“Poi i governanti
inventeranno basse bugie per dare la colpa al paese attaccato e ognuno sarà
felice di queste falsità che placano la coscienza, le studierà diligentemente e
rifiuterà di esaminare qualsiasi prova contraria. Così, un po’ per volta,
convincerà se stesso che la guerra è giusta
e ringrazierà Dio per l’ottimo sonno di cui godrà dopo questo processo
di grottesco auto-inganno”. (Mark Twain)
Prosegue la discesa agli inferi dei popoli cubano e greco. Qui, col
terzo memorandum della Troika, il sicario locale conduce a termine sul suo
paese la stessa missione che venne ordinata agli sgherri della Diaz a Genova, o
ai narcopresidenti in Messico. Come Menem in Argentina, prima del default, si
vende anche i cimiteri. quelli nei quali finiranno anzitempo i pensionati al
minimo a cui, dopo il companatico s’è tagliato anche il pane. Chi pensate abbia
comprato i 14 aeroporti greci? Ovvio, i concittadini di Merkel e Schaeuble,
quelli che a forza di vendite di armamenti, imposti dalla Nato, hanno
contribuito a creare lo smisurato debito greco. Fico, no? Da quando principi, papi e re si sono indebitati con le banche, che da
lì in poi hanno prosperato fino al dominio planetario, per finanziare crociate
predatorie, debito, banche e guerre vanno di pari passo. E se qualcuno non
dovesse aver capito la lezione, tipo tutti quei greci in piedi che hanno votato
No alla Troika, si convincerà, forse, a vedere affondare le proprie isole (in
vendita quando saranno sgombre), e la propria terraferma, sotto uno tsunami di
migranti. Vengono sradicati dalla Siria e dall’Afghanistan non solo per
sgomberare quei luoghi e quelle risorse da popolazioni superflue, ma anche per scaricarne il peso su quei pezzi d’Europa
che già non ce la fanno più, risultano zavorra e su cui non sta bene, per ora, scaricare
bombe o califfi.
Là, mentre a Guantanamo un prigioniero
yemenita, Tariq Ba Odah, in sciopero della fame dal 2007, ma mantenuto in vita
con la tortura dell’alimentazione forzata nasale, se ne sta andando all’altro
mondo perché il suo corpo non è più in grado di assorbire nutrimento, per le
vie e dai balconi della vicina Santiago e della lontana Avana, folle salutano la visita del “valoroso veterano del Vietnam” (!), John
Kerry, inebriandosi dello sventolio di bandiere a stelle e strisce. Lui ha
appena pilotato, per interposta persona s’intende, il cacciabombardiere che ha
frantumato una festa matrimoniale a Kandahar e il drone che, “fallendo” il
bersaglio Isis, ha sventrato un ospedale siriano. Ha anche da poco fatto
arrivare qualche decina di milioni a terroristi venezuelani perché preparino
gli Usa alla difesa da quella che per Obama “è la rara e straordinaria minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti”.
Loro, le folle, sembrano proprio quelle che a milionate incontravamo il 1.
Maggio, fazzoletto rosso al collo, ad ascoltare Fidel e a gridare “Patria o
muerte”, “Socialismo o muerte”, “Hasta la victoria siempre”. In greco si chiama
di·sto·pì·a, la dislocazione di un viscere o di un tessuto dalla sua normale sede.
Oggi, però, ci occupiamo dell’Iran, terzo soggetto
nella trilogia dei suonatori e suonati. Quello per il quale non tutti i giochi
sembrano ancora fatti, diversamente da Cuba scintillante di stelle e strisce e
dalla Grecia dove, però, da un spiraglio, almeno si vedono stelle e strisce
bruciate in piazza. Hai visto mai. Ma partiamo dalla periferia della potenza
regionale, là dove i propilei della Persia vengono investiti dal controcanto heavy metal di un imperialismo che a
Tehran flauta la melodia della diplomazia e del disgelo. Nella scenetta
obamiana del poliziotto cattivo e di quello buono, Siria, Iraq, Libano, Yemen,
stanno all’Iran esattamente come Venezuela, Ecuador, Argentina, Bolivia,
Nicaragua, stanno a Cuba. Lì si stupra, qui si minchiona. Politica del sorriso
verso gli uni, desertificazione del quadro di solidarietà e amicizia nel quale
questi sono collocati. Ti offro un bicchiere d’acqua, ma ti taglio
l’acquedotto. E c’è chi ci casca.
Nulla riferiscono i media sui successi
governativi in Iraq e Siria Già, ci sono anche quelli, ma guai a sminuire la
potenza e la minaccia dei jihadisti e far sospettare che quei “regimi” si
affermino grazie alla qualità dei propri combattenti e al consenso popolare.
Vale anche per l’Afghanistan dove, o si tace sull’offensiva vittoriosa dei
Taliban da un capo all’altro del paese, o, con i soliti Battiston e Giordana
del “manifesto”, corifei dell’occupazione Usa e della “società civile”, la si
trasforma addirittura in “segni evidenti
di debolezza dei barbuti” (termine, questo, prediletto dai due, insieme a “turbanti”, tanto per dar mostra di
solido razzismo eurocentrista)..
L’esercito siriano, in condizione di quasi
totale isolamento internazionale, sono oltre 4 anni che non si fa mettere sotto,
sebbene confrontato da un inesauribile flusso di combattenti e rispettivi
finanziamenti e armamenti. Damasco controlla tuttora tutta la parte della Siria
densamente popolata, non cede sul fronte di Aleppo, nonostante l’impegno che ci
mettono i turchi a sostenere Al Nusra,
ha ripreso ad Al Nusra la provincia centrale di Hama, ha riconquistato quasi
completamente sia il sud, provincia di Deraa, sia l’area che congiunge la
capitale al Libano e al Mediterraneo, liberando la città strategica di Zabadani
e la catena montagnosa di Qalamun. Le recenti mosse militari della “comunità
internazionale” e dei vari fantocci oppositori di Siria (zona cuscinetto,
Incirlik agli Usa, bombardamenti Usa diretti, resurrezione di “ribelli
moderati”, turchi scatenati contro i curdi e promotori di affluenza Isis in
Siria) sono la reazione a questa impasse degli aggressori.
Il dinamismo diplomatico di Mosca, che in
questi giorni ha incontrato i vari attori sulla scena, compresi i fantasmi
della Coalizione Nazionale Siriana e il ministro degli esteri saudita, ha
sollecitato il Consiglio di Sicurezza a dar segni di vita. Il risultato è la
proposta di un governo di transizione con dentro tutti, salvo Assad (con Assad per i russi). Impegni scritti
sull’acqua che non tengono in minimo
conto la volontà del popolo siriano come manifestatasi in quasi 5 anni di
resistenza. I foraggiatori delle varie
forme di terrorismo jihadista si affretteranno a schiacciare questa resistenza sotto
un qualche enorme botto False Flag
che imponga l’attacco internazionale diretto a Damasco. Si vedrà se Putin sarà
ancora una volta in grado di fermarlo.
L’ennesimo tentativo degli Usa di proporre
all’opinione pubblica mondiale una credibile alternativa alle proprie mostruose
bande jihadiste, è finito nel ridicolo. La celebrata “Divisione 30” di una
nuova “Forza Libera Siriana”, composta stavolta da “oppositori” siriani, per lunghi
mesi addestrata in Turchia da militari Usa, appena entrata in Siria con i suoi
primi 60 ascari (5000 avrebbero dovuto seguire, ma non se ne parla più), è
subito svaporata sotto gli schiaffi dal mercenariato primigenio – Al Qaida-Al
Nusra – che avrebbe dovuto sostituire per offrire al mondo un’immagine meno
orrida della guerra ad Assad. Evidentemente essendo questi “moderati” meno
motivati delle bande islamiste da mettere in ombra, i rimasugli dello scontro si sono dichiarati fratelli di
Al Nusra. Comprensibile l’irritazione del Fratello Erdogan, che ha subito
sopperito al patetico esito dei “ribelli moderati” messi in vetrina dagli Usa,
facendo accompagnare dai suoi servizi segreti nuove colonne di mercenari Daish
(Isis), tutti stranieri, in Siria.
Lo stallo sul terreno, l’incapacità della
coalizione wahabita-imperialista di far crollare il paese e il suo governo, a
dispetto di indicibili sofferenze, 4 milioni di profughi, 10 milioni di
sradicati interni minacciati dall’inedia, ha fatto passare la svolta da sempre
perorata dal Fratello musulmano di Ankara.
La “zona cuscinetto” dove affiancare ai miliziani jihadisti truppe turche in
vista della conquista di Aleppo da far diventare provincia turca; l’impegno Usa
diretto con droni e cacciabombardieri in partenza dalla base turca di Incirlik,
a fingere di colpire l’Isis, cercare di agevolare gli attacchi jihadisti e
distruggere un altro po’ di Siria; l’annuncio di Netaniahu, dopo aver assistito
i jihadisti con forze speciali, bombe e cure sanitarie, di entrare
ufficialmente a gamba tesa nel conflitto attraverso interventi militari mirati
a “garantire la sicurezza del Golan e del confini di Israele”. Quando Israele
garantisce la sua sicurezza, curiosamente saltano per aria le sicurezze di
altri.
Non diverso è il discorso per l’Iraq, dove
l’andamento dello scontro tra Baghdad e Califfato (i curdi qui sono comprimari)
pare quello della fisarmonica. Il dato, comunque, è che la tripartizione del
paese (ultimamente ribadita spudoratamente dal generale Ray Odierno, massima
autorità militare Usa in Iraq) non si riesce a consolidare attraverso soluzioni
territoriali definitive. Anzi, con il decisivo appoggio di volontari sciti e
sunniti e di comandanti iraniani, l’esercito di Baghdad è passato dal
contenimento alla, seppure faticosa, avanzata nelle province centrali di
Salahuddin e di Anbar. Segno che l’operazione affidata da Usa e “comunità
internazionale” alla mostruosa creatura ha perso tutto il suo travolgente
impeto e rischia di finire insabbiata. “Il Nuovo Medioriente”, pronosticato da
Israele, Neocon, Obama, non riesce a
mettere a posto tutte le sue caselle etnicamente e confessionalmente separate e
contrapposte.
Provocazioni
per l’invasione
Le surrealistiche atrocità commissionate
ai mercenari Isis e Al Qaida in Siria, Iraq, Nigeria, Libia, Yemen, stanno
superando ogni immaginazione e, con essa, ogni sopportazione, che non sia
quella all’uranio impoverito di chi dirige lo spettacolo. Autobombe, in assenza
di risultati positivi al fronte, ogni giorno fanno immani stragi di civili a
Baghdad e Damasco, città più martiri di tutte le città martiri di ogni guerra.
A Sirte in Libia, membri delle tribù Ferjani e Qaddafa, fedeli al leader libico
linciato, muniti di soli vecchi Kalachnikov, si rivoltano eroicamente contro
gli invasori del Califfato (rivolte di
gheddafiani si sono registrate ora in tutto il paese) e, in assenza di
qualsiasi attenzione internazionale (come quella ampiamente offerta a Kobane),
vengono schiantati da artiglieria pesante e carri armati di fattura e fornitura
occidentali, pagati dai satrapi del Golfo. I sopravvissuti sono, come suole,
crocefissi. Il parossismo dell’anti-umanità necrofaga è suggerito dai mandanti
ai cerebrolesi dell’Isis a Palmira, dove si obbedisce alla consegna di
sradicare la civiltà, l’anima e la storia di un popolo, decapitando e
appendendo a una colonna il sovrintendente alle antichità Khaled Asaad, l’eroe
che aveva salvaguardato dai barbari i segni sublimi di quella civiltà. I mandanti,
poi, si arricchiranno di trofei predati e trafficati. Parossismo della ipocrisia, poi, è il cordoglio per Asaad del PD, partito e governo che hanno appoggiato l'assalto alla Siria dal primo giorno.
A proposito vedansi i vaneggiamenti del
Fratello Musulmano Acconcia, sul “manifesto”, quando s’inventa l’arrivo della
Brigata di Misurata a sostegno dei combattenti di Sirte. Brigata che, arrivata
in vistosa parata alle porte di Sirte, senza colpo sparare, ha immediatamente
fatto dietrofront. Non poteva che essere un’esibizione a uso e consumo di
giornalisti come Acconcia, dato che i
Fratelli Musulmani del regime golpista di Tripoli sono i padrini sia dei
tagliagole di Misurata, amati in Occidente per gli orrori inflitti ai
prigionieri politici e militari gheddafiani, alle donne non “convertite” e alla
popolazione nera di Tawergha, sia degli orchi jihadisti installati a Sirte.
Unici a tentare qualcosa in difesa di Sirte sono stati gli aerei del governo
legittimo di Tobruk, con le loro modeste capacità bombarole.Tobruk ha chiesto alla Lega Araba di
intervenire al suo fianco contro gli islamisti. Sarebbe l’unica soluzione
corretta, che potrebbe escludere quella colonialista della Nato. Ma
difficile immaginare che la Lega possa deciderlo, quando lì dentro ci stanno
qatarioti, sauditi, vassalli vari degli Usa, padrini e complici dei terroristi.
A questo punto non è possibile non
prendere atto che le atrocità del
mercenariato Isis (prima e ancora di Al Qaida) in Libia, Siria, Iraq, Nigeria,
servono a: 1) esasperare lo scontro di civiltà inventato dai neocon, attraverso
la satanizzazione dell’Islam tutt’intero; 2) giustificare l’intervento di una
qualche coalizione neocolonialista in Libia e Medioriente; 3) seminare panico
nelle società occidentali ( anche con interventi metropolitani come Charlie
Hebdo e affini) e quindi far passare ulteriori strette alle libertà e ai
diritti, fino allo Stato di Polizia del XXI secolo, cioè una roba che Hitler o
Bokassa non avrebbero neanche saputo immaginarsi. E’ però un giochino a rischio. Utilizzare il
mercenariato jihadista come bande di ventura al servizio dei propri obiettivi e.
contemporaneamente. come cattivissimo orco per incutere terrore nei mondi da
sottomettere, può provocare incrinature di credibilità.
E allora, ogni volta che ci si avvicina al
punto di contraddizione evidente tra jihadista terrorista e jihadista proprio
strumento, ecco che si piazza, tra macerie, corpi straziati, esecuzioni di
innocenti affidate a bambini, crocefissioni e stupri, un bel criminone di
Assad. Una volta armi chimiche che a Ghouta Est uccidono 200 bambini, un’altra,
nei giorni scorsi, il bombardamento di Douma, periferia di Damasco, con lo sterminio di 200 civili e passa. L’effetto
distrazione di massa è imposto dal frastuono ecumenico di ogni sorta di corifeo
politico e mediatico, a destra e sinistra. Eccelle qui il para-giornalista
britannico Robert Fisk, agente del MI6, che ricordo sfottermi a Baghdad, nel
2003, per aver messo a confronto la civiltà dell’Iraq di Saddam con la barbarie
degli Usa di Bush e del Regno Unito di Blair. Douma gli ha fornito il pretesto
per parlare di un “equilibrio del terrore” tra esercito di Assad e gli altri, tutti
parimenti cattivi, ma quelli di Assad un tantino più cattivi. Sotto la quale
mistificazione sparisce la differenza tra aggressori tagliagole e aggrediti,
torti e ragioni.
Il caso Douma è anche tale da annientare
ogni riflessione sulla logica di un presidente, assediato da mezzo mondo, che
trarrebbe vantaggio dal massacrare una popolazione che lo appoggia e che, per
difenderlo, ha sopportato ogni nequizia e sciagura (logica demenziale già
attribuita a Gheddafi). Del resto esiste la prova provata che i gas di Ghouta
Est furono forniti da Erdogan e usati dai jihadisti di Al Nusra, che quei
bambini uccisi erano stati rapiti da Al Nusra. La verità, distorta dai media, dice che da
Douma, controllata dai jihadisti, partivano incessanti colpi di mortaio che
facevano strage della popolazione civile nella capitale. La rappresaglia dell’aviazione
del governo ha colpito un deposito di cloro e armi chimiche che, esplodendo, ha
provocato vaste devastazioni e un centinaio di vittime. Infatti non risultano
crateri da bombe o missili, ma distruzioni a largo raggio come nel caso di
ordigni di superficie. Del resto, la notizia di un massacro attribuito ad
Assad, come ripresa da tutta la stampa, era stata data dal Syrian Observatory
for Human Rights, una fonte londinese legata all’opposizione, sotto controllo
dei servizi britannici, finanziata dall’UE. Credibilità: zero.
Dum Romae
consulitur, Saguntum expugnatur
Di False
Flag in False Flag, tattica
micidiale contro la quale le vittime non hanno ancora trovato antidoti,
arriviamo finalmente all’Iran. Dove si parla tra gentiluomini di accordi e dove
le autobombe e gli assassinii, per tutti questi anni commissionati dal Mossad e dalla Cia ai terroristi
islamisti del MEK (Mujaheddin-e-Khalk), sono al momento sospesi. Si aspetta di
vedere quello che succederà dopo la firma degli accordi sul nucleare a Ginevra
e a Vienna tra i 5 del CdS più Berlino e Tehran. Diciamo subito che tra le rese
di Cuba e Grecia, da un lato, e il cedimento iraniano alle pretese degli Usa
non c’è equivalenza. Soprattutto perché alla base e fin ai vertici dello Stato
si è manifestata una forte, seppure da noi pochissimo pubblicizzata,
opposizione all’accordo. Però qui, come negli altri due paesi fagocitati dai
ricatti a popolazioni stremate, è chiaro il segno di classe della vicenda.
Hassan Rouhani, definito “moderato” da
noi, è diventato presidente grazie alla divisione del campo della sinistra,
detta “conservatori” e alla mancata candidatura del popolarissimo Ahmadinejad,
impedita dai due mandati precedenti. Rouhani si pone in linea di continuità con
esponenti della borghesia occidentalizzante come Rafsanjani, campione di
corruzione, e Khatami. Rappresenta l’affermazione di coloro che nel 2009
allestirono la cosiddetta “rivoluzione verde” contro la correttissima
rielezione dell’uomo rappresentante degli interessi dei ceti patriottici,
contadini, operai, intellighenzia scientifica e culturale, alla cui promozione
sociale contribuì come nessun predecessore. Con visione chiara delle mire
dell’imperialismo occidentale, aveva rafforzato i legami con Russia, Cina,
BRICS e gli alleati in Medioriente e aveva difeso il diritto dell’Iran,
firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (diversamente dal
nuclearissimo Israele, delle cui 200-400 bombe atomiche nessuno, tanto meno
l’AIEA, chiede conto), ad arricchire l’uranio fino al 20%. Limite inferiore a
qualsiasi sviluppo armato, ma necessario a fini clinici ed energetici.
Del resto, lo spauracchio di un Iran
dotato di armamento atomico è stato sempre un mero pretesto per assediare il
paese e impedirgli ogni progresso economico e tecnologico e giustificare
sanzioni pesantissime con il fine di sfasciare l’economia e le condizioni di
vita di un popolo che Ahmadinejad aveva avviato sulla via di un eccezionale
sviluppo. Tra l’altro con la promozione delle donne, arrivate al 64% dei
laureati, a più alti livelli dello Stato, dell’economia, della scienza. Come a
Cuba, si contava sulla frustrazione e sull’impoverimento della gente, qui
dovuto unicamente alle sanzioni e non, come a Cuba, anche a inefficienze e
corruzione interne, per creare un clima utile al cambiamento.
L’arricchimento è stato ridotto al 3%,
quasi tutte le centrali sono state chiuse o ridotte a capacità minime, i 10mila
chili di uranio arricchito ridotti del 98%, le centrifughe tagliate di due
terzi. Ma l’offesa più grave alla
sovranità del paese è rappresentata dall’incredibile diritto preteso dagli sbirri
yankee dell’AIEA di ispezionare 24 ore su 24, senza preavviso, tutte le
installazioni, comprese quelle militari che con un agenzia atomica non
c’entrano una cippa. Terrificante cedimento in cambio di una possibile rimozione delle
sanzioni. Questa però rimane sospesa come una spada di Damocle contro
l’eventualità che l’Iran “sgarri”. E gli “sgarri” potrebbero essere sia il
rifiuto di un Iran resipiscente di farsi sfrucugliare caserme e basi militari,
sia l’insistenza di Tehran su oleo- e gasdotti che congiungano uno dei massimi
produttori di idrocarburi del mondo a Pakistan e Cina, da un lato, e Siria,
Turchia ed Europa dall’altro. Pipeline fuori dal controllo Usa.
Altro “sgarro” sarebbe il mantenimento del
ruolo strategico dell’Iran in Medioriente, attraverso il presidio della
cosiddetta mezzaluna scita – Iran, Iraq, Siria, Libano, Yemen, maggioranze e
minoranze scite nei sultanati del Golfo – e il sostegno a questi popoli nella
lotta contro il neocolonialismo imperialista e il parallelo terrorismo espansionista
delle autocrazie reazionarie di Turchia, Qatar, Arabia Saudita. Russia, Cina e
Iran, poi, rappresentano l’uno per gli altri, e viceversa, la rispettiva
profondità strategica. Nella marcia dei mondialisti su Mosca e Pechino, l’Iran costituisce una
tappa e uno scoglio cruciali. Come a Cuba, constatata la totale
inefficacia di decenni di politica
aggressiva, minacce tonitruanti, rivoluzioni colorate, campagne terroristiche,
separatismi alimentati in Beluchistan e Kurdistan, clave atomiche agitate da
Israele, inondazione di droghe dalle parti dell’Afghanistan sotto controllo
degli occupanti, uragani di diffamazione, ci si è rassegnati al “disgelo”, a
prendere la selvaggina alle spalle. O, piuttosto, nel nido, facendo leva sulla
scarsità di cibo per i piccoli.
Prendere un paese alle spalle significa
anche soffocarlo tagliandone i vasi comunicanti. La guerra in continua
escalation che califfi, sultani e feldmarescialli occidentali conducono contro
Siria e Iraq, con il ricorso a enormi flussi di denaro, armi, mercenari
rastrellati dalla Nato in tutto il globo, punta a eliminare dalla scena i
principali sostegni regionali dell’Iran, prima che esso venga poi tolto di
mezzo da isolamento e autocombustione alla greca.
I circoli dirigenti di Tehran, come quelli
cubani, si inebriano dell’arrivo in massa delle cavallette di investitori
multinazionali occidentali, con Usa e Italia in prima fila. Dei quali si sa che
beneficeranno le classi alte e ne risentiranno pesantemente, quanto a
condizioni di vita e di lavoro, di ambiente e giustizia sociale, quelle che
Ahmadinejad aveva emancipato. Un’irruzione del capitalismo di rapina che
rischia di minare alla base la sovranità dello Stato, lacerarne il tessuto
sociale attraverso la contrapposizione di settori ingrassati dal libero mercato
e altri che ne vengono emarginati e impoveriti. Una ripetizione della manovra
di mezzo secolo fa quando, dopo il colpo di Stato anglosassone contro il
premier nazionalista Mossadegh che aveva nazionalizzato il petrolio, la stessa
operazione era stata affidata allo Shah, uno dei più trucidi e sanguinar
tiranni della storia.
Abbiamo ora un’Iran messo sotto tutela
armata ed economica dall’imperialismo con la complicità di parti della sua
società. Ma abbiamo anche un Iran alfabetizzato al 98,7%, con un’istruzione
universitaria inferiore solo a Germania, Regno Unito e Francia, con un Indice
dello Sviluppo Umano superiore a tutti i paesi della regione e con una
popolazione che al 75% ha meno di trent’anni. Un Iran che, con Ahmadinejad,
presidente laico, aveva conosciuto, oltre all’ascesa delle proprie classi
lavoratrici, un allentamento della presa clericale su norme e costumi, un passo
indietro della censura sulle espressioni di creatività culturale ed artistica,
tanto che il cinema iraniano era assurto ai primi posti del prestigio mondiale.
Aspetti di vita che, ora in concomitanza con l’arrivo di Exxon-Mobil, BP,
Total, McDonald’s e Coca Cola, stanno già regredendo, alla faccia della nomea
di “moderati” e “liberali” con cui da noi si festeggiano i nuovi dirigenti.
Diversamente da quanto mi capita di
pensare su Grecia e soprattutto su Cuba, per l’Iran non me la sento ancora di
rinunciare a speranza e fiducia. Ho conosciuto da vicino quel giovanissimo e
intelligente popolo (vedi il docufilm “Target Iran”), ne ho sperimentato
l’orgoglio, la dignità, la maturità politica, la consapevolezza storica ed
attuale dei crimini del colonialismo britannico e dell’imperialismo Usa-UE. Ne
è testimonianza indelebile a Tehran, quotidianamente visitata da centinaia di
cittadini, l’orrendo carcere della Savak, il servizio segreto dello Shah che ha
insegnato la tortura perfino agli israeliani. Che al prossimo giro Ahmadinejad
torni o no, non sarà facile rovesciare questo Iran come un calzino nel suo
contrario. Né credo che la Russia di Putin lo abbandoni. Sarebbe, del resto,
una grossa taffazzata. Molto capiremo da quel che succederà presto in Siria e
Iraq.
http://albainternazionale.blogspot.it/2015/08/attacco-bangkok-sospettato.html
RispondiElimina@Fulvio
RispondiEliminaSi può ritenere affidabile Panagiotis Lafazanis col nuovo partito Unità Popolare ? Se non sbaglio è colui che ha concluso l'accordo con Gazprom per il Turkish Stream
Altro bel post e devo fare I complimenti all'onesta' intellettuale di chi, pur avendo sostenuto Cuba negli ultimi decenni, non lesina critiche alla sua linea politica presa ormai da diversi anni, ed a suoi difetti ormai diffuse (Avevo anche sentito del problema prostituzione, che secondo alcuni sarebbe tornata quasi ai livelli di Batista). Ma ho letto che lo stesso Kerry non sarebbe ancora soddisfatto, infatti chiede "aperture" verso la dissidenza. Penso che fra qualche mese si puo' assistere ad un altro tentative di rivoluzione "colorata". Sempre che non accada prima in Equador od in Venezuela.
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