martedì 4 novembre 2025

Il 7 ottobre come Rashomon --- IL GIORNO E LA STORIA

 


https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__il_7_ottobre_come_rashomon_il_giorno_e_la_storia/58662_63420/

 


Tregua sì, tregua no, tregua bombe

Alla luce della sempre più evidente mancanza di serietà e affidabilità di ciò che l’uomo-bluff dice, o dice di fare, del carattere strumentale e propagandistico di quasi tutte le sue bombastiche mosse - segno tragico dei tempi, anche in Europa e a casa nostra – vediamo di ritrovare un po’ di sostanza passando dal piano tattico, che l’improvvisatore di trovatone e trovatine ci impone, a quello strategico. L’andazzo che il mondo aveva preso su una delle questioni che l’accompagnano e segnano da quasi un secolo, Palestina o non Palestina, ha preso improvvisamente un abbrivio e ha cambiato in profondità ogni cosa, ben oltre la circoscritta questione mediorientale. Mi riferisco al 7 ottobre 2023, di cui molto s’è detto su questa testata, ma guardando stavolta alle sue ricadute che non finiscono di mettere in discussione ogni apparente equilibrio.

“Rashomon” è il titolo del capolavoro cinematografico di Akira Kurosawa. Un film che ha segnato un’epoca della settima arte e ci ha messo di fronte al drammatico quesito se possa mai esistere una verità definitiva. Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano sull'assassinio di un samurai e sullo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. All’uscita del film si è parlato a lungo di un “effetto Rashomon”. Per chi conosce Pirandello, a partire da “Così è se vi pare”, le cose sono ancora più oscuramente chiare.

“L'effetto Rashomon”, proprio come Pirandello, descrive lo sconcertante dato per cui differenti testimoni, o commentatori, descrivono lo stesso evento in modo soggettivo, totalmente diverso e contrario rispetto agli altri, formulando ognuno una interpretazione, determinata dal proprio interesse e, eventualmente, dalla propria posizione morale, ideologica, sociale, politica. Un relativismo che rischia di rendere irraggiungibile le verità oggettiva.

Relativismo che, oltre alla strumentale deformazione israeliana, quella di hasbara, vale per gli eventi del 7 ottobre, dove a distanza di due anni e, forse, per sempre, le verità variano a seconda di chi ci è stato, chi ha operato, chi è intervenuto, chi ha subito, chi ha testimoniato, chi ha indagato. E perfino all’interno di queste categorie il racconto diverge.

Della “sindrome Rashomon” ho avuto dimostrazione in occasione del Convegno internazionale su sionismo e problematiche connesse, organizzato a Roma il 25 ottobre scorso dal Fronte del Dissenso. Il mio intervento, centrato su un’analisi della resistenza palestinese a Gaza a partire dagli eventi del 7 ottobre 2023, ha stimolato le solite domande e obiezioni con cui uno si deve misurare quando esce dalla narrazione maggioritaria. Eminentemente quella che nega a Hamas paternità indipendente e autonomia di ideazione ed esecuzione dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa”.

Il 7 ottobre e hasbara

 

Il racconto diffuso da Hasbara, l’informazione come diffusa da Israele, secondo cui una torma di sanguinari terroristi si sarebbe avventata su pacifici cittadini e su giovani che ballavano, compiendo ogni sorta di nefandezze, viene ripetuta pedissequamente solo da chi è chiamato, o vocato, a puntellare comunque ciò che dice Israele. A dispetto del rifiuto categorico del regime israeliano di autorizzare un’inchiesta indipendente, il che già dice molto, e a dispetto di una serie di inchieste, anche di media israeliani, condotte alla mano di video, sopraluoghi e testimonianze.

Sono così svaporate le storie più truculente, subito diffuse da centrali e ripetitori dell’hasbara. La realtà di una battaglia fra i combattenti che intendevano far prigionieri dei coloni nei Kibbutz per poi scambiarli con detenuti palestinesi, è corroborata dall’adozione della dottrina “Hannibal”, confermata da politici e militari dell’IDF. Dottrina che impone di impedire in ogni modo che il nemico possa catturare ostaggi, a costo di uccidere i sequestrati insieme ai sequestratori. Il relativo ordine venne trasmesso agli elicotteri e carri armati intervenuti in modo caotico dopo le ore della paralisi dovuta alla sorpresa e alla neutralizzazione dell’apparato di difesa israeliano. Le centinaia di auto bruciate, gli edifici sventrati e ridotti in macerie, mentre vi si trovavano sia i coloni residenti, sia quelli di Hamas, testimoniano di bombardamenti che non si possono far risalire agli RK 47 e agli RPG, armi leggere degli incursori.

Kibbutz distrutto

 

Qui non interessano tanto le varianti nei resoconti dei fatti quanto i dubbi, persistenti soprattutto tra le fila di chi è schierato dalla parte dei palestinesi. Dubbi che originano dalla convinzione della insuperabile potenza di Israele, garante della sua invincibilità. Certezza rafforzata dalla rappresentazione che, per oltre un secolo ha dato di sè lo Stato ebraico.

La storia lontana e vicina di Israele offre valide smentite a questo mito. Nel 2003, guerra del Kippur, Israele, colpito di sorpresa, si vide vicino al collasso, al punto che Moshè Dayan, ministro della Difesa, considerò l’uso dall’arma atomica e che sugli attaccanti dovettero intervenire gli USA, anche politicamente, per porre riparo al tracollo. Sia nel 2000 che nel 2006, Hezbollah costrinse Israele a un umiliante ritiro dal Libano. Nello scambio di missili tra Israele e il cuore dell’”Asse del male”, Tehran, le ferite di Israele, a dispetto dell’assistenza contraerea di USA e petromonarchie, risultarono più gravi di quelle iraniane e hanno richiesto l’intervento aggiuntivo di Washingto. Il mitico Iron Dome è stato ripetutamente bucato anche dai razzi Hezbollah, come dai missili e droni yemeniti.

Hamas-Israele, collisione o collusione?

Il 7 ottobre si verifica sullo sfondo della sproporzione di forze tra “il più potente apparato militare della regione” con i suoi “più efficienti servizi di intelligence del mondo”, e i gruppi guerriglieri di un carcere a cielo aperto, assediato, sorvegliato, invaso e devastato ogni due per tre. Questa sproporzione fornisce gli antecedenti storici funzionali all’interpretazione del 7 ottobre. Quella di una resistenza palestinese islamica fatta nascere negli anni ‘80 per ridurre il ruolo dei laici di Al Fatah e dell’OLP, chiudendo un occhio sulla sua crescita politica. Finanziata, con il consenso di Tel Aviv, dal Qatar e, dunque, resa operativa anche militarmente, ma nella misura concessa da Tel Aviv: razzi poco distruttivi lanciati da Gaza, che in compenso giustificavano la ritorsione in forma di periodiche, devastanti, invasioni, a partire da Piombo Fuso. Questa, vera prova generale del successivo genocidio, l’ho vissuta sul campo e descritta nel documentario “Araba fenice, il tuo nome è Gaza”

A forza di rappresentare Hamas e i suoi alleati, Jihad e FPLP, come minaccia mortale alla sicurezza di Israele, Israele si preparava alla “soluzione finale”. Così Hamas, almeno oggettivamente connivente, secondo questa teoria, avrebbe lanciato l’attacco “terrorista” del 7 ottobre offrendo ai sionisti e al loro sostegno internazionale l’atteso pretesto per la programmato “soluzione finale”. Con il beneficio collaterale, per il premier israeliano, di scampare, grazie all’interminabile emergenza guerra, ai processi per corruzione e malversazioni varie che gli avrebbero stroncato la carriera.

Meno drastici sull’implicita riduzione della Resistenza palestinese a utile idiota della strategia israeliana sono coloro, i più numerosi e irriducibili, secondo i quali, l’operazione “Alluvione di Al Aqsa”, non sarebbe stata concordata tra i due contendenti, ognuno alla ricerca di un suo vantaggio, ma da parte di Israele “si sarebbe lasciata accadere”. Numerosi segnali di preparativi sarebbero stati recepiti ed elaborati dagli infallibili servizi di sorveglianza israeliani, ma non avrebbero innescato alcun intervento preventivo. Grazie all’effetto “terrorismo islamico”, potenziato dalle vittime di “Hannibal”, governi amici e opinione pubblica avrebbero condiviso la rappresaglia, a dispetto delle sue dimensioni spaventose.

Che non sia andata proprio per niente come ipotizzato da quelli per i quali “hanno fatto”, o dagli altri secondo cui “hanno lasciato fare”, lo dimostrano le ricadute di quell’operazione e di quanto questo sasso nello stagno ha suscitato, in misura del tutto inattesa, a livello locale e mondiale.

L’Alluvione di Al Aqsa straripa nel mondo

Hamas libera soldatesse israeliane

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il governo che si era ripromesso di risolvere definitivamente la questione dell’intralcio palestinese in uno Stato che, dal 2018, è stato sancito dei soli ebrei, avrebbe fallito tutti i suoi obiettivi. I prigionieri catturati il 7 ottobre non sono stati liberati dall’IDF come promesso; Hamas non è stato eliminato e continua a infliggere perdite all’occupante. Insieme alle altre organizzazioni della Resistenza ha dovuto essere coinvolto nella mediazione egiziana sulle successive fasi del “Piano di pace”. Ha accettato la proposta di un’amministrazione palestinese “tecnocratica” di Gaza, ma ha rifiutato il disarmo. Ha saputo rispondere alle continue rotture degli accordi di tregua che fanno parte del modo israeliano di rispettare i patti.

L’esercito non fornisce cifre ufficiali, ma, secondo il quotidiano Yedioth Ahronoth, sarebbero 1.100 i soldati caduti, dei quali il 42% avevano meno di vent’anni e 141 erano oltre i quaranta, 18.500 sarebbero i feriti, 70 i suicidi, migliaia i riservisti che rifiutano di presentarsi, altrettanti gli affetti da gravi malattie post-traumatiche. Israele, che si era ripromesso la pulizia etnica dei gazawi con la deportazione nel Sinai, o altrove, di quanti ne sarebbero sopravvissuti, ha dovuto limitarsi al controllo del 53% di Gaza, poi esteso a qualcosa come il 60%. Davanti a un mondo che si scopre stupefatto e ammirato dalle immagini di centinaia di migliaia di palestinesi, ripetutamente sfollati, che, a tregua proclamata, tornano alle loro case in macerie, affermando la volontà di viverci per quanto invivibile fosse stata resa la loro terra.

Sospeso per poche ore lo sterminio con bombe, droni e missili e ritiratosi dietro la Linea Gialla, da dove accontentarsi di cecchinare chi vi si avvicina, e rimpiazzata la propria presenza sul territorio con clan criminali locali, con fiduciari come il boss Abu Shaabab, collaudati nei saccheggi degli aiuti, l’intero copione scritto da Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich s’è visto strappare pagine importanti.

Restava anche sospesa un’operazione parallela sulla via del Grande Israele: l’annessione della Cisgiordania votata dalla Knesset e, per la sua inopportunità in termini di pubbliche relazioni, per il momento azzerata dall’umiliante ukase di Trump. I coloni dovranno accontentarsi di aggredire e uccidere palestinesi, bruciarne i villaggi, distruggerne le coltivazioni e chiamare questo frammento di Palestina biblicamente Giudea e Samaria. Uno schiaffo via l’altro, altrettanto bruciante: le scuse all’emiro imposte a Bibi per il fallito attentato a dirigenti di Hamas lì ospitati. Mossa con la quale Trump e il suo retroterra significavano che l’alleanza con certi arabi, che rendono più di quanto Israele costi, gli stavano a cuore, e a borsa, non meno della storica simbiosi con Israele.

Il soccorso di Trump: la finta pace

Del resto l’irruzione sulla scena di Trump, a parte i rituali salamelecchi nella Knesset a ribadire l’eterna alleanza e amicizia, non è stata una delle sue ricorrenti improvvisate. Almeno nell’immediato, parrebbe il tentativo di arginare la reazione dell’opinione pubblica mondiale a un genocidio risultato indigeribile anche a stomaci forti. Reazione dalle proporzioni mai viste, in forma di flottiglie, milioni di indignati e solidali per le strade in Occidente e nel Sud globale, accentuati boicottaggi e disinvestimenti, governi fino allora ignavi o complici, che dai loro elettori si vedono costretti a far buon viso riconoscendo lo Stato di Palestina.

E se Israele, nella sua incontrollata sfrenatezza, era riuscita a demolire un’immagine morale basata sul vittimismo ontologico, con quell’accanimento su bambini, donne, ospedali, giornalisti, umanitari, famiglie rifugiatesi sotto tende, uccisione di moribondi per fame, trattamento disumano a civili catturati a casaccio, distruzioni mai viste nella Storia, la sua caduta nella trappola tesagli dalle flottiglie indica anche uno smarrimento di razionalità.

Follia collettiva che non impedisce il lucidissimo progetto – destino storico e mistico per gli israeliani – di portare a compimento il genocidio, tregua o non tregua. Uno stato fuorilegge che arriva a sfidare uragani di riprovazione e finisce con lo svuotare i vari tentativi di Trump di ricuperargli un minimo di credibilità e rispettabilità ventilando la fine della carneficina. Un pertinace cupio dissolvi, insito nella prospettiva millenaristica, sembra segnare la ripresa dei bombardamenti, con la cadenza del centinaio di assassinati al giorno, di cui moltissimi i bambini per confermare la vocazione all’infanticidio.

E, tanto per ribadire l’assoluta inaffidabilità dello Stato sionista per quanto riguarda accordi solennemente firmati, ecco che riprendono anche gli attacchi sul Libano, del resto mai del tutto interrotti, compresi quelli all’Unifil, con tanto di occupazione della fetta del Libano di cui la tregua libanese imponeva  l’evacuazione, ma che costituisce parte integrante del Grande Israele.

 Reperti archeologici di Gaza

 

Un mondo ancora esterrefatto per quanto gli veniva fatto passare sotto gli occhi da chi si professava, in un mondo di autocrati e terroristi, campione di democrazia e morale, aveva seguito con entusiasmo l’impresa che, insieme a portare soccorsi a un popolo al quale i suoi sterminatori li negavano, sfidava, in termini di assoluta non violenza, i violatori del diritto internazionale. Ma il trattamento riservato agli equipaggi delle flottiglie, illegalmente abbordati da forze militari in acque internazionali, sequestrati, deportati e poi maltrattati  sulla falsariga, edulcorata, di quanto riservato ai gazawi, ha dimostrato un accanimento nell’errore, oltrechè nella malvagità, oltre il limito dell’autolesionismo.

Israele, un suicidio?

Trump – e chi ne costituisce il motivatore e garante - è accorso per evitare il peggio, salvare il salvabile, estrarre Israele da un isolamento fatale e dalla perdita di qualsiasi credibilità politica e autorità morale: un paria tra le nazioni. Ciò su cui, tuttavia, non ha potere di intervenire è il rischio di implosione dello Stato. Che oggi non è più solo la massima espressione dell’apartheid, vituperata dall’opinione pubblica mondiale, ma soffre di profonde lacerazioni interne e di un abissale distacco della società dalla sua classe politica.

Una popolazione che ha vissuto per due anni il trauma dell’indifferenza del suo governo per il destino dei concittadini prigionieri della Resistenza. Che vede milioni di suoi cittadini, gli haredim, ribellarsi al servizio militare. Che subisce l’ostracismo dei popoli un tempo solidali, che vive un’insicurezza snervante per gli attacchi che subisce da nemici vari e che la costringono a una vita nei bunker. Si aggiungano le difficoltà causate dal trasferimento di professionisti dai luoghi di lavoro alla riserva militare impegnata in guerre che non finiscono mai, dalla rottura di rapporti commerciali e accademici con l’esterno e, soprattutto con il dato drammatico che i palestinesi tornano, mentre gli israeliani partono.

Israeliani in partenza

Il rapporto tra chi arriva nello Stato ebraico e chi ne parte si è invertito a detrimento dell’immigrazione, condizione di sopravvivenza per Israele. Mancano i dati dal 2024 ad oggi, quando comunque si sa di interi insediamenti, specialmente in Galilea e ai margini di Gaza, abbandonati da coloni non più rientrati. Un’informativa del parlamento, pubblicato il 20 ottobre, registra 145.000 abbandoni tra il 2020 e il 2024, con un forte aumento, fino al 44%, di anno in anno. La maggioranza di costoro ha alle spalle 13 e più anni di istruzione e il 26% ha una formazione accademica completa. Il parlamentare Gilad Kariv l’ha chiamata, non un’ondata di emigranti, ma uno tsunami di abbandoni.

E a questo punto c’è solo una domanda da porre con riferimento alle diverse verità alla Rashomon – “collusione, o lasciato fare” – che si scontrano sul 7 ottobre. E’ concepibile che Israele sia stato o colluso con Hamas, o connivente nella misura in cui avrebbe lasciato accadere l’assalto, se poi i risultati sono la catastrofe dello Stato Sionista che abbiamo illustrato? Non credo che ci possa essere più di una risposta. La linea, dettata da Israele, più meno ininterrottamente dalla spartizione del 1947 a ieri, il giorno 7 ottobre è passata in altre mani. Con Trump e la farsa della “pace” si è cercato di strappare l’iniziativa alla Resistenza. Funziona sul piano tattico, forse. Non su quello strategico. Emersa dal buio dell’oblio coatto, silenziata fino al genocidio, oggi al centro del mondo c’è la Palestina. Hamas ha imposto al mondo di guardarla.

 

Col 7 ottobre è stata infranta l’idea che si debba chiedere al colonizzatore, seppure con l’avallo della più vasta collaborazione di un mondo detto libero, di gestire il destino e gli eventuali diritti del colonizzato. Per i “moderati” della nonviolenza integrale (che è poi quella che garantisce il monopolio della forza al padrone) tutto dovrebbe comunque essere conciliabile con chi, per quanto espropriatore, razzista, pulitore etnico, vessatore e sterminatore, ha il “diritto di difendersi”. Chi, come i coloni che hanno costruito i loro kibbutz sulle macerie dei villaggi palestinesi bruciati e in faccia al carcere a cielo aperto dove sono stati rinchiusi i superstiti, tale diritto se l’è giocato. La questione morale sotterra la questione dei legulei.

Yahya Sinwar, architetto del 7 ottobre, ha commesso un suicidio? Suo e di Gaza? O i suicidari sono altri? Se autoimmolazione doveva essere, aveva il fine strategico della resurrezione. 80 anni di esclusione, esproprio, persecuzione, umiliazione, morte prolungata, significavano una fine senza fine, dove l’annientamento vero era il trascinarsi tra i piedi la propria dignità. Il 7 ottobre è stata fatta la rivoluzione. Quella che, nelle parole di Walter Benjamin, “non nasce da un’aspirazione per il futuro, ma dalla disperazione del presente”. Il 7 ottobre ha posto un limite alla disperazione.

Da quel momento si è tornati all’esserci, individuale e collettivo, a costo di attraversare un mare di sangue. E Israele, accecato dal suo avatar biblico, è caduto nell’imboscata. La sua sconfitta non è tanto quella dei risultati mancati, che pure c’è, quanto quella, più rovinosa, della legittimità. A Gaza la resistenza ha costretto Israele ad autoinfliggersi un collasso morale e questo precede sempre la sconfitta politica. Vedi Algeria, Vietnam, Sudafrica. Il 7 ottobre il mondo si è capovolto. Un sondaggio in Cisgiordania e a Gaza nei giorni scorsi ha visto un 66% di sostegno a Hamas in Cisgiordania e il 52% a Gaza. Percentuali che aumentano di parecchi punti se viene considerato l’insieme delle organizzazioni della Resistenza.

Avete visto chi marciava alla testa delle centinaia di migliaia che tornavano alle macerie delle loro case a Gaza City? Era Yahya Sinwar.

 

 

 

 

 

 

 

sabato 1 novembre 2025

“Spunti di riflessione”- Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza" --- TRUMP UNO E TRINO, QUADRUPLO, QUINTUPLO…

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=h3QL8Kxlokg

(C’è un breve difetto video all’inizio della registrazione, poi tutto scorre normale)

 

Di epoca in epoca, le parole, all’apparenza criptiche, di George Orwell ne fanno uno che meglio di Tiresia vedeva l’apocalisse verso la quale andavamo precipitando. Questo predisse a Odisseo che, una vota tornato a Itaca avrebbe dovuto ripartire ed errare ancora. Quello ci assicurò che, scampati dal gorgo nazifascismo e guerra, vi ci avrebbero riprecipitati. E ciò che si sta avventando sul mondo in questi giorni di impazzimento dei fautori di guerra e nuovi fascismi, ne realizza le previsioni.

Il protagonista assoluto è l’uomo paradosso ricomparso sulla scena, dopo il suo primo mandato, assicurando pace e riconciliazione ai quattro angoli del mondo. Oggi siamo ai missili Tomahawk concessi al corrotto despota neonazi di Kiev con cui i tecnici Nato, presenti sul campo sotto mentite spoglie fin dal colpo di Stato del 2014, vorranno mozzare le zampe all’orso russo, colpendone le strutture vitali fino a Vladivostok.

A Gaza si chiamano tregua o cessate il fuoco, o Piano di Pace, per placare i fremiti di indignazione mondiale, i rinnovati stermini di sopravviventi nell’età della pietra allestitagli da chi ci salva dal terrorismo. In Cisgiordania a 800.000 coloni armati è stato dato il via alla caccia col ferro e col fuoco di 2,3 milioni di indigeni colonizzati disarmati.

Dopo aver provato a distrarre coloro che potrebbero obiettare prospettandogli il silenzio dei tamburi e proficui scambi di beni e servizi, il taumaturgo quasi Nobel della Pace ha allestito un mostruoso apparato di morte contro un popolo in America Latina. Il cui crimine è che da un quarto di secolo dimostra che si può tener testa al predatore, garantirsi vita e giustizia e far da avanguardia a tutto un continente già destinato a cortile di casa yankee.

Per far trangugiare all’umanità, che sulla Palestina aveva incominciato a gettare bastoni tra le ruote dello schiacciassi sion-imperialista, nuovi genocidi dall’altra parte del pianeta, lo sponsor e fruitore bancario di tutto il narcotraffico mondiale, ha dato del narcos al presidente del paese, il Venezuela, che non aveva mai visto fiorire neppure una piantina di cannabis. Ma che, in compenso, si teneva stretto il petrolio che gli permetteva di nutrire e curare e far lavorare e abitare le sue genti e lo negava a coloro che ne vorrebbero trarre trilioni a proprio uso e consumo e a compravendita di tutto il resto.

Viene puntata dagli F-35 del pazzoide di Washington anche la Colombia, passata da narcopresidenti alla Uribe, cari ai gringos, a uno, Gustavo Petro, che la pensa e la fa come i bolivariani del Venezuela, del Nicaragua, dell’Honduras, del Messico. Intanto Maduro, a cui la valida mobilitazione civico-militare di tutto un popolo chavista servirebbe, sì, a contrastare un’invasione-occupazione, ma molto meno contro i bombardamenti di quegli F-35, si è rivolto per una mano a Russia, Cina e Iran. Certamente amici, ma la Cina si tiene ontologicamente lontana da ogni sbattere di sciabole. L’Iran deve guardarsi da chi gli agita in faccia le sue bombe atomiche e la Russia, beh, se pensiamo alla Siria, meglio proprio non farci conto.

Tutto questo Zeitgeist, spirito del tempo come in Germania i filosofi chiamavano la tendenza generale, cioè la forza che si mette sotto i piedi il diritto, è più contagioso di una finta epidemia mirata a passivizzare le persone in vista del peggio in arrivo e non può non avere le sue ricadute sulle cose spicciole. Come da noi, con la separazione delle carriere, la messa a guinzaglio del Pubblico Ministero e il regime, presto premierato, che detta quali reati perseguire – un presidio davanti a una fabbrica, un flash mob anti-Ponte – e quali no - il sindaco che passa l’appalto al cugino, o lo squadrista nero che devasta una scuola pro-Pal (è successo quattro volte in pochi giorni a Genova).

Qualche altro caso, alla rinfusa, di Zeitgeist spicciolo (de minimis non curator praetor)? In piena assemblea dei massimi dignitari della società umana, al palazzo di vetro, un tentacolo della piovra cannibala di Tel Aviv dà della strega a Francesca Albanese, indicandole il destino sul rogo. Poi il tipo con la pannocchia in testa le blocca l’accesso ai suoi soldi. Niente conti bancari alla reietta. Al governatore di Rio, un fascistone bolsonariano, gli gira di far festa nella favela e, copiato e incollato il modulo trumpiano, dà dei narcos a tutti i disperati morti di fame confinati tra cartoni e lamiere (io li conosco) e ne ammazza un 150 (ovviamente neanche un boss).

Per rinnovare l’anatema contro le continue interferenze di Mosca nel vari Russiagate che intorbidano i risultati elettorali in Occidente, niente di meglio che un Trump che promette agli argentini 40 miliardi di dollari, ma solo se votano il picciotto Milei. Calci in culo in caso contrario.

Una bella usanza, di grandiosa efficacia per mettere a posto disturbatori, l’aveva inaugurata il presidente canadese Trudeau. Ai camionisti che, con una loro “Colonna della libertà” avevano percorso il paese protestando contro i ceppi del “green pass”, aveva chiuso i conti bancari. Niente prelievo, niente pagnotta. Fine corsa. Ha fatto scuola. Conoscete Frederìc Baldan, autorevole lobbista alla UE, ha scritto un libro da collocare sulla mensola del caminetto: “Ursula Gates, la von der Leyen e il potere delle lobby a Bruxelles”, dove si disseppelliva l’insabbiato scandalo dello Pfizergate (gli sms privati Ursula-Bourla relativi a miliardi di dosi Pfizer e di euro nostri, che poi erano stati fatti sparire)? No? Ora conviene saperne, perché quello che hanno fatto a lui è il metodo Trudeau, un metodo in vista di nuovi disturbatori: le banche belghe gli hanno chiuso tutti i conti bancari, personali e aziendali, compreso il conto di risparmio del figlio di cinque anni. Si aggira sul lastrico.

Tra gli spiccioli, di poco conto, ma illuminanti quanto un faro da 2000 watt sul famigerato spirito del tempo, quanto è successo a Larry Bushart, veterano e multi-encomiato alto funzionario di polizia a Perry County, nel Tennessee. E’ stato cacciato dalla polizia, gli hanno tolto tutti i nulla osta e visti, addirittura del Dipartimento di Stato e l’hanno chiuso in una cella della prigione di Perry. Quale il crimine? Aveva deplorato, in termini di sfottò, coloro che, come il bonzo dai capelli gialli, si strappavano i capelli per il martirio del propagandista nazista Charlie Kirk e avevano esaltato il suo retaggio ideologico.

Eccessi americani? A un collega di Larry, poliziotto di Weissenburg in Germania, il tribunale amministrativo di Ansbach ha tolto la qualifica, lo stipendio, la pensione e lo ha espulso da tutti i corpi delle forze dell’ordine. Il delitto: aveva criticato il Green pass e altre norme di costrizione adottate in nome del Covid.

Ma rifacendoci ai padri “Ubi major minor cessat”. E dunque torniamo ai massimi sistemi. Quelli del Trump uno e trino e quadruplo e quintuplo e….Guerra alla Russia, Guerra alla Palestina, guerra alla Somalia (da 100 giorni bombarda quel paese, lo sapevate?), guerra all’Iran e, ora guerra al Venezuela. E pensare che il narcotraffico non è affatto una minaccia al capitalismo statunitense. E’ invece una delle sue forme clandestine di riproduzione.


 

 

martedì 28 ottobre 2025

FULVIO GRIMALDI PER L’ANTIDIPLOMATICO Trumpeggiando in Latinoamerica --- BOLIVIA, ECUADOR E PERU’, FATTO. VENEZUELA E COLOMBIA, DA FARE

 


https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__trumpeggiando_in_latinoamerica_bolivia_ecuador_e_peru_fatto_venezuela_e_colombia_da_fare/58662_63300/

 

Bolivia, suicidio assistito dal padre della patria

Nel giro di vent’anni salvatore e affossatore della patria. Il percorso di Evo Morales, fondatore del Movimento al Socialismo (MAS), presidente della Bolivia dal 2006 al 20019 culmina nell’autodafè della rivoluzione. Nel secolo fattosi largo all’insegna del riscatto latinoamericano con il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, l’Argentina dei Kirchner, il Messico di Obrador, in continuità con i padrini Cuba e Nicaragua, la Bolivia rappresentava uno degli esempi più riusciti di socialismo alla bolivariana. Il che rende tanto più incomprensibile e doloroso un declino iniziato qualche anno fa e che culmina in quel rogo di conquiste e speranza, alimentato eminentemente dal suo stesso taumaturgo.

Le mie frequenti visite nel paese che, non per nulla, ha vissuto e tradotto in realtà la liberazione tentata dal Che Guevara, mi offrivano l’esperienza di un ininterrotto cammino di emancipazione: la riforma agraria, l’acqua sottratta alle multinazionali USA, la nazionalizzazione delle risorse, dal gas al litio e la conseguente equa distribuzione della ricchezza, lo Stato binazionale nel quale gli indigeni erano assurti a protagonisti del progresso, l’antimperialismo propagandato e operato a livello domestico e internazionale.

Una crepa si apre nel 2019. Il dettaglio di questo processo involutivo l’ho già raccontato sull’AntiDiplomatico. Qui parliamo di come è andata a finire.  

Evo Morales, con alle spalle tre mandati presidenziali, sfida il divieto della costituzione e rivendica la candidatura al quarto. Un referendum glielo nega. Lui insiste. Degli smarrimenti e delle contraddizioni così innescate approfitta il settore dei grandi terratenientes e imprenditori industriali, nostalgici di regimi autocratici che, insieme al padrinaggio degli USA, gli garantivano libertà di manovra economica fondata sull’emarginazione e sullo sfruttamento soprattutto dei nativi Quechua e Aymara. Il colpo di Stato del novembre 2019, che portò al potere la parlamentare conservatrice Jeanine Anez, fu spazzato via da una sollevazione popolare che, resistita a una sanguinosa repressione con decine di vittime, ha potuto imporre, l’anno dopo, nuove elezioni e la travolgente vittoria del MAS.

 

In assenza di Morales, rifugiatosi in Messico al momento del colpo di Stato (fuga che evidentemente non gli è stata perdonata), venne eletto il suo storico ministro dell’economia, Luis Arce, grande protagonista del riscatto sociale ed economico del paese. Rientrato in patria, con comprensibile perdita di credito, Evo impegnò ogni mezzo e tutto il suo seguito indigeno, i cocaleros di Cochabamba, per disconoscere e svalutare il governo di Arce (che, tra l’altro, dovette vedersela nel 2024 con un nuovo, effimero, tentativo di golpe militare). Arrivò a ricorrere a strumenti eversivi come posti di blocco in tutto il paese, marce sulla capitale, occupazione del Tribunale Elettorale che gli aveva negato l’ennesima candidatura. Venutogli meno l’appoggio del suo partito, il MAS, aveva creato dal nulla un partito di impronta personalistica, “Evo pueblo” che, però,.per mancanza di requisiti giuridici, non potè essere iscritto alle nuove elezioni.

Date queste lacerazioni del movimento che aveva sostenuto per vent’anni l’evoluzione del paese, il conseguente smarrimento e la perdita di fiducia delle masse, la crisi economica che tutto questo aveva provocato, la lotta senza quartiere di Evo a coloro che si trovavano a capo della direzione del paese e delle organizzazioni popolari e sindacali, l’esito delle nuove elezioni non poteva che essere scontato. Per evitare la frantumazione della sinistra, Arce aveva rinunciato di candidarsi, ma al ballottaggio Evo Morales, incredibilmente, dopo aver destabilizzato tutto il fronte di sinistra, non avendo ottenuto la candidatura, era arrivato a intimare al suo seguito di annullare la scheda, implicitamente aprendo così un’autostrada alla vittoria delle destre filo-yankee.

Alla vittoria nel primo turno di un candidato della destra, Rodrigo Paz Pereira, democristiano, con secondo arrivato Jorge Quiroga, sempre di destra, nel ballottaggio non poteva non verificarsi il trionfo degli stessi contendenti: Paz Pereira al 54,3%, Quiroga al 45,5%. Ha votato l’87% dei 7,9 milioni di boliviani. La sinistra del presidente del Senato, già delfino di Evo, Andronico Rodriguez, si è vista umiliata con il 3,2%. Le schede annullate su disposizione di Morales hanno rasentato il 20%.

Può sorprendere che i primi contatti telefonici di Paz Pereira, con tanto di auguri per la vittoria e di dichiarazioni di reciproco sostegno e vicinanza politica, siano stati con la golpista venezuelana Maria Corina Machado, e con Gideon Sa’ar, ministro degli esteri israeliano. Dopo questi, non potevano mancare Javier Milei, il presidente argentino dalla sega elettrica e last but not least, Donald Trump.

Ecuador, una partnership strategica con gli USA

 Noboa-Meloni

Nella capitale Quito e in tutto l’Ecuador, sottoposti a una feroce repressione, il 23 ottobre è stato sospeso lo sciopero generale nazionale che durava dal 20 settembre ed era l’ennesimo dall’elezione a presidente, considerata frutto di maneggi, di Daniel Noboa. Sciopero portato avanti soprattutto dalla maggioranza indigena organizzata nella CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador). Il bersaglio è il regime ultraliberista e autocratico di Daniel Oboa, imprenditore e membro della famiglia più ricca del paese e che controlla i maggiori gangli dell’economia finanziaria e produttiva del paese. Sciopero che per innesco ha avuto, in una società al 65% sotto, o appena sopra, la soglia di povertà e saccheggiata dal narcotraffico, la vittoria elettorale forse rubata a Luisa Gonzales, candida della Revolucion Ciudadana, movimento dell’ex-presidente Rafael Correa (In esilio in Belgio), data in largo vantaggio dai sondaggi pre-elettorali.

Alla lotta popolare, eminentemente indigena, Noboa ha risposto militarizzando il paese e dichiarando “il conflitto armato interno”. Il pretesto: la lotta contro l’impennata della criminalità organizzata. Che c’è e cresce, ma che in questo caso viene identificata con la resistenza sociale alla dittatura che va costruendosi con persecuzione degli oppositori, arresti di chi protesta, tortura di prigionieri politici, sparizioni forzate, ostacoli alla libera espressione. Per dare al regime una cornice legalitaria è stata abolita la Costituzione votata sotto Correa e ne è stata presentata un’altra, ovviamente impostata secondo criteri cari alla destra fondamentalista dell’argentino Milei, senza peraltro rispettare i termini della Corte Costituzionale e i dovuti passaggi parlamentari

Nell’immediato, la rivolta popolare è alimentata dalla misura governativa che ha eliminato il sussidio al diesel, combustibile indispensabile per l’operatività e, addirittura, la sopravvivenza delle imprese di trasporto, delle piccole e medie aziende dell’economia informale e dei lavoratori del settore agricolo. A ciò si è aggiunto un attentato alla sovranità del paese e alla salvaguardia ecologica del suo bene naturale più prezioso, le isole Galapagos, dichiarate dall’Unesco “Bene dell’umanità”.

Il presidente Noboa, eletto a capo cella coalizione ultraliberista e filoamericana Accion Democratica Nacional, che gode di generose sovvenzioni della NED (National Endowment for Democracy), faccia civile della CIA, dopo aver privatizzato quanto era privatizzabile dell’apparato produttivo e immobiliare del paese e dopo aver annullato le misure sociali ed ambientaliste di Rafael Correa, ha concesso che il Pentagono rimettesse piede, anzi stivale, nel paese con una nuova base militare.

Alle Forze Armate nordamericane, a suo tempo cacciate da Correa, è stato consentito lo sfruttamento delle isole Galapagos, un paradiso naturale vergine, per esercitazioni, costruzione di edifici, infrastrutture, impiego di navi, personale, armi, sommergibili nucleari, equipaggiamento militare. Questo, in contrasto con l’articolo 258 della Costituzione ecuadoriana che vieta qualsiasi attività che possa mettere in pericolo l’equilibrio ecologico dell’arcipelago. Pensare che fu la visita di Charles Darwin alle Galapagos nel 1835, durante il suo viaggio sul brigantino Beagle e la scoperta delle tartarughe giganti, a costituire la base per lo sviluppo della sua teoria dell'evoluzione per selezione naturale. Selezione ora governata dalla partnership strategica con le FFAA statunitensi.

Per gli esperti ONU del narcotraffico, la costa pacifica di Ecuador e Perù (quest’ultimo a sua volta vittima di “rivincite” yankee, come vedremo) e la Bolivia sono i punti di partenza dell’oltre 80% degli stupefacenti che finiscono sul mercato USA. Coltivazioni e traffico che si svolgono sotto gli occhi della DEA, l’ente statunitense per il controllo del narcotraffico e assicurano cospicui vantaggi al sistema bancario nazionale e ai successivi paradisi fiscali.

La vicenda ecuatoriana è sintomatica del tentativo yankee, cui Trump ha rinnovato vigore e determinazione, di riprendersi il “cortile di casa”. La riconquista di sovranità, autodeterminazione, equità sociale, protezione ambientale, vissuta dal paese sotto la presidenza di Rafael Correa dal gennaio 2007, quando ebbi l’opportunità di intervistarlo alla vigilia della sua elezione, al maggio 2017, subisce un’inattesa regressione con Lenin Moreno. Vice presidente con Correa, era stato eletto suo naturale successore e prosecutore dell’opera di riscatto, ma molto presto nel suo mandato aveva drasticamente invertito la marcia, per diventare l’ennesimo proconsole del colonialismo nordamericano in America Latina.

Nel 2022 gli succede Guillermo Lasso, che accentua la direzione regressiva del predecessore e, nel 2023 passa a Noboa il testimone della subalternità al padrone yankee, alle èlite economiche locali e al capitale finanziario internazionale, con poteri decisivi al FMI. Il “correismo” viene bandito come forza politica fuorilegge, e lo stesso Rafael Correa resta sotto processo per una serie di reati formulati da una magistratura “normalizzata”. Per Washington, nella partita con l’America Latina, un gol a porta vuota.

Perù, di autogolpe in autogolpe, all’ombra del US Southern Comand

A Lima, dal 10 ottobre, siamo al secondo golpe parlamentare in meno di 5 anni, nel senso che è lo stesso parlamento a far fuori il capo dello Stato uscito dalle proprie fila, ripetendo la mossa che, nel 2022, aveva defenestrato il presidente di sinistra Pedro Castillo. Il golpe dei parlamentari colloca nel palazzo presidenziale il già presidente del Congresso, José Jeri, eliminando dalla scena Dina Boluarte che aveva rivestito la medesima carica, prima di essere proiettata sulla poltrona fin lì occupata da Castillo.

Nella ripetizione del metodo non c’è però la continuità dell’intenzione politica. Prima del golpe del 2022, Castillo, maestro elementare e presidente di sinistra dal grande supporto popolare, specie nei settori indigeni, si era voluto liberare di un congresso dalla maggioranza di destra che ostacolava ogni suo provvedimento a favore delle classi popolari e in contrasto con la storica manomorta statunitense sul paese. La sua decisione di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni che, secondo i sondaggi, gli avrebbero assicurato una sicura maggioranza, provocò la rivolta dei parlamentari. Castillo fu destituito, arrestato, chiuso in prigione. Alla presidenza fu messa la fidata Dina Boluarte. Fidata anche perchè le aveva manifestato vicinanza, protezione e fiducia nientemeno che la comandante del Comando Sud statunitense, generale Laura Richardson.

Al golpe Boluarte e all’arresto di Castillo, che dura tuttora, seguirono mesi di manifestazioni e sommosse popolari che dalle Ande dilagarono fin nella capitale, furono represse con metodi pinochettiani, ma non si sono placate neppure oggi. Tanto che di nuovo si è attivato il parlamento e, accusata la Boluarte di non saper contenere l’espansione di quella che viene chiamata “criminalità” comune, l’ha sostituita con il presidente del Congresso, José Jeri, altro esponente della destra oligarchica filo yankee. Insomma, tutti giochi fatti in casa, casa del mai scomparso fujimorismo peruviano che ha avuto per capostipite Alberto Fujimori, sterminatore di oppositori (Sendero Luminoso) e, dal 1990 al 2000, dittatore sanguinario e ladro, morto in carcere. La figlia, Keiko, ininterrottamente candidata al ruolo del caro papà, resta in aspettativa.

Tutto questo avviene con l’accresciuto sostegno di Donald Trump, subito felicitatosi con il nuovo protetto della capa del Southern Comand, e con la continuità dei tumulti che, a Lima come nelle Ande, ribadiscono l’irriducibilità della sollevazione di popolo, tuttora sollecitata dagli appelli dal carcere di Pedro Castillo.

Ne discende che il 18 ottobre il primo ministro, Ernesto Alvarez, si dice costretto a dichiarare lo Stato d’emergenza a Lima per combattere chi, di nuovo, viene chiamato “criminalità comune” e relative bande giovanili. Pandillas che sono l’abituale pretesto in tutta l’America Latina per l’adozione di misure che restringano gli spazi di libertà e democrazia e le possibilità di organizzarsi in opposizione. A sua volta il nuovo capo dello Stato, Jeri, ha ingiunto al premier di preparare un “pacchetto di misure”, compreso l’impiego dell’esercito, per affrontare l’emergenza proclamata.

Dunque in Perù, come in Ecuador, sono sospesi diritti fondamentali, dalla libertà di assemblea, di riunione, di spostamento, ed è ribadita la facoltà di utilizzare le forze armate nei centri abitati. E di pochi giorni fa l’assassinio con una pallottola nel torace del musicista e attivista Eduardo Mauricio Ruiz Saenz, idolo delle giovani generazioni, rapper anti-sistema.  La generale Laura Richardson non ha obiettato.

 

 

 

Dalle armi di distruzione di massa ai narcoterroristi

 

Non contento di menare le mani un po’ qua e là tra Medioriente e le città USA governate dai Democratici, il Donald si è messo a fare il tiro a segno su barche e barchette nei Caraibi ma, da quando gli hanno spiegato che gli stupefacenti arrivano, invece, quasi tutti dal Pacifico, ora spara anche davanti a quelle coste. Il meccanismo è quello collaudato: dalla guerra contro armi di distrazione di massa inesistenti, per il petrolio, alla guerra contro narcos inesistenti, sempre per il petrolio.

Fino all’altro giorno i puzzoni che inondavano gli USA di Fentanyl erano Cina e Messico. Svaniti quelli, per manifesta inconsistenza, nell’iperuranio dell’avanti e indrè trumpiano, ora tocca a quella che minaccia di diventare la Grande Colombia vagheggiata da Simon Bolivar: Venezuela e Colombia uniti, anche nella lotta. Un rischio da affrontare subito con la denuncia della nuova configurazione di Venezuela e Colombia uniti nel narcotraffico. Tanto più che la Colombia, con l’elezione nel 2022 a presidente dell’economista Gustavo Petro, antiliberista, antimperialista, anti-israeliano, ha smesso di servire l’impero nel tradizionale ruolo riconosciuto al paese di “Israele latinoamericano”.

Sono sotto minaccia di chiusura le sette basi USA, i più potenti cartelli della droga del mondo vengono per la prima volta osteggiati, il potente apparato di paramilitari formato dal predecessore Alvaro Uribe è smantellato, si è cessato di spedire contractors terroristi nei vari scenari di regime change voluti dagli USA. Soprattutto Bogotà, ex-benevola patria di Pablo Escobar (che, sotto gli occhi della DEA, ente “antidroga” di Washington, ha fatto più per le banche USA e i suoi derivati nei paradisi fiscali di tutti i fondi avvoltoi messi insieme), da destabilizzatrice del Venezuela, con l’infiltrazione di quinte colonne, è passata a far fronte comune con il vicino e con gli altri paesi del raggruppamento anti-gringos A.L.B.A. creato da Chavez.   

Per inciso, e a proposito della presunta determinazione con cui gli USA, con Trump o senza, dicono di combattere il fenomeno, vogliamo ricordarci dell’Afghanistan degli anni di occupazione USA-NATO, quando i campi di oppio, a suo tempo desertificati dai Taliban, tornarono a rifiorire sotto l’affettuoso controllo dei militari di Bush e successori e l’eroina, magari transitando per la sicura base USA di Bondsteel nel Kosovo “liberato”, alluvionava l’Occidente?

Essendoci nell’immediato da ricavare più da un Venezuela depositario del più vasto giacimento di idrocarburi del mondo e, per i popoli della regione, modello nefasto di emancipazione nazionale e sociale, più che da Cina e Messico, giocoforza gli spacciatori, assassini di frotte di giovani statunitensi, è da qui che necessariamente devono arrivare.

Nel giro di meno di una settimana, all’obiettivo Venezuela, capeggiato, secondo l’inventiva di Trump, dal re dei narcos Nicolas Maduro, incoronato da una taglia cresciuta da 15 a 50 milioni per chiunque lo tolga di mezzo (acquolina in bocca a Maria Corina Machado), è stato affiancato il più recentemente nominato narcoimperatore colombiano. Per dare la relativa dimostrazione di potere che prevale sul diritto, tipica del ciuffo giallo, ai primi di ottobre si è radunata nel mare caraibico, di fronte alle coste dei due paesi e nelle loro acque territoriali, una prima flotta militare USA: navi, sommergibili, forza aerea e 10.000 Marines sul piede di guerra nella dependance Portorico.

Nella narrazione di Trump il narco-presidente venezuelano capeggerebbe addirittura un’inesistente “Narcocartello dei Soli”, per cui sarebbe urgente e giustificato l’ulteriore rafforzamento delle quasi trentennali sanzioni (a cui si attribuiscono una crisi socio-economica da 40.000 morti, alleviata solo dai soccorsi di Sud Globale, Cina e Russa), Trump ha annullato gli aiuti che gli USA avevano per anni fornito alla Colombia in forma di sovvenzioni, prestiti, agevolazioni tariffarie, armamenti. In un momento di distrazione dai campi di morte mediorientali, ne ha promesso altrettanti a Colombia e Venezuela: “Voi due che con la massiccia produzione di stupefacenti, che nessuno di voi cerca di stroncare, ma che introducete negli Stati Uniti, provocate morte, devastazione e caos, o eliminate questi campi assassini, o li elimineremmo noi, e in modo non piacevole. E se per ora abbiamo agito via mare, presto agiremo via terra”.

Detto fatto. Che non si tratta di mera retorica, Trump l’ha ribadito spedendo sabato scorso nelle stesse acque la più grande portaerei del mondo, la “Gerald Ford”, accompagnata da varie navi di sostegno e dalla minaccia di radere al suolo la capitale del Venezuela, Caracas. La risposta del paese bolivariano è stata una mobilitazione militare capillare che ha visto l’esercito affiancato da un milione di cittadini addestrati e impegnati nella difesa civile. Dopo il primo affondamento, nelle acque territoriali del Venezuela, di una lancia con 11 persone a bordo, si sono avuti altri quattro attacchi, l’ultimo con altre sei vittime, a imbarcazioni nelle stesse acque, tutte “adibite a trasporto di narcotici verso gli USA”. Secondo l’inchiesta condotta dal governo colombiano si trattava, nei casi accertati, di pescatori impegnati nel loro lavoro.

Ma il messaggio trumpista è arrivato e dovrebbe sovrastare con il suo clamore i dati per anni raccolti dalle agenzie antidroga dell’ONU, anche quando ne era a capo l’allora vice segretario dele Nazioni Unite, Pino Arlacchi, secondo cui il Venezuela è del tutto privo di coltivazioni di stupefacenti naturali o di sintesi, e non ne ha mai esportato neanche una bustina. Quanto alla Colombia, il paradiso dei narcos è diventato un purgatorio da quando, con Petro, gli si è mosso guerra. Sempre per l’ONU, al netto di limitati movimenti di marijuana nei Caraibi, tra Trinidad e Tobago, come ho ricordato sopra, è dalle coste del Pacifico che si muove verso gli USA l’83% del traffico di droga.

E quali sono i paesi che si affacciano sulle coste del Pacifico e che sono per l’ONU quelli  a maggiore densità criminale dell’intero subcontinente? L’Ecuador dell’oligarca Noboa e il Perù del golpista Jeri. Con alle spalle la Bolivia, paese ora tornato nella sfera di coloro che ne avevano fatto un coltivatore ed esportatore di cocaina. Tutti paesi contro i quali The Donald furioso non pronuncia alcuna minaccia.

venerdì 24 ottobre 2025

“Spunti di riflessione” –--- Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti --- --- IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

 

“Spunti di riflessione” – Fulvio Grimaldi intervistato da Paolo Arigotti

IL PIANO DI PACE, CONTRACCOLPI, INCOGNITE E VARIABILI

https://youtu.be/hyZdcIC_urM

 

 

 

Inoltro questo video a dispetto del fatto che sia, in alcuni tratti, fortemente disturbato a livello audio e video a causa di una connessione che andava e veniva. Forse avremmo dovuto rifarla, l’intervista. Comunque vi chiedo scusa. Tutto sommato un contenuto viene fuori.

Il Piano definito “di Pace” dallo squinternato tappetaro Usa e subito interpretato dal suo sicario (o committente?) come licenza di genocidio, essendo un falso è ovviamente nato morto. Infatti, come per altri accordi cui ha aderito lo Stato fuorilegge ebraico,  Netanyahu e terrorismo mafioso connesso non  si sono sognati di levare il dito dal grilletto del genocidio attivato a partire dal 7 ottobre 2023.

La questione del momento ci fa però deviare da un piano di pace davvero strabiliante che né coinvolge, né considera, i diretti interessati. I palestinesi, confermati non umani, sono ridotti a gregge di ovini da decidere se macellare, o spostare, o tosare e tenere chiuso nel recinto. Questione esplosa ai vertici dello Stato sionista e che rappresenta un nuovo potenziamento del tasso di criminalità di Israele. Iniziativa attesa, ma nondimeno stupefacente per protervia e scostumatezza sul piano giuridico, politico, morale, umano  Trattasi della proclamazione del Knesset, gratificato del titolo di ”unica democrazia in Medioriente”, che la Cisgiordania non è più Palestina, come per millenni di storia, bensì Israele. Cioè Stato sionista, Stato dei soli ebrei e al diavolo chi ci si ritrova ma non dovrebbe e, in un modo o nell’altro, sparirà.

Cioè una roba che ha visto confluire da quelle parti, nel segno del colonialismo dai colonialisti rilanciato dopo la debacle subita a metà del secolo scorso e con la scusa di un olocausto inflitto a una parte di loro, un flusso di persone provenienti da ogni pizzo. Persone a cui si riconosceva di essere, non solo vittime (il che le rendeva intoccabili), ma anche popolo eletto, migliore di tutti gli altri e dunque impunito e insindacabile, titolare di una terra con la quale non ha avuto nessun rapporto né storico, né culturale, né linguistico, ma che aveva ogni diritto di sottrarre a chi ci stava da sempre.

Tutto questo delirio di onnipotenza sembra però aver fatto perdere la testa al regime di Tel Aviv. E non solo, visto che i sondaggi continuano a ripeterci che dietro a Netanyahu e ai suoi macelli ci sta un 75-80% della popolazione. Infatti, a saltare sulla sedia all’ennesimo eccesso di violazione di ogni accordo e legge, non è stata quella società che pure aveva manifestato contro Netanyahu sulla questione dei prigionieri in mano a Hamas, ma il partner e foraggiatore Trump. Uno, cioè, che tiene in piedi la baracca sionista, Il suo stop all’annessione della Cisgiordania votata dal Knesset segue l’incazzatura per il bombardamento dell’alleato stretto Qatar, con tanto di imposizione di umilianti scuse all’emiro.

Siccome l’unico risultato della fase uno del bombastico piano di pace sembra essere stata, a parte lo scambio dei prigionieri, la concessione a Israele di tenersi un 53% della Striscia, quello meno devastato e sfruttabile, dal quale continuare a uccidere chiunque si avvicinasse a un’invisibile linea gialla, le prospettive di una fase due sembrerebbero  ora coperte da una fitta nebbia.

La famosa forza di stabilizzazione composta da paesi arabi amici e da chissà chi altro, rimane in grembo a Giove, mentre le formazioni della Resistenza, Hamas, Jihad e Fronte Popolare, non hanno dato il minimo segno di essere disposti a consegnare le armi. Quelle armi con le quali hanno impedito per oltre due anni a Israele di divorare la Striscia. E ne hanno fatto barcollare, non solo la strategia Grande Israele, per ora arenatasi nel divieto trumpiano di israelizzare la Cisgiordania, ma addirittura il ruolo colonialista assegnatogli 150 anni fa da Balfour.

Non esagero. L’operazione Alluvione di Al Aqsa, che ha preso di sorpresa tutte le capacità di intelligence, sorveglianza, difesa, di Israele, ricorda un’altra situazione nella quale lo Stato ebraico si è trovato a braghe calate. Nei primi cinque giorni della guerra del Kippur, anche quella non prevista dai suoi infallibili servizi, Israele, prima di recuperare grazie agli USA, aveva rasentato la disfatta. E, secondo Moshe Dayan, addirittura l’esistenza. Tanto che il ministro della Difesa aveva ipotizzato, in un disperato Consiglio di guerra, il ricorso all’arma atomica.

E’ vero che nei 24 mesi di guerra Israele ha potuto compiere un genocidio, ma se l’obiettivo era, dicendo di voler eliminare Hamas, quello di eliminare due milioni e passa di palestinesi, uccidendoli tutti, o costringendoli a un esodo da qualche parte dopo aver reso invivibile la loro terra, quel risultato è stato mancato. Lo ha reso evidente quella stupefacente marcia di ritorno, di centinaia di migliaia dei dieci volte sfollati, alle loro case in macerie a Gaza. E quel piano di pace che, certamente risolutivo di niente, l’armiere di Israele ha dovuto imporre ai soci che non stavano andando da nessuna parte.

Da nessuna parte se non in quel deserto politico e morale in cui oggi Israele appare paralizzato, a dispetto di affannose e scriteriate fughe in avanti, come l’annessione della Cisgiordania, tosto bloccate da chi sembra avere il mestolo in mano,

Dall’inizio dell’anno Israele registra la perdita di 40.000 unità del suo personale di colonizzazione. Dal 7 ottobre 2023 sarebbero 200.000. Mentre si è seccato da tempo il flusso degli arrivi. Israele si è vista colpire dall’Iran, con efficacia occultata dalle voci ufficiali, e viene bersagliata quotidianamente dai droni e missile degli irriducibili yemeniti, con conseguente blocco di porti e aeroporti e di altre infrastrutture logistiche. Una popolazione, che la questione degli “ostaggi” ha profondamente lacerato minandone la fiducia nella propria classe politica e che si trova costretta ogni due per tre a rifugiarsi nei bunker, non può alimentare grande voglia di restare, né costituire richiamo per nuove immigrazioni.

L’isolamento e la presa di distanza da parte di una collettività internazionale che, riconoscendo lo Stato di Palestina, ha provocato conseguenze materiali pesanti anche sul piano economico. Sulla saldezza della società israeliana si abbattono la crisi nei rapporti accademici, i boicottaggi dei prodotti di consumo, le proteste contro la consegna di armi, i disinvestimenti perfino nel campo della tecnologia, già messo in crisi da trasferimento di migliaia di giovani dai laboratori alle unità di combattimento. Queste, poi, sono pesantemente indebolite dalla perdita sul campo di centinaia di soldati e dal rifiuto e dalla diserzione di migliaia di riservisti.

In questo contesto c’è da verificare fino a che punto il tradizionale appoggio e soccorso fornito allo Stato ebraico dai correligionari della finanza statunitense e internazionale non stia manifestando riserve rispetto al radicalismo di Netanyahu e dei suoi sostenitori-condizionatori ultrà. Come c’è da verificare se la truffa-fuffa di pace di un oligarcha immobiliarista che sconcerta tutti nel suo alternarsi tra carezze e cazzotti, riesca a rilanciare la formula di Abramo, ad allargarla e includere nei suoi vagamente onirici progetti tutta la carovana del Golfo, Egitto e Giordania compresi.

Monarchie assolute e dal bagno di sangue facile che, tra l’altro, rischiano di doversela vedere, presto o tardi, con una base popolare di arrabbiati, insoddisfatti, e con un’idea del conflitto in Palestina dissimile da quello di chi li tiene sotto il tacco.

Le incognite e variabili, anche se sfuggono a molti, sono tante e si faranno sentire.

martedì 21 ottobre 2025

Fulvio Grimaldi per L’AntiDiplomatico --- Usa – Venezuela – Palestina JOKER IN AZIONE

 



https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-fulvio_grimaldi__usa_venezuela__palestina_joker_in_azione/58662_63164/

 

Basato sulla figura del pagliaccio malefico, Joker è uno dei supercriminali più famosi della storia dei fumetti, nonché la nemesi del Cavaliere Oscuro[5]. Presentato come uno psicopatico con un senso dell'umorismo contorto e sadico. Così la presentazione del personaggio su Wikipedia. E’ la personificazione di Donald Trump.

Da ragazzini uscivamo dai film di grandi personaggi positivi, di eroi medievali, immaginandoci tali anche noi. Eravamo, a seconda dei gusti, dei Robin Hood, dei Cavallo Pazzo, dei D’Artagnan, dei Sandokan. Personalmente mi rifacevo a Widukind, o Vitichindo, re dei Sassoni pagani e per questo genocidati da Carlo Magno, un altro che ammazzava in onore del suo dio. Queste fantasticherie duravano finchè, all’urto con la realtà, non venivano drasticamente demensionate a livello di impiegato di banca, operatore ecologico, vigile urbano, medico della mutua, operaio alla catena, start up con IVA.

Con Donald Trump, personaggio eccessivo in senso fisico e metafisico, dall’onda gialla in capo, votato al disdegno di ogni minima regola del vivere civile in omaggio al principio Forza su Diritto, il copia e incolla è stato immediato. Qui, tra supereroi e supermalfattori, che nella supercultura del superuomo hanno dominato l’immaginario americano, dal generale Custer a Jesse James e ad Al Capone, l’adolescente The Donald si è immediatamente riconosciuto nel più affine: Joker.

E se la Nuova Frontiera di Bibi Netaniahu è quel Grande Israel le cui fondamenta si reggono su strati multipli di ossa cementate dall’IDF, come non poteva non accorrere in suo soccorso The Donald-Joker? Soccorso alla disperata, vista la sorte che allo Stato ebraico stava approntando lo tsunami della rabbia e della sollevazione di tante genti in Gotham City. Soccorso just in time di uno che, anche da Joker, si porta dentro e impone fuori morale, metodi, strumenti e valori di quell’altro genocidio, quello dei “palestinesi” delle Americhe, detti indiani e indios. Esattamente ciò che è previsto per Gaza e per tutti i luoghi dove formicolino quei non umani che si ostinano a brucare la dove dal dio degli ebrei la terra e i suoi frutti sono stati riservati al popolo eletto e ai suoi armenti e greggi.

Joker contro USA

Non è che il Joker dai capelli a pannocchia tratti i suoi concittadini – sudditi che osano manifestare contro il sovrano sotto lo slogan “No kings!”, nessun re – molto diversamente dei non umani di Gaza. Qualche settimana fa aveva rivolto ad alcune centinaia di suoi generali e ammiragli un tonante appello a prepararsi a occupare decine di città statunitensi, ricorrendo a migliaia di soldati, per “neutralizzare i nemici domestici”. Che sarebbero non umani, pari ai gazawi, perché come quelli si oppongono ai suoi ordini esecutivi. Detto fatto. Resta una leggera sproporzione nel confronto tra Joker e i cittadini di Gotham City: Sabato scorso ben 7 milioni di quest’ultimi hanno ribadito “No Kings”. Per risposta, l’intelligenza artificiale di Joker, marchiatili tutti di “Antifa”, li ha bombardati con tonnellate di merda. Chi ha fatto la figura migliore?

Le città statunitensi, soprattutto quelle a governo dei Democratici, definiti “radicali di estrema sinistra”, si sono viste invadere e occupare da truppe federali e dalla Guardia Nazionale, senza che le relative autorità statali l’avessero richiesto, o consentito. Si parla di Chicago, Los Angeles, New York, Portland o San Francisco. Poi scontri protofisici con magistrati che denunciavano queste offese alla Costituzione, tumulti da rastrellamenti di manifestanti pro-Palestina e di qualunque persona che desse l’’idea di essere un immigrato nè anglosassone, né bianco. Postilla di Joker: “Dovremmo utilizzare alcune di queste pericolose città, sotto assedio degli Antifa e di altri terroristi interni, come campi di addestramento dei nostri militari”.

Dopo che un Giudice Federale aveva proibito l’uso della Guardia Nazionale nell’Oregon, Joker gli mandò contro la Guardia Nazionale della California e del Texas. Di fronte al rinnovato divieto del magistrato, Joker-Trump minacciò di ricorrere alla Legge Anti-Insurrezione del 1807, legge impolverata ma che consente al presidente di proclamare un’emergenza e impiegare truppe sul suolo degli Stati Uniti. Legge che ha permesso al nostro campione di democrazia alla Gotham City di militarizzare zone del paese con oltre 35.000 soldati federali, dell’aeronautica, della marina e dell’esercito.

Commento di Hina Shamsi, direttrice del Progetto di Sicurezza Nazionale nell’Unione Americana delle Libertà Civili: “Quando forze militari impongono misure di polizia ai cittadini, ci troviamo di fronte a un’intollerabile minaccia alle nostre libertà individuali e ai valori fondamentali di questo paese. Sarebbe dittatura”.

Tutto questo non ha impedito al Pentagono, recentemente rinominato, con consapevole coerenza, Ministero della Guerra e al suo neoministro, l’impomatato Pete Hegseth di catechizzare il fior fiore dei comandi USA, perché adotti uno spirito più muscolarmente guerresco. Spirito con cui affrontare anche il nemico interno, quella nebulosa di variopinti oppositori che Trump ha battezzato “Antifa”.

Dell’attacco al Primo Emendamento, al diritto di cittadinanza per nascita e alla libertà di parola, danno poi testimonianze le più prestigiose Università americane, da Harvard a Columbia. Scuole e atenei sollecitati a non accettare studenti e contributi stranieri, redarguiti e puniti, quando non privati dei dovuti finanziamenti, per non aver soppresso manifestazioni, o attività di informazione sulle stragi israeliane in Palestina.

Puntando l’indice contro l’ennesimo nemico terrorista – categoria inventata da Bush dopo l’11 settembre e adottata come viatico al genocidio da Netanyahu in occasione del 7 ottobre – questa volta individuato nel Venezuela (ne parliamo qualche riga più giù), il nostro Joker ha dato via libera alla CIA e a tutte le 14 agenzie dell’intelligence statunitense per “azioni segrete esterne al quadro della legalità”. Cioè ha ufficializzato ciò che questi aggregati hanno sempre fatto, ma con meno clamore e senza il sigillo dell’investitura formale.

E qui si ribadisce quanto la nostra “Donna, madre, cristiana” abbia in comune con colui che ispira moltissime delle azioni sue e del suo regimetto. Pensate al recente Decreto Sicurezza. Un provvedimento che, tra le altre facezie alla Joker, consente ai servizi segreti (quelli spuntati in ognuna delle stragi che sono costate all’Italia centinaia di morti e regressioni spaventose) di “organizzare e perfino dirigere organizzazioni criminali e terroristiche…”.

Non vogliamo chiamarli Stati di polizia? Guardate che gli assomigliano molto.

Joker contro il Venezuela

Avete presente Catwoman, la donna gatto, quella che, al pari di Joker, imperversa a Gotham City rubando, truffando, picchiando, scassinando, rapinando e, soprattutto, travestendosi nell’opposto: onesta, democratica, rispettosa della legge? Proprio come Maria Corina Machado, la quale, da Catwoman in associazione con Joker, sta provvedendo, dopo decenni di tentativi andati a vuoto, a preparare il terreno al compare-padrino per lo scasso del suo paese, il Venezuela. Anch’essa travestita e da noi riconosciuta combattente della libertà e della democrazia. E ha dunque per prediletti riferimenti politici Benjamin Netaniahu e Javier Milei, ai quali riserva complimenti e auguri e dai quali trae suggerimenti.

Con l’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il Comitato NATO norvegese, mimetizzato da Comitato del Nobel per la Pace, ha messo in mano a Joker-Trump una carta che si spera decisiva. Mezzo mondo, quello amerikkkano, lo ha festeggiato come l’asso per vincere una partita che Gotham City-Washington sta giocando e perdendo dal 1998, quando Ugo Chavez vinse democraticamente le elezioni presidenziali e pose fine a secoli di colonialismo spagnolo e yankee.

Ci siamo sfiorati, Catwoman e io, a Caracas nel 2002, giorni del primo golpe a cui diede il suo contributo una giovane donna scaturita dall’oligarchia spodestata. Il golpista Pedro Carmona, presidente della Confindustria venezuelana, si era autoproclamato presidente del Venezuela ed aveva emanato il famigerato “Decreto Carmona”. Un decreto con il quale  si instaurava la dittatura tramite lo scioglimento di tutte le istituzioni democratiche venezuelane, come codificate nella nuova Costituzione bolivariana votata dopo la vittoria di Chavez.

Chavez era stato sequestrato da un gruppo di ufficiali che, minoranza infima delle forze armate, avevano aderito al golpe ed era stato rinchiuso in una base dell’esercito. Immediata è stata la mobilitazione della popolazione. Sul grande vialone che dal centro di Caracas porta a Palazzo Miraflores, sede della presidenza, decine di migliaia di cittadini da tutto il paese si muovevano per cacciare l’usurpatore e imporre il ritorno del presidente legittimo. Nelle immediate vicinanze del palazzo, un cavalcavia sovrastava questa strada. Ero lìssù con la telecamera a filmare lo sconfinato fluire di gente incazzata che invocava “Chavez presidente”. Ma sullo stesso cavalcavia, affacciati sul percorso dei manifestanti, si erano riuniti sostenitori del golpe. Erano armati di pistole e sparavano sulla folla in basso. Tra loro, ad animarli e incitarli, una menade scatenata: Maria Corina Machado. Lo si può rivedere nel mio docufilm “Americas Reaparecidas”.

Tutto finì molto presto. Nel giro di poche ore, in un paese paralizzato dai sostenitori della rivoluzione bolivariana, militari fedeli alla Costituzione avevano liberato e riportato a Miraflores Ugo Chavez. La rivoluzione bolivariana sarebbe continuata. Alla faccia dei tentativi di sabotarla con altri colpi di Stato, rivoluzioni colorate, sanzioni micidiali, sabotaggi, attentati, incursioni di mercenari dalla vicina Colombia, allora sotto il regime del proconsole USA, Alvaro Uribe e delle sue bande paramilitari AUC.

Per il suo ruolo nel golpe del 2002, la Machado venne condannata a 28 anni e privata dei diritti politici. Un’amnistia concessa da Chavez la rimise a piede libero, ma non le spense l’impegno controrivoluzionario e gli stretti rapporti, anche finanziari, con le centrali del regime change di Washington, dalla CIA alla NED (National Endowment for Democracy) e a USAID.

La Catwoman-Premio Nobel dovrebbe aver fornito agli USA, dopo tanti tentativi andati a vuoto grazie alla coesione sociale e politica del popolo venezuelano, impegnato a difendere il proprio riscatto e la propria autodeterminazione, l’assist per trasformare le recenti provocazioni militari in azione diretta sul territorio venezuelano.

Preceduta da un indurimento delle sanzioni che, dalla prima vittoria di Chavez, hanno vessato la popolazione provocando profonde crisi economiche e sociali (si parla di 40.000 morti dovuti all’embargo) e da un’ininterrotta serie di quasi golpe, con Joker -Trump e Catwoman - Machado, pare si voglia arrivare alla resa dei conti. Come insegnano Iraq, Libia, Siria, Gaza, neanche in Latinoamerica deve esistere un paese che custodisca e gestisca a favore dei propri cittadini una della più grandi ricchezze di idrocarburi del mondo. Sottraendole al monopolio dell’energia e delle relative forniture che Washington spera di condividere con i suoi clientes del Golfo. E fornendo al subcontinente un intollerabile modello di vera giustizia sociale e sovranità.

La Machado si è adoperata instancabilmente perché questo assunto si realizasse. A tutte le elezioni in Venezuela, che osservatori indipendenti regolarmente definivano “le più corrette e trasparenti del mondo”, seguivano le “guarimbas”, tumulti, violenze con la specialità democratica dei cavi stesi attraverso la strada per decapitare poliziotti in moto. Il tutto accompagnato da alti lai internazionali del giro NATO sulla repressione dello Stato autocratico e a glorificazione della Machado. Alla quale, tuttavia, non è mai stata vietata la libera circolazione, a dispetto di violazioni della legge e della Costituzione quali l’invocazione di interventi militari statunitensi contro i propri concittadini, di sanzioni che colpisseero in modo letale la popolazione.

Nel 2019 fu la sostenitrice più in vista del colpo di Stato commissionato da Washington al presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidò. Un golpe presto tramutatosi in patetica farsa e spreco di centinaia di milioni di dollari arrivati a sostegno, indovinate da chi: dal nostro Joker, al suo primo mandato. Una mobilitazione di controrivoluzionari al confine con la Colombia, con grande spreco di altoparlanti e carrozzoni di teppisti, si spense da sola. Il tentativo di innescare una sedizione militare si risolse nel penoso spettacolo di Guaidò che arringava una cinquantina di militari di truppa..

Trump sta minacciando Caracas di sfracelli. Ha proclamato il presidente Maduro boss di un inesistente “Cartel de los soles” e il Venezuela Primo Narcostato dell’America Latina, responsabile degli stupefacenti che, sotto gli occhi della DEA, inondano il mercato USA e i caveau delle sue banche. Il dato che l’ONU e il suo stesso ex-vicepresidente e responsabile del capitolo droga, Pino Arlacchi, affermano che nessuna coltivazione e nessun traffico di droga esistono in Venezuela, non hanno impedito al Joker di Washington di lanciare una vera e propria apertura di ostilità. E’ la concentrazione, al largo della costa caraibica del Venezuela, di una flotta cosiddetta anti-narcotraffico, composta di incrociatori, sommergibili nucleari, corvette e navi da sbarco con sopra qualche centinaio di Marines. Apparato che si è subito reso responsabile dell’affondamento di cinque imbarcazioni civili e di 11 vittime assolutamente estranee al narcotraffico.

Adesso si tratta di vedere se anche il Nobel assegnato a Catwoman porterà a risultati come quelli conseguiti dai suoi predecessori, tipo Kissinger (1973, Pinochet), Obama (7 guerre), Begin (terrorista Irgun) e agevolerà un’aggressione vera e propria. Il Nobel allo strumento della CIA lo farebbe temere. Ma invasione e occupazione risultano problematiche dati un territorio immenso e una popolazione mobilitata e addestrato alla difesa in sinergia con il suo esercito. Il Joker in questione potrebbe limitarsi alla creazione del caos mediante bombardamenti e infiltrazione di mercenari.

Joker contro la Palestina

Qui Joker sé messo a fare il gioco delle tre carte. Carta perde, carta vince, dov’è la carta della pace? E tu provi, riprovi, provi ancora e sbagli sempre e la carta della pace non la scopri mai. Che non ci sia? Che il tappetaro di Gotham City l’abbia inventata per gabbare lo santo e i suoi fedeli? Ma no, e come se esiste!  Non c’è forse il compare, finto passante, quello con la kippa, che ci scommette che c’è e, infatti, la scopre e vince i soldi? Sempre solo lui, però.

E qui, cari amici, basta metafora. Al confronto con la coppia di malviventi in carne e ossa, il sadico eroe dei fumetti diventa un boyscout. La realtà ci dice che uno scaltro e squinternato yankee, pompato e tenuto in pugno dalla finanza ebraica. come impersonata dalla miliardaria ebrea Miriam Adelson (abbracciata e decorata alla Knesset), ha pagato pegno correndo in soccorso a Israele quando questa era rimasta in mutande a Gaza e del tutto nuda davanti alle genti del mondo (ricordate la favola di Andersen e il re scoperto nudo dal ragazzino?). Il suo finto piano di pace, che oblitera ogni prospettiva di un riconoscimento della Palestina, negandone la resistenza, il diritto alla statualità e al risarcimento degli immensi torti subiti (Il corrotto naziregime di Kiev viene ovviamente risarcito dei danni di guerra dai fondi russi congelati in Belgio) e ignorandone la stessa esistenza, non è che una fuga in avanti.

Fuga in avanti sostenuta, lungo la strada, da posti di ristoro che forniscono sostegno sotto forma di avallo mediatico alla megatruffa di una pace che lascia il 53% di Gaza in mano all’IDF, con licenza di sparare a chiunque si avvicini all’invisibile “Linea Gialla” (licenza che ultimamente ha permesso di seccare gli 11 membri di una famiglia che passava da lì in autobus). Fuga in avanti che lascia ai lati del percorso le sistematiche violazioni israeliane di ogni presunta tregua, con la prosecuzione dei massacri e dell’arma della fame fino all’ultimo palestinese. Che poi un Netanyahu, non più tanto lucido, ha provato a far passare per “violazione della tregua da parte di Hamas”.  

Gli ci è voluto un razzo finto-Hamas per rimettere a posto il cosiddetto Piano di Pace, come era facile aspettarsi dal ghigno con cui i dioscuri del genocidio fino all’ultimo palestinese, Ben Gvir e Smotrich, avevano accompagnato – e irriso - l’annuncio del Piano di Pace.

Fuga in avanti il cui effetto collaterale è l’abbandono, nel fosso lungo la strada, di una Palestina che consista almeno della Cisgiordania. Fuga in avanti che prova a scampare dall’inseguimento di un’umanità che, con Flotille e sollevazioni di popolo, costringendo i propri governanti a fare atto di riconoscimento, ha dimostrato di avere un passo più lungo di ogni cospirazione colonialista.

E fuga in avanti a ostacoli che la sfiancheranno perché sono l’esplosione di contraddizioni irrimediabili, insite nella dialettica tra forza e diritto, tra colonialismo e libertà. Tra i pochi e i tanti. Tra umanità e anti-umanità. Chi ha marciato nelle colonne in stracci con addosso fagotti contenenti i resti di casa e vita, armate solo di consapevolezza, volontà e fiducia, che ritornavano alla terra sotto le macerie di Gaza City, lo sa. Sono la postguardia dei marciatori ripartiti un secolo fa da una terra loro da millenni e che nessuno riuscirà mai a fermare. Neanche Joker, neanche con quel fedifrago antropofago di massa che gli fa da gendarme della “pace” continuando a uccidere con il pretesto che non gli ridanno subito dei corpi polverizzati dalle sue stesse bombe (ma è prodigo di restituzioni di centinaia corpi insaccati senza nomi, bastonati a morte, torturati, giustiziati a freddo con colpi tra gli occhi, e privati di organi utili per trapianti. Come piace a Joker).