lunedì 30 novembre 2020

Nagorno Karabakh – Iran: obiettivo Mosca --- ASSASSINIO FAKHRIZADEH, UN’ALTRA GUERRA? ---- Chi, come, perché

 



“Il Mossad è un’organizzazione criminale con la licenza” (Tamir Pardo, ex-capo del Mossad)

Attentato, com’è andata davvero

 

Tra le tante versioni che circolano, quello più attendibile in base a fonti non interessate è esemplificata nella mappa. Per certo non è credibile la fesseria di una mitragliatrice automatica, su un mezzo poi fatto saltare in aria. Operazione in grande stile, invece, con la partecipazione di 62 persone delle quali 12 in azione armata. 1) Il convoglio dello scienziato di tre vetture blindate entra nella rotonda da cui si arriva alla cittadina di Asbard. 2) Salta per aria un’autobomba che abbatte un traliccio, provoca un blackout nell’area e colpisce la vettura di coda. 3) Un’auto Hyundai Santa Fè con 4 passeggeri, quattro motociclette e due cecchini, è appostata al lato opposto. Da qui si apre il fuoco dopo l’esplosione che ha bloccato le macchine.4) Uno del commando trascina Fakhrizadeh dalla macchina e lo finisce sulla strada, dove, infatti, resta una larga pozza di sangue.

Perché il governo di Ahmed Rouhani parla di un’operazione assai meno complessa? Perché si tratta di occultare l’inefficienza dei servizi di sicurezza a protezione dello scienziato, denunciata anche dagli ambienti militari, e l’impressionante grado di infiltrazione di elementi nemici e di collaborazionismo interno. Una debolezza che contrassegna l’intero mandato dell’attuale presidente, espressione, dopo gli anni di Ahmadinejad e nonostante i tentativi di contrasto dei cosiddetti “radicali”, o “conservatori”, di quelli che in Occidente vengono magnificati come “”moderati”. Come spesso succede, la divisione di classe si traduce in divisione geopolitica: da una parte il popolo, antimperialista e per la sua sovranità, dall’altra l’élite, propensa alla consociazione nel segno del mercato senza confini.

Non c’è, oggi, terrorismo che non sia di Stato


I tempi del terrorismo anarchico sono passati da cent’anni. Oggi il terrorismo, in tutte le sue forme, è, accanto alle varie tecniche di frantumazione della coesione sociale, un’arma per ridurre l’umanità al dominio di pochissimi. A volte, colpisce chi viene definito cattivo e nemico. Altre, infierisce, con incredibile cinismo, sulla propria gente. “Propria”, per modo di dire. Difficile che tra i 3000 delle Torri abbia potuto esserci un Rockefeller, un Cheney, la sorella di Sharon. Ricordate, a certuni era stato detto di non andare al lavoro quel giorno… E,
si parva licet… s’è mai trovato nelle stragi nostrane, nere o mafiose, un banchiere, un ministro, un cardinale, uno con la villa a Portofino? E se qualche pezzo grosso c’è stato, tipo generale o magistrato, perlopiù si trattava di un socio che dava noia all’establishment.



In ogni caso, lo abbiamo imparato in Siria, Libia, Iraq, e ora di nuovo in Nagorno Karabakh, anche se non agisce in prima persona, ma utilizza contractors sotto varie bandiere, il terrorismo è sempre di Stato. E oggi le guerre le fa fare ai terroristi. Le sue centrali operative non si trovano mai lontane dalle capitali di Stati occidentali. Per quanto la loro propaganda, ricorrendo alla tecnica del bue e dell’asino, si affanni a farle comparire, puri ologrammi, in quelle di Stati orientali. Tipo “L’Iran è il massimo diffusore del terrorismo”.

Netaniahu: facciamolo fare a Trump



L’attacco turco-azero-israeliano, con innesco e contributo, precede, non casualmente, ma in una studiata strategia, l’iniziativa di mettere le cose in Medioriente, Eurasia e tutt’intorno alla Russia, davanti al fatto compiuto. Poi, la grottesca affermazione che agenti del Mossad avrebbero ucciso un capo di Al Qaida a Tehran, doveva collegare la loro creatura terrorista a quel paese, creando il presupposto diffamatorio per un’escalation.Sempre puntando al Caucaso, direzione Mosca, c’è infatti  da disintegrare lo scoglio persiano. Magari prima che Joe Biden si installi nella Casa Bianca e debba, lui, iniziare un’altra guerra, dopo quelle in atto, tutte lanciate dai suoi padrini di oggi.

Il presidente Trump aveva provato, anche con certi regali, tipo la capitale a Gerusalemme, ad attenuare le pressioni di Israele e della sua rappresentanza obamian-neocon perchè muovesse guerra all’Iran, ritirandosi dal trattato nucleare e moltiplicando le sanzioni. Contemporaneamente riduceva il proprio contingente in Siria e sospendeva l’attivazione delle bande jihadiste in Siria e Iraq, a suo tempo messe in campo da Obama e dagli alleati turchi e del Golfo. C’era anche l’Egitto, del fidato Fratello Musulmano Morsi, prima che, con Al Sisi, si schierasse con Damasco, addirittura con proprie truppe (il che contribuisce a spiegare la virulenza anti-egiziana, col pretesto Regeni, del “manifesto”, di tutta la stampa atlantico-sionista, di Roberto Fico e altri virgulti del Deep State).

Mancano meno di due mesi all’investitura di un presidente, minus habens quanto Bush Jr, cui si può far fare quel che si vuole. Ricattabile quanto l’altro e portato alla vittoria dalle più sporche elezioni mai viste negli USA che, pure, ne ha pratica storica, in casa e fuori. Far fare al predecessore il botto grosso che tolga di mezzo l’ultimo baluardo antimperialista nella regione tra Golfo Persico, Caucaso e Cina, è il piano emerso nell’incontro a tre, semisegreto ma fatto intendere, tra Pompeo, Netaniahu e Bin Salman in Arabia Saudita.  Piano da far partire con l’attentato al capo degli scienziati nucleari iraniani e comandante delle Guardie della Rivoluzione, Mohsen Fakhrizadeh.

Pompeo, l’infiltrato neocon alla corte del re

Se ne è compiaciuto Pompeo, meno Trump. Comprensibilmente così, se si pensa che il Segretario di Stato, da sempre un falco di guerra, è stato subìto da Trump, come altri ministri, per tenersi buoni gli avversari del governo profondo. Si ricordi il suo costante sabotaggio dei tentativi di dialogo nei confronti di Russia, Nordcorea, Libia, del disimpegno dall’Europa e altri nodi geopolitici. Una vera serpe in seno.



E’ dai tempi di Khomeini e, soprattutto da quelli del migliore presidente che la rivoluzione islamica abbia prodotto, il modernizzatore e coerentemente antimperialista Mahmud Ahmadinejad, che il paese più aggressivo del Medioriente, unico dotato di armi nucleari,  spasima per aggredire quello meno aggressivo e senza armamenti atomici. Laico, uomo non solo del popolo, di cui ha favorito il confronto con l’alta borghesia occidentalizzante (quella di Rouhani), grande amico di Hugo Chavez (se ne ricorda il pianto alla morte del “Comandante”), Ahmadinejad ha favorito il superamento di certi arcaismi del costume, la libertà delle espressioni culturali (il grande cinema iraniano), ha tenuto la barra dritta, pur sotto sanzioni, su una politica di sovranità nazionale, anche in campo nucleare. Impegnato nella difesa della Siria, del Libano, dell’Iraq, l’Iran non poteva non guadagnare una grande autorità politica e morale nella regione e, quindi, diventare la bestia nera di Israele.

Quello nucleare era il settore dello sviluppo iraniano indirizzato all’uso civile e medico e all’elettrificazione, che nemmeno l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), nei suoi momenti meno subalterni agli USA, con le sue libere ispezioni ai siti di ricerca nucleare, ha saputo denunciare come indirizzato alla bomba.

Il bue (nucleare) all’asino

Mentre accusava di dittatura islamica e di violazione dei diritti umani l’Iran, Netaniahu era l’amico che sterminava i palestinesi di Gaza, faceva saltare le case in Cisgiordania, sottraeva terre ai territori palestinesi e li cementava con insediamenti illegali; corrompeva l’Autorità Nazionale Palestinese con l’eterno collaborazionista Abu Abbas; proclamando “Israele Stato degli Ebrei”, escludeva dalla comunità il 20% della popolazione, gli arabi d’Israele. Accusava l’Iran di volersi fare la bomba atomica, mentre nei suoi arsenali deteneva da 200 a 400 ordigni nucleari e in mare ormeggiavano sommergibili atomici con armamenti nucleari, estratti dai sensi di colpa dei tedeschi

Rimaneva l’altra accusa di Netaniahu. Quella indimostrata e indimostrabile, per assenza di oggetto, di un Iran sponsor del terrorismo internazionale, fedelmente rispapagallata dai media con l’osso in bocca sotto al tavolo. Che vale quella a Saddam di albergare armi di distruzione di massa e di avere partecipato agli attentati dell’11 settembre, o l’altra ai russi di eliminare oppositori col veleno, o di aver invaso l’Ucraina. Il metodo del bue che dà del cornuto all’asino è, almeno da Pearl Harbor, pratica corrente del terrorismo di Stato. Che, nella sua stanca e grossolana ripetitività, risulterebbe ridicola, non fosse per gli schiamazzi ottundenti dei gazzettieri.

Terrorismo, mandanti e sicari MEK



Ho girato buona parte dell’Iran verso la fine del secondo mandato di Mahmud Ahmadinejad (2009-2013). Il suo Iran era cosa del tutto diversa da quello del prima e del dopo. A dispetto delle sanzioni, un paese in piedi, determinato, ospitale, tollerante, fiero nella resistenza. E soprattutto socialmente equo.

Non c’è città o borgo, da Tehran a Shiraz, da Isfahan e Persepoli e Mashhad, che non sia stato ferito nella vita e nei beni dal terrorismo sponsorizzato da Israele e Usa ed eseguito dai sicari dei Mujaheddin del Popolo (Mek). Abbiamo incontrato decine di famiglie a cui da attentati terroristici erano stati sottratti inermi e innocenti amici o parenti. Il MEK è una setta di fuorusciti che si dicono marxisti-islamisti, coltivata e armata da Washington, prima rifugiata in Iraq e da lì cacciata, poi a Parigi, tutelata da Sarkozy e, infine, dotata dai protettori statunitensi di una base in Albania. Da quel paese, confortevole ambiente per ogni tipo di criminalità, opera nell’ìmpunità. Di solito il loro era un terrorismo stragista che colpiva a casaccio, per seminare terrore e sfiducia. Gli assassinii mirati, più difficili e complessi, venivano con ogni probabilità eseguiti da coloro che li avevano massicciamente praticati contro palestinesi.

 Il generale e lo scienziato: la difesa e lo sviluppo

 



 
Mohsen Fakhrizadeh e Kassem Soleimani

Fakhrizadeh non è l ‘ultimo degli scienziati del cui assassinio si vanta a bassa voce il Mossad e che, in ogni caso, va fatto risalire a Israele e USA, sia che sia stato compiuto da propri agenti, o da sicari del MEK. Una provocazione sanguinosa del gangsterismo israeloamericano a spese di un personaggio di altissimo profilo, impegnato nello sviluppo di un paese isolato e sotto micidiali sanzioni. Segue quella contro il generale, Qassem Soleimani, assassinato da un drone statunitense a Baghdad. Qui si trattava di impedire che al governo di Tehran arrivasse un altro Ahmadinejad, come l’aria che tirava in Iran lasciava presagire, e di punire chi aveva sconfitto i mercenari dell’ISIS.

Prima del capo degli scienziati iraniani, erano stati uccisi in attentati, perlopiù con la tecnica delle raffiche da motocicletta, altre eccellenze della ricerca, come Masud Alimohammadi, Majid Shahariari, Darius Rezaeinejad, Mostafa Roshan.

In nessuno di questi casi, si trattava di colpire un programma che puntasse all’armamento atomico. L’obiettivo era piuttosto di colpire la vena giugulare dello sviluppo scientifico, tecnologico ed economico di un giovane, grande e militarmente forte paese, elemento centrale di un’intesa antimperialista mondiale, forte alleato di Cina e Russia, ostacolo alla globalizzazione neoliberista, all’accerchiamento della Russia e alla creazione del Nuovo Medioriente made in Israele, Turchia, Nato e USA.

L’obiettivo ultimo e come arrivarci: soft o hard? Cuba o Siria?

Cosa ci si ripromette da un’operazione terroristica così clamorosa? Di caricare sulle spalle di un presidente in uscita l’ottava di quelle guerre per la quale alla cosca di Bush e Obama non ci sono stati né il tempo, né l’occasione, né il favore degli alleati europei e dell’opinione pubblica statunitense e internazionale, dopo le sette condotte da loro e ultimamente addirittura affidate a terzi. Iniziare un’altra guerra? Meglio farla lanciare a Trump. Che se la veda lui con i pacifisti. Questo è sicuramente l’intento di Israele che, da sempre, persegue lo scontro diretto e conta, anche con i suoi delegati nell’establishment statunitense (intelligence, apparato militar-industriale), oggi in grande spolvero, di arrivarci sfruttando la transizione a Washington.



Biden, un autentico disabile mentale, non conta niente. Però dietro ha il partito democratico con le sue variegate componenti. Quella obamiana, quella dell’accordo nucleare del 2015, con cui Washington ottenne da Rouhani una specie di resa economico-industriale. In cambio, l’Iran sarebbe stato liberato delle sanzioni. Sanzioni feroci, arrivate addirittura a impedirgli di acquistare medicinali per i suoi malati oncologici. Obama aveva traccheggiato sulla guerra, ritenendo che sarebbe stata più efficace e meno costosa la tecnica, già collaudata con successo a Cuba, ma poi bloccata. L’approccio soft dell’infiltrazione, dell’addomesticamento, dell’illusione della convivenza, magari, nel caso di Cuba, agevolata dai flirt col papa. Con gli strumenti della manipolazione propagandistica e della promessa economica, che avrebbero favorito il consenso sociale e, dunque, l’indebolimento della resistenza.

A provocazione risposta, a risposta guerra?

Ali Khamenei al funerale


L’assassinio del padre dello sviluppo scientifico ed industriale iraniano parrebbe indicare che quelli che puntano allo scontro, che non pensano di aver tempo da perdere, stanno arrivando alla prova di forza. L’Iran è, più dell’ondivaga Russia, il vero contrappeso al Nuovo Medioriente a guida israelo-saudita, armata dagli USA. La sua è un’influenza, oltrechè politica, ideologica e morale e, dunque, di lungo e profondo periodo. Tornare alla diplomazia, ai trattati, all’apparente compromesso, potrebbe significare perdere il momento buono e, anche, fare, con gente come gli iraniani, un buco nell’acqua.

Chi non se lo può permettere è Netaniahu. Un Iran in fiamme svierebbe l’attenzione dai suoi processi e, forse, sventerebbe le condanne e l’uscita dal proscenio politico. Quello che gli occorrerebbe, per far funzionare la trappola, è una risposta iraniana di almeno pari impatto. Ali Khamenei, la vecchia guida suprema che, insieme alle Guardie della Rivoluzione, rappresenta la parte più viva del popolo iraniano, ha detto: “Calma. A tempo debito”.

giovedì 26 novembre 2020

La transizione: Maradona, Totti, Proietti non giocano più; Biden e Bill Gates ci giocano ancora ---- LA MESSA E’ FINITA, ANDATE IN PACE ---- Chi è il Leviatano vero a Washington Il


 Il nostro cielo al tempo di Biden

La pubblicazione del racconto sulle novità USA, è stata preceduta da uno degli eventi più altamente simbolici di questo nostro epilogo “triste, solitario y final”.

Maradona e amici

Mai vi sono stati segni così evidenti e drammatico/tragici di un mutamento d’epoca, se non di evi. Vediamo Maradona, Totti, Proietti, più o meno nello stesso tempo, morire e allontanarsi in un passato che si dissolve con loro. Un po’ come, nell’iconografia di Pinocchio, Geppetto, sul suo guscio di barca, che viene inghiottito dall’orizzonte, per poi essere divorato dal mostro. I tre grandi, campioni di uno Zeitgeist, spirito del tempo, che ci ha accompagnato per secoli, dai tempi della classicità, con un balzo al di là dei secoli oscuri, fino alla modernità razionale, libera, del corpo e dello spirito, fusi in un’unica, naturale condizione umana.


Il calcio lo stanno uccidendo come tante altre cose per le quali lo spirito è inscindibile dal corpo e costituisce l’umano. Difatti si dice benessere, malessere, psicofisico. L’hanno ucciso, prima, con un mercenariato senza fede, fedeltà, bandiera, comunione con il relativo popolo; poi, con stadi senza tifosi. Nel primo caso, corpi senza spirito, nel secondo, figuranti sul terreno, niente corpi e niente spirito sugli spalti. La barbarie. E’ l’intento umanicida è evidenziato dai luoghi svuotati, senza ragione, di corpi e di spirito. Ospiti della vita diventati ospiti della negazione della vita. Perché nessun pericolo di nessun virus potrà mai giustificare la negazione dei - pur assurdi - contingentamenti: stadi da cinquantamila spettatori, mortiferamente colmi di macchie cibernetiche per fingere spettatori, musei, cinema, biblioteche, teatri, concerti, dove l’idiota e perfido distanziamento sociale mascherinizzato potrebbe andare ben oltre i due e più metri. Perfido perché è barbarie contro cultura, socialità, benessere, appunto, psicofisico. Barbarie voluta e pianificata.

Del resto, cancellandoci il volto, facendo circolare manichini incomunicanti, la fusione tra corpo e mente, qualcuno la chiamerebbe l’anima, è compiuta. E’, sia negli spazi della partecipazione collettiva, sia nei rapporti da volto a volto, è annientata la polis, la politica. Barbarie.

  

 

Se separi il soma dalla psiche li acchiappi uno per uno

E’ la scomparsa di un uomo, completo di forza e debolezza, rivolta dell’intelligenza e cedimento della volontà, corpo e psiche, tra campo di calcio su cui intesseva arabeschi incancellabili, riscatto dei Sud del mondo, con gli unici tatuaggi del Che e di Fidel sul corpo, in testa al corteo che a Buenos Aires, con Hugo Chavez, vedeva l’America Latina sconfiggere l’impero necroforo e imbecille di Bush. E’ la scomparsa del per sempre “capitano”, uomo della civitas per eccellenza, con il suo unico naviglio e sotto la stessa bandiera giallorossa, che ha militato nel suo popolo, con il suo popolo, per il suo popolo, nella fusione di cuore e di propositi, fedele fino all’alba tragica dell’era del mercenariato, simbolo della fedeltà che ignora la convenienza. Infine, è la scomparsa di un creativo e creatore, dall’intelligenza, dall’intuito e dall’istinto che si trasformano in corpo, e viceversa, dalla memoria storica di arti che esprimevano tutta la infinita varietà della comunicazione umana (oggi negate da una fetida mascherina), dalla risata al sorriso, dal ghigno all’indignazione, dal sussurro all’urlo, dal movimento alla fissità, dall’ umano troppo umano al surreale.

Ci restano questi e tanti altri murales. E’ una bella resistenza. Di muri di un’edilizia orrendamente antiumana fanno arte, di popolo e nel popolo, dunque sociale, dunque politica, dunque umana. Per me, oggi la migliore delle arti figurative.

Personalmente avrei voluto marciare con loro verso quella libertà/verità che il nostro migliore passato, costruito dai migliori degli umani, ci aveva tramandato e che psicopatici criminali si stanno impegnando alla morte (nostra) di cancellare. Ma forse è più giusto restare, affrontare gli “omini di burro” che ci trascinano all’asinato del “paese dei balocchi” (sempre Pinocchio) ed essere testimoni. Oggi “stiamo come d’autunno sugli alberi le foglie”. Ma una primavera non è mai mancata. Purchè rimangano le radici.

Il cuore nero della notte americana

Per evitare una guerra civile con coronamento di quel golpe militare-CIA che i suoi avversari avevano già preannunciato per bocca di Killary e Pelosi, Donald Trump sembra, al momento, rassegnato a soprassedere sull’immane chiavica che sono state le elezioni USA.

E dunque, eccolo, oggi un po’ scalcagnato e col cervello in acqua (a quello ci pensa lo sbirro Kamala Harris), ma pur sempre un eroe del tempo di cui si parlava prima. E di quello di Obama. Il cavaliere e lo stalliere dell’Apocalisse. E dell’Apocalisse, ci perdoni San Giovanni, i quattro cavaileri escono  da una stalla intitolata Council of Foreign Relations (CFR), Consiglio per le Relazioni Esterne. Un cancro di cui la metastasi si estende sul mondo dal 1921. Uomini di Wall Street aprirono la stalla e la popolarono di destrieri da combattimento. Si trattava di  reagire al disastro di un presidente, Warren Harding, e del Senato che, dopo la prima guerra mondiale, erano diventati isolazionisti e avevano rinunciato a dominare e predare il pianeta. Da allora, Council of Foreign Relations significa guerre senza soluzione di continuità e leadership mondiale a tutti i costi. Donald Trump, con i suoi propositi antiguerra e isolazionisti, per quanto solo debolmente realizzati, stava molto antipatico al CFR, tanto che lo scatenamento dell’impeachment per via del Russiagate fu voluto e condotto dai membri di questo think tank in cui è incistata la parte rettiliana del cervello americano.

L’anomalia è finita. Si torna all’antropofagia.

Hillary Clinton, beniamina del CFR

Oggi sono, o stanno diventando, membri del governo Biden nelle cariche determinanti quasi esclusivamente pezzi grossi del CFR e falchi al 100% del dominio USA sul mondo, quasi tutti già in servizio con Obama e Clinton: Blinken (Segreteria di Stato), Mayorkas (cubano viscerale anti-cubano), Yellen (Tesoro, già capa della Federal Reserve e feroce paladina della dittatura del dollaro), (Flourney, virago bellicista, Difesa), John Kerry (Clima), Cunningham (Commercio), Donilon (CIA) Thomas-Greenfield (ambasciatrice all’ONU). Delle donne, equamente scelte col principio delle quote, sono in linea con quelle che le hanno precedute e con le loro opere al servizio di pace e benessere globali.

Il prezioso retaggio



Tutte queste persone scaturiscono dal CFR, a dimostrazione dell’enorme potenza che questo grumo di cinismo e violenza esercita sulla politica estera di Washington. Ognuna di esse è stata partecipe del bellicismo e del terrorismo di Clinton, Bush, Obama e lo rivendica. Nel loro asse ereditario ci sono gli attentati dell’11/9 con tremila compatrioti uccisi, l’uso dei droni per eseguire gli assassinii mirati di persone “sospettate” dall’intelligence e la cui esecuzione extragiudiziale veniva firmata ogni venerdì da Obama. Poi Guantanamo, il rapporto CIA sulla tortura di migliaia di “sospetti”, una sanguinosa rivoluzione colorata contro regimi disobbedienti, l’accelerazione di spionaggio capillare e sorveglianza universale, lo scandalo NSA, la persecuzione di un giornalista bravo e onesto, Julian Assange e dei patrioti democratici Edward Snowden e Chelsea Manning, la creazione di intere armate di tagliagole mercenarie per condurre guerre di sterminio, l’assoluta connivenza e complicità nei delitti di Israele, il traffico mondiale di droga a beneficio delle banche statunitensi e dei loro paradisi fiscali, fatta passate per “guerra alla droga”. E tutto questo non è che un frammento di una criminalità organizzata quale non si era mai vista nella Storia.

Salvatrici del mondo

E, tra parentesi, vuoi che gli strilloni italiani della stampa omologa non dia fuori di matto a sentire un parlamentare, presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, definire impresentabili coloro che si candidano o fanno candidare manigoldi accusati di mafia?


Quando il loro genere fu definito quello delle “salvatrici del mondo”, balzano alla memoria madri della pace e delle rivoluzioni colorate come Hillary Clinton, Madeleine Albright, Condoleezza Rice, Susan Rice, Samantha Power, Victoria Nuland. Sono centinaia di milioni al mondo che se le ricordano con affetto, di tra le macerie e i cimiteri. Le eredi scelte da Biden (vale a dire dal CFR) non ne tradiranno il retaggio. Coerentemente con la sua passione per Killary, “il manifesto” le festeggia: “Riporteranno l’America a capotavola”. L’House Organ dell’Associazione a Delinquere che rientra alla Casa Bianca avrà i suoi buoni motivi.

Illuminato da luce riflessa

Quella che vedete apparire all’alba del “ritorno alla normalità” (la normalità che i signori del Covid hanno deciso di negarci per sempre è un’altra) sono i vichiani corsi e ricorsi di coloro che hanno contribuito a diffondere libertà e benessere in Afghanistan, Libia, Iran, Iraq, Pakistan, Somalia, Ucraina, Siria, Yemen. Senza contare i necrofori modelli socioeconomici dei Chicago Boys e di Milton Friedman, caro al CFR, che hanno insegnato ai governi del mondo, specie nel Sud, anche d’Europa,  come rallegrare i loro popoli a forza di riduzione delle diseguaglianze e della frugalità per tutti.

 

 CFR e suoi media

E sono i ricorsi anche di come la presidenza Obama-Biden ha promosso il rispetto per la sovranità e l’autodeterminazione dei popoli in Guatemala, Salvador, Colombia, Argentina, Bolivia, Ecuador, Honduras, Venezuela, che fosse merito della Nato, della Cia, della NED, della Fondazione Soros, Ford, Rockefeller, tutti intimi del Council of Foreign Relations.

Ed è da questo operativo globale che riparte, dopo la deviazione dell’”America First”, prima l’America, detestabile quanto “prima gli italiani”, o “prima i palestinesi”, il “destino manifesto di un’eccezionalità americana chiamata a guidare il mondo” (Clinton, Bush, Obama Biden dixerunt). Orwell era un dilettante quanto a neolingue. Guardate come, per quattro anni, con un aggettivo qualificativo assai creativo, hanno pavimentato a Trump la strada per l’inferno.

Il dissenso è russo, il pacifismo è russo, rivelare crimini di guerra è russo, disturbare i democratici è russo, Julian Assange è russo, Tulsi Gabbard (unica politica davvero contro negli USA) è russa, il complottismo è russo, i media alternativi sono russi, opporsi agli spostamenti di popolazioni è russo, dire verità sconvenienti è russo e Donald Trump, ovviamente, è un infiltrato russo, come lo sono tutti i 70 milioni di “deplorables” che lo hanno votato. Pensando che fosse giusto occuparsi dei lavoratori statunitensi, piuttosto che inventarsi nuove guerre e guidare il mondo, erano tutti russi.

Beh, se tutto questo è russo, chiamatemi Vladimir. Russo, anche più di Putin.

La Créme de la Créme

Ed eccoli in effigie, anno 2012. Manca il nuovo raccolto, riuscito benissimo. Tutti CFR, tutti per Biden/Harris. Ricordiamoci delle loro imprese. Oggi sono tutti col Digital-Pharma per il Nuovo Ordine Mondiale. Li ritroverete tutti a gennaio a Davos, nel Forum Economico Mondiale, insieme a qualche miliardario parvenue e una serie di sguatteri del nostro mondo politico. Se non siete Lilli Gruber, o Mario Monti, o Stefano Feltri, il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, o il discepolo del fascistone Padre Pio, non li ritroverete nel Bilderberg, perché reti elettrificate, truppe d’assalto, carri armati e cecchini vi sbarreranno la strada.



 

 

 

 

 

 

martedì 24 novembre 2020

Inversioni: da Togliatti, attraverso il ’68, Berlinguer, Bertinotti, fino al “manifesto” e alla “sinistra” di complemento ----- VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

 Inversioni: da Togliatti, attraverso il ’68, Berlinguer, Bertinotti, fino al “manifesto” e alla “sinistra” di complemento


VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE


https://www.youtube.com/watch?v=0w2NjpxxQAU

“Il modo più sicuro per corrompere un giovane è istruirlo a stimare di più coloro che la pensano alla stessa maniera, piuttosto che quelli che la pensano diversamente” (Friedrich Nietzsche)

Un gran numero di coloro che si adoperano per cause di sinistra sono non soltanto vili, ma al limite della collusione. Vorrebbero che i cambiamenti fossero gentili, ma non lo sono. Vorrebbero che la decenza si avverasse senza che nessuno debba soffrire, o subire guai, ma non succede. E, soprattutto, vorrebbero dare ai nemici del buon governo il beneficio del dubbio, ma io non glielo do. Non è solo una differenza di approccio, è una totale spaccatura tra le relative filosofie. Non puoi rivelare verità, nella speranza che questa non turbi la cena di qualcuno” (Julian Assange)

Chiedo subito scusa al grandissimo Celine per aver assegnato a una modesta didascalia il titolo di uno dei suoi capolavori.

In questa intervista fattami dagli amici del validissimo sito “comedonchisciotte”, ripercorro, a volo d’uccello cattivo, oltre mezzo secolo di itinerario della Sinistra. Di quella PCI, del ‘68, riformista, rientrata, OGM e finta che fosse. Credo che la fenomenologia antropologica, morale, teorica e pratica di una Sinistra, sempre più tra virgolette, possa contribuire a spiegarci cosa sia successo man mano che la Storia procedeva e la Sinistra ci riprovava, o arretrava, dalla svolta di Salerno di Togliatti, con il piombo di Yalta sulle spalle, passando per la lotta partigiana, la “lunga marcia attraverso le istituzioni”, l’antagonismo del decennio ’68-’77, le sue intuizioni e innovazioni teorico-pratiche del marxismo, alla feroce repressione dello Stato delle stragi e successivi ripiegamenti e tradimenti, fino a una cosa che si chiama sinistra, o centrosinistra, ed è di estrema destra.

Il “manifesto”, che si intitola “quotidiano comunista” e che nasce per sostenere il rivoluzionario Mao contro l’ossificato despota Stalin, ed è in effetti l’house-organ del più retrivo e feroce apparato di potere globale e delle sue strategie di mistificazione, è per me l’epitome di questo processo degenerativo.

Le forze che ontologicamente dovrebbero rappresentare gli interessi e la volontà delle maggioranze deprivate, nello scontro con le élites predatrici e sociopatiche, oggi impegnate in una definitiva vittoria sull’umanità in quanto tale, registra una sconfitta storica. Nel momento della massima e, forse, ultimativa offensiva dei padroni, oggi riqualificati signori del Nuovo Ordine Mondiale, una resistenza o, meglio, la controffensiva della forze che si sottraggono al pensiero unico, sarebbe di un’urgenza vitale. Ma da quella che si definisce ancora con il termine “sinistra” non ci vengono segnali, né di azione, né di coscienza, tanto da far diventare quel termine sinonimo di subalternità, consociativismo, complicità.

Tra quelli che si prenderanno la briga e il tempo di guardare questa chiacchierata vi saranno sicuramente parecchi la cui ostinata incomprensione dei mutamenti occorsi, dei tempi e loro contenuti travisati, degli opportunismi praticati, li riempirà di indignazione e risentimento per le valutazioni fatte. Da altri spero venga una reazione positiva, di confronto, di riesame delle convinzioni, magari di condivisione.

Qui non si tratta di un saggio storico e teorico sui perché e sui protagonisti dell’inversione a U di coloro che pretendevano di guidare nella marcia di emancipazione delle masse. Potendo dire “io c’ero”, data una lunga vita e una varia, ma continua, partecipazione professionale e politica, questa intervista non offre che ricordi, spunti e conclusioni personali, impressionistici.

Per riappropriarci di una visione chiara di quanto è e di quanto occorre nella congiuntura, credo che bisogna rifarsi alle nostre radici, a quelle lontane. A quelle cha scindono nettamente il nostro pensiero, i nostri sentimenti, i nostri propositi e obiettivi, da quelli del dominatore. E, prima ancora, da quelli dei mistificatori travestiti, i pifferai del millenario inganno che vuole trascinarci alla sconfitta e alla morte sotto i vessilli dell’umanitarismo, della compassione, della promessa della salute, una volta spirituale, un’altra fisica, e della vita, a condizione che ci adeguiamo.

Invio questo video dell’intervista fattami dal sito comedonchisciotte, dopo il pandemonio successo con il precedente invio di un mio post sul blog che ha causato un malfunzionamento e il conseguente fastidio di una caterva di risposte a molti che siete nella mia lista di posta. Con l’aiuto del mio webmaster e di alcuni amici, sembra che l’intoppo sia stato superato. Sempre che non si sia trattato di un malevolo intervento esterno.
Se la cosa dovesse ripetersi, con di nuovo risposte che intasino la vostra posta, per favore informatemi. Intanto, di quanto è successo mio malgrado, vi chiedo scusa.
Fulvio
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E questo è il testo di Giuseppe Russo, “comedonchisciotte”, di accompagnamento all’intervista.

“C’è bisogno di parole nuove per definire ciò che siamo”. Intervista a Fulvio Grimaldi


📷Dopo l’ultima intervista a Fulvio Grimaldi che tanto interesse aveva suscitato nel nostro pubblico, abbiamo avuto il piacere di ospitarlo nuovamente sugli schermi del dissenso: questa volta, approfondendo uno spunto emerso nell’incontro precedente, abbiamo parlato della storia della sinistra italiana attraverso una lunga cavalcata a briglia sciolta nel Novecento, nelle sue suggestioni e nei suoi fantasmi.
A proposito di quel “Sessantotto lungo una vita” (dal titolo di una delle sue opere), Fulvio Grimaldi non ci sta a buttare il bambino con l’acqua sporca; da protagonista di quell’esperienza come militante di Lotta Continua, parla di “fratture” che sono riuscite “a sporcare una grande esperienza di popolo” e del ruolo giocato da tanti ambigui personaggi che hanno agito da opportunisti o da cavalli di Troia. Interessante la rievocazione di un episodio in particolare: la scoperta che la tipografia che dava alle stampe il quotidiano Lotta Continua (di cui Fulvio è stato direttore) era di proprietà di tale Robert Cunningham Junior, figlio di un agente Cia di stanza a Roma e legato, a sua volta, al servizio segreto a stelle e strisce.
Passando in rassegna la storia del PCI, Fulvio risale quindi alle origini di quel “tradimento” che si manifesterà attraverso gli “strappi” di Enrico Berlinguer e poi, più compiutamente, con la Bolognina di Occhetto: “la svolta di Salerno” con la quale Togliatti, nell’aprile del ’44, recependo le direttive di Stalin abbandona i propositi rivoluzionari e la pregiudiziale antimonarchica ed entra nel secondo governo Badoglio in qualità di vicepresidente del consiglio. Impietoso è dunque il giudizio sulla strategia della “lunga marcia nelle istituzioni” : “le lunghe marce finiscono nel deserto”. Dopo aver quindi demolito il mito di Enrico Berlinguer, ce n’è anche per Fausto Bertinotti, inchiodato alle sue responsabilità di curatore fallimentare di ciò che restava del movimento e della sensibilità comunista in Italia. Tutte queste vicende hanno rappresentato un trauma, una lacerazione profonda nella coscienza di quello che è stato “il popolo della sinistra”, e da tali esperienze ci si risolleva solo dopo aver accumulato nuove energie e nuova rabbia. Nel XXI secolo il sol dell’avvenire non è dunque tramontato, ma ha cambiato traiettoria: è in America Latina che bisogna guardare per esserne ancora abbagliati. Lo faremo. A risentirci sugli schermi del dissenso.

sabato 21 novembre 2020

L’imperialismo mette in campo i suoi “followers” ----- ARMENIA, GENOCIDIO STAVOLTA STRISCIANTE ----- VINCONO USA, ISRAELE, TURCHIA. RUSSIA COL BRACCIO LEGATO ALLA SCHIENA

 


I media: Covid e basta

L’infima qualità professionale, culturale, linguistica e l’altissima arretratezza provinciale e inclinazione coloniale della nostra informazione di massa, ci ha tenuto inchiodati alla - e sodomizzati dalla - propaganda vernacolare su un virus che, in altri tempi, moriva  inosservato nel fazzoletto che rimediava a un raffreddore. In compenso l’esplosione del Caucaso e dell’Africa orientale, con le sue enormi implicazioni geopolitiche, dai nostri vernacolari è stata rinserrata in trafiletti e negli ultimi istanti di telegiornali e talkshow. Questi, a loro volta, occupati per quattro quinti dalla caterva di casi e morti da virus, scoperti al 90% dove non c’erano.



Nagorno e Etiopia,  Paralipomeni della Batracomiomachia

Qualcuno mi darebbe del megalomane narcisista per come considero i miei colleghi di categoria. Ma quando uno, anche uno qualsiasi, un cronista di strada come me, che ci azzecca e anche no, è costretto a confrontarsi con Illustri riproduttori di veline, incolti, faziosi fantocci di ventriloqui di massa, finisce davvero col sentirsi quello con gli occhiali nel film del grande Carpenter: “Essi vivono”.

La fase è simile a quella in cui, in Siria e poi in Iraq, dilagarono i mercenari jihadisti rastrellati, addestrati, pagati, armati, curati e lanciati da padrini e sottopadrini (USA, NATO, Israele,Turchia), con gli annessi abomini delle esecuzioni, decapitazioni, annegamenti, roghi, torture, crocifissioni, scuoiamenti, stupri, istigati dai padrini per portare la popolazione civile al terrore e alla resa. Non funzionò, anche per il rigetto di un’opinione pubblica mondiale, oltrechè per l’intervento russo-iraniano-Hezbollah e la resistenza delle due nazioni. I media, però, hanno imparato. Degli orrori oggi perpetrati dai jihadisti importati da Erdogan sugli armeni, cristiani, nei loro territori, non si deve parlare. Si getterebbero ombre nere su un’operazione tutta svolta nel segno dell’assedio imperialista alla Russia.

Eredità dell’URSS, bottino imperialista

Partiamo con l’Artsakh, e proseguiamo, nella prossima puntata, con la guerra etiopica nel Corno d’Africa, di rilevanza strategica perfino maggiore. Artsakh sarebbe il nome armeno vero, non colonialista, del Nagorno-Karabakh. Dopo sei settimane di assalto turco-azero-jihadista, con tanto di armamenti sofisticati israeliani, quali droni lanciamissili, l’armistizio lascia un Artsakh, arreso, sconfitto, occupato per oltre metà da azeri e turchi, predato e devastato dai terroristi Isis e Al Qaida. Alle sue spalle, un’Armenia umiliata, con il suo presidente, fellone “colorato”, Nikol Pashynian, contestato da un popolo inferocito, e la Russia, mediatrice del cessate il fuoco, che si barcamena per salvare il poco salvabile.

Le due entità statali, armena e azera, nate nel 1992 dal dissolvimento dell’URSS, una cristiana e l’altra musulmana, variano da allora tra il guardarsi in cagnesco e il combattersi sul campo. L’innesco è dato dal fatto che tra l’Armenia, filorussa  e priva di risorse, e il vicino filo-USA era rimasta una regione, il Nagorno Karabakh, quasi totalmente armena, proclamatasi indipendente intesa a preservare la propria identità, ma incorporata dal petrolifero Azerbaijan. Diversamente da quanto successo al Kosovo, nessun governo, purtroppo neppure Mosca, riconobbe il nuovo Stato. L’inarrestabile Erdogan, sempre più manifestamente ferro di lancia dell’Occidente atlantico-israeliano, al di là dei generosi e via via più affannosi tentativi russi di trattenerlo su una linea almeno mediana, è ancora una volta il protagonista degli avvenimenti. I nostri astuti media si limitano a descriverlo come variante musulmano-ottomana incontrollabile, una mina vagante nell’Alleanza Atlantica. Ma se lo è, lo è in seconda battuta.

Il “sultano”, espansionista di suo, o anche altro?



In prima, ha mano libera su obiettivi che l’imperialismo USA non vuole assumere in prima persona e che, al di là delle vetrine diplomatiche, dal giorno dell’abbattimento del Sukhoi-24 nel 2015, vanno a detrimento di Mosca. Ricolonizzazione della Libia, mantenimento del fornello acceso sotto i piatti siriano e iracheno, penetrazione in Africa accanto agli Stati Uniti in funzione anticinese e russa, risorse energetiche del Mediterraneo sottratte agli europei e, ora, destabilizzazione del Caucaso. Per ora quello turcofono (che, però, supera, deserti e l’Himalaja e arriva in Xinjang), anello della catena Nato che circonda la Russia, parallelo a quello occidentale lungo Balcani, Ucraina, paesi baltici e suscettibile di contagio nei paesi islamici ex-sovietici (Kirghizistan).

Nikol Pashinyan, premier armeno per conto USA

La guerra nel Caucaso è stata fermata, ma anche persa, dalla Russia, oltrechè dalla nazione amica armena, esposta all’ennesimo genocidio per mano turca. Il trauma del genocidio nel 1915 non abbandona gli armeni e non è che ne rafforza lo spirito, specie se si ritrovano un capo che fa il gioco dei loro nemici e colpisce alle spalle le loro forza armate. Putin, vista la situazione, non se l’è sentita di impegnarsi in difesa del paese con il rischio di un incontrollabile bagno di sangue e di beni e di una sconfitta che gli avrebbe fatto perdere la faccia.

Mosca tra incudine armeno e martello azero

Chi non ci ha rimesso la faccia, anzi, l’ha riguadagnata in Occidente, è il suo finto amico, quello cui ha concesso la forza missilistica più potente al mondo, i russi S-400, concessi ad Ankara, ma non agli alleati Damasco e Tehran! Conseguentemente, dai nostri media s’è zittito ogni rimbrotto ad Erdogan per i misfatti in casa, in Kurdistan, nel Medioriente insanguinato dai suoi jihadisti, nel Mediterraneo e in giro per mezzo mondo. E Pashinyan, il vendipatria incistato a Erevan dai soliti regime changers made in USA, se l’è voluta, con quei suoi 250mila effettivi a restare immobili a custodire i vecchi armamenti russi che nessuno aveva provveduto ad ammodernare. Putin non poteva certo imporglierli, anche perchè avrebbe urtato la sensibilità dell’azero Ilham Aliye, che toccava tenersi buono.

 

Putin - Pashinyan

Fin da subito Putin si era messo d’impegno a fermare il massacro del popolo amico e a mantenere qualche (illusoria?) equidistanza tra Baku ed Erevan. Le tregue da lui negoziate saltavano come tappi. Turchi e Azeri e, dietro, quelli grossi, non intendevano fermarsi prima di avergli sottratto quel puntello di enclave armeno e di aver ridotto in ginocchio il caposaldo armeno. E così si è perso metà Nagorno Karabakh, la sua seconda città Sushi, ad appena 6 km dalla capitale Stepanakert,

Un quisling a stelle e strisce

Mica tanto caposaldo, visto che in Armenia governava un patriota della forza di un Conte, un Mattarella, un Renzi, un Prodi. Nikol Pashinyan era arrivato al potere nel 2018, sollevatovi da un’onda colorata, con ONG e soldi dei soliti (Soros, NED, CIA) e dunque prodotto della classica operazione golpista USA del “regime change”. I suoi generali e il popolo che in questi giorni tumultua per cacciarlo, gli rimproverano, a ragione, di aver dato per perso l’Artsakh fin dal primo giorno, negando armi e uomini armeni alle forze dell’enclave assalite dal presidente azero Aliyev, da quello turco, dai mezzi tecnologici e dalle forze speciali d’Israele. Con un partner classica serpe in seno, cosa poteva fare di più Putin? Mandare proprie truppe in difesa del paese governato da un rinnegato al servizio del nemico? Quale incendio si sarebbe scatenato?


E’ riuscito, vellicando il pelo del presidente azero, a collocare circa 2000 Forze di pace russe a controllo del corridoio di Lachin e dei suoi trasporti e movimenti tra Nagorno Karabakh e Armenia, a condizione che i russi sarebbero stati gli unici terzi in zona. Quegli stessi peace-keepers che Pashinyan aveva rifiutato settimane prima, consentendo che si ammazzassero sotto bombe e missili fabbricati in NATO, migliaia di suoi concittadini!.Non sono passate che poche ore, e il ministro degli esteri turco replicava che, per la stessa destinazione, stavano partendo anche osservatori turchi. Il suo equipollente a Mosca, Lavrov, a sua volta: ”Assolutamente no, in nessun caso!” Come è andata a finire? Indovinato: i turchi sono sul posto.

Il cerchio si stringe

Che succederà ora? Senza dubbio alcuno, Erdogan e la dinastia azera degli Aliyev non si accontenteranno di metà Nagorno Karabakh con Shushi, seconda città del paese, le provincie di Agdam e quella mista di Kalbajar, che già si vanno spopolando di armeni sotto la spinta brutale di turchi e jihadisti. Presto o tardi, riprenderanno la marcia per prendersi il resto. Portando Nato e USA sempre più vicini a Mosca. Se non è una sconfitta questa, con una Turchia, tanto affannosamente corteggiata da Mosca, che rivela sempre più apertamente il suo ruolo di punta di diamante di Nato e Usa nella vastissima regione tra Libia, Somalia, Mediterraneo, Balcani, Medioriente ed Eurasia? In Armenia, la spia sorosiana Pashinyan è riuscita, finora, a contenere la rabbia popolare e si è addirittura liberato del capo dell’opposizione, generale Arthur Vanetsyan, dopo averlo già esonerato, l’anno scorso, dalla carica dei Servizi di Sicurezza.

E Putin? Si farà ancora tener buono dal gasdotto che ha costruito in Turchia e verso l’Europa, peraltro diventato un doppione secondario del TAP, dall’Azerbaijan al Salento, tutto sotto controllo degli USA e rispettivi vassalli. Si farà ancora menare per il naso da un premier golpista in Armenia cui Washington ha insegnato, come ai nostri di Roma, a governare contro il suo popolo e per gli interessi del di lui nemici?

Mosca tirerà finalmente un pugno sul tavolo che non necessariamente provocherebbe un armageddon mondiale, ma, anzi, servirà ad evitarlo, dando al massimo ostacolo all’imperialismo la credibilità che gli serve? Che serve alla pace?

Intanto in Siria….

Nella notte tra martedì e mercoledì Israele ha bombardato ancora Damasco, provocando vittime tra soldati e civili. Si copre con la foglia di fico, più fantasmatica che logora e, comunque, abusiva, degli “obiettivi iraniani e Hezbollah”. Mentre Mosca, in una specie di “stop and go”, ogni tanto fa la mossa di bombardare la provincia siriana di Idlib, che “l’amico” Erdogan e i mercenari suoi e degli USA non mollano per niente. Alza il dito in segno di disapprovazione quando Israele, impunito da tutti i lati, bombarda la Siria tre per due giorni alla settimana, riposando solo lo Shabatt.

Magari, in cambio, ottiene che la guerra all’Iran si faccia solo a parole e sanzioni? O che non succeda il finimondo all’installazione in Sudan di una base navale russa, concordata con il governo neo-filoisraeliano di Khartum, quello prodotto dalla solita “rivoluzione colorata”? Do ut des, piuttosto che pugni sul tavolo?