noi no di certo
RispondiEliminaad Assad il "guerrafondaio" consiglio la prossima volta di colpire il bersaglio grosso e non accontentarsi di un insignificante villaggio,che so,una portaerei o addirittura il porto tutto,anche due grosse torri andrebbero bene,l'importante è che ci siamo molte vittime civili così da non lasciar adito a dubbi su chi sia il "criminale"
Scusate se mi sposto di nuovo in medio oriente ma c'è qualcuno che mi possa far capire dove è andato a finire Hamas? Fabrizio
RispondiEliminaFulvio, scusa se utilizzo questo post ma quando scrivo in altri (precedenti) forse per un banale problema di "moderazione" non arrivo quasi mai ad essere pubblicato...boh
RispondiEliminaTi volevo quindi chiedere un giudizio argomentato sull'esperienza della Freedom Flotilla: come è nata, come è mutata in seguito la morte di Vittorio, cosa ne rimane oggi?
Chiedo a te perchè abbastanza stufo sia dell'atteggiamento (difensivo) dei "flottillers" che delle paranoie dei controribelli da tastiera sempre a giudicare da una tastiera/facebook (fateve na cazzo de vita, altro che statoepotenza..).
Grazie
Lunedì mattina ore 7.00, mio padre accende quella maledetta TV (a palla perché, poveretto, non ci sente quasi più), io ancora nel letto (rubo atri 5 min di sonno)... si sente al telegiornale, VITTORIA DI CHAVEZ! io nel letto, in alto i pugni: EVVAIIII!
RispondiEliminaE' iniziata proprio bene 'sta "solita" settimana!
VIVA HUGO CHAVEZ
viva chavez! in amerika aggiungo lahttp://www.lahaine.org/index.php?p=64475 lotta nel nord . Aqui nadie se rinde!
RispondiElimina