I media: Covid e basta
L’infima qualità professionale, culturale, linguistica e l’altissima arretratezza provinciale e inclinazione coloniale della nostra informazione di massa, ci ha tenuto inchiodati alla - e sodomizzati dalla - propaganda vernacolare su un virus che, in altri tempi, moriva inosservato nel fazzoletto che rimediava a un raffreddore. In compenso l’esplosione del Caucaso e dell’Africa orientale, con le sue enormi implicazioni geopolitiche, dai nostri vernacolari è stata rinserrata in trafiletti e negli ultimi istanti di telegiornali e talkshow. Questi, a loro volta, occupati per quattro quinti dalla caterva di casi e morti da virus, scoperti al 90% dove non c’erano.
Qualcuno mi darebbe del megalomane narcisista per come
considero i miei colleghi di categoria. Ma quando uno, anche uno qualsiasi, un
cronista di strada come me, che ci azzecca e anche no, è costretto a
confrontarsi con Illustri riproduttori di veline, incolti, faziosi fantocci di
ventriloqui di massa, finisce davvero col sentirsi quello con gli occhiali nel
film del grande Carpenter: “Essi vivono”.
La fase è simile a
quella in cui, in Siria e poi in Iraq, dilagarono i mercenari jihadisti
rastrellati, addestrati, pagati, armati, curati e lanciati da padrini e
sottopadrini (USA, NATO, Israele,Turchia), con gli annessi abomini delle
esecuzioni, decapitazioni, annegamenti, roghi, torture, crocifissioni,
scuoiamenti, stupri, istigati dai padrini per portare la popolazione civile al
terrore e alla resa. Non funzionò, anche per il rigetto di un’opinione pubblica
mondiale, oltrechè per l’intervento russo-iraniano-Hezbollah e la resistenza
delle due nazioni. I media, però, hanno imparato. Degli orrori oggi perpetrati
dai jihadisti importati da Erdogan sugli armeni, cristiani, nei loro territori,
non si deve parlare. Si getterebbero ombre nere su un’operazione tutta svolta
nel segno dell’assedio imperialista alla Russia.
Eredità dell’URSS, bottino imperialista
Partiamo con l’Artsakh, e proseguiamo, nella prossima
puntata, con la guerra etiopica nel Corno d’Africa, di rilevanza strategica
perfino maggiore. Artsakh sarebbe il nome armeno vero, non colonialista, del
Nagorno-Karabakh. Dopo sei settimane di assalto turco-azero-jihadista, con
tanto di armamenti sofisticati israeliani, quali droni lanciamissili, l’armistizio
lascia un Artsakh, arreso, sconfitto, occupato per oltre metà da azeri e
turchi, predato e devastato dai terroristi Isis e Al Qaida. Alle sue spalle,
un’Armenia umiliata, con il suo presidente, fellone “colorato”, Nikol Pashynian,
contestato da un popolo inferocito, e la Russia, mediatrice del cessate il
fuoco, che si barcamena per salvare il poco salvabile.
Le due entità statali, armena e azera, nate nel 1992 dal
dissolvimento dell’URSS, una cristiana e l’altra musulmana, variano da allora
tra il guardarsi in cagnesco e il combattersi sul campo. L’innesco è dato dal fatto
che tra l’Armenia, filorussa e priva di
risorse, e il vicino filo-USA era rimasta una regione, il Nagorno Karabakh,
quasi totalmente armena, proclamatasi indipendente intesa a preservare la
propria identità, ma incorporata dal petrolifero Azerbaijan. Diversamente da
quanto successo al Kosovo, nessun governo, purtroppo neppure Mosca, riconobbe
il nuovo Stato. L’inarrestabile Erdogan, sempre più manifestamente ferro di
lancia dell’Occidente atlantico-israeliano, al di là dei generosi e via via più
affannosi tentativi russi di trattenerlo su una linea almeno mediana, è ancora
una volta il protagonista degli avvenimenti. I nostri astuti media si limitano
a descriverlo come variante musulmano-ottomana incontrollabile, una mina
vagante nell’Alleanza Atlantica. Ma se lo è, lo è in seconda battuta.
Il “sultano”, espansionista di suo, o anche
altro?
In prima, ha mano libera su obiettivi che l’imperialismo
USA non vuole assumere in prima persona e che, al di là delle vetrine
diplomatiche, dal giorno dell’abbattimento del Sukhoi-24 nel 2015, vanno a
detrimento di Mosca. Ricolonizzazione della Libia, mantenimento del fornello
acceso sotto i piatti siriano e iracheno, penetrazione in Africa accanto agli
Stati Uniti in funzione anticinese e russa, risorse energetiche del
Mediterraneo sottratte agli europei e, ora, destabilizzazione del Caucaso. Per
ora quello turcofono (che, però, supera, deserti e l’Himalaja e arriva in
Xinjang), anello della catena Nato che circonda la Russia, parallelo a quello
occidentale lungo Balcani, Ucraina, paesi baltici e suscettibile di contagio
nei paesi islamici ex-sovietici (Kirghizistan).
La guerra nel Caucaso è stata fermata, ma anche persa,
dalla Russia, oltrechè dalla nazione amica armena, esposta all’ennesimo
genocidio per mano turca. Il trauma del genocidio nel 1915 non abbandona gli
armeni e non è che ne rafforza lo spirito, specie se si ritrovano un capo che
fa il gioco dei loro nemici e colpisce alle spalle le loro forza armate. Putin,
vista la situazione, non se l’è sentita di impegnarsi in difesa del paese con
il rischio di un incontrollabile bagno di sangue e di beni e di una sconfitta
che gli avrebbe fatto perdere la faccia.
Mosca tra incudine armeno e martello azero
Chi non ci ha rimesso la faccia, anzi, l’ha riguadagnata in
Occidente, è il suo finto amico, quello cui ha concesso la forza missilistica
più potente al mondo, i russi S-400, concessi ad Ankara, ma non agli alleati
Damasco e Tehran! Conseguentemente, dai nostri media s’è zittito ogni rimbrotto
ad Erdogan per i misfatti in casa, in Kurdistan, nel Medioriente insanguinato
dai suoi jihadisti, nel Mediterraneo e in giro per mezzo mondo. E Pashinyan, il
vendipatria incistato a Erevan dai soliti regime changers made in USA,
se l’è voluta, con quei suoi 250mila effettivi a restare immobili a custodire i
vecchi armamenti russi che nessuno aveva provveduto ad ammodernare. Putin non
poteva certo imporglierli, anche perchè avrebbe urtato la sensibilità dell’azero
Ilham Aliye, che toccava tenersi buono.
Fin da subito Putin si era messo d’impegno a fermare il
massacro del popolo amico e a mantenere qualche (illusoria?) equidistanza tra
Baku ed Erevan. Le tregue da lui negoziate saltavano come tappi. Turchi e Azeri
e, dietro, quelli grossi, non intendevano fermarsi prima di avergli sottratto
quel puntello di enclave armeno e di aver ridotto in ginocchio il caposaldo
armeno. E così si è perso metà Nagorno Karabakh, la sua seconda città Sushi, ad
appena 6 km dalla capitale Stepanakert,
Un quisling a stelle e strisce
Mica tanto caposaldo, visto che in Armenia governava un
patriota della forza di un Conte, un Mattarella, un Renzi, un Prodi. Nikol
Pashinyan era arrivato al potere nel 2018, sollevatovi da un’onda colorata, con
ONG e soldi dei soliti (Soros, NED, CIA) e dunque prodotto della classica
operazione golpista USA del “regime change”. I suoi generali e il popolo che in
questi giorni tumultua per cacciarlo, gli rimproverano, a ragione, di aver dato
per perso l’Artsakh fin dal primo giorno, negando armi e uomini armeni alle
forze dell’enclave assalite dal presidente azero Aliyev, da quello turco, dai
mezzi tecnologici e dalle forze speciali d’Israele. Con un partner classica
serpe in seno, cosa poteva fare di più Putin? Mandare proprie truppe in difesa
del paese governato da un rinnegato al servizio del nemico? Quale incendio si
sarebbe scatenato?
E’ riuscito, vellicando il pelo del presidente azero, a collocare circa 2000 Forze di pace russe a controllo del corridoio di Lachin e dei suoi trasporti e movimenti tra Nagorno Karabakh e Armenia, a condizione che i russi sarebbero stati gli unici terzi in zona. Quegli stessi peace-keepers che Pashinyan aveva rifiutato settimane prima, consentendo che si ammazzassero sotto bombe e missili fabbricati in NATO, migliaia di suoi concittadini!.Non sono passate che poche ore, e il ministro degli esteri turco replicava che, per la stessa destinazione, stavano partendo anche osservatori turchi. Il suo equipollente a Mosca, Lavrov, a sua volta: ”Assolutamente no, in nessun caso!” Come è andata a finire? Indovinato: i turchi sono sul posto.
Il cerchio si stringe
Che succederà ora? Senza dubbio alcuno, Erdogan e la
dinastia azera degli Aliyev non si accontenteranno di metà Nagorno Karabakh con
Shushi, seconda città del paese, le provincie di Agdam e quella mista di
Kalbajar, che già si vanno spopolando di armeni sotto la spinta brutale di
turchi e jihadisti. Presto o tardi, riprenderanno la marcia per prendersi il
resto. Portando Nato e USA sempre più vicini a Mosca. Se non è una sconfitta
questa, con una Turchia, tanto affannosamente corteggiata da Mosca, che rivela
sempre più apertamente il suo ruolo di punta di diamante di Nato e Usa nella
vastissima regione tra Libia, Somalia, Mediterraneo, Balcani, Medioriente ed
Eurasia? In Armenia, la spia sorosiana Pashinyan è riuscita, finora, a
contenere la rabbia popolare e si è addirittura liberato del capo dell’opposizione,
generale Arthur Vanetsyan, dopo averlo già esonerato, l’anno scorso, dalla
carica dei Servizi di Sicurezza.
E Putin? Si farà ancora tener buono dal gasdotto che ha
costruito in Turchia e verso l’Europa, peraltro diventato un doppione
secondario del TAP, dall’Azerbaijan al Salento, tutto sotto controllo degli USA
e rispettivi vassalli. Si farà ancora menare per il naso da un premier golpista
in Armenia cui Washington ha insegnato, come ai nostri di Roma, a governare
contro il suo popolo e per gli interessi del di lui nemici?
Mosca tirerà finalmente un pugno sul tavolo che non
necessariamente provocherebbe un armageddon mondiale, ma, anzi, servirà ad
evitarlo, dando al massimo ostacolo all’imperialismo la credibilità che gli
serve? Che serve alla pace?
Intanto in Siria….
Nella notte tra martedì e mercoledì Israele ha bombardato
ancora Damasco, provocando vittime tra soldati e civili. Si copre con la foglia
di fico, più fantasmatica che logora e, comunque, abusiva, degli “obiettivi
iraniani e Hezbollah”. Mentre Mosca, in una specie di “stop and go”,
ogni tanto fa la mossa di bombardare la provincia siriana di Idlib, che “l’amico”
Erdogan e i mercenari suoi e degli USA non mollano per niente. Alza il dito in
segno di disapprovazione quando Israele, impunito da tutti i lati, bombarda la
Siria tre per due giorni alla settimana, riposando solo lo Shabatt.
Magari, in cambio, ottiene che la guerra all’Iran si faccia
solo a parole e sanzioni? O che non succeda il finimondo all’installazione in
Sudan di una base navale russa, concordata con il governo neo-filoisraeliano di
Khartum, quello prodotto dalla solita “rivoluzione colorata”? Do ut des,
piuttosto che pugni sul tavolo?
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