mercoledì 27 ottobre 2010

CHIAVICHE E AQUILE



L'ingiustizia non si può tollerare. Bisogna opporvi resistenza ad ogni costo. La non violenza non diventerà mai una scusa per disertare la lotta contro l'ingiustizia.
(Arundhati Roy)
Il "meno peggio" non è affatto "meno peggio", è semplicemente lo strumento che usa il
"peggio" per impedire al meglio di uscire fuori.
(Valerio, un amico)
Se l'umanità non riesce ad amarsi / grazie a dio, / allora che si faccia / un patto con il diavolo. / Prenda il diavolo legge e costrizione / insieme alle lettere morte! / E dia all'animo coraggio e stimolo / per distruggere le tavole divine!
(Erich Muehsam, anarcocomunista tedesco, morto in un campo di concentramento)
I più grandi leader dai tempi di Saladino
Vogliono essere creduti, oltrechè da volpi e babbaloni? Che Wikileaks ritiri fuori i documenti chiamati Downing Street Memos, verbali originali che provano la collusione tra i due criminali Bush e Blair nell'inventarsi false ragioni per attaccare l'Iraq, fare un serialkilleraggio come non s'era visto mai, eliminare Saddam Hussein e distruggere la più forte resistenza di Stato all'avanzata USraeliana e persiana in Medioriente, al vampirismo neoliberista, al degrado planetario dell'americanizzazione culturale. Coloro che volevano sapere, sapevano. Come conoscevano perfettamente l'altro scoop a scoppio ritardato di queste fattucchiere da cartomanzia: i massacri compiuti da delinquenti italiani con le stellette a Nassiriya. Quello della divertente disintegrazione di un'ambulanza con dentro tutt'una famiglia e quella successiva dell'esaltante tiro a segno sul ponte: "Dai, dai.... annichilito!". Tanto imperversavano in rete e su Youtube notizie e immagini di questa prodezza dei "nostri ragazzi" ("nostri" di Prodi e Berlusconi), che, fin dal 2006, le inserii in capo al mio documentario "Gaza, Baghdad, Beirut: Delitto e Castigo".
Ma lasciamo gli spurghi tossici di Wikileaks all'immondezzaio della storia e ai ratti che vi si nutrono. Il boia Usa, autore del primo genocidio dell'era detta moderna e del primo di questo millennio, ha commissionato il delitto ai sicari installati tra le macerie intrise di petrolio della sua nuova colonia, così restituita agli anglosassoni bianchi cristiani cui Saddam l'aveva sottratta, scarnificata, nel 1958 e di nuovo nel 1968, per farne il più progredito, equo e orgoglioso paese della regione. Tariq Aziz, effettivo vice di Saddam e suo rispettato portavoce nel mondo, va impiccato. Il carnefice l'ha tenuto in condizioni da Guantanamo dal 2003 a poche settimane fa. Doveva scavarsi la latrina, era privato dei farmaci che le sue condizioni esigevano, veniva sottoposto ad abusi e privazioni d'ogni genere, gli erano negate le visite di legali e famigliari, una bottiglia d'acqua al giorno, un infarto mai curato, processi-farsa in cui il solito "giudice" marionetta gli imputava grossolane assurdità: "discriminazione religiosa", "corresponsabilità nelle punizioni inflitte a Dujail ai membri del partito Dawa (quello dell'attuale premier fantoccio Al Maliki, n.d.r.)che avevano attentato alla vita di Saddam". Punizioni decretate da un tribunale dopo regolare processo ai terroristi su libro paga iraniano. Infine, il boia Usa l'ha consegnato al sottoboia iracheno che, in spregio all'assoluzione nel primo processo e ai 15 anni comminati nel secondo, ha sentenziato "impiccagione".


Come nel caso di Saddam, davanti al cui comportamento nel verminaio giuridico e patibolare dei corrotti e venduti all'uno o all'altro moloch, Usa e Iran, che si spartiscono le spoglie del paese, ogni essere umano degno della qualifica dovrebbe inchinarsi. Così, per Tariq Aziz, flebili e ambigue sono state le increspature di una sostanzialmente complice indifferenza occidentale. E anche ora, quando davanti all'enormità brigantesca della condanna di un uomo che non ha fatto che servire con sagacia e nobiltà la vita e la dignità del suo popolo, degli arabi, dei popoli e che, fidando nella legalità internazionale, si era consegnato spontaneamente prigioniero di guerra. Qualcuna di quelle chiaviche sorge dalla fogna dell'ignavia e sollecita una qualche firma di protesta. Dei milioni che percorrevano le strade del mondo invocando pace in Iraq ("Seconda Potenza Mondiale"), non ne è rimasto neanche un pugno, in questo paese dei citrulli e degli acchiappacitrulli, tolti di mezzo da Berlusconi, Prodi, D'Alema, Bertinotti, Vendola e compagnia "nonviolenta" bombardante, quella del culto del "meno peggio". Ammaziamoli, ma ammazziamoli un po' meno.
Le aquile irachene sono rimaste sole fin da quando gli eurocentristi ed eurocolonialisti di una sinistra pervertita s'erano arruolati come sguatteri nel supermercato del junk food, cibo spazzatura, propagandistico imperiale. A quelle aquile le chiaviche di fogna, nel sollevare le sopracciglia sull'abominio giuridico e umanitario, vorrebbero appendere la zavorra di quel junk food, i piombi delle peggiori calunnie mai formulate a un avversario per spianarsi la strada del crimine con l'unanimità dei consensi. Li sentite pigolare "no alla pena di morte a un vecchio malato, che, pure, è stato corresponsabile delle scelleratezze stragiste di Saddam"; "ha le sue responsabilità, ma non era certo l'anima nera del regime". Sciacquano la bocca dalle scorie della connivenza con i colluttorio della benignità. Ammazziamo, ma non troppo. Il classico colpetto al cerchio e l'ordigno al tritolo alla botte.
E' quasi umiliante - ma me lo consente il dolore e la collera impotente per questa ingiustizia suprema - ripetere ancora una volta ciò che ogni singolo iracheno sa e che da noi viene negato o occultato. E' umiliante perchè urta contro un muro di omertà dal quale poi non cade mai nient'altro che i detriti della diffamazione nella malafede, o nell'incoscienza. E ti ritrovi nudo e insozzato. Tariq Aziz, cristiano caldeo, accusato di "discriminazione religiosa". Mai, dalla rivoluzione, un solo cristiano, scita, sunnita, assiro, evangelico, ebreo o altro è stato perseguitato e offeso nei suoi simboli e luoghi di culto (tutti sovvenzionati dallo Stato). Ininterrotta la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani fin da quando San Tommaso, presuntamente, portò la depravazione cristiana in Mesopotamia, 33 A.D. Dall'arrivo dei mostri dell'antiumano e del proconsolato degli sgherri alla Vichy, mezzo milione di cristiani è stato costretto alla fuga, innumerevoli sono stati uccisi, le bande di tagliagola scite hanno fatto pulizia etnica di sunniti, laici e nazionalisti, contribuendo in buona misura all'olocausto dei tre milioni e mezzo di iracheni fatti fuori da embargo, guerra e genocidio (poco più di 100mila per Wikileaks) e ai quattro milioni di sradicati dalla loro terra e casa (inesistenti per Wikileaks). Per non ricordare che una delle centomila imprese terroristiche, nascoste da Wikileaks dietro a una sparuta, saputa e facilmente digeribile serie di episodi brutti, basta pensare a Fallujah: quattro mercenari aggressori uccisi dal sacro diritto alla resistenza, una città di mezzo milione rasa al suolo, bambini e donne trucidati a freddo, fosforo e uranio da sprofondare tutto nella morta gora di un'agonia di secoli.
Mai Saddam Hussein, Tariq Aziz, nè i loro compagni di governo e di partito, sottoposti agli orrori della detenzione alla Abu Ghraib e alle nefandezze di un processo rispetto al quale addirittura quello grottesco a Milosevic pare una vipera davanti a una boa constrictor, si sono fatti piegare da blandizie (l'esilio per Saddam, se avesse fermato la Resistenza), o sevizie processuali. Ne hanno minacciato o ucciso gli avvocati, gli hanno rovesciato addosso montagne di ingurie, li hanno calpestati con regimi carcerari copiati dall'Inquisizione (non cambiano mai, questi cristiani). Non ne sono riusciti a trarre nè ammissioni, ne chiamate di correo, nè tradimento dei compagni e della verità, della loro fede. Chi di noi è andato a cercarsi in fonti pur disponibili le deposizioni di Saddam, di Taha Yassin Ramadan, di Ali, detto ingiustamente "il chimico", di Tariq Aziz, che provavano la caricaturale mendacità delle accuse e la fierezza della loro integrità umana ed etica? Ci possiamo immaginare questo nel nostro mondo dei Capezzone e dei Bondi? Possiamo concepire esecuzioni simili in un paese che sta per concedere l'impunità-immunità al capo del suo governo, per tutto quello che di criminale e sanguinario ha fatto da quando questo turacciolo di una bevanda andata a male è arrivato qui sull'onda sputata da una cloaca che si è rotta qualche decennio fa? Certo che le possiamo concepire, noi che stiamo nella civiltà e in una democrazia, al più un po' sfrangiata.
Ho incontrato Tariq Aziz. Era l'editore del quotidiano di Baghdad "As Thaura" del quale sono stato corrispondente in Italia. L'ho visto l'ultima volta, nell'autunno 2002, in divisa, a un convegno delle forze internazionali di pace, sindacaliste, socialiste, antimperialiste, quando già sull'Iraq incombeva l'armegheddon dell'ennesima orda giudeo-cristiana. Quando già Tariq, io, noi, il mondo, sapevamo che a questo Davide la vittoria su Golia sarebbe venuta per loro e per noi troppo tardi e dopo sofferenze e perdite inimmaginabili dall'inabissarsi di Atlantide. Sarebbe venuta da una resistenza di lunga durata, ma inesorabile, tanto eroica e indomabile quanto misconosciuta o deformata in "Al Qaida". Ma il ministro era sereno, gentile, eloquente sui diritti umani, quelli dei popoli, sulla sovranità dei giusti e la battaglia da affrontare, fosse anche perdente, da ingaggiare comunque. Per far riflettere negli occhi di tutti la fiaccola all'orizzonte, per quanto lontano, come sapeva il Che. Il sangue versato dall'Iraq e dai suoi eroi in alto e in basso, tutti coerenti come i nostri partigiani, versato dio non voglia da Tariq, cola dalle mani di tutti i cittadini dell'associazione a delinquere chiamata "comunità internazionale". Ci vive addosso ovunque andiamo, insieme alla vergogna e all'orrore per gli atti dei nostri governi, partiti, velinari cicisbei, governi che non ci siamo sognati di assaltare, neutralizzare. Nel nome di Saddam, di Tariq Aziz, di Hamas, dei Taliban, ma anche di quei disperati o farlocchi concittadini che, da macchiette con le zanne, si sono fatti spedire in giro per il mondo ad ammazzare e a morire.
Saddam, Tariq, tutti loro avrebbero potuto darsi alla fuga, ce n'erano di paesi che li avrebbero accolti. Sono rimasti perchè era inimmaginabile per loro non stare dovevano stava la loro gente. E nemmeno avrebbero potuto immaginare che democratici liberatori di una superiore civiltà potessero a tal punto strafottersi del diritto, della giustizia, dell'umanità. Non c'è stato nessun Vittorio Emanuele. Sono rimasti perchè erano e sono iracheni. Che il corpo di Tariq Aziz possa restare ai vostri piedi e farvi inciampare per il resto della vostra vita nel mattatoio che chiamate civiltà.

domenica 24 ottobre 2010

SIGNORE E SIGNORI, PIU' GENTE ENTRA E PIU' PATACCHE SI VEDONO.

DA WIKILEAKS AI SUOI AFFINI LOCALI

Finchè il popolo non si cura di esercitare la sua libertà. coloro che vogliono tiranneggiare lo faranno. I tiranni sono attivi e appassionati e si impegneranno nel nome di qualsiasi dio, religione o altro a imporre cappi a uomini addormentati.
(Voltaire)

Possiamo davvero pensare che coloro che puntano a sfruttarci possano meritare la fiducia di educarci?
(Erich Schaub)

E' uno Stato totalitario davvero efficiente quello in cui un onnipotente esecutivo di boss politici e la loro armata di manager controllano una popolazione di schiavi che non devono essere costretti, poichè amano la loro servitù.
(Aldous Huxley)


PATACCA CIA-MOSSAD-WIKILEAKS

Ti pareva che questa sinistra disastrata, catarrosa e tartagliante nel coro delle volpi e delle pecore al seguito del pastore zufolante, non si tuffasse a corpo morto (NON si fa per dire) nelle sabbie mobili, astutamente occultate da mirti e ginestre, dell’ennesima megatruffa USraeliana? Wikileaks e il suo ambiguo portavoce Assange, inquisito per molestie sessuali e buttato fuori dalla tollerantissima Svezia (ovviamente da “toghe rosse”), se fossero quello di cui si vantano e che gli viene accreditato dalla Grande Armada di canaglie e utili idioti, i centomila squadroni della morte Cia-Mossad in giro per il mondo gli avrebbero già fatto la festa. Invece il ministro dell’offesa Usa, Robert Gates, criminale di guerre Bush, rimesso sugli altari dei sacrifici umani da Obama, ha tranquillamente dichiarato:”Quella roba non ci disturba per niente”. E ti credo! Perché, anzi, puntella con trucchi per gonzi proprio gli obiettivi strategici centrali della criminalità organizzata imperialista. Non ci credete?

Il primo compattatore Wikileaks, tra alcune nefandezze Usa in Iraq, scontate dai tempi di Abu Ghraib, Guantanamo e Bagram, ha sversato nella discarica imperiale un ordigno tossico: sono i pachistani del servizio segreto SIS a guidare, rifornire e incoraggiare i “terroristi Taliban”. Ordigno la cui deflagrazione era perfettamente sintonizzata con la strategia Usa di criminalizzare i pachistani al fine di indurne il governo, valvassino imperiale, a massacrare la propria popolazione pashtun (sorella di quella afghana in rivolta) nello Swat e nel Waziristan e di squartare in combutta con l’India un paese dotato di armi atomiche. Cosa ci ha visto lo strabico esercito di polli da allevamento? La sconvolgente rivelazione che in Iraq qualche mela marcia statunitense a volte mitraglia la gente per strada. Per poi concludere rassegnato: a la guerre comme a la guerre

Ora, tra i cimbali e i tromboni della processione alla madonna Assange, hanno anche inserito l’immagine del povero Nicola Calipari, cosa che fa rivoltare nella tomba il brav’uomo che ruppe le uova nel paniere Usa e a noi fa davvero schifo. Il disciplinato soldatino Mario Lozano non poteva non sparargli perché “le autorità irachene avevano rivelato che quella macchina in arrivo era un’autobomba allestita dal capo di Al Qaida, Sheikh Hussein, responsabile di tutti i rapimenti di stranieri in Iraq”. Che altro poteva ordinare il comando Usa se non di impedire che un’apocalisse al tritolo facesse saltare per aria l’aeroporto? Con questa balla sesquipedale, Wikileaks e Federico Gatti, fidato terminale Italiano della banda di Assange, hanno sparato, altro che un’autobomba, tre missili all’uranio (effetti degenerativi permanenti) nelle teste del volgo generale e dell’inclita sinistroide. Primo, gli Usa non hanno colpa, non potevano far altro che sparare a Calipari e a Giuliana Sgrena, che ne ha tratto l’aureola sempiterna di martire (a copertura delle ambiguità che sciorina), per impedire un'ecatombe di Al Qaida. Secondo, la colpa secondaria è delle autorità-fantoccio irachene che hanno tirato quel bidone agli inconsapevoli Usa. Terzo, Al Qaida, come a ogni piè sospinto ripete il gregge del “manifesto” dietro ai pifferai Sgrena e Forti, e non la Resistenza irachena, è quella che fa casino. Al Qaida, e non gli sgherri finti islamici assoldati da USraele, hanno rapito tutti gli stranieri. Curiosamente quasi solo coloro che agli occupanti davano fastidio, dai sostenitori dell’Iraq come Nick Berg, alla stessa Sgrena, troppo piagnucolante sulle vittime irachene uranizzate, ai giornalisti francesi non “embedded”, a esponenti tedeschi o inglesi di organizzazioni umanitarie rischiosamente loquaci sugli stermini di massa Usa.

Episodiuccio che riguarda noi e che fa felice La Russa, Fassino, Napolitano e tutta la muta di pitbull addestrati all’attacco dal domatore Obama. Al Qaida è viva e lotta contro di noi, altro che farsa messa in scena dai pupari di Washington-Tel Aviv per rubare ogni cosa, ammazzare a gogò e succhiare il sangue ai sopravvissuti. Ma Wikileaks mira più in alto. Là, appunto, dove la vista delle talpe del campo occidentale non arriva. A parte il solito episodio di scostumatezza, smanieratezza e fin efferatezza, attribuito ai militari Usa, roba che per chiunque non si arrendesse ai lacrimogeni dell’informazione ufficiale e sue salmerie, era del tutto scontata. Mica solo per le ricchissime fonti web alternative, a disposizione in inglese, francese, tedesco (ah, ma qui casca l’asino in un paese burino che spande inglesismi senza sapere una parola di altre lingue). Sugli “abusi”, vale a dire assassinii arbitrari, torture, stupri degli occupanti, si sono fatti addirittura dei film circolanti in sale e televisioni. Andatevi a vedere Redacted del mica tanto irrilevante Brian de Palma e vedrete altro che le bagatelle da Wikileaks attribuite a qualche esagerato marine.

E allora cosa si propongono Wikileaks, il Pentagono, la Cia, quando scaricano sugli ascari al potere in Iraq questo secondo compattatore di rifiuti tossici e così esonerano in buona misura i primi responsabili della spaventosa tragedia irachena, una Gaza moltiplicata per venti, ma, diversamente dall’altra dei salutari convogli e flottiglie, meticolosamente rimossa? Dalla valanga di monnezza wikileakiana emergono, contornati da un po’ di patatine statunitensi, i quarti di società irachena macellati dagli assassini seriali e briganti di passo messi lì, per meriti di alto tradimento e ladrocinio, proprio dagli Usa. Sono loro, mica i marines, che torturano detenuti, stuprano, frustano, appendono per i polsi o per i piedi, elettroscioccano, giustiziano. E mentre gli americani, brava gente, conducono inchieste sui misfatti dei propri militari (ha-ha-ha!), quei bastardi di iracheni non si curano minimamente delle segnalazioni di crimini fatte loro dai meticolosi occupanti (la cui impunità assoluta, peraltro, è imposta alle leggi di tutti i paesi asserviti, dall’Iraq alla Colombia, dal Messico all’Afghanistan). Perché tanto accanimento contro i boia dagli stessi Usa posti in collo al popolo iracheno? Occhio, ecco il punto: trattasi di sciti, tutti quanti. Tanto che pur di togliere di mezzo il partito sunnita laico, vincitore delle elezioni, per non fargli aver neanche un fiatarello di voce nell’amministrazione del paese occupato e derubato, sono sette mesi che non si mette in piedi un governo in Iraq. E perché Wikileaks-Cia-Mossad ce l’hanno tanto con gli sciti? Ma perché i capi del regime che doveva essere fantoccio degli Usa, pian piano sono scivolati sotto il controllo di un altro protagonista dell’eliminazione dell’Iraq, l’Iran. E sono diventati fantocci di Ahmadi Nejad. E mentre i persiani prima di Ahmadi Nejad erano stati i partner collusi dello sbranamento del più grande, giusto e orgoglioso paese arabo, col tempo ne sono diventati partner in collisione mortale. In Iraq come nel resto del Medioriente. Chiaro perché a Wikileaks è dato il compito di bastonare questi fedifraghi? Una bella botta all'Iran e ai suoi proconsoli in Iraq per provare a riguadagnare l'egemonia perduta.

Non per nulla, il Partito Al Iraqiya dell’ex-premier fantoccio e stragista Allawi, maggioranza relativa, si è fiondato sul trampolino spianatogli da Wikileaks-Pentagono-Dipartimento di Stato per rivendicare i propri titoli al proconsolato, contro queste “bande di sciti obbedienti a Tehran che con le loro milizie hanno fatto pulizia etnica” (sorvolando sul fatto che quando faceva il capo dei fantocci lui, quelle milizie scite impazzavano, trapanando sunniti, quanto poi sottoAl Maliki). I persiani erano riusciti a mettere insieme le varie fazioni dello schieramento scita di obbedienza iraniana, s’era quasi arrivati a un governo che escludeva “l’amerikano” Allawi, ed ecco che Wikileaks, con le sue cannonate contro gli sguatteri di Tehran ha rimesso in carreggiata gli Usa. Bel colpo, no, per chi vien fatto passare per spada delle verità?

Personalmente, visto che del popolo iracheno, martirizzato per il suo valore come nessun altro al mondo, sono fraterno amico e frequentatore da lunga data, di queste porcherie di Wikileaks mi ha offeso più di tutte quella che rilancia, sotto la mimetizzazione di rivelazioni anti-Usa, la sanguinaria menzogna che elimina dalla vista e dalla coscienza universale, compresa quella già abbastanza miope, la prima, e sforacchiata la seconda, del “manifesto”, qualcosa come un milione e mezzo di civili iracheni ammazzati dal pianificato progetto genocida USraeliano. Riprendono, questi farabutti, i dati riduttivi diffusi per anni dal gruppo Iraq Body Count, una associazione a mentire britannica che, finanziata da George Soros, non fa che rilanciare i dati delle vittime diffuse a cazzo dal comando Usa a Baghdad: “109mila morti violente per TUTTE le cause tra il 2004 e tutto il 2009”, di cui appena 66.081 civili disarmati, in massima parte disintegrati dai “terroristi di Al Qaida” (leggi “Resistenza patriottica”) con le loro infami IED (ordigni piazzati nelle strade contro gli occupanti). Si torna all’iracheno delinquente che ammazza la propria gente, come Saddam con i curdi (gassati dall’Iran). Non c’è un cane – e se il bassotto Nando potesse parlare, ci sarebbe – che si ricordi che nel 2006, addirittura prima delle stragi di massa fatte dagli sciti e prima dell’onda alta dell’insurrezione nazionale e senza aver potuto indagare nelle due provincie a più intensa attività di controinsurgenza, il più autorevole periodico di medicina del mondo, “Lancet”, aveva documentato sul terreno la cifra di oltre 650mila morti. Cifra aggiornata due anni dopo da ORB, rispettatissimo istituto britannico di ricerca, che calcolava sul posto, in collaborazione con un ente iracheno, andando casa per casa e ospedale per ospedale, obitorio per obitorio, le vittime civili in 1 milione e 380mila. Oggi come oggi, rasentiamo facilmente i due milioni. Aggiungiamoli al milione e mezzo ucciso dall’embargo 1992-2003, e siamo a un 15% della popolazione irachena eliminata dalla faccia della Terra. E' permesso parlare di olocausto?

Capito a cosa serve Wikileaks? Particolarmente in una fase in cui Usa e carriaggi al traino, disperati per come gliela stanno mettendo in quel posto (e ai loro ascari) in Afghanistan, Pakistan, Iraq e mezza America Latina, qui fanno colpi di Stato, piazzano basi e innescano conflitti etnici, là scatenano bombe e bombaroli (La Russa) contro villaggi e famiglie fatti passare per roccaforti di Al Qaida e fanno piazzare bombe a Islamabad o Karachi da loro scagnozzi travestiti da “estremisti islamici”. E, sul binario parallelo a quello su cui viaggia il carro dell’Omino di burro Assange, zeppo di citrulli e tirato da somari (vedi Pinocchio), corrono anche le direttive Cia sugli “imminenti attacchi terroristici dei Taliban a Westminster, Torre Eiffel e Colosseo” che ci assordano da tutti i media. Terrorismo ovviamente assistito da centri sociali, anarcoinsurrezionalisti, morituri di Terzigno e Fiom. Oltrechè dai casseur della banlieu, oltreché dalle milionate di estremisti che devastano la sacrosanta economia dei ricchi buttando per aria la Francia.

Farabutti questi qui, mentre santi subito appaiono gli statunitensi che affannosamente, per quanto segretamente (pour cause), in simultanea con questi sfracelli islamici, vaticinano invece ritiri e annunciano negoziati con i Taliban “buoni”, cioè comprabili. Nessuno al mondo, da “Il Fatto” al “manifesto”, al Corrierone, al New York Times, a Vendola, si abbasserebbe mai a gettare un occhio sui continui comunicati ufficiali della Resistenza afghana che insistono a negare qualsivoglia intento terroristico, ma anche qualsiasi trattativa prima che l’occupante si sia tolto dai coglioni. Non si faceva così anche con l’Iraq, quando il governo di Saddam, per ben due anni prima dell’attacco iraniano, documentava al mondo, all’ONU, alla Lega Araba, alla Conferenza Islamica, gli innumerevoli atti di aggressione militare, terroristica, propagandistica, di Khomeini? O con quello che diceva DAVVERO Milosevic? Non si ignora con altezzoso disprezzo quello che DAVVERO fa Hugo Chavez? Quello che riferiscono i governi ceceni legittimi e non solo Astrit Dakli e le centrali antirusse? O, massima ingiuria all’intelligenza umana e alla professionalità di Tommaso De Francesco, oltrechè ai serbi da tenere in ceppi, ciò che esce dalle cataste di documenti raccolti da ricercatori onesti sulla non-strage di Sebrenica? Non sentite puzza, oltreché di malafede, dabbenaggine, ottusità servile, dell’intramontabile colonialismo razzista biancocristianocentrista? E possible che nessuno si chieda perchè Wikileaks si occupi solo dei misfatti di Bush e Co, morti e sepolti, e non riveli nessuna infamia di Obama, che sono commesse ORA? Solo dall'inizio di settembre, Obama ha autorizzato almeno 27 assassinii mirati. Le vittime, partigiani e, molti di puù, famiglie e bambini. Il totale da quando è entrato nella tana dei licantropi è oltre 100. "Manifesto" e gruppi umanitari tutti zitti.


SAVIANOPATACCA

Un Assange domestico ce l’abbiamo anche noi, anche se a scala vernacolare: Roberto Saviano. Insignito del titolo di leccatore principe di sodomizzatori israeliani, partecipe della ributtante kermesse nazisionista allestita dalla megera Nirenstein mentre Netaniahu ammazzava o sgomberava palestinesi, intimava giuramenti di ebraicità e faceva esigere dallo sbirro Pacifici una legge anti-negazionista, il batrocomaco, scopiazzatore di atti giudiziari e coraggiose inchieste antimafia di giornalisti e scrittori oscurati da chi illumina soltanto i correi e i “pali”, è stato fatto apparire come la madonna di Fatima ad Anno Zero. Da Santoro ha combattuto eroicamente, al limite del sacrificio supremo (niente soldi da Endemol, quella che gli paga tutte le comparsate), una causa, già da giorni vinta, contro il direttore generale Rai, Masi. Ma questo era solo il rumore di fondo, tipo l’inutile e fastidioso muzak che ci rintrona in metropolitane e centri commerciali. Rumore di fondo quanto lo sono gli accenni di sfuggita di Wikileaks alle birbonate Usa (a quando qualche “rivelazione” sulle birbonate di Israele?). Ma la carica esplosiva la recava una frasetta, buttata lì come per caso: “Mica siamo nella Cuba di Fidel, o nel Venezuela di Chavez !”

Messaggio affidato da chi sa lui (e noi) e consegnato a 5 milioni di spettatori, compito assolto. Quasi per caso? L’eroe martire, dai trascorsi estremodestri ma oggi tuttologo civile, che non può vivere una vita normale, ma, chissà com’è, vive un’ossessiva vita televisiva e convegnista (e si sa chi padroneggia questi media), quella velenosa battuta la ripete come un mantra, quanto le sue eulogie israeliane, nel corso di qualsiasi epifania pubblica, dall’anti-Rai Santoro, all’anticamorra Fazio, da tutti i tg dell’universo mondo a Current TV con il marpione ecologico Al Gore, ai teatri di tutt’Italia. E si guarda bene dallo sprecare una parola per quei suoi “colleghi”, giornalisti calabresi, almeno otto, che da anni camminano con l’ombra del sicario alle spalle, ricevono teste di animali, pallottole, annunci telefonici di morte, macchine bruciate e … licenziamenti da chi con le ‘drine ci tiene a convivere. O subvivere. Colleghi che non se li fila nessuno e che, diversamente dalla star mediatica, tengono famiglia. A licenziare Lucio Musolino, protagonista vero e quotidiano dell’antimafia giornalistica e a rischio vero della vita, apparso anche lui da Santoro, ma per un centesimo del tempo dedicato all’icona dell’antimafia di regime, è stato un altro eroe del libero giornalismo, l’ultrà vendoliano, luxuriano e vespista, Piero Sansonetti. Indifferente a questa sua macina di vergogna al collo, l’ex-direttore del “giornale comunista” Liberazione ha declamato presso il buffone di corte numero uno, quello con i nei, “la mia assoluta solidarietà con il direttore generale RAI, Mauro Masi, gravemente offeso nel corso di una trasmissione”. Le offese fatte dal figuro, destinatario dell’immonda blandizie, alla libertà d’informazione, alla buona educazione, alla propria dignità, al servizio pubblico, ai diritti dei cittadini, al buongusto estetico di chi lo vede, per Sansonetti non meritano neanche un filo dell’indignazione rovesciata su Santoro. Sa bene, questa macchietta del giornalismo, da che parte venga imburrata la sua fetta di pane. Oggi, finito rannicchiato in un angoletto mediatico calabrese, con la missione di ripulire la stampa regionale da interferenze con quelli che contano, butta in strada e alla mercè dei compari un giornalista vero. Tout se tien, no?
VENDOLAPATACCA
E’ un caso che le scuffie attuali delle ginocrate del “manifesto”, oltreché per l’immarcescibile Jack the ripper, Obama, siano per Nichi Vendola, celebrato come “Papa straniero” del coacervo reazionar-clericale SEL-PD-UDC-Rutelli? Oltrechè per Saviano e Julian Assange? Tra una serie di articoli che potrebbero riempire il Rotolone Regina, con titoli catartici e foto carezzevoli della faccia gommosa con frangetta e orecchino di quest’altro Santo Subito, spunta un’articolessa da far invidia a Marivaux e al suo Le triomphe de l’amour. Tale Marco Mancassola vi ripete settanta volta il lemmo vendoliano “narrazione”, nulladicente ma ipnotico (ricordate la famigerata “innovazione” del Bertinotti, oggi berlusconizzato in Mondadori?). Scrive: E’ all’elettorato smarrito, disincantato che si rivolge Nichi Vendola, con la forza suggestiva e appunto narrativa de suoi discorsi… Chi avvicina il governatore della Puglia alla figura di Obama (il camaleonte al coccodrillo), prima ancora di sottolineare il comune carattere di outsider, intuisce la vicinanza dei rispettivi racconti: in entrambi i casi, un racconto di riscatto. Un riscatto che, come in tutte le narrazioni migliori, è incarnato dalla stessa figura di chi lo racconta. La vicinanza dei rispettivi racconti? Quello di un nero addestrato dalla Cia con tutta la famiglia e la cui narrazione migliore si dipana in Iraq, Afghanistan, mezzo mondo a forza di carneficine e quello di un neo-occhettiano e neo-“ma anche”, diventato compagno di merende di Fassino, Veltroni, Cuffaro e Giovanardi.

Dai, Masi, fatti furbo: subito una serie tv con Saviano e Vendola. Titolo “Vasellina”. Due piccioni con una fava: con Israele, che è quella che ti terrorizza, stai a posto. A destra metti il guaglione Saviano che inneggia a Netaniahu, a sinistra l’intellettual-fuffarolo Vendola che, per par condicio, mette israeliani e palestinesi, aguzzini e vittime, sullo stesso piano: dialogo, pace, due Stati (si fa per dire) e fuori gli “estremisti”. E poi, senza nulla mai dire sul capitalismo-imperialismo che tutto il resto determina, spargerà tranquille ovvietà: gay, donne, lavoro, impresa, bellezza, cultura, dialogo, nonviolenza, italiani!… Stai sicuro che la critica televisiva, anche del “manifesto”, tiferà prona per il tuo progetto.


MADONNA, CHE PATACCA!


Del resto a sistemarsi prono il “quotidiano comunista” non ci mette niente quando si tratta di inginocchiarsi sulle macerie di Porta Pia (viva i bersaglieri, ma solo allora), battendosi il petto e invocando la grazia della madonna. Non ci credete? Prendete il numero del 23 ottobre e leggete di “Maria, eroina del post-patriarcato”, dove questa povera ragazzina virtuale di Nazareth, ingabbiata tra un marito impotente e un maschio spirito santo potente, a tutto si sottomette, perfino a diventare l’icona di una storia mai esistita, ma nondimeno altamente obnubilante, per compiacere un trio di maschi: padre, figliolo e spirito santo.

Invece no, questa protofemminista, a sentire Annarosa Buttarelli, cosa fa? Accelera un processo di spiritualizzazione dell’umano, proponendo un cambiamento generale della forma mentis occidentale, verso una cultura della saggezza… Maria è collocata al centro della nostra vita politica e spirituale… mettiamo la Madonna cristiano-cattolica al cuore del cambio di civiltà in corso, in modo da avvalerci della sua opera di co-redentrice del mondo, insiema a suo figlio Gesù… ciò significherebbe che l’intelligenza generale ha registrato che ci troviamo in pieno post-patriarcato. Correggendo l’incauto errore di Eva, Maria insegna che non si può pretendere di diventare divini prima di aver portato a compimento la propria umanità, prima di assumerla avendola accettata. Dal quale guazzabuglio concettuale creazionista si evince solo che Eva era donna di malaffare e Maria vergine e santa. Dicesi “post-patriarcato”. E’ il modo originale con cui il “quotidiano comunista” coltiva sia il materialismo storico, sia quello dialettico. Ma soprattutto “l’oppio dei popoli”. Monsignor Lefebvre si è subito abbonato. Un altro po’ di lettori s’è dato alla fuga. Verrà compensata, questa fuga, dalla benevolenza dei rappresentanti di Maria in Terra? Pare proprio che chi è sprofondato nel fango dell'11 settembre, poi il fango gli rimane attaccato.

Qui sotto riporto una delle sparate del blog di Beppe Grillo. Un altro confuso che ogni tanto si sbaciucchia con il Dalai Lama o con la Politovskaja, ma che a volte mira bene.

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Cosa accomuna Terzigno a Venhaus a Vicenza a Messina a Cagliari? La difesa del territorio, delle proprie radici.
Le persone capiscono che il luogo in cui vivono sarà distrutto per sempre, avvelenato, militarizzato, l'economia devastata e reagiscono. Non hanno scelta. La città, la campagna, i monti dove hanno vissuto i padri e dove vivranno in futuro i figli e nipoti sono il loro unico vero patrimonio, spesso la ragione di vita. Le cento Italie, ognuna con una storia di millenni, tutte diverse tra loro, possono convivere in questo baraccone unitario se non ne viene messa in discussione l'identità o la stessa sopravvivenza. Quando saranno resi noti i siti delle centrali nucleari ci sarà la rivoluzione civile, non sarà sufficiente l'esercito per costruirle.
La difesa del territorio di fronte a opere insensate come la TAV in Val di Susa e il Ponte di Messina fa riemergere dal passato il senso di comunità, legami sociali e produttivi di secoli e provoca una separazione improvvisa, netta, tra i cittadini e lo Stato che reagisce con la forza, con la violenza dei celerini, dei fumogeni ad altezza d'uomo, con i manganelli sulle donne italiane con le braccia alzate. Le conseguenze sono una frattura sempre più grande che consegna il Paese, o quello che ne rimane, che è molto poco, ai separatismi e alle mafie.
Le forze dell'Ordine hanno il dovere di far rispettare la legge. Ma il cittadino accetta questo principio solo se le leggi sono considerate giuste dal comune sentire, dalla coscienza popolare, se non sono scritte per proteggere interessi personali, di gruppi economici o criminali. Se le leggi sono il parto di persone inquisite, condannate, giudicate in primo e secondo grado, le leggi non hanno alcuna credibilità. Un popolo che non rispetta la legge, anche se questa è ingiusta, è un popolo di fuorilegge? E chi usa violenza sui cittadini per far rispettare leggi ingiuste "svolgendo un ruolo di supplenza" al posto della politica è realmente legittimato a farlo? E in nome di cosa? Del mantenimento dell'ordine costituito?
L'Italia si sta frammentando in isole separate, di autodifesa, di legittima difesa. Cittadini con l'elmetto contro uno Stato cialtrone e incapace. Una disgregazione dalla quale può nascere di tutto. Un nuovo fascismo conclamato o la nascita di Stati su base storico e territoriale come la Repubblica di Venezia, il Granducato di Toscana o la Sardegna indipendente. C'è un senso di sfinimento che accompagna la celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Molti si chiedono chi ce lo ha fatto fare.

martedì 19 ottobre 2010

ZIBALDINO DEL GIORNO


"Zitti o sparo” di Pacifici, le salmerie del “manifesto”, Marassi e Kosovo, la Premiata Macelleria Petraeus, Gennarino grillo parlante. E un contributo dei No War.

Curioso, a me pareva che nel precedente post, “Messico e nuvole. Rosa”, l’argomento principale fosse la descrizione del narco-necro-Stato Messico, con le sue eroiche resistenze, soprattutto delle donne di Chihuahua e Ciudad Juarez. Anche visto che il Messico è un laboratorio di strategie imperiali in corso di applicazione ovunque e soprattutto da noi. Invece ho ricevuto commenti esclusivamente sulla questioncella dei serbi a Genova.
L’arte della leadership consiste nel indirizzare l’attenzione del popolo contro un singolo avversario e fare in modo che nulla frantumi quel’attenzione. Il leader di genio deve aver l’abilità di far apparire oppositori diversi come un’unica categoria. (Adolf Hitler).

L’unico obiettivo dei non ebrei è quello di servire gli ebrei. I Goym sono nati solo per servirci. Senza questo compito, non c’è posto per loro nel mondo. (Dal Jerusalem Post: Rabbino Yosef Ovadia, capo del Consiglio dei Saggi della Torah e alto dirigente della comunità sefardita in Israele).

Zitti o sparo!
Il militante della destra nazionalista (iscritto a AN) e picchiatore di pacifisti ostici al nazisionismo di Israele, Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana, ha invocato una legge che renda reato il negazionismo, o il ridimensionamento della Shoah. Gli ha fornito il graditissimo pretesto il docente teramano Claudio Moffa, noto per le sue intemperanze dialettiche, ma anche per aver dato voce a storici revisionisti. Dunque, puoi revisionare la storia dicendo che il caporale Bulot era l’amante di Napoleone, o, meglio, che Nerone è stato un illuminato e giusto sostenitore dei diritti e del benessere delle plebi di Roma, o che un civilissimo Attila ha insegnato l’agricoltura a un mondo retrocesso nelle barbarie dopo la caduta dell’impero romano, o che Madre Teresa di Calcutta era una strega che faceva morire in osceni tuguri e tra i dolori i malati terminali, mentre poi passava le vacanze con delinquenti come Duvalier di Haiti, Somoza del Nicaragua, Reagan e si faceva curare nelle cliniche di lusso svizzere, o (ancora per poco) che l’11 settembre l’hanno fatti Cheney e gli imperialnazisti, o che la guerra britannica dell’oppio ha fatto fuori cento milioni di cinesi, o che Graziani e gli italiani brava gente hanno gassato, torturato sterminato decine di migliaia di etiopi e libici. E si tratta di revisioni per la verità. Tutto, secondo lo statuto sacrosanto degli storici, può e deve essere rivisitato, riesaminato e revisionato. Salvo l’olocausto ebraico. Se metti in discussione quello, a torto o a ragione, strappi lo scudo a chi sta perpetuando in Palestina e in giro per il mondo le peggiori nefandezze della storia umana e mette l’umanità a rischio prima di fascismo, e poi di distruzione atomica.

Io non sono uno storico, ho letto poche alterne cose a proposito, non so dell’olocausto salvo quanto mi viene gridato a squarciagola ogni giorno, ma so del diritto democratico, prima ancora che scientifico, di mettere in discussione qualsiasi, proprio qualsiasi evento storico. E so che si incomincia con la Shoah e si finisce con la lesa maestà di Berlusconi. Le verità assolute e indisputabili, sottratte al diritto della revisione, sono ontologicamente sospette e negano i principi fondamentali dell’epistemologia. Puzzano di strumentalizzazione, specie quando vengono propagate e imposte come tabù invalicabili da chi si arroga il diritto di ammazzare un innocente palestinese al giorno, di bruciarne gli ulivi, di rubargli casa e terra, di mandare in giro sicari ad assassinare antipatici, di campare di perenni guerre interne ed esterne allo scopo di tenere unita una società fondata sulla menzogna, sul razzismo, sul crimine. E frammentata tra ebrei sefarditi semiti, ebrei ashkenaziti europei, arabi semiti, schiavi asiatici cristiani, buddisti, semiti, maggioranze invasate e minoranze pensanti, il tutto minato ormai da un disgusto universale dilagante. Puzzano specie quando servono ad assordare le orecchie di chi ha udito la proclamazione del governo israeliano di una legge che impone giuramenti di fedeltà allo Stato israeliano ebraico. Cioè monoetnico, monoconfessionale, teocratico, assolutista. Contro cui, per una volta, alcune migliaia di bravi israeliani hanno manifestato il 16 ottobre a Tel Aviv. Anche Mussolini proclamò tale giuramento. Non per nulla Pacifici… Subito l’adesione entusiasta del postfascista Fini e del sospettato di mafia Schifani. Ottimi vessilliferi del nazisionismo e da questo promossi a soluzione di ricambio per il logoro e ormai instabile guitto mannaro.

Aggiungo una nota lieta per Pacifici. Intervistato dalla TV di Israele, il presidente (decaduto) Mahmud Abbas, Abu Mazen, ha dichiarato che una volta che i palestinesi avranno stabilito il loro Stato nei confini del 1967, siamo disposti a rinunciare alle nostre richieste storiche. Ciò significa che questo fetido rinnegato, comprato dai genocidi del suo popolo insieme alla sua ciurma di traditori, ha sancito la rinuncia al ritorno di 8 milioni di profughi cacciati dalla pulizia etnica di Israele dal 1948 a oggi. Un ritorno ordinato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Se c’è un angolo nel mondo che è rimasto in pace, ma con una pace fondata sull’ingiustizia – la pace della palude con materiale marcio che fermenta nei suoi abissi – possiamo essere certi che quella pace è falsa. Violenza chiama violenza. Ripetiamo sempre e senza paura: l’ingiustizia provoca rivolta, degli oppressi o dei giovani, decisi a combattere per un mondo più giusto e più umano. (Helder Camara).

Le salmerie del “manifesto”
Quando partono, le trombe di Gerico, sono coinvolgenti. Trovano echi e assonanze perfino tra i più modesti degli zufoli. Ricordate Bush, e ora anche Obama, che a ogni rovescio in Iraq o Afghanistan o nei consensi popolari, estraeva dal borsello Cia e Mossad, un nastrino di Osama bin Laden, o un “terrorista” islamico con polverine innocue nelle scarpe, o fuochi d’artificio nel pullmino di Times Square? “Il manifesto”? Mai un dubbio. Come del resto sull’autocombustione dell’11/9. Anzi, anatema alle migliaia di studiosi, testimoni e tecnici che l’hanno dimostrata tale. Così, quando qualche sconcerto viene suscitato a livello mondiale dall’eccessiva decimazione di civili afghani e pakistani, operate dagli squadroni della morte (“Truppe speciali”), dai droni, dalle bombe, ecco che dalla Sibilla di Langley parte l’ordine di servizio ai velinari di concentrare i commenti, le cronache, le invettive sulla “tragicacondizione delle donne afghane”, o la kermesse di una Sakineh, mai condannata alla lapidazione, bensì all’esecuzione per assassinio del marito. E pifferi, zufoli e cimbali, dietro in corteo. Salmerie manifestine in coda. E quando si tratta di sviare dall’ennesima nefandezza israeliana, leggi razziste, stragi, torture, abusi di minorenni carcerati, uccisione di pacifisti, ecco che il messaggio della Sibilla raccomanda immediata risposta depistante, vertente sulle barbarie islamiche. Nel caso particolare, un immenso paginone della capolobby nel “manifesto”, Marina Forti, sulla catastrofe della fiorente, pur sotto sanzioni imperialistiche, economia iraniana, sulla repressione dell’opposizione “democratica” (facente capo a quel Mussawi che governò lo sterminio delle sinistre iraniane e l’attacco all’Iraq antimperialista), su frustate (mai date) e su lapidazioni mai comminate da tribunali iraniani dal tempo dello Shah e dell’amerikano Khomeini. Ma guarda la combinazione: erano i giorni in cui Mahmud Ahmadi Nejad suscitava il consenso di tutto il Sud del mondo all’assemblea generale dell’ONU e raccoglieva i frutti della sua espansione anti-israeliana e antiamericana nel trionfo libanese e siriano (fatto positivo che nulla toglie alla negatività subimperialistica dell’iranizzazione sanguinaria dell’Iraq). Allineati e coperti, quelli del “manifesto”. Alla faccia delle migliaia di lettori che tali cerchiobottismi (con i lavoratori in Italia, con i bugiardi padroni fuori), hanno fatto fuggire. Mai detto fu più fondato: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Vale anche per l’obamaniaca manifestina Ida Dominijanni che, dal suo amichetto Gad Lerner, ha decretato: “Con Obama sono tornate in America fratellanza e solidarietà. E poi piangono sopra i lettori perduti.


Se non c’è lotta, non c’è progresso. Coloro che dicono di promuovere la libertà e poi deprecano l’agitazione, sono persone che vogliono raccolti senza arare il terreno, vogliono pioggia senza tuoni e lampi. Vogliono un oceano senza il possente urlo delle sue tante acque. (Frederick Douglass).

Kosovo a Marassi.
Ancora una parola sulle intemperanze dei tifosi serbi a Genova che tanti contrastanti commenti hanno suscitato all’articolo sul mio blog. La scrive un giornalista detto di destra, ma ahinoi intelligente e sempre fuori dal coro, salutare revisionismo.
I duemila serbi che sono calati martedì sera a Genova non c’entrano nulla con un discorso sportivo, hanno usato un avvenimento sportivo, come è accaduto altre volte, per manifestare la loro umiliazione, la loro frustrazione, la loro rabbia per i soprusi che la Serbia ha dovuto subire negli ultimi vent’anni. Io – e non solo io – ero sentimentalmente con loro (Massimo Fini).
Proprio così. Chiediamoci piuttosto perché, nel servilismo del proprio governo, ancora assiso sulle macerie e ossa dei bombardamenti Nato e italiani, nella complicità intossicata di umanitarismo e falsità delle sinistre internazionali, collera, protesta e richiesta di verità e giustizia prendano le forme e i simboli della destra. Hanno bruciato, quei masnadieri serbi, la bandiera del Kosovo. Orrore, bruciare bandiere! Sì, quella di un pezzo di Jugoslavia e di Serbia occupato demograficamente dagli albanesi, fattosi pulizia etnica della popolazione autoctona originaria e di tutte le minoranze, diventato base d’assalto Usa e narcostato al comando di una banda di killer mafiosi e al servizio della finanza occidentale. Se nella sinistra, interna ed esterna, fossero stati con la Serbia, anziché ingurgitare e vomitare le panzane degli avvoltoi, quei ragazzi probabilmente avrebbero inalberato, oltre alle sacrosanti effigi di Milosevic e Karadzic, anche qualche falce e martello. Gliele abbiamo strappate noi.



Il macellaio macellato
Giorni fa è stato accolto, per una conferenza a Roma dei licantropi sulla loro vittima Afghanistan-Pakistan, il macellaio principe della sedicente “Comunità Internazionale”, generale a quattro stelle e comandante supremo prima in Iraq e ora in Af-Pak, David Petraeus. E’ stato salutato da tutti con tutti gli onori di un eroe dell’esportazione della democrazia nei paesi da squartare e annichilire perché riluttanti a farsi sbranare da Usa e ascari vari. In Iraq, dove aveva spurgato la favolosa idea di corrompere e reclutare alcuni capitribù sunniti, ansiosi di salvare le loro comunità dalla carneficina delle milizie pro-iraniane scite, il macellaio è stato macellato dal totale fallimento dell’astuta manovra. Vistisi ulteriormente decimati dal regime scita, vistisi abbandonati dai “protettori” e ufficiali pagatori statunitensi, vistisi attaccati ogni giorno con maggiore forza dalla resistenza irachena in grande rispolvero, vista la rinascita di questa resistenza, arrivata a liquidare le forze di sicurezza del regime, polizia, esercito, politici fantocci (1.300 da gennaio), con lo stesso ritmo dei migliori anni (2004-2007) di lotta contro l’occupante, gli ex-collaborazionisti dei petraeusiani Consigli del Risveglio sono tornati in massa a rinfoltire i ranghi della guerriglia. Petraeus, serial killer prediletto di Obama, ha voluto salvare la faccia nell’unico modo in cui il regime obamiano sa rispondere alle debacle e al crollo dei consensi in vista delle elezioni di medio termine. Da quando ha sostituito il collega McChrystal, che rompeva i coglioni chiedendo interventi umanitari e di ricostruzione, il mattatore fallito dell’Iraq ha aumentato del 172% i bombardamenti indiscriminati sul popolo afghano. Incurante delle timide proteste del presidente pachistano Ali Zardari, pressato da un’opinione pubblica inferocita contro gli Usa, ha intensificato le incursioni dei droni Cia sulla popolazione civile pachistana e, in entrambi i paesi, come uggiolato dallo stesso Zardari, ha aumentato gli attentati terroristici in mercati e moschee, attribuiti ai Taliban, e le operazioni di assassinii mirati da parte delle “Forze Speciali”, cui, come è noto, danno un rilevante contributo killer con stellette italiani.


Alla coppia di Transilvania Obama-Petraeus è scappata, per effetto delle crepe nei propri allestimenti di “terrorismo islamico”, l’invocazione alla creazione di “autentici terroristi”. La “guerra al terrorismo” consisterebbe nel creare “veri terroristi”. Il grottesco esito del terrorismo di regime, Cia, Mossad e agenzie collegate, cui soltanto compari e famigli fingono di credere, sostenuti da “confessioni” ottenute con tortura e manipolazioni mentali, le patacche trasparenti dei messaggi di Osama o di Zawahiri, lo smascheramento di fantocci finto-islamici, come il noto Mehsud Baitullah, fatto passare per capo Taliban pachistano per giustificare i massacri dei mercenari Usa pachistani nel loro Waziristan e Swat, hanno convinto i terroristi Usa che tocca tornare al collaudato metodo “Pearl Harbor”.

Allora, dicembre 1941, il buon Roosevelt, ansioso di entrare in guerra, cioè nell’Europa e nell’Asia da colonizzare, fece credere ai giapponesi che li avrebbe attaccati. Saputo dai suoi agenti a Tokio che il Giappone intendeva prevenire l’attacco, distruggendo la flotta Usa a Pearl Harbor, nulla disse e nulla fece per salvare i suoi militari: 2.800 mandati ai pesci (ci sono i documenti desecretati). Stessa cifra sacrificata nel pasticciaccio brutto dei propri dinamitardi alle Torri Gemelle. Terroristi “autentici” da far sorgere, visto che finora al terrore hanno dovuto applicarsi quasi esclusivamente i propri arruffoni agenti, affiancando con attentati e minacce i metodi tradizionali: invasione di paesi, sterminio della popolazione, distruzione delle infrastrutture, affossamento dell’economia, depredazioni , imposizioni di corrotte e sanguinarie dittature, assassinio e persecuzione di cittadini. Obama non si fa capace che un simile trattamento non abbia ancora prodotto in questi cagasotto islamici un numero adeguato di terroristi. Per ovviare, il Pentagono ha anche assegnato, senza gara e a trattativa privata, un contratto di 31 milioni di dollari a Martin Seligman, psicologo all’Università della Pennsylvania, consulente da decenni del governo Usa, elaboratore dei più convincenti sistemi di tortura e massimo teorico della “Guerra al terrore”. Il contratto si intitola “Addestramento al recupero”. Tra i corsi c’è quello che insegna a ottenere “impotenza indotta”. Riusciranno la Cia, il Mossad, i servizi della “comunità internazionale” a trovare un numero sufficiente di musulmani incazzati fino alla demenza, o ridotti ad automi radiocomandati, da sostituire i propri attivisti del terrore in vista degli attentati a gogò annunciati soprattutto in quell’Europa la cui popolazione, “manifesto” o non ”manifesto”, incomincia ad avere seri dubbi su esportazione di democrazia e interventi umanitari?



Nulla rafforza l’autorità quanto il silenzio. (Leonardo da Vinci)

Gennarino grillo parlante
Gennaro Carotenuto, esperto e valoratore del moderatismo latinoamericano e, quando occorre, poliedrico quanto banalotto tuttologo nazionale, si inebria del Brasile di Lula con la stessa forza con la quale aborre “l’avventurismo di Hezbollah”, i siriani “probabili assassini del premier Rafiq Hariri”, il “terrorismo iracheno”, il “narcotraffico dei briganti FARC” in Colombia e analoghe puttanate delle centrali del terrorismo propagandistico USraeliano. Stupisce che un giornalista accorto e consapevole come Gianni Minà continui a tenerlo alla sua corte editoriale, a dispetto di questi sbandamenti. Ha un blog, Gennarino, che si chiama “Giornalismo partecipativo”, nientemeno, dove la partecipazione è tutta sua e basta. L’altro giorno ne è uscito un soffietto intitolato “Il Brasile di Lula: la grande nazione progressista”. Essere di destra è fuori moda in Brasile.. Nel 2010 l’egemonia culturale e politica è della sinistra… Per capire cosa intenda Gennariello per sinistra, basta leggere più avanti dove, con un intervento da prestidigitatore, trasforma il candidato ultrà della destra ed estrema destra, José Serra, in uno dei tre candidati che fanno a gara a chi si definisce più di sinistra. E poi giù con la solita menata del povero nordestino divenuto operaio metameccanico e poi cristallino militante contro la dittatura (sotto la quale, per la verità guidava un sindacato giallo), che oggi va smantellando tutti i paradigmi neoliberali… Le scempiaggini su questo paradiso in terra proseguono tra invenzioni e inciampi, come quando Carotenuto si esalta per il pieno sostegno dato a Lula dall’imprenditoria brasiliana, ma anche dai movimenti sociali (per la verità tanto perplessi da dare all’autentica sinistra Marina Silva il 20% al primo turno e da far scendere la clone malriuscita di Lula, Dilma Rousseff, di un punto al giorno nelle preferenze di voto al secondo turno. E pour cause.

Grandi i risultati macroeconomici di Lula e della sua ripetizione al femminile: PIL in su anche del 10%. Come accade in paesi del liberismo più feroce. E il PIL lo fa schizzare anche il taglio della foresta amazzonica come non è mai stata tagliata: export di legname. O le enormi distese sottratte a boschi, indigeni, campi del nutrimento umano per le criminali coltivazioni di necrocombustibili da infilare nei serbatoi del mezzo obsoleto e killer per eccellenza: l’automobile. O le gigantesche colture di soia transgenica, velenoresistenti, contaminanti terre e fegati umani fino al disastro riproduttivo. O il subimperialismo regionale delle transnazionali brasiliane del petrolio che gareggiano con quelle euro-statunitensi nella devastazione dei paesi vicini. O l’assistenzialismo, senza riforme di struttura, che ha estratto dalla fame, relegandoli nella semipovertà, 20 milioni di brasiliani con la “borsa famiglia” (7-40 euro al mese). Aggiungiamo gli scandali di corruzione che hanno imperversato ai vertici del governo e del partito, la mancata riforma agraria attesa e promessa da cent’anni, la mano libera e l’impunità agli sgherri dei latifondisti contro campesinos e indigeni, la cancellazione di milioni di dollari di multe già comminate ai proprietari terrieri per crimini contro l’ambiente (proposta dal PC brasiliano!), il feroce ridimensionamento dei movimenti sociali a partire dai Sem Terra, l’indiscriminato sostegno all’agrobusiness transnazionale, con il suo incontrollato uso di agrochimici tossici e del disboscamento. Tutti d’accordo e felici per la politica internazionale di Lula, per la sua collaborazione con i governi integrazionisti latinoamericani e con paesi che resistono all’imperialismo Usa. Ma, Gennarino, non dovrebbe bastare per i tuoi deliranti orgasmi! Non basta a un popolo che dalla deregolamentazione e dal liberismo ultrà ha avuto più danni di quanti la “Bolsa Familia” possa mai compensare. Ma questi chierichietti del Verbo li butterano mai la tonaca e il turibolo?
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HAPPENING NO WAR > SABATO 06 NOVEMBRE 2010 >
“FACCIAMOGLI LA FESTA” ALLA BASE DI CAMERI > OPEN > h 10,00
L'aeroporto militare di Cameri esiste da centouno anni, un vecchio aereo come monumento, un piazzale vuoto, un cancello e chilometri di filo spinato che squarciano il parco del Ticino occupando un'area molto vasta proprio ai confini del parco naturale, che dovrebbe quindi sopportare l'impatto dei collaudi di centinaia e centinaia d’aerei rumorosissimi e certamente inquinanti, con le relative gravi conseguenze per la salute e la qualità della vita degli abitanti della zona, in contrapposizione a quanto recepito dall’Unesco nell’ottobre 2002 che ha espresso il suo parere favorevole e i Parchi della Valle del Ticino sono così entrati a far parte delle riserve della biosfera.
Contribuisce alla manutenzione di F16 Falcon, Tornado, AM-X, e Eurofighters con la presenza dell’azienda armiera privata Agusta Westland per quando riguarda il mercato elicotteristico.
Da Cameri sono partiti i soldati per la prima guerra del Golfo e la Taurinense diretta in Afghanistan.
Nessuno sa, o vuole dire, quale sia precisamente lo stato giuridico dell'aeroporto, quanto appartenga all'Italia, quanto alla Nato, quanto ai privati, in definitiva il suo status è BASE
DELL’AERONAUTICA ITALIANA DI GUERRA.
Con l’aggiudicazione dell’appalto di 185 milioni di euro (quasi 370 miliardi delle vecchie lire) all’impresa Maltauro di Vicenza (curriculum vitae degno di “cosa nostra”), si accinge a costruire il capannone privo di tecnologia e edifici a bassa osservabilità per i tecnici/militari americani.
Il Falco dal costo previsto di 605 milioni di euro (tra l’altro rispetto al preventivo del 2006 i costi sono triplicati) che doveva iniziare nell’ottobre 2008 ma a causa della lievitazione dei costi del cacciabombardiere F-35, il ritardo nella fase di sperimentazione/produzione da parte della Lockheed Martin, in concomitanza della crisi economica globale, dove i veri nemici non sono però in cielo ma a terra, nei bilanci dei paesi che li sviluppano e che dovranno acquistarli, mettendone in forse l’intero progetto.
I comitati d’affari politici/imprenditoriali e le lobby degli armamenti visto che si erano impegnati per mettere le mani sull’immenso giro di miliardi (14 miliardi per l’F-35), hanno fiutato l’affare della revisione degli F-35 e quindi per tranquillizzarsi per il prossimo futuro il ministro della guerra La Russa e il sottosegretario alla difesa Crosetto hanno fatto partire i lavori del capannone, infatti, la linea d'assemblaggio Faco diventerà un sito europeo per la manutenzione, l’affare è grosso e chi lo controlla avrà visibilità e potere in questo territorio.
E’ solo l’inizio della grande abbuffata, dove i miliardi dei contratti entreranno nelle casse delle aziende private, mentre i miliardi per lo sviluppo e l’acquisto dei caccia usciranno dalle casse pubbliche quindi di tutti i cittadini.
Vicinissima all'aeroporto di Cameri, a Bellinzago Novarese, c'è la base guidata dalla Caserma Babini.
Si tratta della seconda base terrestre italiana, per estensione di superficie, nella quale si effettuano esercitazioni di diversi tipi.
La Caserma Babini offre inoltre i suoi soldati per la gestione della logistica in diverse operazioni militari all'estero ed in appoggio alle truppe di pronto intervento NATO di stanza a Solbiate Olona, in questi giorni è in corso un’esercitazione per il corpo d’armata di reazione rapida della Nato della durata di due settimane e un dispiegamento di mille uomni chiamata “Noble Light 2010”.
Lo scenario dell’esercitazione è quello relativo a tensioni, tra paesi in aree sottosviluppate con gravi instabilità, militarizzando i territori interessati a queste pratiche di guerra permanente.
È in questo contesto di militarizzazione ambientale che si inserisce il progetto di assemblaggio degli F-35.
Per questo ci ritroveremo nei giorni in cui i militaristi festeggiano il massacro della prima guerra mondiale, con i nostri corpi in un happening NO WAR creativo e colorato a far festa alla base di Cameri, invitiamo tutte/i con i propri materiali, (gazebo, striscioni, pannelli sandwich, mostre, poesie canzoni contro la guerra e se hai uno strumento musicale portalo), per continuare la battaglia per impedire che le immense risorse destinate agli armamenti e alla guerra siano bloccati e investiti in attività utili per tutte/i.

Programma: 30 Ottobre Presidio a Novara in centro città per lanciare l’Happening e info contro la Fabbrica della Morte.
Nella settimana verso il 06 novembre volantinaggi nelle scuole, nei mercati, di cosa è stato il 04 novembre a novantadue anni dalla “vittoria”, cioè dalla fine di quello Schifosissimo macello che è stata la Prima Guerra Mondiale.
06 Novembre Happening No War “Facciamogli la festa” alla base di Cameri a partire dalle ore 10,00 alla rotonda antistante l’Aeroporto di Cameri, partecipate numerosi!

Fate girare il più possibile nei vostri contatti email grazie.

Segue appello:

APPELLO PER UNA GIORNATA ANTIMILITARISTA A NOVARA / CAMERI IL 6 NOVEMBRE 2010

Siamo nel bel mezzo di una crisi economica la cui fine non si intravede affatto, dove la maggioranza delle famiglie fatica o non ce la fa ad arrivare alla fine del mese. Tante fabbriche chiudono i battenti lasciando a casa operai e dipendenti, spesso senza alcuna alternativa di reddito.
Il governo taglia soprattutto nel settore scuola / università e nella ricerca, insomma là dove sta il futuro di una società.
Nello stesso tempo i dati macroscopici evidenziati dalle grandi agenzie internazionali di calcolo economico ci parlano delle industrie armiere come uniche capaci di chiudere con attivi di bilancio annuali astronomici, l'azienda italiana Finmeccanica holding italiana al 37% pubblica, grazie al sostegno del Ministero dell'Economia che ne è il principale azionista, è tra i colossi mondiali di questo commercio di morte, oggi vende circa il 60 per cento dei sistemi delle forze armate.
Le missioni militari all’estero continuano a produrre debito pubblico e guadagni privati per i soliti noti, morte e distruzione per i paesi aggrediti (3 milioni di euro al giorno per l’erario italiano, ad agosto sono stati stanziati 1.350 milioni di euro fino alla fine del 2010 per le missioni e il budget per l'Afghanistan è passato da 310 a 364 milioni, si spendono 60 milioni di euro al mese per la guerra in Afghanistan).
Si tengono in piedi progetti multimiliardari per la costruzione e l’acquisto di cacciabombardieri ed altri strumenti di morte così come per la costruzione e l’allargamento di basi militari (Vicenza, Pisa, Livorno, > Camp Darby, Sigonella, MUOS a Niscemi).
La società nel suo complesso sta subendo un processo di militarizzazione che arriva, con il protocollo La Russa – Gelmini “allenati per la vita” per i corsi paramilitari nelle scuole e il protocollo Gelmini e Finmeccanica, per l'avvio della sperimentazione del nuovo Progetto di Riforma relativo agli istituiti tecnici superiori (ITS), denominato "Tecnici Superiori per Finmeccanica", ad investire direttamente la formazione delle future generazioni.

Quindi, raccogliamo l’indicazione degli organismi NO WAR di promuovere una settimana di iniziative, dibattiti, conferenze e mobilitazioni per contrastare le celebrazioni militariste del governo, del ceto politico istituzionale e delle lobby degli armamenti, arrivando ad una giornata di mobilitazione interregionale per ribadire il nostro NO ALLA GUERRA, ALLE SPESE MILITARI, ALLA MILITARIZZAZIONE DELLA SOCIETA’ E DELLA CULTURA.
PER IL RITIRO DELLE TRUPPE DALL’AFGHANISTAN E DA TUTTI I CONFLITTI BELLICI.

Invitiamo tutte le realtà sociali, culturali, sindacali e politiche che si muovono sul terreno di un’alternativa radicale al modello sociale dominante di partecipare attivamente al percorso con iniziative nei propri territori per arrivare alla mobilitazione comune il 6 novembre 2010 a Cameri.

7 ottobre 2010

Assemblea Permanente No F-35

Per info. info@nof35.org > 3400619104 > 3334769037
www.nof35.org > www.myspace.com/nof35 > Ci trovi anche su facebook fatti amico
Per adesione: adesione@nof35.org

Prime adesioni:
Circolo Banditi Di Isarno
Associazione Amici di Isarno
Comitato Salvanovara
Comitato pace del magentino
Pirati delle Risaie
C.S.A Mattone Rosso Vercelli
Comunisti Uniti Piemonte
Rete Disarmiamoli
Punto Rosso Magenta
Circolo della Tuscia dell'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Cittadini della pace di Fabbrico e Rolo (RE)

Migliorati Isidoro, delegato USB MEMC, Partito Comunista Dei Lavoratori.
Claudia Berton, insegnante e scrittrice, Verona
Mario Badino
Fulvio Grimaldi, giornalista
Sandra Paganini, storica

martedì 12 ottobre 2010

MESSICO E NUVOLE. ROSA. Ciudad Juarez, Falluja latinoamericana. (Terza parte). Più qualche divagazione

Statua di Don Chisciotte a Chihuahua.
Le foto di questo post sono di
Marco Diotallevi.


Sono grandi solo perchè noi stiamo in ginocchio.

Il potere non fa mai un passo indietro, se non davanti a un potere maggiore.
(Malcolm X, 1965)


PREMINARE 1
Fumogeni terroristici, bombe umanitarie
Così gli "hooligans ultranazionalisti", ovviamente fascisti, nostalgici di Arkan, Mladic e Milosevic, hanno scatenato il casino per non far giocare Italia-Serbia. Magari questi mascalzoni avranno pensato che più che di pallonate i serbi avrebbero avuto bisogno di pace, rispetto, verità sulle megapatacche di Sebrenica, su Milosevic dittatore, sulla "pulizia etnica in Kosovo" (subita e non attuata), sulla Serbia "ultranazionalista" (l'unica democratica tra neo-narcostatarelli) mentre non faceva che difendere brandelli di Jugoslavia, e alla fine se stessa, dallo sbranamento dell'imperialismo occidentale. Magari avranno detto: voi bombe, noi pugni. Magari non avranno dimenticato che D'Alema, l'Italia delle sinistre conniventi, li ha massacrati, rasi al suolo, eliminati dalla storia. Questi hooligans, prendersela con i criminali di guerra!
Del resto, di che ci meravigliamo? Noi delinquenti che fischiamo e gettiamo uova.

PRELIMINARE 2
Così muoiono gli italiani
Altri quattro nostri compatrioti, fucilatori di professione in missione colonialista “di pace”, semi umani deformati da una gravidanza gonfia di tossici, fame, ignoranza, violenza di regime, Botteri, sono caduti vittime dei terroristi: Barack Obama e, scendendo giù per la scala a pioli dei suoi polli, Ban Ki Moon, Barroso, Berlusconi, La Russa, Fassino…. fino a tutte quelle galline sinistre che se ne stanno appollaiate, zitte, nello staio. Essere compianti da La Russa o dallo scheletro piemontese è il più infame degli insulti a un morto. Essere esaltati sul Corriere da Sergio Romano, “alpini che in Afghanistan giustificano la guerra perché danno lustro all’Italia nel mondo”, sottolinea la coerenza e il coraggio dell’assegnazione, da parte del Comitato Stefano Chiarini, del premio intitolato a uno dei quattro o cinque giornalisti rimasti in Italia. Che Giove passi qualcuno dei suoi fulmini all’indimenticabile Stefano.

PRELIMINARE 3
Premio Nobel e “il manifesto” defunti
Il “giornale comunista” Il manifesto ha annunciato la sua scomparsa tra tre mesi. E’ pronta la lapide che dice: Terminò un’alterna vicenda umana nell’ assenza dei lettori delusi e perduti, riscattata però dal rimpianto di Nichi Vendola, Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti e del banchiere Profumo. Una prece.
Dalle cronache dell’infausto evento: Guidarono il corteo funebre in lacrime gli alla salma devoti Premi Nobel Barack Obama, eccelso pacifista e difensore degli oppressi (di banca e industria); Mario Vargas LLosa, talentuoso spadaccino letterario a sostegno di razze e ceti superiori vocati a salutari pulizie etniche, sociali, imperiali; Liu Xiabao, patriota cinese formato alle università delle Hawai e di New York, presidente del Centro Pen per scrittori indipendenti alla dipendenza dei potenti, e subito inviato in patria ove diffondere il verbo di Vaclav Havel, esemplare campione dell’inserimento di nazioni, stufe di sovranità e arcaiche giustizie sociali, nella luce rigenerante delle stelle e nei legami rassicuranti delle strisce
(sia detto senza alcuna simpatia per i neocapitalistici capi cinesi, ma con ancor meno simpatia per i mandanti di Liu nelle Grandi Democrazie Occidentali, quelli del per lui innominabile Guantanamo).

Recano sulle spalle il nobile fardello i già venerati pionieri della tramutazione del Nobel, dai tempi polverosi dei Pirandello, Schweitzer o del vietnamita Le Duc Tho (che, vistosi affiancato a Kissinger, rifiutò), in premio ai più affidabili Gott mit uns: Rabin, Walesa, Dalai Lama, Shirin Ebadi, Aung San Suu Kyi, Begin, Sadat… Al seguito del carro, prefiche lacerate dal dolore, Sgrena, Forti, Dominijanni, Liberti, Giordana e tanti altri, salmodianti sulla perdita di un proscenio dal quale potevano esibirsi in argute commedie degli equivoci, con i buoni di qua e i “terroristi islamici” di là. Dietro, un po’ distanziata, una turba di profughi del “manifesto” verso terre meno sparagnine e più fertili di consensi, ma rimasti rigorosamente nel solco del colpetto al cerchio e del colpaccio al barile: i Riotta, le Annunziate, i Barenghi, i Sansonetti, Maiolo, Mineo, Miracco, Bonini… Dai campi elisi preparano accoglienze di ghirlande e giubilo quelle che del quotidiano caro alle donne che ci sanno fare furono le più recenti icone: Neda Soltan, Sakineh, Anna Politovskaya, Anastasia Baburova, compagne martire che promuovevano le democrazie e civiltà superiori occidentali.
Messa in coda e anche abbastanza riluttante, Teresa Lewis, giustiziata dal boia a New York, ma scema. Neanche partecipe di una piccola rivoluzione colorata.
Leggeremo “Il Fatto Quotidiano”, che sta al "manifesto" come la grappa sta alla camomilla, e, supportati dall’impeto delle mazzate inflitte a Berlusconi e berlusconidi, Bersani e Bersanidi, sorvoleremo sulle sue scarse paginette amerikane di politica estera, avendo stavolta perlomeno ben chiaro da che parte stia questo giornale. Per il resto c’è la rete. The Web,direbbe il cosmopolita liberal “Manifesto”.

DIVAGAZIONE 4
Quelli che “non è stato un golpe”
Attingendo scrupolosamente a fonti del Dipartimento di Stato, magari un po' di parte, ma corroborate da Augusto Minzolini e dalle forze politiche ecuadoriane, come il gutierreziano Pachakutik, finanziate da Ong della Cia-Solidarity come USAID, New Endowment for Democracy (NED) e affiliate nostrane, alcuni interlocutori del blog mi hanno rampognato per aver voluto intravvedere dietro al “finto golpe contro Rafael Correa”, presidente rimasto semplicemente impigliato in una disputa sindacale come un qualsiasi Bonanni, la mano feroce del golpismo reazionario e Usa. E di aver dato credito alla panzana secondo cui un presidente ferito e sequestrato da un reggimento di poliziotti istruiti e pagati dagli Usa, in combutta con reparti dell’aeronautica che hanno occupato aeroporti, con bande di insorti che hanno devastato Guayaquil invocando guerre civili, con reparti armati che hanno occupato televisioni e bloccato giornali di sinistra, con la CNN ad augurarsi che il tiranno (così anche il partito indigeno Pachakutik) sparisse, fosse nient’altro che un ciarlatano antiamericano alla ricerca di consensi da martirio. Un ciarlatano cui il colonello della polizia Manuel Rivadaneira, addestrato nella Scuole delle Americhe, fece tirare dietro sei fucilate quando, liberato dalla folla e dai militari, Correa si allontanava in macchina. L’assassinio era il piano B, come risultava da comunicazioni tra gli eversori. Ma, anche se ero stato in Venezuela, Bolivia e Honduras quando analoghi ciarlatani mettevano in scena altri finti golpe, non ci avevo capito niente. Chiedo venia. E suggerisco www.informationclearinghouse.info/article26547.htm. Parla Eva Golinger, sprovveduta analista statunitense che ha smascherato una per una, dalle origini al risultato, quelle che per i sapientoni anticomplottisti sono le “presunte” trame Usa contro i governi progressisti e antimperialisti in Latinoamerica. Vi presenta l’agente dell’Intelligence USA Norman Bailey, esperto di operazioni clandestine agli ordini di John Negroponte, creatore degli Squadroni della Morte in Centroamerica, coordinatore di tutta l’operazione ecuadoriana e già fondatore, con la complicità di cinque esponenti indigeni, della Confindustria indigena dell’Ecuador (CEIE), capofila, finanziata da USAID insieme a ONG associate come la CONAIE, dell’opposizione di destra a Correa. E allora passiamo al Messico delle “presunte” trame destabilizzatrici e colonialiste dei gringos. Quello dei gringos potrebbe anche essere stato un balon d'essai, una prova generale a vedere chi ci sta e chi no, ma sempre di operazione per buttar giù Correa si tratta.
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Murales di Siquieros
Fuoco e ferita
Sempre lì, nel mio Puerto Escondito rinato in Yucatan come Puerto Morelos, in quel pomeriggio di primo autunno ventilato dai soffi di un Golfo il cui carico di morte da petrolio e solventi chimici obamian-BP qui viene occultato, oltreché dalle balle consolatrici di quel binomio tossicogenico, da una barriera corallina che, sgretolandosi nella difesa dall’assalto delle scorie dello sviluppismo yankee, ci salvaguarda qualche striscia di mare cristallino. Un bicchierone di ghiaccio con due gocce di caipirinha me l’ha posato accortamente tra le gambe, stese sul parapetto del “Pelicano” , uno dei 17 camerieri che fluttuano intorno a quattro clienti. A forza di fluttuare e sorridere, stasera forse si riportano a casa cinquanta pesos di mancia, tre euro, quelli giornalieri di due quarti dei messicani. Un altro quarto porta meno o niente. L’ultimo quarto ruba. Il ghiaccio accende e rilancia il riflesso di una forte striatura rosa, la coda a strascico del sole che se ne scende maestoso oltre l’orizzonte. Rispetto ai cenci neri che si addensano in alto e mandano emissari a testare la tenuta della trincea rosa, questa striatura si potrebbe interpretarla come una sanguinosa lacerazione del cielo, o, invece, come l’anticipo di un grande incendio. Il dubbio me lo hanno risolto le donne di Chihuaha e di Ciudad Juarez. Quel rosa alla cucitura di cielo e mare è entrambe le cose, fuoco e ferita. Di donne.

A Città del Messico due sponsor confortano il visitatore nell’illusione del paese di Cielito Lindo, dei Mariachi, canterini onnipresenti in borchie e megasombreri, delle piramidi del mayatour, di Acapulco o, male che vada, del megagalattico Marcos. Uno lo incontri sulla collina che, incoronato di guglie, torri e cupole, più statuona di Woytila, guarda la città dall’alto in basso. E’ la cattedrale della Madonna di Guadalupe, patrona del Messico, fatta apparire dai conquistatori agli indigeni per rimpiazzare una divinità pagana femminile che incitava alla resistenza. Le passano sotto su nastro scorrevole, col naso in su e gli occhi spalancati al miracolo, fiumane di fedeli e curiosi. L’immenso caveau di questo centro commerciale della fede, scintillante di pacchiane lussuosità, imprigiona davanti a un tonante cerimoniere della superstizione qualche migliaio di inconsapevoli negatori della ragione. Ce ne sono diversi che entrano strisciando in ginocchio. Condizione preferita dai corifei dell’idolo che, più sotto, benedicono dai palazzi dell’accoppiata dell’apocalisse: potere secolare e potere ecclesiastico.

Lungo lo stradone intitolato alla “Riforma”, giustappunto alla separazione tra Chiesa e Stato decretata un secolo e mezzo fa da Benito Juarez, a restaurare sul lato militare la trinità Dio, Patria, Famiglia, si snoda una muraglia dietro cui batte il cuore pulsante dell’identità nazionale modellata dai potenti: il quartier generale dell’esercito. Di quell’esercito che, superata la battuta d’arresto del decennio rivoluzionario, 1910-1920 , ha servito il paese con colpi di Stato, caudillos, oligarchie, massacri, sempre d’intesa patriottica con il paterno vicino che al Messico aveva sottratto a fuoco e sangue, a metà Ottocento, il 52% del territorio nazionale. Quel muro lungo tale presidio della nazione è coperto fitto fitto da immagini edificanti e confortanti: militari che soccorrono alluvionati, soldatesse che coccolano bimbetti, giovanotti in camice che fanno evolvere il paese trafficando con tecnologie informatiche, generaloni che decorano petti-in-fuori per le prodezze compiute in Iraq… Una glorificazione dello Stato rilanciata lì vicino, nell’enorme zocalo, dallo sventolio crepitante di mille e mille bandiere nazionali, l’aquila che morde il serpente, luminarie, festoni tricolori, ritratti dei padri fondatori. Orgia di retorica iconografica che vorrebbe incatenare nella fittizia unità nazionale di classe un popolo sottoposto a disintegrazione sociale, culturale, politica. Un popolo decimato giorno dopo giorno, come nessun altro al mondo, da una cosca dirigente che ha fatto del crimine arte di governo. Un popolo tirato per i capelli a celebrare il bicentenario della sua indipendenza da mostruosi burattini manovrati da un burattinaio non soddisfatto di essersi già divorato mezzo Messico. Che impressionante analogia: nel nostro centenario di Stato nazione, indipendenza e unità, esattamente come in questo Messico, la festa è solo di una manica di ladroni, malviventi, terroristi, del tutto analoga alla banda Calderon e a tutte le masnade installate dall’Impero, che l’indipendenza l’hanno venduta, lo Stato appaltato alla mafia, l’unità frantumata e del ricavato di queste spoglie hanno fatto marmi per sé e armi contro i renitenti. E c’è un’altra analogia.

All’uragano di collera e bellezza che, nella seconda metà del secolo scorso, sollevò verso i campi elisi della giustizia e della libertà il nostro paese, la cosca partorita dall’avvoltoio a stelle e strisce reagì con le bombe dell’unità mafia legale-mafia illegale, fino all’attuale trionfo della criminalità su questa comunità di calpesti e derisi. In Messico, laboratorio dell’Impero, si è così risposto a
quanto il retaggio di Benito Juarez ed Emiliano Zapata aveva suscitato nei decenni a cavallo del millennio sotto forma di lotta di classe per autogoverno, rinascita indigena, rivendicazione sociale, uguaglianza, onestà, nuova legalità. Risposta qui corredata dalla stessa criminalizzazione di vertice, con il valore aggiunto dell’assassinio di massa. 30mila uccisi dal giorno dell’insediamento di Calderon, gennaio 2007, al 2010. Un Terrore che ha depravato quello, ben mirato, degli eterni calpesti e derisi della rivoluzione francese in strumento dei padroni, per una decimazione indiscriminata.


Statua di Pancho Villa a Chihuahua



Emorragie
Chihuahua, capitale dello Stato omonimo confinante con gli Usa, 1500 km a nord della capitale. Quando arriviamo, primi d'ottobre, sono state ammazzate 335 donne dall'inizio dell'anno. Di notte quei sorridenti soldatini da mutuo soccorso, scesi dalle gigantografie di Avenida de la Reforma e rivestiti da terminator spaziali, fanno il vuoto nella città di 750mila abitanti. Nelle strade dal centro storico, chino davanti alla statua di uno scatenato Pancho Villa lanciato al galoppo con la pistola puntata, come in quelle di una periferia divisa tra McDonalds e maquiladoras, le fabbriche Usa della schiavitù femminile, si alternano reparti blindati dalla mitraglia puntata. Scorribande di blindati dell’esercito, poliziotti, paramilitari autorizzati chiamati “Sicurezza privata”, paramilitari tollerati organizzati in bande di sicari e Narco-SUV dai vetri affumicati e dalla scorta di sicari in colonna. E’ la coalizione che, da queste strade desertificate di umanità un minuto dopo il tramonto, attraverso polizia, esercito e magistratura assoldati o perlomeno piegati alla narcodittatura, su su fino a Los Pinos, residenza del capo dello Stato, da dieci anni tiene in pugno il paese e, dal 2006, truffa elettorale di Calderon, quel pugno lo va stringendo al collo del popolo.

Ci accompagnano due giovani temerari, Juanito e Alejandro, ai quali ci hanno affidato Norma e
Irene, dirigenti di Justicia para nuestras Hijas, associazione di donne che, per figlie, madri, moglie, sorelle, vittime tutte, lottano contro le articolazioni del narcostato delle stragi in una città raggelata nella paura. Sopravvive, come in un’iperbarica che vorrebbe essere vetrina della normalità, il mercado al centro della città, con famiglie a spasso, suonatori di musica nordestena, caffé e botteghe affollati, bancarelle di tortillas e tarocco. Questo nelle ore diurne. La notte è di resa dei conti tra cartelli, quello di Sinaloa, dell’invincibile Chapo Guzman, da tutti saputo braccio del regime, contro quelli di Ciudad Juarez, Los Carillo, Los Artistas, Los Zetas, Los Aztecas, dei quali tutti i padrini Usa si dividono i ricavi da droga ricevuta e armi fornite (4 su cinque arrivano da oltreconfine). Dall’alto del belvedere Mirador lo sguardo fa fatica ad abbracciare l’immensa piana, folgorante di luci, della città stesa tra una corona di monti che ricordano la colonna hemingwayana degli “elefanti bianchi”. In lontananza, verso l’uscita dalla città, uno frego più nero: il ponte al quale erano appesi, giorni fa, sei cadaveri con la testa mozzata. Poi un grosso grumo, uno di quei carceri da cui il direttore manda a sparare i suoi detenuti, nell’interesse loro, o suo. E’ successo anche nei giorni del nostro viaggio. La direttrice li aveva addirittura armati. Sono rientrati tranquilli, dopo le esecuzioni. La distrazione del locale pubblico ministero è assicurata.

Una visione di silenzio e pace, quassù non sfrangiata dalle raffiche che, nelle zone oscure tra le luci, uccidono, con disinvoltura che sa di gusto, vittime cercate e vittime casuali. Per poi ritrovarsi euforici da sangue, droga, denaro (rende, l’esecuzione, al sicario adolescente, estratto da miseria, ignoranza e disoccupazione, 30 dollari da scambiare con donne, alcol, coca, abiti vistosi e macchina) in uno di questi antros. Sono discoteche, nelle quali si esibiscono i gruppi con cappello texano dei narcocorridos, le trucide canzoni che inneggiano alla bella e sanguinaria vita dei trafficanti e, con abbigliamento, comportamenti, ambizioni degli eroi narcos diventano costume di molta parte dei giovani sfibrati da miseria e vuoto di futuro. E un affollamento incredibile di ragazze in vesti succinte, giovanotti palestrasti, energumeni attillati nell’abito firmato, tra il sicario e il boss, giganteschi gipponi blindati e oscurati di cui mi metto a riprendere le targhe. Alejandro mi ha spiegato che quelli senza targa, e qui pullulano, appartengono ai fuorilegge. Nessuno se ne da pensiero e se talora vengono fermati, basta un rapido e generoso gesto dal finestrino al poliziotti e la corsa riprende. Arrivare in un tribunale, per un auto senza targa o un corpo senza vita, significa nove volte su dieci essere rispediti all’aperto con tante scuse. Toghe nere. Su me invece si precipita giù dalla scala che conduce al piano in penombra dei gozzovigli dei poderosos, inaccessibile agli altri, un cranio rasato tipo scorta di Berlusconi. “Sono turisti, gli interessano i nostri modelli fuoristrada”, mi cava d’impiccio lo svelto Alejandro. Ma poi ci arriva un saluto che sa di avvertimento: “Buenas noches a los amigos italianos que se encuentran aquì”. Ripetuto varie volte dal cantante dei narcocorridos. Senza sorridere...

Il patio del palazzo di governo è affrescato tutt’intorno da grandi murales di Siquieros e di altri maestri messicani, a narrazione dei trionfi storici di un popolo che ha saputo dare al mondo la prima rivoluzione del ‘900. Un ossimoro se visto nel contesto di ciò che da questo palazzo viene inflitto a quel popolo. Come urla la contraddizione tra questo palazzo e, sull’altro lato della strada, il sacrario di foto, stracci insanguinati, chiodi da crocefissione, che le donne di Chihuahua hanno eretto in faccia ai loro aguzzini. Accusatrici implacabili, le madri de las hijas uccise e poi buttate tra gli sterpi, prelevate all’uscita dalla scuola e massacrate nei riti necrofili dei festini narcos, sacrificate alla depravazione dei fruitori dei video snuff, giustiziate per aver alzato la testa contro lo schiavismo nelle fabbriche dell’assemblaggio Usa, sono ancora una volta giunte in corteo a questo monumento della disperazione e della rabbia senz’armi. Anche agitatrici politiche, oltreché combattenti per la vita e per la giustizia, oggi protestano contro la manipolazione, decisa dal parlamento locale, della Legge della Trasparenza e dell’Accesso all’Informazione Pubblica. In sostanza, una modifica che, berlusconianamente, mette i potenti, i complici nelle istituzioni, al riparo dal diritto democratico della società di conoscere connivenze, abusi, corruzione. Una corruzione che, scendendo per li rami, infetta il paese come una peste bubbonica.

Le Maquiladoras sono complessi di fabbriche, quasi sempre allineate in prima periferia, architettonicamente curate e tra accattivanti prati inglesi. Sono perlopiù statunitensi e assemblano per il prodotto finito, da vendere negli Usa e nel mondo, computer, cellulari, apparecchiature spaziali, automobili, tessuti, utensili, robotistica e altro. Il nostro tentativo di superare la barriera delle siepi fiorite, degli eleganti cartelli con i logo, dei gabbiotti con sentinelle, si infrange contro lo stupore e la diffidenza di chi non si fa capace che qualcuno possa chiedere di mettere naso e telecamera lì dentro. Perché l’interno è un inferno che alle filande ottocentesche narrate da Dickens sta come i tuguri di Teresa di Calcutta stanno a una clinica svizzera (quelle in cui la “santa” andava a curarsi). Luoghi entrambi di abuso, violenza, estrazione di plusvalore, ma i primi con arredi puliti, cessi moderni, aria ventilata che, qui però, si impegna a diffondere in ogni angolo i fumi tossici della produzione, come gli scarichi sversano del tutto impunemente veleni di scarto nei corsi d’acqua che alimentano la popolazione. Ciò che ne fa una riedizione degli orrori di Dickens e della santa albanese è lo sfruttamento alla morte di ogni fibra dell’essere umano, quasi sempre donna, che li è incatenato per 60 euro alla settimana di sei giorni lavorativi, 15 ore di turno (più due di trasporto con le navette della ditta, più il resto per la famiglia e la casa, più nulla), niente malattia, niente ferie, niente sindacati, ritmi da far invecchiare di dieci anni in due, disponibilità alle voglie predatrici di capi e amici dei capi, espulsione alla minima richiesta, protesta, infrazione, magari con conclusione letale se la preda non si presta a un’alternativa dettata dai narcos: spaccio, sesso, prostituzione. E’ il legato del trattato di libero commercio, NAFTA, concluso nel 1994 tra Usa e Messico e la cui estensione all’intera America Latina fu sventata da Hugo Chavez, Lula, Kirchner, al vertice del 2005. Colonne e colonne di vecchi autobus nordamericani, al cambio di turno delle 15, scaricano sulle piastrelle degli ingressi centinaia di donne in spolverino blù, quasi tutte tra i 15 e i trent’anni, che evitano microfoni e telecamere con un fastidio dal sapore di paura. Vanno di corsa. Un minuto di ritardo e il bonus di 100 pesos settimanali, 6 euro, svapora.



Donne a Ciudad Juarez


Nella sede dell’associazione di Norma, con le pareti trasformate dalle foto delle ragazze sequestrate, scomparse, uccise, in un memorial di olocausto, Eloisa Montez, mamma di Irene, ci racconta dieci anni di maquila. Ma non ce la fa ad andare molto avanti in questa sua storia di angherie, soperchierie, privazioni, umiliazioni, punizioni, ansia da rinnovo del contratto di mese in mese, combinati al sequestro di una figlia di 14 anni, appena fuori scuola e che nei pomeriggi puliva la fabbrica, mai più ritrovata. Così mi consegna un quaderno con in copertina tre trichechi che ridono. La scrittura, regolare, pulita, da bella delle elementari, racconta quei suoi dieci anni, episodio per episodio, sopruso per sopruso, paga per paga, insieme a profitto per profitto dell’impresa, scovati chissà dove. Così si esprime la coscienza di questa ex-contadina diventata operaia, esemplare di una forza politica e sociale tutta rosa, delle donne che, fin dalla recente resistenza al golpe in Honduras, ho visto guidare la lotta latinoamericana per il riscatto che verrà. “Nell’informazione finanziaria di tutto il mondo non si parla dei nostri salari di fame, della schiavitù, si parla delle migliaia di milioni di utili netti che le imprese ricavano per lo sviluppo, per la crescita del PIL. E si parla di quanta parte di questi utili siano generosamente investiti nei paesi poveri, ma non si dice che quegli investimenti creeranno altri schiavi come noi. Il sessennio del governatore Patricio Martinez si è caratterizzato per un ulteriore indurimento delle leggi sul lavoro. La Giunta di Conciliazione e Arbitraggio, che dovrebbe comporre i contrasti tra lavoratori e padroni non ha mai dato ascolto alla nostra voce. Permetteva che operai andati solo a chiedere che ne fosse stato dei loro diritti fossero cacciati seduta stante. Di che conciliazione si parla?
Così scrisse Eloisa Montez Pinuelas, cinquantacinque anni, combattente di Justicia para nuestras hijas.



Croci rosa a Ciudad Juarez


Il mattatoio dell’impero
Ciudad Juarez è divisa in due dal furto Usa di mezzo Messico: Texas, Arizona, California, Utah, Nuovo Messico. Camminiamo lungo il ”muro” di sei metri eretto da Bush e foderato da Obama con migliaia tra militari, Guardia Nazionale, poliziotti, fucilatori autoconvocati. Un serpente d’acciaio che vorrebbe impedire il passaggio dei sopravvissuti alla spoliazione imperialista dell’America Latina, ma che è di maglie larghissime per il passaggio della droga e dei relativi capitali. Tanto che, di là da questa barriera spacca-umanità di natura israeliana, di là dal Rio Bravo, nel quale vengono freddati trasmigratori a nuoto, di là dal ponte accessibile a frontalieri e trafficanti con licenza, nel quartiere El Paso diventato città degli Stati Uniti, lo squallore modernista degli stradoni urbani a sei corsie e dei falansteri per uffici finanziari vanta più banche e più negozi di armamentario da omicidio di quante jeanserie ospiti il Corso. Negli alberghi da cinque stelle e piscine sul terrazzo, i boss del narcotraffico se la godono indisturbati. Gli Usa sono un santuario. Anche per i condannati a vent’anni in Messico che, estradati, qui vengono rimessi in circolazione dopo un paio d’anni e anche meno. Remember Posada Carriles, terrorista, pluriomicida, a spasso per Miami?

Noi stiamo da questa parte, in un albergo appena ai margini del poligono di tiro che è il centro città e nel quale si esercitano a ogni ora del giorno e della notte i killer dei cartelli, i soci della polizia e di un esercito che qui, per condurre “la guerra al narcotraffico”, cioè a favore di uno o dell’altro dei cartelli e per una partecipazione agli utili, ha occupato la città, facendone una specie di Baghdad, più prolifica di morti di quella. Passando da quelle parti conviene abbassarsi sul fondo della vettura e accontentarsi di registrare i fischi e le detonazioni. Stiamo in un alberghetto ai margini, ma non tanto, visto che una mattina, dal supermercato di fronte al quale avevamo cenato la sera prima, sentiamo le raffiche che fanno fuori sette persone. Per gli investigatori, tutti “legati alla criminalità”. Per la verità, tre donne e quattro uomini innocui, impegnati a far la spesa. A Ciudad Juarez si ammazza per la competizione tra cartelli, per disfarsi di donne usate, per divertimento, per pratica alla “Gomorra”, per togliere di mezzo investigatori scomodi, per, e questo è l’obiettivo strategico, terrorizzare e recidere alla radice qualunque germoglio di antagonismo politico, sociale, culturale. E si uccidono in prima linea le donne. Danno il massimo di effetto intimidazione. 500 dal 1993 quando siamo arrivati, ormai 600. Un’altra mattina la radio “Minuto per minuto” riferisce di 28 corpi raccattati in giro nella notte. E’ più o meno la cadenza quotidiana. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati, senza che si saprà mai da chi e perché, sono 3.800: donne appunto, sicari, narcos, ragazzi delle padillas, passanti in gran numero, per caso o per terrorismo, medici, avvocati, poliziotti. E giornalisti. Dieci dall’inizio dell’anno. Ultimo un fotoreporter di 21 anni del Diario de Juarez, Luis Carlos Santiago. Il giornale è arrivato alla provocazione, nei confronti della Giustizia e della Politica, di chiedere alla delinquenza che cosa possa pubblicare e cosa no, affinchè i suoi giornalisti fossero risparmiati. Scandalo perfettamente speculare a quello suscitato dall’ammiraglio, comandante delle unità di Marina impegnate nella “guerra al narcotraffico”, quando ha pregato i narcos di “non esagerare nei giorni delle celebrazioni del bicentenario”, di “rispettare il pubblico festante”. Ovviamente l’altissima autorità dello Stato questa oscenità l’ha detta con le mutande alle caviglie e le mani in pasta. Eravamo lì e ora riprendiamo solo da dietro i vetri oscurati della macchina messaci a disposizione da Marisela che, alla faccia di tutto questo, dirige il nucleo d’assalto dell’antagonismo femminile: Nuestra Hijaas de Regreso a Casa. Dalla città della morte sono scappate 700mila persone su 1,7 milioni. Nelle casupole a cubetto della periferia di sterpi e sabbia, decine e decine tirate su per immigrati prima che la crisi svenasse anche il sistema maquiladoras, molte delle quali emigrate in Cina, si arrabattono gli ultimi laceri e cenciosi candidati al reclutamento dei narcos, senza neppure i pesos per la corriera della fuga.

Il sindaco uscente, José Reyes Ferriz, che fa la spola tra casa a El Paso e il municipio in Ciudad Juarez e sta per viversi la pensione a Washington, getta la spugna: “A quién pedir justicia? Quando van a acabar con tanta impunita? Por qué no detienen a los culpables de todos los
asesinatos?” Ma le sue domande a chi chiedere giustizia, sul perchè di tanta impunità per gli assassini, le ha poste Maria Avida, piccola donna in piccola casa nel quartiere insurgente di Villas de Salvarca, con i muri affrescati di volti “terminati”, scomparsi, di scritte di denuncia e di resistenza, del Che Guevara, con addirittura una piccola biblioteca popolare messa su da Julian Contreras, marxista, squattrinato laureato in lettere e filosofia, dai capelli sulle spalle e la camminata tra un Clint Eastwood e un hippy di San Francisco. A Maria, che ci sorride perfino quando gli angoli della bocca le frenano la discesa delle lacrime, pochi mesi fa hanno ammazzato i due unici figli, insieme ad altri 15 ragazzi riuniti da quelle parti per festeggiare diploma e un compleanno. Fu una delle poche mattanze che potè insinuarsi nelle colonne della stampa internazionale e addirittura nel palazzo presidenziale. Calderon, al solito compare di merende, liquidò la faccenda come “scontro tra bande criminali”. Ma l’indignazione questa volta si estese da Villa de Salvarca a mezza città e impose al caudillo di presentarsi agli abitanti mobilitati da Maria, Marisela, Julian e da tutte le donne delle associazioni. Alla faccia dei cartelli della droga e dei loro soci istituzionali. Al presidente assiso sul palco, Maria gridò la sua verità, la sua vergogna per la complice menzogna, l’urlo di tutti gli innocenti senza giustizia, massacrati in questa città, buco nero dell’umanità. Gli impose di chiedere scusa. Ora su quartiere e città sventola una bandiera che nessuno osa ammainare. E’ questa piccola donna in quella piccola casa.

Marisela Ortiz insegna nella scuola “Juarez Nuevo”, elementari, medie, superiori. La scuola è blindata, non entrano neppure i genitori, è allarme rosso. Ben sapendo, il potere criminale, come in quel che rimane del sistema scolastico disastrato, peggio che da noi, dai presidenti del PAN, si annidi, tra insegnanti e giovani, come a Oaxaca, la punta di diamante dell’antagonismo pensante, il giorno prima una scuola vicina era stata minacciata di fuoco e sterminio da sicari che hanno fatto irruzione grazie alla scomparsa delle consuete forze di sicurezza. O si sarebbe versato un pizzo, inimmaginabile per le condizioni dell’istruzione messicana, o ci si sarebbe trovati sull’uscio bambini sgozzati. Ma nella “Juarez Nuevo” il lavoro prosegue tra lezioni, interventi di assistenti volontari dall’università, giochi, lezioni di musica e danza, sport. E il direttore, Gilberto Oliveros, circondato dai suoi professori, artisti, sociologhi, ci spiega come sia il degrado nell’incultura, nel modello della competizione-prevaricazione, nella mitologia volgare dell’effimero, dell’inutile, del superfluo, il nemico quotidiano da affrontare e battere con la civiltà della solidarietà, della responsabilità, del rispetto, dell’amore. Incredibile come, in un simile oceano di disfacimento, reggano questi insegnanti, questi scolari e studenti, quali festanti nel salutarci, quali che ci coinvolgono in un’ilare scambio di pallonate, gridando “Totti, Totti”, quali in fila con la tromba appoggiata al muro per imparare a esercitare più forza nel soffio. Appunto: Juarez Nuova.



Marisela ce l’ha indicate, sparse qua e là sul territorio dove il cemento e le lamiere delle ultime casupole inerpicate sui contrafforti del deserto si riempiono della prima sabbia. Sono le croci del dolore e della sfida che le donne di Ciudad Juarez erigono alle loro sorelle perdute. Se ne trovano dall’ingresso sud della città, a contrasto con un grossolano arco trionfale, fino ai piedi della muraglia di esclusione, odio e razzismo eretto dai gringos. I partecipi del terrorismo di Stato e crimine le vanno a sradicare, bruciare, disperdere. Ma le croci sempre rinascono, come la più selvaggia e irriducibile delle gramigne. Sono croci rosa. E ci mandano, oltre i mari della distanza e della menzogna, fiori di coraggio e di verità.