sabato 21 novembre 2020

L’imperialismo mette in campo i suoi “followers” ----- ARMENIA, GENOCIDIO STAVOLTA STRISCIANTE ----- VINCONO USA, ISRAELE, TURCHIA. RUSSIA COL BRACCIO LEGATO ALLA SCHIENA

 


I media: Covid e basta

L’infima qualità professionale, culturale, linguistica e l’altissima arretratezza provinciale e inclinazione coloniale della nostra informazione di massa, ci ha tenuto inchiodati alla - e sodomizzati dalla - propaganda vernacolare su un virus che, in altri tempi, moriva  inosservato nel fazzoletto che rimediava a un raffreddore. In compenso l’esplosione del Caucaso e dell’Africa orientale, con le sue enormi implicazioni geopolitiche, dai nostri vernacolari è stata rinserrata in trafiletti e negli ultimi istanti di telegiornali e talkshow. Questi, a loro volta, occupati per quattro quinti dalla caterva di casi e morti da virus, scoperti al 90% dove non c’erano.



Nagorno e Etiopia,  Paralipomeni della Batracomiomachia

Qualcuno mi darebbe del megalomane narcisista per come considero i miei colleghi di categoria. Ma quando uno, anche uno qualsiasi, un cronista di strada come me, che ci azzecca e anche no, è costretto a confrontarsi con Illustri riproduttori di veline, incolti, faziosi fantocci di ventriloqui di massa, finisce davvero col sentirsi quello con gli occhiali nel film del grande Carpenter: “Essi vivono”.

La fase è simile a quella in cui, in Siria e poi in Iraq, dilagarono i mercenari jihadisti rastrellati, addestrati, pagati, armati, curati e lanciati da padrini e sottopadrini (USA, NATO, Israele,Turchia), con gli annessi abomini delle esecuzioni, decapitazioni, annegamenti, roghi, torture, crocifissioni, scuoiamenti, stupri, istigati dai padrini per portare la popolazione civile al terrore e alla resa. Non funzionò, anche per il rigetto di un’opinione pubblica mondiale, oltrechè per l’intervento russo-iraniano-Hezbollah e la resistenza delle due nazioni. I media, però, hanno imparato. Degli orrori oggi perpetrati dai jihadisti importati da Erdogan sugli armeni, cristiani, nei loro territori, non si deve parlare. Si getterebbero ombre nere su un’operazione tutta svolta nel segno dell’assedio imperialista alla Russia.

Eredità dell’URSS, bottino imperialista

Partiamo con l’Artsakh, e proseguiamo, nella prossima puntata, con la guerra etiopica nel Corno d’Africa, di rilevanza strategica perfino maggiore. Artsakh sarebbe il nome armeno vero, non colonialista, del Nagorno-Karabakh. Dopo sei settimane di assalto turco-azero-jihadista, con tanto di armamenti sofisticati israeliani, quali droni lanciamissili, l’armistizio lascia un Artsakh, arreso, sconfitto, occupato per oltre metà da azeri e turchi, predato e devastato dai terroristi Isis e Al Qaida. Alle sue spalle, un’Armenia umiliata, con il suo presidente, fellone “colorato”, Nikol Pashynian, contestato da un popolo inferocito, e la Russia, mediatrice del cessate il fuoco, che si barcamena per salvare il poco salvabile.

Le due entità statali, armena e azera, nate nel 1992 dal dissolvimento dell’URSS, una cristiana e l’altra musulmana, variano da allora tra il guardarsi in cagnesco e il combattersi sul campo. L’innesco è dato dal fatto che tra l’Armenia, filorussa  e priva di risorse, e il vicino filo-USA era rimasta una regione, il Nagorno Karabakh, quasi totalmente armena, proclamatasi indipendente intesa a preservare la propria identità, ma incorporata dal petrolifero Azerbaijan. Diversamente da quanto successo al Kosovo, nessun governo, purtroppo neppure Mosca, riconobbe il nuovo Stato. L’inarrestabile Erdogan, sempre più manifestamente ferro di lancia dell’Occidente atlantico-israeliano, al di là dei generosi e via via più affannosi tentativi russi di trattenerlo su una linea almeno mediana, è ancora una volta il protagonista degli avvenimenti. I nostri astuti media si limitano a descriverlo come variante musulmano-ottomana incontrollabile, una mina vagante nell’Alleanza Atlantica. Ma se lo è, lo è in seconda battuta.

Il “sultano”, espansionista di suo, o anche altro?



In prima, ha mano libera su obiettivi che l’imperialismo USA non vuole assumere in prima persona e che, al di là delle vetrine diplomatiche, dal giorno dell’abbattimento del Sukhoi-24 nel 2015, vanno a detrimento di Mosca. Ricolonizzazione della Libia, mantenimento del fornello acceso sotto i piatti siriano e iracheno, penetrazione in Africa accanto agli Stati Uniti in funzione anticinese e russa, risorse energetiche del Mediterraneo sottratte agli europei e, ora, destabilizzazione del Caucaso. Per ora quello turcofono (che, però, supera, deserti e l’Himalaja e arriva in Xinjang), anello della catena Nato che circonda la Russia, parallelo a quello occidentale lungo Balcani, Ucraina, paesi baltici e suscettibile di contagio nei paesi islamici ex-sovietici (Kirghizistan).

Nikol Pashinyan, premier armeno per conto USA

La guerra nel Caucaso è stata fermata, ma anche persa, dalla Russia, oltrechè dalla nazione amica armena, esposta all’ennesimo genocidio per mano turca. Il trauma del genocidio nel 1915 non abbandona gli armeni e non è che ne rafforza lo spirito, specie se si ritrovano un capo che fa il gioco dei loro nemici e colpisce alle spalle le loro forza armate. Putin, vista la situazione, non se l’è sentita di impegnarsi in difesa del paese con il rischio di un incontrollabile bagno di sangue e di beni e di una sconfitta che gli avrebbe fatto perdere la faccia.

Mosca tra incudine armeno e martello azero

Chi non ci ha rimesso la faccia, anzi, l’ha riguadagnata in Occidente, è il suo finto amico, quello cui ha concesso la forza missilistica più potente al mondo, i russi S-400, concessi ad Ankara, ma non agli alleati Damasco e Tehran! Conseguentemente, dai nostri media s’è zittito ogni rimbrotto ad Erdogan per i misfatti in casa, in Kurdistan, nel Medioriente insanguinato dai suoi jihadisti, nel Mediterraneo e in giro per mezzo mondo. E Pashinyan, il vendipatria incistato a Erevan dai soliti regime changers made in USA, se l’è voluta, con quei suoi 250mila effettivi a restare immobili a custodire i vecchi armamenti russi che nessuno aveva provveduto ad ammodernare. Putin non poteva certo imporglierli, anche perchè avrebbe urtato la sensibilità dell’azero Ilham Aliye, che toccava tenersi buono.

 

Putin - Pashinyan

Fin da subito Putin si era messo d’impegno a fermare il massacro del popolo amico e a mantenere qualche (illusoria?) equidistanza tra Baku ed Erevan. Le tregue da lui negoziate saltavano come tappi. Turchi e Azeri e, dietro, quelli grossi, non intendevano fermarsi prima di avergli sottratto quel puntello di enclave armeno e di aver ridotto in ginocchio il caposaldo armeno. E così si è perso metà Nagorno Karabakh, la sua seconda città Sushi, ad appena 6 km dalla capitale Stepanakert,

Un quisling a stelle e strisce

Mica tanto caposaldo, visto che in Armenia governava un patriota della forza di un Conte, un Mattarella, un Renzi, un Prodi. Nikol Pashinyan era arrivato al potere nel 2018, sollevatovi da un’onda colorata, con ONG e soldi dei soliti (Soros, NED, CIA) e dunque prodotto della classica operazione golpista USA del “regime change”. I suoi generali e il popolo che in questi giorni tumultua per cacciarlo, gli rimproverano, a ragione, di aver dato per perso l’Artsakh fin dal primo giorno, negando armi e uomini armeni alle forze dell’enclave assalite dal presidente azero Aliyev, da quello turco, dai mezzi tecnologici e dalle forze speciali d’Israele. Con un partner classica serpe in seno, cosa poteva fare di più Putin? Mandare proprie truppe in difesa del paese governato da un rinnegato al servizio del nemico? Quale incendio si sarebbe scatenato?


E’ riuscito, vellicando il pelo del presidente azero, a collocare circa 2000 Forze di pace russe a controllo del corridoio di Lachin e dei suoi trasporti e movimenti tra Nagorno Karabakh e Armenia, a condizione che i russi sarebbero stati gli unici terzi in zona. Quegli stessi peace-keepers che Pashinyan aveva rifiutato settimane prima, consentendo che si ammazzassero sotto bombe e missili fabbricati in NATO, migliaia di suoi concittadini!.Non sono passate che poche ore, e il ministro degli esteri turco replicava che, per la stessa destinazione, stavano partendo anche osservatori turchi. Il suo equipollente a Mosca, Lavrov, a sua volta: ”Assolutamente no, in nessun caso!” Come è andata a finire? Indovinato: i turchi sono sul posto.

Il cerchio si stringe

Che succederà ora? Senza dubbio alcuno, Erdogan e la dinastia azera degli Aliyev non si accontenteranno di metà Nagorno Karabakh con Shushi, seconda città del paese, le provincie di Agdam e quella mista di Kalbajar, che già si vanno spopolando di armeni sotto la spinta brutale di turchi e jihadisti. Presto o tardi, riprenderanno la marcia per prendersi il resto. Portando Nato e USA sempre più vicini a Mosca. Se non è una sconfitta questa, con una Turchia, tanto affannosamente corteggiata da Mosca, che rivela sempre più apertamente il suo ruolo di punta di diamante di Nato e Usa nella vastissima regione tra Libia, Somalia, Mediterraneo, Balcani, Medioriente ed Eurasia? In Armenia, la spia sorosiana Pashinyan è riuscita, finora, a contenere la rabbia popolare e si è addirittura liberato del capo dell’opposizione, generale Arthur Vanetsyan, dopo averlo già esonerato, l’anno scorso, dalla carica dei Servizi di Sicurezza.

E Putin? Si farà ancora tener buono dal gasdotto che ha costruito in Turchia e verso l’Europa, peraltro diventato un doppione secondario del TAP, dall’Azerbaijan al Salento, tutto sotto controllo degli USA e rispettivi vassalli. Si farà ancora menare per il naso da un premier golpista in Armenia cui Washington ha insegnato, come ai nostri di Roma, a governare contro il suo popolo e per gli interessi del di lui nemici?

Mosca tirerà finalmente un pugno sul tavolo che non necessariamente provocherebbe un armageddon mondiale, ma, anzi, servirà ad evitarlo, dando al massimo ostacolo all’imperialismo la credibilità che gli serve? Che serve alla pace?

Intanto in Siria….

Nella notte tra martedì e mercoledì Israele ha bombardato ancora Damasco, provocando vittime tra soldati e civili. Si copre con la foglia di fico, più fantasmatica che logora e, comunque, abusiva, degli “obiettivi iraniani e Hezbollah”. Mentre Mosca, in una specie di “stop and go”, ogni tanto fa la mossa di bombardare la provincia siriana di Idlib, che “l’amico” Erdogan e i mercenari suoi e degli USA non mollano per niente. Alza il dito in segno di disapprovazione quando Israele, impunito da tutti i lati, bombarda la Siria tre per due giorni alla settimana, riposando solo lo Shabatt.

Magari, in cambio, ottiene che la guerra all’Iran si faccia solo a parole e sanzioni? O che non succeda il finimondo all’installazione in Sudan di una base navale russa, concordata con il governo neo-filoisraeliano di Khartum, quello prodotto dalla solita “rivoluzione colorata”? Do ut des, piuttosto che pugni sul tavolo?

 

 

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