giovedì 7 ottobre 2010
MESSICO E NUVOLE. ROSSE. Seconda parte.
Murales di Emiliano Zapata a Magdalena, con Gianni Proiettis; con dirigenti Triqui di S. Juan Copala; scritta; posteggiatore a Oaxaca; striscione e assemblea nazionale a Magdalena Ocotlan
Foto di Marco Diotallevi
La lotta del proletariato e dei popoli rivoluzionari per la trasformazione del mondo comporta la realizzazione dei seguenti compiti: trasformazione del mondo oggettivo e, nello stesso tempo, trasformazione del proprio mondo soggettivo, trasformazione delle proprie capacità conoscitive e trasformazione dei rapporti esistenti tra il mondo oggettivo e il mondo soggettivo.
(Mao Tse-Tung, “Sulla Pratica”)
Prologo
L’affaire Belpietro è il livello pataccaro assegnato all’Italia, quella della provocazione-sghignazzo, in linea con le dimensioni del premier. Ma sono tutte patacche dalla trama lisa per ogni verso, vista come broccato solo dagli interessati e dai minchioni. Che si tratti di Mumbai, chiassosa firma Mossad per lanciare l’India contro i musulmani pachistani, o del poveretto che, filmato dal collega astuto, sull’aereo si accende un petardo nelle mutande, o ancora del misirizzi Osama che, nei momenti cruciali, soccorre con un comunicato audio o video tanto pubblicizzato quanto viene occultata la demolizione che sistematicamente ne fanno i tecnici del falso. Ma negli Usa, prima Roosevelt con Pearl Harbor, poi tutti i successori guerra-e golpegenici, infine Bush, il minus habens delle Torri Gemelle che, però, aveva un maximus habens in Dick Cheney e nel kombinat Cia-Mossad. Il cripto-Bush-Cheney (finalmente riuniti), Barack Obama, ne segue le orme, come in tutto. Sul tappeto rosso stesogli dai corifei sparge bufale peggio di quelle blù tedesche, ma lo fa con rinnovato clamore. Ora rilancia la guerra al “terrorismo tout court”. Tout court perché l’islam resta sempre sullo sfondo, è la fonte ispiratrice e qualche volta ancora operatrice quando serve a bastonare pachistani, somali, yemeniti e qualche altro Omar in giro per il mondo. Ma gangli operativi si anniderebbero ormai in Europea e negli Stati Uniti. Potrebbero essere uno qualunque di noi. Non per nulla il buon Obama, caro alle “manifeste”, ha esteso ai suoi sbirri speciali la licenza di uccidere islamici anche ai cittadini di casa sua. E nostra, europea.
L’allarme strepitato in questi giorni da tutte le gole di regime ha la valenza scientifica della pietra filosofale che cambiava il piombo in oro. “Fonti dei servizi”, “rivelazioni di detenuti a Bagram”(e qua cola l’acqua del waterboarding), “rivendicazioni di Al Qaida” (logo depositato in un safe di Langley, quartier generale Cia), “conferme raccolte tra detenuti inglesi”, “impronte vocali registrate in intercettazioni”. “l’arresto rivelatore di un cittadino francese di origine algerina” e fuffa simile è quanto ci viene rifilato dai pappagallini mediatici della Gorgone, Hillary Clinton, e del portavoce sionista del presidente, Pete Rouse, gente che ai precedenti Condoleezza o Rumsfeld gli danno secchiate di biada. Naturalmente sono le capitali europee a stare nel mirino dei fanatici con cui, gomito a gomito, giriamo in città. Magari anarco-insurrezionalisti, se dovesse servire. Roma, Londra, Parigi, Berlino, Bruxelles, posti che brulicano di milioni di spendaccioni turisti Usa messi così sull’avviso di buttare i loro quattrini piuttosto da Wal Mart, dove non si rischia di essere disintegrati. Per ora. Poi toccherà anche ai cittadini Usa, in modo che la paura, da Jehova a San Paolo strumento principe del potere, possa deviare verso gli ologrammi Cia in turbante la loro incazzatura cosmica per le depredazioni subite dalle banche e industrie con sigla Obama mit uns. Rimane, più che rabbiosa disperazione, un attonito sgomento davanti alla complicità alla cagarella delle sinistre nel farsi portatori d’acqua, di balle, per conto di chi gli sta dando addosso. La chiamano “Maledizione di Montezuma”. Così quando il botto, dalle fonti dell’anonimato così preparato, arriverà, non si troveranno a cagare da soli.
Messico e nuvole, rosse. Seconda parte.
Metto i piedi sulla balustra del “Pellicano”, in questo “Puerto Escondito” replicato in Puerto Morelos e, tra una fila di uccelloni in gesso che tolgono ogni dubbio al logo della bettola, punto, come per un oculare di cinepresa, lo sguardo all’orizzonte. E’ la fase epigonale della nostra vicenda messicana. Dall’orrida Cancun dei panza e sottopanza un salto di 12 ore ed è Fiumicino. Quindi è il tramonto, come vuole il poeta che volge al desìo, affondamento del sole che arroventa all’orlo basso gli alti cumuloni bianchi già degradati in avorio, in perla, in viola e in questo scarlatto. E’ la stessa fenomenologia dell’alba, quella, però, in un’aria meno densa di ore passate, sprecate, sofferte. E deve essere l’alba, dopo una notte nera di licantropi, quella che i rossi fratelli Cerezo mi rappresentano. Parliamo di resistenze, vittoriose o sconfitte. Avete presente un campo agitato da talpe, tutti quei montarozzini a scacchiera? La resistenza messicana è così.
Pulsa e batte come su tamburi d’acciaio anche a Città del Messico, dove l’assennato e volenteroso sindaco, Marcelo Ebrard, erede del sempre rimpianto Lopez Obrador, e il parlamento del Distretto Federale hanno mantenuto in vita, nel Messico desertificato, un’aiuola di diritti, civili, sociali, per quanto sotto Calderon si possa. La resistenza filtra da sotto colonne di armati, blindati, cingolati, tra le crepe dell’assolutismo corrotto dei partiti dell’oligarchia e del gregge, PRI e PAN con, al guinzaglio, pezzi del già progressista PRD, affonda le radici nell’epopea del primo zapatismo, del trionfo di Atenco su Vicente Fox, dei bagni di sangue e di dignità di Oaxaca ed, esplosa in rosa, tra madri, figlie, vedove, orfani, cui hanno segato arti famigliari, a Chihuahua e Ciudad Juarez. C’è un motore di resistenza intellettuale nella capitale, scrittori e drammaturghi come Humberto Robles, autore di “Donne di sabbia”, che ha strappato le croste della calunnia e della mistificazioni dalla montagna di cadaveri femminili a Ciudad Juarez, giornalisti come Sergio Gonzales, che per i massacri sui confini ha scritto “Ossa nella sabbia”, docenti universitari come Pablo Romo, Adrian Ramirez e Marie Thepaut, a capo di un’irrudicibile Liga Mexicana por la defensa de los Derechos Humanos, capifila, anche all’estero, di una guerra alle “verità” spurgate dall’establishment, dai suoi media, dall’impero e dai suoi buffoni di corte. Ogni giorno questo motore di umanità ribelle è messo a rischio di patibolo da governo, narcos, sicari, killer Cia, intelligence israeliana. Anche qui, come con i golpe di nuova fattura obamiana, si ricorre ai manuali dell’Operazione Condor, quella di Videla e Pinochet.
E ci sono Los Hermanos Cerezo e il loro comitato. Ci hanno accolto e ospitato all’esordio. Sono quelli che racchiudono in sé e nella loro vicenda tutta la tragedia eschilea del Messico e tutta la resistenza partigiana di dieci anni di una nazione stuprata, ma non ridotta in ginocchio. Sono i figli dei forse 300 studenti dell’Università Autonoma del Messico (UNAM) che, nella tempesta del ’68 mondiale, furono il ciclone messicano, latinoamericano, e che vennero abbattuti a Tlatelolco, in Piazza delle Tre Culture, dalla mitraglia dei carri inviati dal presidente Gustavo Diaz per spegnere una miccia lunga come tutto il paese. E che avrebbe potuto turbare il sereno godimento, da lì a una settimana, dei giochi olimpici. Poi meravigliosamente riscattati dai pugni chiusi di Tommy Smith e John Carlos. Caddero, i ventennni, tra i ruderi del tempio atzteco, accolti da strati infiniti di ombre di salme sversate lì dai padrini storici degli aguzzini. E’ forse da lì che parte la discesa verso l’abisso di questo popolo che oggi Felipe Calderon, con sulle spalle il Condor suggeritore statunitense, cerca di portare al fondo. Del Messico deve restare una scatola vuota di umanità, buona solo per estrarne droga, petrolio, legname, metalli, manufatti di schiavi e per versarci spazzatura transgenica, tossici, e Coca Cola. La “guerra alla droga” del Narcostato messicano serve a portare alle auspicate conclusioni l’operazione Tlatelolco. Ma ci sono i Fratelli Cerezo. Da loro ci è stata anche data lo scioglimento del ingrovigliato nodo di San Juan Copala, autonomia indigena distrutta proprio nei nostri giorni laggiù. Di questo, dopo.
Hector, Francisco, Alejandro, Antonio, Emiliana. Studenti all’Unam. Tre rilasciati poche settimane fa, al settimo anno di carcere, uno liberato dopo tre anni è mezzo, la sorella e il fratello risparmiati dalla retata di Vicente Fox e che diventano da subito e per sempre gli iniziatori e vessilliferi di una campagna mondiale per i diritti dei fratelli, di quelli dei 3000 prigionieri politici, delle centinaia di donne incarcerate per l’aborto, delle migliaia di scomparsi di regime, desparecidos. Me la raccontano un po’ l’uno un po’ l’altro, un po’ durante l’assemblea nazionale all’UNAM di tutte le organizzazioni in lotta per i rapiti e scomparsi, un po’ nella loro casa in collina, nel barrio delle casette e delle bottegucce proletarie, spiata da sette occhi a circuito chiuso. Furono arrestati con un’operazione alla Kossiga nel 2003, condannati a vent’anni, poi a sette, “per aver dato fuoco a un paio di banche”. Stavano all’università, stavano a casa loro, tra folle di testimoni, non era vero niente. Ma erano “agitatori sociali”, dunque sospettabili di terrorismo. E, soprattutto, erano figli di una coppia di guerriglieri dell’EPR, svanita nel nulla da anni se non per le lettere d’amore ai figli dall’ignoto. L’idea era di farla uscire dall’ombra, quella coppia maledetta, con il ricatto dei figli in galera e sotto tortura, come ad Abu Ghraib, o a Bagram, di farla arrendere, infliggere un colpo alla resistenza armata e lo sputtanamento di militanti sociali piegati dal ricatto. Una resistenza che resta endemica in Messico, per quanto Marcos, rivisto e corretto sottobraccio a Bertinotti, voglia predicare nonviolenza e disinteresse per il Potere. Alejandro e Emiliana, mamma putativa dei ragazzi, hanno tenuto duro. E come non farlo, quando i fratelli in isolamento, tra maltrattamenti, minacce, estorsioni, nel buio dei senzalibertà, a tentoni scrivevano sulle pareti la loro fede e la trasmettevano su tele dipinte e in fogli di quaderno strappati al diario della sofferenza e della speranza.
Oggi liberi, i Cerezo hanno fatto del loro Comitato un centro di documentazione e mobilitazione a sostegno di tutte le vittime del regime. Un baretto all’interno dell’UNAM, affiancato da altri spacci concessi da questa straordinaria università alle organizzazioni sociali, trotzkisti compresi, è oggi la sede operativa e la fonte dell’autofinanziamento del Comitato. Se qualcosa nel mondo passa per le crepe della blindatura mediatica che, come il muro d’Israele, imprigiona il vero e il reale, ma emette verso l’esterno le menzogne di velluto di carnefici fintisi vittime, gran parte del merito va all’opera de los Hermanos Cerezo. Gli siamo grati dell’esempio. Pensate cosa si può fare da una prigione. Nel 2003 il Messico riapparve sul proscenio mondiale con San Salvador Atenco, città agricola che si trova a mezz’ora dalla capitale, per la prima volta, dopo la meteora Marcos. Era saltata in aria una città. Al popolo di contadini di una terra fertile di caffè e mais vollero rubare tutto e metterci un aeroporto per la metropoli. I campi sarebbero stati asfaltati. I contadini al macero. La rivolta durò mesi, coinvolse mezzo Messico, arrivò fin sotto il palazzo presidenziale, pagò i suoi diritti con morti e feriti, seppe infliggere danni di immagine e materiali (e questo conta) al regime cementificatore. I cittadini di Atenco non finirono nelle bidonvilles ai margini della capitale. I cittadini di Atenco, dandole e prendendole, vinsero. Blocchi stradali a Città del Messico e mobilitazione in tutto il paese. Niente aeroporto. Campi in rigoglio. Civiltà salva. E ci rifecero tre anni dopo, quando Fox tentò di prendersi la rivincita scagliando i suoi sgherri contro le bancarelle dei floricoltori. 400 agenti, 200 arresti, un quattordicenne ucciso. Non si trattava di bancarelle e fiori, ma del fatto che i fiorai, avanguardia politica, avevano occupato il mercato in protesta contro il progetto di un micidiale centro commerciale.
In località Venustiano Carranza, nel Chiapas della Depresion Central, c’è il conglomerato di comunità indigene e campesine “Semilla del Sur” (Seme del Sud). L’ha creato, lo gestisce tra 500 compagni, la Organizacion Campesina Emiliano Zapata, Region Carranza, che ha per responsabile El Chema, uno che all’autonomia indigena e contadina, alla crescita politica e civile e all’agricoltura pulita, ha dedicato una ragnatela di rughe in faccia e ripetute soste in carcere, fin dal 1983, e che Amnesty International, prendendoci stavolta, ha fatto suo “prigioniero di coscienza”. Le case, modeste, funzionali, ordinate, intramezzano vasti campi a canna da zucchero e mais, casti di intrugli contaminanti, recinti di bestiame. Galline razzolano tra tutti i piedi e i galli, a loro volta liberi, strepitano come fossero le cinque del mattino. Con Chema abbiamo percorso il gran territorio e poi, come si usa in tutte le società della saggezza, ci siamo ritrovati sotto il grande albero al centro della comunità, ma, diversamente da quelle società, con le donne in prima fila: Blanca, Maria Guadalupe, Hilda… El Chema ci è arrivato spingendo in carrozzella e sostenendo due mutilati, vittime della repressione.
Con lo zapatismo di Marcos, questa organizzazione, come altre nel Chiapas e nel Messico che si muovono sul piano sociale e politico, ha poco a che fare e tiene a distinguersene. Chema la dice parte integrante della rivolta contadina di tutto il Sud del mondo, costola del movimento antagonista messicano e latinoamericano. A cui lo uniscono il quadro antimperialista e l’obiettivo dell’abbattimento del capitalismo, con strumenti strategici come il processo decisionale che parte dal basso, l’autonomia indigena, però lontana da qualsiasi chiusura etnicista come quelle di parte del movimento indigeno continentale e in cui paiono rinchiusi anche i cinque residui caracoles di Marcos, ormai estranei alla scena nazionale e internazionale. È un grande questo ometto dall’ età ruralmente indefinibile, che parla delle sue terre come un agronomo di alto livello, ma con l’amore di chi a quella terra stringe la mano, delle sue comunità come un protagonista della Comune di Parigi, dello scontro sociale planetario come Gramsci. Il tutto con le trecento semplici parole di spagnolo che capisco. E le giovani donne che dalle lotte, idee, carceri di Chema sono scaturite, parlano in prima persona, come solo da poco succede e non dappertutto tra le popolazioni native. Parlano di fogne e collegamenti elettrici negati, dell’autosufficienza alimentare orgogliosamente avvicinata, delle incursioni dei paramilitari bastonatori del PRI, della scuola lontanissima e ora inventata sotto il grande capannone ex-stalla per i bambini delle elementari delle cento famiglie di questo agglomerato. Maestri e medici volontari ma assidui, bimbi che scrivono fin sulle copertine degli sparuti quaderni. Ce lo raccontano, bilanciando sulla schiena o tra le braccia creaturine dai giganteschi occhi interroganti e sorridenti. Il forte sapore del coriandolo sulle tortillas della colazione offertaci, cui non sfugge nessuna pietanza in questo paese, ci langue appresso come le immagini di quelle casette sparse tra liberi e felici campi del Chiapas, di quelle donne, di quei frugoli, di quell’Emiliano Zapata tra i sessanta e gli ottanta, di quelle enormi fronde cha danzano nell’aria trasparente su vie e campi della libertà.
C’è un altro gruppo di comunità nello Stato di Oaxaca che ha condotto una lotta secolare per l’autonomia del suo popolo Triqui. Fa capo a San Juan Copala, Stato di Oaxaca. Avremmo voluto raggiungerlo, quel municipio di San Juan Copala occupato da tanto tempo da questi aderenti all’ Otra Campana, quella lanciata negli anni passati da Marcos. Ma ci è stato smantellato, praticamente sotto gli occhi, con la cacciata degli occupanti da parte di polizia e militari, due giorni dopo il nostro tentativo. Del resto per arrivarci rischiavamo, come tutti ci avvertivano e come due carovane umanitarie prese a fucilate, con tanto di morti e feriti, confermavano, di tornarne in ambulanza o carro da morto. Una vicenda di feroce repressione da parte della Federazione e dello Stato, quest’ultimo governato da Ulises Ruiz del PRI, ossimorico Partido Revolucionario Istitucional, eternamente al potere fino al 2000, che farebbero e fanno stragi purchè il messaggio di altre autonomie conquistate o anelate non arrivi a Oaxaca. Troppo strategico, a rischio, quel posto, a cavallo con lo Stato di Guerrero dove è irriducibile la guerriglia dell’EPR. Una vicenda, anche, di devastanti conflitti interni agli indigeni Triqui, indotta e coltivata dal potere, ma innestata su arcaiche divisioni tribali. A San Juan Copala il regime aveva delegato a un settore di Triqui assoldato, fortemente armato, la repressione, a volte mortale, dei pacifici rivoltosi. Gli altri si erano spaccati tra due organizzazioni, il MULT e il MULTI, che si accusavano reciprocamente di collusione col nemico e si avversavano quasi con lo stesso accanimento con cui i paramilitari e poi polizia ed esercito aggredivano entrambi. Tanto da confondere e frammentare anche il sostegno internazionale. Una sconfitta gestita da fuori, ma dai semi velenosi sepolti in terra Triqui.
Facciamo ritorno cogliendo in pieno l’Asamblea Nacional de Afectados Ambientales, convegno di organizzazioni campesine, indigene e antiliberiste da tutto il paese. Avreste dovuto vederci arrivare, su quel camper che un generoso mattocchio gringo, forse sgocciolato qui dal primo zapatismo, aveva trasformato in carrozzone viaggiante per trascorritori di Oaxaca da mezzo mondo, che qui si aggirano per tessere i fili di una rete internazionale di solidarietà e azione comune, sopravvissuta all’agonia dei social forum e all’estinzione delle vecchie sinistre. Sulle pareti di questa improbabile corriera da spedizione di Pancho Villa (letto John Reed su quella rivoluzione?) lo sguardo si frantumava su cento e cento adesivi, volantini, locandine, manifesti prodotti negli ultimi 40 anni in cento luoghi dall’insofferenza. Un museo su ruote. Avreste dovuto sentire come ti scombicchierava le ossa il rombante precipitare del mezzo, dalle sospensioni perdute chissà dove, nelle voragini e negli acquitrini aperti su strade bianche o anticamente asfaltate, da un’inclemenza climatica che, nell’estate di quest’anno, ha annegato mezzo Messico e centinaia di persone dimenticate da dio e da Calderon. Dimenticate anche dagli Usa, responsabili primi, nel Continente, dell’alterazione degli equilibri naturali. Alterazione che qui si presenta come alleata di una strategia imperiale che relega pezzi di umanità “improduttiva”, o non riconducibile all’ordine voluto, ai margini del contesto. Come si dice da duecento anni: Messico, tanto lontano da dio, tanto vicino agli Stati Uniti.
L’assemblea, un migliaio di delegati, si svolgeva tra le quattro case di Magdalena Ocotlan, Oaxaca, tutte verniciate di murales emilianisti e di lotta, a tre ore dalla capitale dello Stato. Appropriatamente qui, all’ombra di una voragine gigantesca, inflitta alla montagna da una multinazionale che la chiama “miniera ”, contro cui e contro il relativo spodestamento e inquinamento di ampie popolazioni questa comunità conduce una clamorosa lotta da anni.
Al palco si alternano le teste accademiche della lotta allo stupro ambientale, esponenti di decine di organizzazioni sociali e ambientali dell’acqua pubblica, di Tierra y Libertad coltivate in autonomia, dell’agricoltura non pervertita in chimica, dei diritti conculcati da privatizzazione e deregolamentazione, delle difesa dell’ecosistema, del contrasto all’industrializzazione e urbanizzazione speculative e depredatrici, perché gli interessi delle comunità stiano sempre al di sopra degli interessi delle imprese, di gruppi e individui che puntano al potere. Dura due giorni il succedersi, in un atmosfera di appassionata partecipazione, spesso di rabbia, sempre di entusiasmo, degli interventi che inglobano l’intera problematica degli oppressi e sfruttati del Messico e non solo e che puntano a costituire per l’imminente vertice del clima di Cancun una forza di denuncia e proposta da condividere con i compagni del resto del mondo. A un certo punto si inserisce, via cellulare, anche la voce di Giuseppe De Marzo, dell’associazione ASud, da queste parti conosciuto come dinamico militante del buen vivir. E noi italiani, con Gianni Proiettis, corrispondente del “manifesto”, che qui ho ritrovato imbiancato ma rinvigorito dopo i trent’anni che ci separano dalla fine di Lotta Continua, ne condividiamo con soddisfazione il contributo. Immancabile alla fine di ogni sessione il coro tonante, a pugno chiuso, del Pueblo unido jamas sera vencido, colonna sonora della rinascita latinoamericana. Poi, tutti in fila per il pasto gratuito: tortillas, fagioli, riso, pollo, pannocchie, platanos, che per loro sono banane. Una pacchia. Intanto, nel cortile, un paio di campesinos, fattisi inventori alla faccia di chi li vuole boccaloni, descrivono con uno strano apparato, fatto di secchi di plastica trasparente, cavi, sostanze, manopole, come sono riusciti da soli a misurare l’inquinamento dell’aria, insozzata al di fuori di ogni monitoraggio da traffico e discariche.
Oaxaca, novembre 2006
Raquel Chavez, giovane docente della cattedra di sociologia della salute all’Università Autonoma di Oaxaca, ci fa incontrare le dirigenti Triqui, Emelia e Adriana del MULT, nei loro sfolgoranti costumi a dominante rossa, che, prima ancora della repressione appena subita a S. Juan Copala, lamentano la divisione del loro popolo. Nella casa sulla collina, al sicuro, ceniamo a base di tortillas al celebrato formaggio di Oaxaca, con Nelly e Belem, protagoniste dell’indimenticabile e tuttora vivo e scalciante APPO, Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca. La direzione di quel grandioso fenomeno di sollevazione sociale che, nella seconda metà del 2006, pagando con vite e salute, rappresaglie giudiziarie e professionali, mise in questione il controllo dell’intero Stato da parte dei politicanti farabutti, istigati dal caudillo centrale Vicente Fox. Durò mesi la rivolta e oggi serpeggia e torna a preparare futuri. Lo zocalo, è la piazza centrale, sempre alberata, con fontane e panchine elegantemente liberty, stupendi palazzi del gusto e della prosperità coloniali, gruppi di spettacolanti, orchestrine di fisarmoniche o cimbali a intrattenimento di famiglie festanti, coppiette disinibite, ragazzetti razzolanti. Interrompono questo quadro, da armonia veneziana del Canaletto, una torma di donne e uomini in panni essenziali, investono a centinaia il padiglione centrale delle orchestre e rivendicano a cartelli e slogan i loro diritti: sono stati derubati da una grande società immobiliare, lasciati senza casa e senza un peso. Ce n’è una al giorno, di manifestazioni analoghe, di bistrattati, espropriati, imbavagliati. E poi, lungo il lato est dell’enorme quadrato, sotto portici settecenteschi che garantiscono la mobilitazione anche sotto la pioggia, un presidio dopo l’altro, con enormi striscioni e megafoni implacabili: le donne Triqui, il sindacato degli elettricisti, oggi punta di diamante nazionale delle lotte, sotto schiaffo per la privatizzazione dell’ente nazionale e le migliaia di esuberi, un comando di Tierra y Libertad, un picchetto dell’APPO. Oaxaca non è per niente “normalizzata”. C’è la brace sotto le ceneri sparse dal tempo della sconfitta, che è oggi di riflessione e riorganizzazione. Come quello impiegato da Edoardo Bautista, professore all’Università Autnoma, autore di un recente libro sulla natura autoritaria dei regimi - Los nudos del regimen autoritario – da cui trae per me un’analisi delle varie forme con cui il dominio ha risposto alle richieste delle masse e di come quelle forme si possano neutralizzare. Bautista è reduce con tanti colleghi (gli insegnanti erano - e sono – le avanguardie dell’antagonismo a Oaxaca) della sollevazione del 2006 contro la macelleria sociale e il collasso pianificato dell’istruzione, operate sotto la presidenza di Fox.
Risaliamo l’asse centrale di questa bellissima città, ordinata secondo la classica planimetria geometrica coloniale, ispirata al castrum romano. Accucciato sui gradini che portano alla monumentale chiesa barocca di San Domingo, un quasi indistinguibile grumo di stracci e sombrero suona una melodia struggente sulla fisarmonica. Accanto una stampella, davanti un cappelletto per l’elemosina. E’ uno di quel terzo di messicani oggi precipitati nella miseria. Una miseria che, tra i giovani, diventa bacino di reclutamento per il governo parallelo dei narcos. Obiettivo raggiunto. Raquel l’ha vissuta tutta, l’epopea dell’APPO. Strada per strada, incrocio per incrocio, casa per casa, episodio per episodio, vittima per vittima, eroe per eroe, ci costruisce una sceneggiatura di quella vera e propria guerra ai padroni che, per quanto finita nella ricostituzione dei poteri esistenti, è tuttora il mantice che soffia nella coscienza dei nuovi soggetti antagonisti sollecitazioni, idee, obiettivi. Sono queste rivolte di massa latinoamericane, con quel tanto di forza organizzata che masse non inermi sanno produrre e di cui sanno accettare il costo, per quanto estremo, ma anche infliggerlo, che fanno del continente la luce in fondo al tunnel.
Ecco il tribunale dove si facevano processi-farsa ai manifestanti, andato a fuoco per una provocazione dei militari, strumento della repressione ormai inflazionato oltre ogni misura. Ecco, a quell’angolo, in quell’androne, il posto di primo soccorso dove medici e infermieri si adoperavano per rimediare a traumi e lacerazione e per sottrarre i feriti agli sgherri della controrivoluzione. Laggiù, dietro agli alberi, il Panolito, armonioso edificio conventuale trasformato in una specie di Villa Triste, quella di Salò, dove donne furono incatenate e abusate. Qui l’incrocio strategico della città da dove una serie di barricate si dipanava in quattro direzioni permettendo di tenere il centro per settimane e mesi. Raquel si commuove al racconto di giorni che ancora le ardono dentro grazie all’inesauribile combustibile costituito dalla felicità provata, collettiva, del combattente per il pane e le rose, la vittoria possibile. Ne sappiamo qualcosa noi degli anni’70. Ne sanno qualcosa i partigiani. Ritroverete questa nostra hermana nel documentario.
Continua.
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1 commento:
trasformazione del proprio mondo soggettivo, trasformazione delle proprie capacità conoscitive e trasformazione dei rapporti esistenti tra il mondo oggettivo e il mondo soggettivo eh appunto per questo si prende Hikuri & Co da quelle parti: sono adattogeni !
Bell'articolo anyway !
L' AcS
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