lunedì 4 ottobre 2010

MESSICO E NUVOLE. NERE.







Sacrario per le vittime di Chihuahua, la discarica di Tapachula, il “muro” Usa al confine con il Messico, (Foto di Marco Diotallevi)
Ci sono soltanto due errori che si possono commettere silla via alla verità: non andare fino in fondo e non iniziarla.
(Budda)
Aveva visto bene Paolo Conte, ripreso da Jannacci, quando le ha cantate al cielo cobalto del Messico. Chissà se le aveva osservate da dove sto in questo momento io: una terrazza piena di pellicani di gesso, con nel mare un gabbiano vero che si spennacchia appollaiato su un palo e nel cielo nuvole che, per vederle, torreggianti affollate e gonfie, dal bianco neve al nero pece, appese a un cielo che più blù non si può, tocca venire solo qui. Per esempio su questa terrazza di un ristorantino sulla spiaggia a Puerto Morelos, Yucatan, una specie di dimenticato, se non da reduci sbrindellati di ben altri viaggi e storie, Puerto Escondito.

E’ il primo momento di quiete e di attenuazione di una pira di adrenalina che, nel bene e nel male, ci ha arroventato vene e neuroni da quando siamo sbarcati a Città del Messico per una tournee, con telecamera e taccuino, dalla vetrina federale, con il suo degrado periferico, i suoi palazzi, i suoi tumulti, le sue passarelle di bombastici presidenti, fino alle donne de pié della città-mattanza Ciudad Juarez, dal Chihuahua della narcocolonizzazione, agli indigeni Triqui in faida tra sé e il regime narcoligarchico e agli irriducibili reduci della Grande Rivolta a Oaxaca, dalle terre fermentose di un Emiliano Zapata reinterpretato male, reinterpretato bene, alle zattere e ai treni della morìa emigrante e alle turpitudini urbanistiche di Cancun per coglioni in denaro e camicia a fiori del Nord del mondo. Sto qui, sulla terrazza del “Pellicano” a nettarmi con un cafesito da quel brulicare di grattacieli che divorano la costa, lussi e tipi di una volgarità disumana, correttamente da noi interpretata come berlusconismo, incombere di barche da 90 metri e relativi boss più o meno “stupefacenti” e, comunque, trafficanti di pelle umana. Un lupanare da magnaccia e gonzi questa celebrata Cancun, Montecarlo latinoamericano, orrido agglomerato in pizzo alla penisola dei Maya. Mi ritrovo In salvo qui, coperto da quelle nuvole celestiali e strusciato da sdrucidi e innocui nonni dei fiori, detriti umani vari spiaggiati in questo “Puerto Escondito” e da famigliole o ubriaconi Usa che pregustano le espressioni tra meraviglia e invidia che il loro racconto di vacanze “dalle parti di Cancun” susciteranno tra gli amici a casa? Per niente. Proprio la notte scorsa a Puerto Morelos è stato catturato un narcoboss che aveva spedito i suoi sicari, Los Zetas, a incenerire un bar rivale con tutti gli otto avventori dentro. Non c’è isola, non c’è asilo in Messico, per tutti i suoi 2 milioni di chilometri quadrati, attraverso tutti i suoi 104 milioni di abitanti, non c’è una provincia “babba” esente da mafia, un luogo dove il crimine, shakerato con tutte le sue componenti, non detti legge, scanni, rapisca, determini i modi con cui si amministra la cosa pubblica.

San Cristobal de Las Casa, incastonata come gemma preziosa nella memoria di una sveglia zapatista il cui scampanellio presto esaurito ci si ostina a sentir trillare. Veniamo proprio da lì, penultima tappa della gira messicana da una mattanza all’altra, da un foco di resistenza all’altro, questi ultimi avendo tutti alla guida e nel cuore le donne, come già avevo ammirato in Honduras. Perciò “Messico e nuvole… rosa”. 13 anni fa avevo percorso i suoi vicoli stretti, le geometriche efflorescenze urbanistiche di stile coloniale, gli essenzialissimi negozietti di colorita e inoffensiva chincaglieria indigena, i suoi spacci di cibo da tre tavolini sguarniti. Erano i tempi dei fasti del subcomandante Marcos, quando il rusticamente modesto paesone del Chiapas pullulava, tra antichi abitanti straniti, di adolescenze e maturità occidentali, rispettivamente speranzose e nostalgiche di sollevamenti antichi, poi rievocati dalle pittoresche esibizioni a cavallo dello studente dell’UNAM fattosi rivoluzionario maya. La vedeste oggi, S. Cristobal de Las Casas!

Intanto tutto è stato ripittato e riportato a nuovo. Da androni lumeggiano lussureggianti patii colonnati, un tempo riservati ai sudditi privilegiati del vicerè spagnolo, poi sbriciolati e ammuffiti. Ora, per mano di qualcuno che ha saputo intuire quale pozzo di S. Patrizio potesse diventare un villaggione, terminale di promesse di palingenesi a giovanetti e giovanotte evasi nel romanzo, metamorfosizzato in una specie di “Madonna di Campiglio”. La speculazione ha fruttato una cittadina sfolgorante, ogni terzo portone un albergo a 4 stelle, magari “El Zapatista”, con la popolazione nativa rannicchiata in casupole di periferia, emergente solo con l’avambraccio fatto bottega di tessuti più o meno indigeni, o alla cerimonia domenicale della sfavillante cattedrale, già centro di comando del vescovo zapatista Samuel Ruiz. Ampie e civilissime isole pedonali, inanellate attorno allo Zocalo-salotto, pullulanti di café, enoteche, ristoranti dai tavoli con tovaglie, affusolati tovaglioli di lino bianco e porcellana Rosenthal, locali ”caratteristici”, dedicate allo zapaturismo con tascapane di canapa e basco con la stella, costellate di santini del grande Emiliano e simboli maya.

Ma sotto, intorno e piuttosto sopra tutto questo supermercato per reduci e libidinosi dalla pelle chiara di brividi eversivi, alita la nuvola nera dei padroni dei soldi e dei traffici di questa rete di ragno che avviluppa tutto il Messico, con al centro l’insetto, avvolto in stelle e strisce, del palazzo presidenziale. Bella copertura, questa S. Cristobal, per il terminale sud di quanto contribuisce a sostenere criminalità organizzata e classe dirigente del paese: snodo del narcotraffico dalla Colombia per il ricco consumo di Cancun, Acapulco, Oaxaca, Monterrey, Città del Messico, stati del nord, e centralina di controllo del flusso verso gli Usa; base di lancio delle multinazionali voraci di territorio chiapaneco, delle foreste, miniere, acque, campi, schiavi; manometro indicante dimensioni e tempi della rete venosa che dal confine con il Guatemala trascina verso il Nord, verso il “sogno americano”, le decine di migliaia in fuga da paesi devastati dai burattinai del Nord e dai loro bulimici burattini. Prima che strozzature di colesterolo, per dire gli agguati delle padillas di adolescenti inferociti, le estorsioni di briganti di strada, trafficanti di persone, balseros, poliziotti, militari e paramilitari, i massacri di oscure bande manovrate da molto lontano, non ne arrestino il corso.

Sulle pendici a scivolo verso il centro della città, tra esplosioni di un verde che tenta e ritenta di riprendersi margini di città, in una casetta alla Haensel e Gretel, ma senza strega dentro, ho ritrovato, a distanza di decenni, un compagno di Lotta Continua. Uno eminente, ma che non ha fatto la strada di altri eminenti, a culo di sacco di merda. Uno con cui si cantava, rideva e sbraitava con efficacia e spesso con muscoli contro le nefandezze dei Marchionne, Maroni, Bersani, Gelmini degli anni ’70. Gianni Proiettis è giornalista e i capelli bianchi giù al collo ne fanno un’icona della mia professione. Della verità negata sull’America Latina. Corrispondente del “manifesto”, ma anche professore di antropologia in questa Università, autore con altri compagni di racconti audiovisivi, è da mettere, per fortuna a lungo vivo, accanto a Stefano Chiarini, indimenticato e supremo correttore delle scivolate e degli sfondoni del suo giornale. Quello che con Stefano Chiarini abbiamo perduto in conoscenza e comprensione degli arabi e del Medioriente, lo teniamo salvaguardato da Gianni Proiettis – e tristemente solo da lui nel continente – per l’America Latina. Se leggo ancora “il manifesto” è anche per lui. Con Gianni, con il collega Emanuele, altro divulgatore di verità e rilevanze dal Sud del mondo, e con Mercedes, vera rivoluzionaria e conoscitrice del Chiapas come neppure i ranger Usa che da decenni ravanano nell’area (se ne parlerà dopo), abbiamo percorso l’alto e il basso dello Stato. Dai santuari di campesinos diversamente zapatisti, cioè tra i battiti di un cuore che non si arrende e si rinnova, fino ai limiti delle terre dove la guerra tra chi cerca vita e chi somministra morte, di qua e di là del fiume che separa il Messico dal Guatemala, ha mescolato sangue, rifiuti e droga.

Ad Arriaga, città poco distante dal confine dalla quale partono i treni merci verso il nord, lungo i binari, tra cespugli e carcasse di vagoni abbandonati, si aggirano fantasmi. Di solito sono in maglietta e jeans e si tirano dietro un fagotto. Spesso sono ubriachi. Sono donne e uomini di ogni età, guatemaltechi, honduregni, salvadoregni, approdati a queste parallele arrugginite con le ultime briciole di speranza, dopo che della speranza di partenza, di riscatto in qualche posto più a nord, è stato fatto scempio da bande giovanili, poliziotti e coyotes (così si chiamano gli spalloni di persone) estortori, sicari di narcos. Arrivano dal grande fiume Suchiate che stacca il Guatemala maya dal Messico maya. Vivono da settimane, mesi abbrancati a questo capolinea del treno del Nord. Ce ne sono che abitano lungo la ferrovia, tra le radici degli eucalipti, sotto uno straccio di plastica da anni. Di giorno si aggirano per le strade della città per racimolare con prestazioni occasionali quei quattrini da viaggio che li rilancino verso gli Usa dei parenti insediati in tempi meno brutali e, comunque, di quel boccone di lavoro che gli consenta di spedirne un pezzo ai genitori, ai figli lasciati a Tegucigalpa, a San Salvador, a Managua. Quattrini risparmiati all’origine in anni e anni di paraschiavismo, quattrini strappati da ladri in borghese o divisa alle magliette, alle mutande. Più giù, a Tapachula, città strategica che cavalca il fiume-confine, superate le guardie e i briganti del lato guatemalteco, sono i traghettatori su geniali zattere di assi e pneumatici di camion a spolpare chi si ostina ad avventurarsi in Messico. E con le spiccie. Ci siamo inzatterati anche noi per un’incursione clandestina nel paese vicino e li abbiamo trovati, i migranti, solo di poco meno sgualciti dei loro compagni più a nord, meno provati, ma già altrettanto derubati, indifesi, schizzati, odiati. Fraternamente dividono quel capanno, imbastito con cartoni e frasche, che insiste sulla riva dalla quale qualche miracolo li sposterà sul lato opposto: colombiani, ecuadoriani, dell’Honduras, di quel paese cui il golpe Usa ha voluto recidere la strada per un futuro di dignità. Ci raccontano tutto, macellerie sociali, stenti famigliari, viaggi a piedi tipo ritirata di Russia, andate e ritorni forzati e ripartenze, furti, mazzate, morti di fratelli di destino. Mucillagine del continente, esercito di riserva del neoschiavismo, occasione di intimidazione collettiva: se non ti rompi la schiena per quasi niente, c’è sempre quel migrante che si fa fare il culo per meno. Ne sappiamo qualcosa da noi. Messico laboratorio dell’Impero.

Ad Arriaga c’è una casa-rifugio religiosa che ospita pezzi di migranti. Sono quelli arrampicatisi sul treno di Arriaga, incastonatisi nelle scalette tra i vagoni o abbarbicati ai tetti che, sfiniti dalla fatica, sono precipitati nel sonno sulle traversine e, per quella volta, non ci hanno rimesso tutto, ma solo le gambe, le braccia. E quelli tirati giù e sotto le ruote dai delinquenti folli delle padillas, per divertimento, o da Los Zetas quando non mollano subito il rotolino di banconote, o non ci stanno a diventare spacciatori. Uomini spezzettati come li avevo visti solo negli ospedali della Mezzaluna Rossa palestinese dopo “Piombo Fuso”. Resti umani sia lì che qui che strisciano per terra, o camminano goffi senza arti superiori, ma nessuno dei quali vuole abbandonare il sogno. Questione di dignità, prima ancora che di sopravvivenza. A poca distanza, è il 16 settembre, anche in questo, come in qualsiasi degli angoli remoti di questo paese meraviglioso, indigente, butterato di tumori nutriti dall’alto (sociale e geografico), dissanguato al ritmo di 50-60 morti ammazzati al giorno, perlopiù civili innocenti, con bande e coccarde, vessilli e ghirlande, trofei e addobbi tricolori, pompa, palchi e notabili, si celebra il bicentenario, pensate!, dell’indipendenza e, pensate!, il centenario della rivoluzione, Hidalgo e Morelos, Zapata e Pancho Villa, padri della patria. Schiere di ornamentali cittadini di rango davanti, seguite da folle, piuttosto turbe, svogliate o appena incuriosite, convocate o sollecitate dall’opportunità di figurare che,ingrigiti dall’inedia, nel vento sabbioso paiono cumuli di polvere rappresa. A chiudere le formazioni a passo militare, tutti i bimbetti delle scuole di Arriaga e dintorni. Nella sfilata con trombe e tamburi si scorderanno per un attimo la manciata di riso e fagioli del forse unico pasto quotidiano tra pareti scrostate e lamiere e crederanno che quella festa di rinnegati e turlupinati celebri davvero qualcosa di buono per la patria e per loro.

Il giorno del nostro arrivo a Città del Messico, le prime pagine dei giornali del mondo sparavano i 72 migranti centroamericani trucidati a fucilate in Tamaulipas, a poche centinaia di metri dal confine Usa. Non potevano esimersi stavolta. Troppo forte e anche succulenta la notizia. Era una delle poche occasioni in cui i media si occupavano dei dolori e degli orrori di un paese, alleato dell’Occidente e dunque da esibire rutilante nella vetrina del turismo internazionale, di lusso o di pezza, che occulti la distesa di croci più vasta del mondo, battuta dal solo martire assoluto, l’Iraq. Ma con la qualifica onorifica di “democrazia” e di “paese in pace”. Ma al Nord è peggio che al Sud, dove nella foresta e nei campi insistono larghe sacche di resistenza umana e sociale. Ne parleremo.
Gli Stati di confine, Chihuahua, Nuevo Leon, Sonora, Tamaulipas, Bassa California, Cohauila, Veracruz, sono sotto il controllo assoluto del narcotraffico e di forze di “sicurezza” (polizia, esercito, forze speciali Usa, magistratura), che estendono i tentacoli del terrorismo di Stato nel profondo della colonia Messico. I migranti, quando non si prestino allo spaccio, al sicariato assassino e alla tratta di donne, vengono fatti fuori, se non dal deserto e dal muro elettrificato di tremila chilometri, dai 1.800 militari disposti sul confine da Obama, da reparti ufficiali dei 50mila sgherri sguinzagliati da Felipe Calderon per la “guerra al narcotraffico” (sostitutiva della “guerra al terrorismo”, sostitutiva della “guerra al comunismo”), da paramilitari (Minutemen) e bande al servizio dell’uno o dell’altro padrone sui due lati del confine. Vedrai che i sopravvissuti si presteranno più docilmente alla manovalanza del crimine, o allo schiavismo nelle maquiladoras delle multinazionali in Messico, o nei campi di mais della metropoli imperiale. Tragicamente il mais prodotto dal loro martirio, riccamente sovvenzionato dal governo Usa, è quello che ha sterminato il mais endogeno, cibo di base universale e sacro simbolo di identità e spiritualità messicane, con i concorso della nota Monsanto che alle importazioni di mais Usa transgenico a basso prezzo ha aggiunto il plusvalore dei suoi semi sterili, delle coltivazioni transgeniche contaminanti e del suo maltusiano Roundup, l’erbicida cui resiste il mais pervertito, ma cui non resistono gli organi vitali del volgo consumatore.

Torniamo a sud. A un breve volo di avvoltoio dal fiume e dai suoi scarichi, in una ferita enorme della giungla tropicale, si spalanca, fetendo e bruciando gli occhi, un oceano di rifiuti. Compattatori, autotreni e gli avvoltoi neri che qui sostituiscono i nostri bianchi gabbiani, a prima vista fanno correre il pensiero a Malagrotta di Roma, o ai vomitori scavati dai bassolinian-berlusconidi in Campania. Lezzo e business delinquenziale di Stato sono gli stessi e la stessa è la compenetrazione tra metalli, plastiche e schifezze tossiche e, ancora, analoghi sono i falò con cui qualche disperato cerca di trasferire ad altri i propri veleni ridotti in fumi. Qualche disperato che s’è installato all’orlo di quell’abisso, ricorrendo a scarti di risulta e rami di palma e lì ci lavora e vive. A volte da vent’anni, ex-migrante che continua a favoleggiare di fuga al Nord, in Texas, “dove mi aspetta mia sorella”. E’ una donnetta del Guatemala, di età più rovinata che avanzata, che, mentre non cessa di appiattire cartoni estratti dalla bratta, ci racconta questa cosa. Già, perché quell’immensa distesa di rifiuti dei poveri, e dunque tanto più avvelenati (il Messico è il terzo paese al mondo per obesità, obesità di cui i poveri possono ringraziare il cibo-spazzatura Usa), brulica di anime come il più tormentato girone dell’inferno dantesco. Ho detto anime, perché i corpi rinsecchiti dalle privazioni assomigliano a ombre. Il sole picchia a 45 gradi, nugoli di insetti non risparmiano nessuna superficie e lì in mezzo torme di avvoltoi contendono il bottino di carta, plastica, organico, ospedaliero, alluminio, nitrati, amianto, a un brulicare di esseri umani che, pur con anni calcati sul groppone, pur con le catapecchie erette agli orli di questa pozza di morte, pensano alla discarica come a una tappa verso qualche residuo frammento di vita al nord. Ce ne siamo trascinati dietro il fetore fino alla doccia a casa di Gianni in San Cristobal. Ci portiamo dietro, tra le pieghe del conscio e dell’inconscio, l’incisione dell’artiglio capitalista sui dannati della Terra. Continua.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grimaldi, la prima (stupida, forse) impressione leggendo le tue note messicane, e'che per veicolare alle masse queste informazioni agghiaccianti, dovresti farne un romanzo. dico sul serio; la tua prosa struggente, di grande potenza espressiva e imaginifica sarebbe uno strumento importante per far arrivare tutto questo al grande pubblico. Non snobbare a priori, non e'peccato la contaminazione di generi se serve ad un nobile scopo. ci hai mai pensato? altra faccenda e'poi trovare qualcuno che te lo pubblichi, e'vero, ma la qualita' vende, per cui... aspettiamo altre pagine ed il tuo nuovo video
Edoardo