martedì 30 marzo 2010

E' PRIMAVERA, FIORISCONO I TERRORISMI DI STATO. (Non per nulla si chiama Florida)













30 marzo 2010: attentati a MoscaLiberi pensatori sono coloro disposti a utilizzare le loro menti senza pregiudizio e senza timore di comprendere cose che si scontrano con i loro costumi, privilegi, credi. Questo stato della mente è essenziale per un corretto pensiero. Dovesse mancare ogni discussione sarebbe peggio che inutile.(Leo Tolstoi)Non vi sono confini in questa lotta alla morte. Non possiamo essere indifferenti a ciò che succede ovunque nel mondo, poichè la vittoria di un qualsiasi paese sull'imperialismo è la nostra vittoria.(Ernesto Che Guevara)Preferisco i delinquenti ai cretini. Perchè i primi, perlomeno, ogni tanto si riposano.(Charles-Maurice de Talleyrand) Bisognerebbe aggiornare Von Klausewitz così: “Il terrorismo è la continuazione della guerra (di classe e geostrategica) con altri mezzi”. Ricevo e riproduco qui sotto un clamoroso documento atto a tappare la bocca a chi, coltivando il verminaio per la pesca di farlocchi, o viaggiandone al traino in pigra buonafede o comoda malafede, ci ha martellato nei giorni scorsi con la marcetta all’Avana delle “Damas de Blanco”. Damas che protestavano contro la detenzione dei loro congiunti o compari. Del documento in spagnolo, di facile comprensione e da non perdere, riepilogo il contenuto.
Come s’è visto proposto e riproposto da tutti i trombettieri del necroimpero, una trentina di donne di bianco vestite hanno schiamazzato per le strade della capitale cubana, chiedendo il rilascio degli ultimi dei 75 condannati nel 2003 per aver progettato, o condotto operazioni terroristiche contro il proprio paese al soldo di una potenza nemica. All’ira della donne del quartiere, indignate per tanta sfrontatezza, l’hanno sottratta, come pure s’è visto nelle immagini (ma non udito nei commenti), i poliziotti cubani che le hanno messe su un autobus e riportate a casa.
Per i nostri informatori onnipartisan trattavasi delle mogli, madri, figlie che di tanto in tanto spuntano in piazza per rivendicare la libertà di parenti “prigionieri politici, dissidenti, intellettuali, giornalisti indipendenti, santi subito per meriti democratici…” . Come ho ricordato tante volte, quando sinistra e destra sono fuse in unanimità, la sinistra puzza e la destra vince (pensate al “libero mercato”, agli “interventi umanitari”, al “dittatore Milosevic”, al “mostro Saddam”, al “divo Dalai Lama”...). E la prova è venuta subito. In testa e in basso c’è il testo – con foto che più esplicite non si può – che ci racconta di una marcia parallela di Damas de Blanco a Miami, capitale del mafiaterrorismo cubano, capeggiata nientemeno che da lui, dal “terrorista da confondere tutti i terroristi”, dal serial killer più serial del primo nel Guinness dei primati, del cocco di tutti i presidenti Usa da Kennedy a Obama, del bambino prodigio della “S.r.l. Assassini Cia” fin dal 1961 (baia dei Porci). Per l’appunto Luis Posada Carriles.
Posada Carriles alla marcia delle“damas con blanco”

Uno che ha cacciato nella serie B dell’antropologia criminale fiorellini del male come Jack lo Squartatore, Barbablù, varie vedove nere, la kapò-regina Ilse Koch, e si è collocato in Champions League accanto a primatisti come Himmler, Churchill, Graziani, Netanjahu, Shamir, Begin, Sharon, Olmert (con gli israeliani non si finisce più…). Una compilation ridotta delle sue imprese al soldo della Cia – in gran parte non solo confessate, ma rivendicate in libri e interviste – annovera: vari tentativi di avvelenare o far saltare per aria Fidel, l’abbattimento nel 1976 del Cubana de Aviacion che trasportava 73 persone, compresa la nazionale giovanile di scherma, l’assassinio con bomba dell’italiano Fabio Di Celmo all’Avana, assassinii vari di esponenti antipinochettisti cileni, attentati dinamitardi a gogò per tutta Cuba, assassini mirati con i Contras in Nicaragua e con l’Arena in Salvador… Fuggito dal carcere a Caracas, liberato dalla compiacente presidente Arroyo in Panama, da qualche anno campa, nutrito, vezzato e onorato da pensionato del terrorismo di Stato, a Miami. Nello Stato che si dice madre di tutte le battaglie contro il terrorismo. Dove se no? Le richieste di estradizione di Cuba e Venezuela non hanno smosso un foglietto notes della magistratura Usa. Quella dell’Italia, per l’assassinio di un suo cittadino, mai pervenuta. Figurati.
Dunque Posada Carriles come padrino e sponsor delle signore bianche. E basterebbe e avanzerebbe per qualificare quelle signore. Ma c’è anche Santiago Alvarez Fernandez-Magrina. E questo chi è? E il benefattore e fautore della democrazia che all’associazione delle signore in bianco paga un contributo mensile di $1.500. Questo Santiago è un pezzo grosso. Se Posada ha il muso del sicario, Fernandez-Magrina ha il grugno del boss. E’ presidente di Rescate Juridico, una pseudo-organizzazione giuridica che garantisce protezione, assistenza, alimenti, all’esercito di terroristi cubani che imperversano da decenni in America Latina, al servizio della Cia e del Mossad. Non solo, a volte s’impegna in prima persona, come quando fece mettere due ordigni nel Cabaret Tropicana. Risulta da una registrazione trasmessa dalla televisione cubana. Socio e amico fraterno di Posada, lo accolse, fuggitivo da Panama, sul suo panfilo e lo posò sano e salvo, e immune, sulle ospitali spiagge della Florida.
Ciò che le pur volenterose corrispondenze sulla chiassata della damas non ci hanno mostrato, era il contenuto delle loro borsette: dollari di Rescate Juridico inzuppati di sangue cubano. Come quelli versati a compenso mensile a coloro che, dietro le sbarre, pagano il costo del loro mercenariato terrorista al soldo di una potenza che da 50 anni cerca di distruggere il loro popolo. E questo mi ricorda qualcosa
Era aprile, di nuovo primavera, ma del 2003. La direzione USraeliana del terrorismo planetario aveva appena intensificato, con l’assalto diretto, il nazionicidio dell’Iraq. Non per questo aveva rinunciato a trascurare le operazioni sporche in America Latina, propedeutiche sempre all’aggressione. Il popolo venezuelano aveva riscattato da poco il suo presidente dal colpo di Stato yankee-oligarchico, ma Cuba non andava mai persa di mirino. Tre delinquenti comuni – nel mondo globalizzato non mancano mai, dai sicari ai presidenti dei paesi occupati o vassalli, lo sappiamo per esperienza nazionale – dirottarono verso gli Usa un traghetto nella baia dell’Avana, minacciando di morte piloti e donne e bambini passeggeri. Furono catturati e messi a morte, pena prevista per questi atti negli Usa e in molte “democrazie” occidentali. Nella retata finirono una settantina di personaggi implicati in un piano di sabotaggi e ammazzamenti di cui il dirottamento era stato solo il primo atto. Cuba ne dimostrò, alla mano di registrazioni audio video, il periodico ritiro della paga mensile dall’Ufficio d’Affari Usa.
Amarcord di un licenziamentoIl 9 maggio pubblicai nella mia rubrica “Mondocane” su “Liberazione” un articolo in cui deploravo quella come ogni condanna a morte, ma, alla mano delle prove cubane, illustrai anche la vera natura di coloro che per Bertinotti e tutto il sinistrato sinistrame, erano, come per Bush e Posada Carriles, “eroici dissidenti intellettuali in lotta per la democrazia a Cuba”. Il giorno dopo Bertinotti ordinò al solito Sandro Curzi, direttore in ginocchio, di cacciarmi fuori dalle palle. Su due piedi. Era in pieno svolgimento la campagna del PRC in difesa dell’art.18. Me lo comunicò per telefono un oscuro amministratore. Lavoravo a “Liberazione” da quattro anni, con rubriche e reportages dalle aree di conflitto. Ci fu mezza rivolta tra i lettori del giornale, ma Bertinotti, Curzi e la sua vice, Gagliardi (oggi a paga del “Riformista” del noto Angelucci), cercarono di calmare le acque inventandosi immaginifiche ragioni per il mio licenziamento: "Non mi ero attenuto alla linea del partito" (manco fossimo sotto Zdanov o Goebbels), "Non avevo scritto solo di ambiente" (questo dopo avermi mandato a Belgrado sotto le bombe, in Palestina e in Iraq!). Feci causa e la vinsi. In appello hanno ora vinto loro e vogliono 100mila euro. Si va in Cassazione. Al tempo del primo grado, Bertinotti non era che il segretario di un piccolo, fastidioso partito d’opposizione. Quando si avviò l’appello, l’uomo aveva assunto la terza carica dello Stato. L’art. 3 dello Statuto del partito sanciva il diritto degli iscritti a criticare la linea del partito, anche fuori dal partito. Ma al sovrano poco gliene calava. Del resto non abbiamo ai nostri vertici un Roberto Saviano, eroe-anticamorra in patria ed eroe-filocriminali israeliani e filo-terroristi cubani fuori? Esibita la sua struttura dissociata, abbracciato al presidente Simon Peres e in tasca il libro “Gomorra”, con l’invocazione di “voler vivere in Israele”, l’ha confermata aggregandosi oggi a una loggia radical-ebraico-piddina e al suo appello per le dame bianche e relativi “dissidenti intellettuali” incarcerati, appello inevitabilmente destinato a.lubrificare le armi del terrorismo anticubano (finora 3.300 civili uccisi).
A primavera, non solo a Miami, riassume colorito e vigore il terrorismo caro alla “comunità internazionale”. Lo chef di questa specialità della gastronomia imperialista è senza dubbio e da quando esiste Israele. Ne sanno qualcosa non solo i palestinesi genocidati senza posa da quando spuntarono dai loro villaggi incendiati da futuri premier israeliani. Lo conoscono anche i popoli che, dall’America Latina al Medio Oriente, dall’Africa all’Europa, dall’Asia a tutte le dimensioni spazio-temporali immaginabili, se la devono vedere con gli esperti Mossad e Tsahal degli squadroni della morte, dei sicari false-flag (sotto falsa bandiera) che fanno saltare torri gemelle, metropolitane e stazioni ferroviarie. Esperti e sicari che per una volta hanno lacerato l’immagine di perfezione terroristica consolidata in decenni di killeraggio e bombardaggio, toppando alla grande a Dubai pochi giorni fa. Riuscirono ad ammazzare Mahmud El Mabhuh, un dirigente di Hamas, ci mancherebbe, ma furono tutti e 27 – bel rapporto di forza 27 a 1: la pratica fascista dell’assalto di gruppo – identificati dagli investigatori degli Emirati e grandiosamente sputtanati a livello mondiale. Una Londra tormentata dalla doppia lealtà, alla propria sovranità e a quella israeliana, dovette tuttavia acconciarsi a espellere il capostazione Cia, brigantello che aveva fornito ai killer di Dubai passaporti intestati a ignari e innocenti cittadini britannici (altri se ne falsificarono di cittadini francesi, irlandesi, australiani, austriaci). Non è la prima volta che lo Stato fuorilegge più fuorilegge di tutti si è visto limare gli artigli. Da quando gettò piombo fuso su un milione e mezzo di abitanti di Gaza, il vento, seppure solo un alito, pare aver deviato un poco.
A Mosca! A Mosca!Il che non scoraggia il killer compulsivo. Da una fonte autorevole, Martin Van Creveld, professore di storia militare alla Hebrew University di Gerusalemme e consulente dello Stato Maggiore, apprendiamo. Poche settimane fa il premier israeliano Netaniahu era in visita da Putin a Mosca. Gole profonde riferiscono che ci fu un’animata discussione sull’esitazione russa di imporre nuove sanzioni all’Iran. Fuori di sé il caporione israeliano invitò il capo del governo russo a non stupirsi se nel cielo di Tehran si fossero sollevate nuvole a forma di fungo. C’è chi precisa: “nel cielo di Mosca”. Putin rispose, mentre lo trascinava fuori dalla stanza: “A noi bastano 24 ore per trasformare Israele in un posacenere”. Lo scambio si concluse con un consiglio di Netaniahu ai russi: “Paratevi il culo”.
Iniziò subito una serie di attentati, tra cui uno alla base dei servizi segreti russi (di cui Putin era stato capo) e uno attribuito ai soliti ceceni (del resto fin dagli anni ’90 al servizio degli USA). E se non si fosse capito, di ieri sono i superbotti terroristici nella metro di Mosca, 40 concittadini di Putin uccisi, il primo di nuovo vicino alla sede dei servizi (di cui Putin era capo), il secondo al Ministero degli esteri (dove non si vuole addentare l’Iran). Mettono in campo ceceni dinamitardi in Russia, tsunami mediatici contro il Vaticano sulla base di pandemie pedofile svelate da 60 anni (protagonista il New York Times, organo Usa della lobby ebraica), giannizzeri mediatici e culturali come Saviano, Travaglio, Colombo, Fazio, che preparano un ricambio obamiano al guitto mannaro sodale di Ratzinger e amico di Putin e Gheddafi (primo governante arabo che, l’altro giorno, ha ospitato e onorato una delegazione della Resistenza irachena). Iniettano veleno ricattatorio nella polemicuzza con gli Usa sugli insediamenti a Gerusalemme araba. C’è da meditare se Israele non abbia fatto scianchetta a se stesso. Il troppo stroppia e sono brutte bestie da prendere di petto quelle in Vaticano e nel Cremlino. E anche certi generaloni Usa, come Petraeus, capo del Cencom, stufi di mettere a repentaglio paese e soldati loro per le necrofrenesie espansioniste di Israele. Moshè Dayan intimava: “Israel must be like a mad dog, too dangerous to bother”, “Israele deve essere come un cane pazzo, troppo pericoloso perchè lo si infastidisca”. E per passare da dolce bassottino, cosa deve fare un cane pazzo? Pretendere che il bassotto sia il cane pazzo. Invertendo i fattori il risultato cambia del tutto. Si chiama inversione vittima-carnefice. Dicesi vittimismo ed è l’arma più tagliente di ogni arsenale d’attacco.




Gericault: La zattera della Medusa


A volte la tragedia, invertendo l’ordine dei fattori, si ripropone in farsa. Il risultato finale stavolta non cambia. Noi non ci facciamo mancare niente: dalla tragedia passiamo alla farsa per ripreparare la tragedia. La farsa, riduzione in sedicesimo delle grandi manovre terroristiche dei Grandi, è quella che, a scivolo per le elezioni della destra (ma anche dello Svendola, vedovo dell’UDC, ma sodale di UDC e Penati in Lombardia, amico in Puglia dei privatizzatori dell’acqua e dei perforatori petroliferi), ha immerso il paese in una superfetazione di attentatuccoli a ominicchi di governo Pallottole e minacce di morte in busta, bombe alla Posta di Milano, petardi qua e là, falsi allarmi bomba sull’aereo del premier e polverine a casa sua, statuette in faccia (si fa per dire). Anarcoinsurrezionalisti e Centri Sociali, ha verificato La Russa da sopra la collinetta dei militari tricolori rientrati dall’Afghanistan con i piedi avanti. E la mente? Ma Di Pietro, no?
La farsa dopo la tragedia. Quella che, a partire dal 1969, 12 dicembre, Piazza Fontana, ci ha reso meritevoli emuli del santolo che ci aveva tenuti a battesimo nel 1945, liberandoci dal nazifascismo e, obiettivo strategico, da ogni parvenza di sovranità nazionale (roba invisa del resto anche a tutti i sinistri che marchiano d’infamia lo Stato Nazione, così lisciando il pelo allo Stato Nazione più potente e prepotente che neanche sperava in tanti assistenti demolitori delle barriere nazionali altrui). Dalle stragi di Stato siamo calati ai petardi di Stato e alle telefonatacce a Emilio Fede. Segno che ci vuole più poco a sodomizzarci? Già camminiamo con i pantaloni alle caviglie. Mica siamo palestinesi, o iracheni, o afghani, cubani, honduregni, venezuelani, boliviani, russi! Quando si tornerà alla tragedia, forse saremo cresciuti.
P.S. Avete notato che neanche a fare il pellerossa con l’orecchio fino per terra abbiamo potuto udire il benché minimo zoccolo del caravanserraglio elettorale sfiorare l’argomento della guerra, del nostro andare in giro devastando e uccidendo e morendo, agli ordini di un capobanda che neanche ci caga, del nostro essere precari, descolarizzati, desanitarizzati, disoccupati, impoveriti, inquinati, picchiati a morte in carcere, ingannati fino all'annichilimento di ogni percezione di realtà, nello stesso barcone con tutti gli altri deprivati, esclusi, affamati, fottuti, colonizzati, desovranizzati del mondo? E anche per questo che in Piemonte, Lazio, Campania, Calabria, Lombardia, fatta la tara dei brogli, delle compravendite mafiose, delle decerebrazione mediatica preventiva, vincono gli originali, mica le copie, per quanto ultrà “non-violente” della curva sud del terrorismo.



Chi combatte il terrorismo e chi lo ospita. Libertà per i Cinque cubani prigionieri negli Stati Uniti
Quien lucha contra el terrorismo y quien lo defiende. Libertad para los Cinco cubano presos en los EEUU

Posada Carriles y las Damas de Blanco, “amigos para siempre”
26 Marzo 2010
Posada Carriles alla marcia delle dame in bianco

Por José Pertierra
Only in Miami. Pese a 73 cargos pendientes de asesinato en primer grado relacionados con la voladura de un avión de pasajeros de Cubana de Aviación, Luis Posada Carriles no ha sido extraditado a Venezuela, ni tampoco ha sido procesado en los Estados Unidos por esos crímenes. Anda suelto y sin vacunar por la Calle 8 de Miami, marchando con Gloria Estefan a favor de las llamadas Damas de Blanco.
Su apoyo a las damas no debería asombrarnos. Existe un vínculo importante entre Posada y esas damas. El lazo se llama Santiago Alvarez Fernández-Magriñá. Está bien establecido, e incluso admitido por ellas, que la organización de las damas recibía $1,500 al mes, de Rescate Jurídico en Miami. Tanto Posada como las damas tienen el mismo padrino.
El presidente de Rescate Jurídico es nada más y nada menos que Santiago Alvarez Fernández-Magriñá. Íntimo amigo y patrocinador fiscal de Luis Posada Carriles, Alvarez fue quien trajo a Posada a los Estados Unidos en una embarcación llamada El Santrina, de acuerdo con documentos de la Fiscalía norteamericana. El que pocas semanas después condujo esa famosa y vergonzosa conferencia de prensa con el entonces “clandestino” Posada Carriles en Miami. Alvarez es también el mismo que instó a uno de sus agentes a que pusiera dos bombas en el cabaret Tropicana. Esa conversación está grabada y fue expuesta en la televisión cubana.
Es evidente que el historial de terrorismo de ese siniestro personaje no impidió que las damas se prestaran para ese juego y recibieran dólares salpicados de sangre cubana. Es una felonía, castigada severamente en los Estados Unidos recibir dinero de una organización terrorista. Supongo que en Cuba igual. Sin embargo, hasta ahora la única sanción que han recibido estas damas es el repudio de los cubanos de la calle. El gobierno cubano se ha mostrado muy tolerante, e incluso la policía las protege.
Una sugerencia para Posada Carriles. Si quiere verdaderamente marchar en apoyo a las damas de Santiago Alvarez Fernández-Magriñá que vaya a La Habana a hacerlo. Como diría Calle 13, ¡Atrévete!, Posada.

Posada Carriles en la marcha de ayer, 25 de marzo de 2010, en Miami. Foto: Reuters

martedì 23 marzo 2010

IL RITORNO DEL CONDOR



Riproduco qui, a scopo di promozione, la recensione di Annalisa Melandri al mio docufilm "Il ritorno del Condor", apparso in "Le Monde Diplomatique" di febbraio.
Contemporaneamente raccomando caldamente il nuovo libro di Domenico Losurdo, "LA NON-VIOLENZA, una storia fuori dal mito", Editori Laterza. Per i particolari vedi il link sotto "informazione alternativa" in questo blog.

SULL'AMERICA LATINA LAMPI DI GUERRA, COME AVVERTE HUGO CHAVEZ




http://www.annalisamelandri.it/dblog/articolo.asp?articolo=1117

Fulvio Grimaldi
Il ritorno del Condor
75', 15 euro

«No me resigno y me indigno»: non mi rassegno e mi indigno. È la parola d’ordine delle donne dell’Honduras che dal 28 giugno scorso, giorno del golpe che ha deposto il presidente Manuel Zelaya, lottano contro la repressione. Una parola d’ordine di tutto il Fronte di Resistenza popolare, come mostra questo video del giornalista Fulvio Grimaldie.
«La riserva umana per una rivoluzione in corso d’opera». Così Grimaldi definisce il Fronte, questa immensa ed eterogenea massa che sta ancora pagando un caro prezzo, e che ora, con la complicità dei grandi media, rischia di continuare nel più completo isolamento.
Attraverso il racconto degli intervistati, Grimaldi ricostruisce le fasi del golpe, compiuto da militari agli ordini dell’oligarchia e degli Usa. La colpa di Zelaya? Aver voluto spostare il paese nel campo dei governi progressisti come Bolivia e Venezuela.
Parte così dall’Honduras una seconda Operazione Condor, un nuovo governo del Centroamerica ispirato dalla Cia come negli anni ‘70? La domanda percorre il video. Le nuove basi Usa in Colombia, e le manovre in tutto il Cono Sud – dice il giornalista –mostrano il nuovo disegno per ricondurre i paesi progressisti e rivoluzionari nel «cortile di casa» Usa. Un progetto a cui si oppone la resistenza popolare, raccontata soprattutto dalle donne, vere protagoniste del video:indigene, contadine, militanti e casalinghe, mogli di desaparecidos degli anni ’80, che avevano visto nelle politiche progressiste iniziate da Zelaya una speranza per il loro paese, il più povero dell’America latina dopo Haiti.
Una speranza interrotta dalle elezioni farsa che hanno messo alla presidenza il fantoccio Porfirio «Pepe» Lobo.
Per ordinare o presentare il video, tel. 06 99674258, mhtml:%7BF0617929-008B-45D7-8F00-44C71AB0F192%7Dmid://00001617/!x-usc:mailto:visionando@virgilio.it

Annalisa Melandri
recensione per Le Monde Diplomatique - Il Manifesto febbraio 2010

lunedì 22 marzo 2010

SLOBO VIVE, LA SINISTRA ITALIANA RANTOLA
























E tu onor di pianti Ettore avrai
ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato
e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane
(Ugo Foscolo, I Sepolcri)

Nel post precedente sono saltate alcune parti del mio intervento su Slobodan Milosevic, recuperate da una cara compagna serba, Olga Daric, e che qui ripropongo.
Venerdì 24 marzo 1999 iniziavano i bombardamenti su Belgrado, l'assalto finale alla Jugoslavia, la distruzione del suo cuore pulsante serbo da parte del revanscismo nazifascista e dell'imperialismo Usa. Quello fu l'ultimo giorno che io trascorsi in RAI, al TG3. La nausea per il chiacchiericcio sull'"intervento umanitario" della nostra corrispondente amerikkkana e slavofoba in Kosovo, Giovanna Botteri, accolto dal plauso del direttore e di tutta la redazione, era diventata insopportabile. Presi una telecamera, andai a Belgrado, girai la Serbia del "dittatore" Milosevic, certo il più democratico dei governanti europei. Ne nacquero i miei documentari "Il popolo invisibile" e "Serbi da morire", unica informazione non "conforme", insieme a una puntata della trasmissione di Santoro dal Ponte Branco. Piovevano le bombe degli "umanitari" su case, scuole, ospedali, treni, ponti, monasteri, mentre in Kosovo, protetti dalla Nato e da Giovanna Botteri, le bande assassine dell'UCK fascista-albanese di Hashim Thaci (fidanzato di Madeleine Albright, oggi primo ministro del Narcostato) conducevano l'unica vera pulizia etnica mai vista in Jugoslavia, dopo le stragi nazifasciste 1940-1945 e fuori dalla Croazia del fascista Pavelic e dei suoi successori moderni benedetti dal papa, da Berlino e da Pannella in mimetica. Oggi la Serbia è in coma, gli altri finti statarelli usciti dall'assalto colonialista USA-UE, con il sostanzioso aiuto sul campo dell'agente Cia e addestratore terrorista Osama bin Laden, contano in Europa e nel mondo meno di un pelo della barba di Tito. Il Kosovo, riconosciuto appena da un terzo degli Stati del mondo, assolve alla funzione assegnatagli dagli occidentali: megabase Usa a controllo dell'Est europeo, del traffico di droga dall'Afghanistan occupato, di commercio di donne, bambini e organi.
Complimenti a D'Alema per aver collaborato alla fase propedeutica dell'annichilimento di Iraq, Afghanistan, Pakistan e, via via, dell'intero mondo collocato nel mirino della "guerra infinita".


Ho tra le mie foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan Milosevic. Siamo a casa sua, la residenza di Stato del presidente della Jugoslavia, ormai “Piccola Jugoslavia”, sulla collina di Dedinje, in vista del Danubio ed è il 27 marzo 2001. Fuori dalla villa, amici e militanti del Partito Socialista contengono una piccola folla che sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito più che da un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di un’organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, “Otpor”, finanziata ed addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e del narcotraffico George Soros.
Tre giorni più tardi queste bande e i loro padrini internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato e, qualche mese dopo, consegnato per 30 milioni di dollari, trenta denari, agli sgherri di un tribunale-farsa istituito all’Aja dal governo Usa con la firma del notaio Kofi Annan ed affidato a fiduciari, rinnegati dell’ordine giudiziario, come le “procuratrici” Louise Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il capomafia e Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi da colpire: raffinerie, industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole, ospedali, gente: 10.000 vittime per 78 giorni di intervento umanitario contro una totalmente inventata “pulizia etnica” in Kosovo. Con sulla torre di controllo, in primissima fila, Massimo D’Alema (Non pago del bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi: “E’ giusto espandere la democrazia anche con la forza”).
Guardo quella foto mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini falso-vere di un'oscena propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio nevroticamente sincopato, di una corifea di tutti gli “interventi umanitari”, Giovanna Botteri del Tg3. Una che ricordiamo stracciarsi le vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini sventrati e di turbe in stracci, che si trattasse della Jugoslavia, o dell’Iraq, con pari dedizione saprofita. Segue un'altra stampella delle ragioni per l’ “intervento umanitario”, Ennio Remondino, che, classico gabbamondo mediatico da tavolino delle tre carte, con supponenza elargisce e mescola “il despota Milosevic”, “il presidente democratico Djindjic”, i cattivi bombardamenti Nato e i cattivissimi nazionalisti serbi. Intanto mi premono sullo stomaco, forse un po’ come quell’ultimo pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne l’esito vittorioso sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche, passate e presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici e vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la sepoltura di un nobile paese.
Il dolore per la morte da assassinio di quest’ uomo, senza retorica vera figura da tragedia greca, si mescola con rabbia, indignazione, ripugnanza e ne viene quasi temperato. Non mi riferisco alla grande stampa della borghesia, dall’Unità a Libero, dall'Espresso alla Stampa, da Ferrara a Mieli. Fetecchie da “macellaio dei Balcani”, o ”Hitlerosevic”. Chissenefrega, quelle sono le voci del padrone, fanno il loro mestiere di ruffiani.. La loro dimensione è la menzogna strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che servono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza dall’altra parte della trincea. Non c’è scandalo. La collera e il disprezzo sono tutti per coloro che, dicendosi a sinistra, per la pace e per gli oppressi, pretendono di elargirci verità e che, facendo slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè inermi e non-violente) i paradigmi dei carnefici, strategicamente questi puntellano e agevolano.

Guardo la foto e la memoria srotola il filo della storia di un avvicinamento a Slobo che parte dal 24 marzo e termina pochi istanti dopo lo scatto di quell’immagine. Dopo aver sbranato oltre metà della Jugoslavia, in parte anche grazie alla collaborazione di “pacifisti” come Adriano Sofri, Alex Langer, Costruttori di pace, settori cattolici, ongisti voraci o semplicemente fessi (tipo l' International Consortium of Solidarity, poi riciclatosi in "Sbilanciamoci"), fondata sull’assenso agli inganni della guerra psicologica, nella notte tra 23 e 24 marzo le classi dirigenti europee e nordamericana si apprestano alla soluzione finale. La mattina del 24 marzo, a garanzia delle retrovie, insieme alla Nato entra in guerra il Tg3, il canale “di sinistra”, cosiddetto Telekabul, ma anche, a buon titolo, Telepapa (fin da quando un papa ultrareazionario e guerresco aveva sobillato i neofascisti – ma cattolicissimi – croati contro la federazione ancora ostinatamente socialista). La donna-cannone è Botteri, il direttore del circo è Ennio Chiodi, democristosinistro. Ci si dice, in riunione di redazione, da che parte stare, ci si accalora sul “dittatore”, su “pulizia etnica”, “ondate di profughi” e dunque, appunto, sull’ “intervento umanitario”.Tutti annuiscono, il tavolo della riunione pare un carillon. Armiamoci e partite. Da quel giorno non ho più messo piede in RAI, al Tg3. Di decente c’erano rimasti solo gli operatori e i montatori, anche perché, bravi per conto loro, non devono il pane a nessuna ruffianeria. E pochi giorni dopo partii, con la prima delegazione dalla parte degli aggrediti e tanto di telecamera, per Belgrado, quella delle macerie, della morte, della fame, della sfida-sfottò dei “target” sui ponti.

Si doveva passare da Austria e Ungheria, farsi taglieggiare dai rispettivi doganieri, scendere sotto le bombe per la Voyvodina a Novi Sad. Gli sgherri razzisti di Tudjman, cari al papa, non permettevano il passaggio. Chi frequentava i serbi era infetto per l’Occidente intero. Ci accompagna e assiste un piccolo partito comunista. Attraversiamo l’inferno, la resistenza, la quinta colonna degli aggressori (che la “dittatura” lasciava agire e ci aveva permesso di incontrare apertamente in piena Belgrado), fino al geno-ecocidio programmato di Pancevo e della Zastava. I serbi non si piegavano e non c’è momento più alto nella vicenda europea dopo la liberazione partigiana – che tedeschi e statunitensi riuniti intendevano vendicare – che quella, fortunosamente ripresa dai miei documentari, delle legioni di uomini e di donne, veri combattenti con l’arma nucleare della dignità, che sul Ponte Branco di Belgrado, sera dopo sera, facevano svettare bandiere jugoslave, cartelli “target” sul cuore, canti di orgoglio, incriminazione e resistenza, contro gli strumenti tonitruanti degli stragisti Clinton, Schroeder e il chierichetto col botto D’Alema. A Novi Sad i ponti erano stati sbriciolati, la raffineria s’inceneriva nell’uranio, la terra si scuoteva per terremoti da bombardamenti. A Belgrado il cielo si apriva ai terminator con la chimica della guerra meteorologica. Una volta, a Kragujevac tre missili ci mancarono di 50 metri.

Mi è rimasta impressa la temeraria calma del compagno di viaggio, Raniero La Valle. Una notte scampammo alla sorte dei neonati a cui le bombe avevano spento le incubatrici, fuggendo dall’albergo Intercontinental, subito dopo bucato da missili, e dai pressi dell’ambasciata cinese in fiamme, con dentro tre morti, mentre D’Alema e compari ammazzavano, nel nome della libertà di stampa, 16 giornalisti e tecnici della televisione serba (mai annoverati tra le sue vittime dall’associazione mercenaria Reporters Sans Frontieres). A Pancevo, la città della chimica e del petrolio, D’Alema e sodali avevano fatto in modo che le nubi e i liquidi tossici, sprigionati dai loro esercizi di sfoltimento dell’umanità, da aria, terra e acque pervadessero, fino a corromperli, vita e futuro di generazioni. A Kragujevac, la più grande industria dei Balcani era un cimitero uranizzato di macerie e di storia operaia. Ma c’erano ancora, dopo i missili e nell’uranio, gli scudi umani che avevano sfidato, inanellati attorno agli stabilimenti, la foja assassina degli umanitari. Ci avrebbero messo appena un anno a rimettere in piedi gran parte della fabbrica. Non solo quella.

Tornammo un anno e mezzo dopo: due ponti di Novi Sad, dei tre disintegrati, erano risorti, la Zastava era tornata a far correre due linee di montaggio. Nell’inedia e nel gelo delle sanzioni, tra le macerie delle loro case (ma migliaia erano già state ricostruite), con i corpi ancora caldi delle vittime sezionate dalle bombe a grappolo a Nis e in tanti altri posti, con il sangue avvelenato dalla guerra chimica, i serbi erano rivissuti per orgoglio e per vendetta. Nessuno pensava alla resa.
“Serbi da morire!” titolai il documentario. Sotto il controllo di un presunto “dittatore”, alla faccia degli infiltrati, dei demonizzatori, di morte e rovina, degli ammnistratori dell'opposizione di destra che le libere elezioni del “despota” avevano installato nelle maggiori città del paese, nonostante il sabotaggio al servizio del nemico di una stampa al 90% in mano all’opposizione filo-imperialista, la Jugoslavia di Slobodan Milosevic aveva retto e si stava riassettando i vestiti laceri. A scandalo di una sinistra italiana miseramente subalterna, avevo potuto scrivere su un giornale serbo “Meglio serbi che servi”. Quella “sinistra” preferiva fraternizzare con i sedicenti oppositori “democratici” di Radio B-92, della televisione "Studio B" di Vuk Draskovic (poi ministro agli ordini del sottopancia Nato Xavier Solana), entrambi del circuito europeo Cia di “Radio Liberty”, entrambi foraggiati da George Soros. Preferiva una cosiddetta "Alleanza civica" di rinnegati, assetata di libero mercato, garantita da pretoriani Nato, chiamata “Zayedno”. Soprattutto, si era gemellata con l’altra articolazione Cia, il mix di sottoproletari e fichi dei quartieri alti chiamato “Otpor”, appena reduce da corsi di eversione tenutigli a Budapest e a Sofia da generali Usa. Eversione “non-violenta” fino al rovesciamento del governo legittimo, ma violentissima dopo, nell’occupazione delle istituzioni, nell’epurazione a bastonate e omicidi di sindacalisti, politici di sinistra, giornalisti onesti, maestranze non vendute. Quando questa coalizione del cialtroname opportunista e rinnegato colmò la piazza di Belgrado e poi invase il parlamento per bruciare le schede che avevano dato, nel settembre 2000, la vittoria alle sinistre, i miei reportage dal campo venivano cestinati dal redattore capo di Liberazione, Salvatore Cannavò (oggi leader, vedete quanto affidabile, del frammentino trotzkista "Sinistra Critica"). Cestinò anche le mie interviste ai capi di Otpor che esibivano grande fierezza per essere i fiduciari “dell’intelligence di una grande paese come l’America” e dichiaravano di auspicare l’avvento di una “democrazia all’americana” in cui una “manodopera a basso costo serba avrebbe fatto la fortuna delle multinazionali americane” e la si sarebbe fatta finita con la “demagogia della garanzia del lavoro, della sanità e dell’istruzione gratuite e per tutti”. Il compagno trotzkista Cannavò fu invece svelto a invitare “i compagni di Otpor” agli appuntamenti no-global. Ricordate, a monito perenne di cosa combinano ignoranza, viltà e opportunismo a sinistra, i titoli che dal "manifesto" e dal "Liberazione" aprirono a caratteri cubitali le prime pagine dopo il colpo di Stato che rovesciò Milosevic e pose fine alla sovranità e al socialismo serbi: "Belgrado ride", l'uno, "La primavera di Belgrado", l'altro. Come il "New York Times".

Tornai ancora a Belgrado, quando tutto era davvero finito. I serbi, la Jugoslavia, l’Europa, la pace, la verità avevano perso. Si poteva espandere a macchia di vetriolo, senza più oppositori, l’infame inganno di una “pulizia etnica” nel Kosovo, con la quale si volle giustificare la fuga di povere popolazioni dai bombardamenti Nato e l’espulsione di 300.000 serbi e rom innocenti ad opera degli ascari Nato e dei killer narcotrafficanti dell’UCK. Disintegrata la trincea jugoslava, smembrata una nazione democratica, progressista, antimperialista nei suoi segmenti etnici e confessionali, creata la piattaforma per la penetrazioni, bellica o con le “rivoluzioni colorate” tipo Otpor, verso Est, verso gli idrocarburi del Caucaso e l’oppio afgano, rinchiuso nel braccio della morte dell’Aja e nel cappio della diffamazione uno dei più onesti ed equilibrati uomini di Stato del nostro tempo, la strada era stata aperta al terrorismo imperialista globale e permanente.

A mio avviso, soprattutto misurando la vicenda jugoslava contro quella irachena, dove una Resistenza di popolo saggiamente predisposta dalla sua dirigenza, ha ostacolato la soluzione colonialista, a Slobodan Milosevic possono essere imputati solo due errori. Aveva resistito all’infame ricatto di Rambouillet, col quale, in cambio della pace la Serbia doveva farsi occupare dai briganti Nato, e quel gesto di forza e di dignità aveva mobilitato il suo popolo alla resistenza. Possono essere considerati errori - ma chi ne può avere certezza? -i due accordi successivi di Dayton nel 1995 e di Kumanovo nel 1999, seppure motivati dall’impegno, questo sì umanitario, di salvaguardare genti che avevano sofferto l’indicibile da un ventennale ostracismo internazionale, dalle sanzioni e dalle guerre. Possiamo immaginare, alla luce della vittoriosa guerra di popolo irachena, cosa sarebbe successo nella Serbia che aveva cacciato di sua sola mano la Wehrmacht, se il rifiuto della Pace di Kumanovo avesse costretto i mercenari della Nato a misurarsi con un esercito di popolo, pratico di ogni anfratto della sua terra e collaudato dal confronto con l’allora più potente esercito d’Europa. Certo sangue, lacrime, sacrifici inenarrabili, ma probabilmente l’avanzata del carnefice planetario sarebbe stata arrestata prima della trincea irachena. Quale governo europeo avrebbe potuto sostenere il peso di centinaia di suoi giovani militari caduti in un’operazione che si sarebbe evidenziata via via più criminale?

L’ultima mia Serbia l’ho vista qualche tempo dopo, a trauma collettivo subito, a futuro oscurato. Con il difensore di un popolo che aveva saputo imporre la sua agenda ai grandi, venduto e martirizzato in un paese lontano, sembra che si sia dissolta ogni capacità di reazione. Al vertice, coperte da un personaggio da incolore mezza stagione, Kostunica, si avvicendavano bande di malfattori e rinnegati. Era estate, ma neanche la stagione sorrideva a questo “volgo disperso che nome non ha”. Le strade di Belgrado, di Pancevo, di Kragujevac, di Nis, su cui ancora incombevano scheletri di corpi urbani che nessuno più faceva rivivere. Gli anfratti suburbani in cui era stato ammassato il milione di senza terra, senza casa, senzapatria, espulsi da Croazia, Bosnia, Kosovo. Passanti infreddoliti che sembrano perdersi in un vuoto post-storico, come nella polvere volteggiano prive di senso cartacce che un tempo erano alimenti, libri, manifesti, lettere. Ricordo il mio ultimo saluto, dall’autobus, a una protagonista della forza che aveva fatto rinascere la Zastava, una comunista, figlia di partigiano. Il suo sguardo mi riportava a quello di un vecchio palestinese davanti alla fotografia del suo villaggio perduto.

Un generoso lavoro di resistenza di compagni, riuniti nel Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (poi decaduto in autoreferenziale e ridondante memoriale), in pochi altri momenti di militanza, come “SOS Jugoslavia” e l’associazione di Trieste, e di pochi serbi della diaspora, per anni uniche voci di contrasto alla menzogna, ha dovuto ridursi a inascoltata denuncia di disgrazie epigonali, a scarsi interventi assistenziali, a ricordi. E, in perfetta solitudine, a una tardiva e perfino poco convinta mobilitazione in difesa di Milosevic e della verità sullo pseudoprocesso dell’Aja. Solitudine di cui possiamo ringraziare, oltrechè un pubblico offuscato dall’inquinamento mediatico di destra, di centrosinistra e di “sinistra”, anche la timidezza con la quale i personaggi di riferimento dell’area antagonista hanno risposto al martellamento demonizzatore. Quasi che corressero qualche inaccettabile rischio di carriera a compromettersi con la verità.







Personalmente ho potuto misurare la distanza che correva tra la percezione nella base di sinistra su chi erano i buoni e chi i cattivi nei Balcani, e la prudente riservatezza, i distinguo a mezza bocca, dei leader del movimento. C’è rimasta, nel desolante silenzio di voci balcaniche, la denuncia e il sostegno dell’unica bandiera all’apparenza non ammainata: Slobodan Milosevic, presidente della Jugoslavia, incarcerato all’Aja e ora ammazzato oberandone il cuore malato di prove insostenibili, poi avvelenandolo. Non si poteva tollerare che continuasse a sbugiardare i suoi boia, a vincere ogni confronto e quindi a validare la sacrosanta richiesta di risarcimenti del suo popolo. Tanto meno lasciargli tempi di ripresa accettando la richiesta di un breve periodo di cura a Mosca dove, peraltro, medici non al guinzaglio della Del Ponte avrebbero potuto scoprire la terapia assassina. Dove Slobo avrebbe potuto parlare con giornalisti non velinari e compromettere ulteriormente il gioco. Leggere gli atti del processo per credere. Leggere, invece, quanto ha scritto sull’evento l’unico quotidiano italiano ancora “diverso” , “il manifesto”. Messa in salvo un po’ di coscienza con la condanna dell’intervento Nato, ecco che si rilanciano e si riabilitano, contro ogni evidenza storica nel frattempo disponibile a chiunque, tutti gli stereotipi della gigantesca truffa. Si esonerano i mandanti della morte di Slobo, ormai inchiodati da elementi inesorabili, parlando sprezzantemente di “milioni di teorie e complotti a cavallo di fantapolitica e storie di spionaggio di altri tempi”; si parte definendo il difensore dell’unità jugoslava, l’unico dei personaggi di quella stagione né quisling, né chauvinista, “uno dei protagonisti della mattanza balcanica”. Si parla, riferendosi al famoso discorso di Kosovo Polje del 1989, in cui, pur garantendo ai serbi del Kosovo protezione dai pogrom albanesi sollecitati dai cospiratori imperialisti, Slobo s’impegnò come nessun altro leader delle provincie a salvaguardare i pari diritti di tutte le popolazioni jugoslave, come del lancio di una "grande e ipernazionalistica Serbia", avallando l’alibi dell’aggressione che sarebbe partita da lì a poco. Cerchiobottismo, si direbbe, che da anni ci rifila una specie di avallo ex post alla menzogna della pulizia etnica serba, ora diventata addirittura “campagna di terrore verso gli albanesi”, secondo quanto dettavano Giovanna Botteri e l’infiltrato radicale Antonio Russo, che sparava cazzate granguignolesche di matrice Nato da un finto nascondiglio a Pristina. Le porcherie di questo provocatore ebbero fine in Cecenia. Logicamente.

L’avallo viene con quel “*contro*puliza etnica” con cui lo "specialista" Tommaso De Francesco si ostina a definire le stragi degli ultimi serbi del Kosovo e che pareggerebbe implicitamente un qualche conto. Stesso avallo viene ripetutamente offerto, a scorno di tutte le documentate smentite, all’altra delle grandi truffe che, dagli attentati al mercato di Sarajevo in giù, hanno giustificato la distruzione della Jugoslavia: la “strage di Sebrenica”. Le bande Otpor, che certamente si erano trascinate dietro disillusi e illusi della sofferenza serba, oltre alle milizie armate del sindaco nazista di Cacak , diventano per Tommaso Di Francesco “la folla scesa in piazza a Belgrado per ottenere il riconoscimento della vittoria alle presidenziali di Vojslav Kostunica”. Sul discorso di Kosovo Polje, che non deve aver mai letto per intero, nella sua appassionata perorazione del pluralismo e delle pari dignità, ecco che viene riesumata la bugia del lancio di una “Grande Serbia”, che avrebbe tolto al Kosovo l’autonomia garantitagli da Tito. Possibile che un esperto giornalista non sappia come l’unica cosa che Belgrado tolse al Kosovo, già in pieno pogrom antiserbo ed antijugoslavo per conto dell’imperialismo, era l’assurdo e paralizzante diritto di veto sul legiferare delle altre repubbliche e della federazione intera? L’autonomia restò intatta, per quanto emissari di Washington, come Soros e madre Teresa di Calcutta, già vi stavano costruendo uno Stato parallelo, albanese, etnicamente pulito, eminentemente un narcostato al servizio della finanza occidentale. Con il concorso di un collega, anche lui da tramandare agli onori dei negazionisti della verità (non ci sono solo quelli dell’olocausto), il giornalista ripercorre proprio tutte le tappe dell’intossicazione: “estremismo nazionalistico che ispirava il suo regime”, “gestione di un paese solo apparentemente democratico” (dove pur si votava con una frequenza quasi maniacale tra repubbliche, federazione, amministrazioni locali, dove le grandi città venivano conquistate dall’opposizione monarchica e dove, in piena guerra, si andava e si veniva come Pisanu o Maroni si sognerebbe di lasciar fare), fino alle infamanti “collusione con le organizzazioni illegali”. Già quelle che avrebbero contribuito a formare il famoso “tesoro di Milosevic”, mai trovato, mai esistito, al punto che perfino i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che Milosevic aveva come unico cespite il proprio stipendio.

Non basta a riscattare tanta aderenza al diktat propagandistico degli aggressori, il finalino con cui si mette in dubbio la credibilità giuridica di un tribunale dell’Aja, creato dal vincitore e la cui procuratrice ha respinto ogni addebito che milioni di cittadini colpiti avevano rivolto alla Nato dei 78 giorni di crimini di guerra. Sai, caro collega, una volta che ti sei piegato all’assunto principale, pulizia etnica, Sebrenica, regime autoritario, mafia, le tue sparate contro la guerra etnico-imperialista hanno la forza di una pistolettata ad acqua. Almeno i Disobbedienti, allora Tute Bianche, di Padova, una volta fatta la megacazzata di andare, in piena guerra, a Belgrado e, ospitati dalla Tv di Stato, di sbraitare contro il governo serbo aggredito e fraternizzare con forze d’opposizione dichiaratamente filoamericane, oggi se ne stanno zitti. Il gemellaggio con la radio Cia B-92, fatta allora passare per “radio di movimento”, gli deve ancora bruciare. Ma dubito che bruci a una Wilma Mazza di Radio Sherwood il ricordo di come i suoi picchiatori si fossero avventati, il 6 giugno ad Aviano, manifestazione contro la guerra, su coloro che alzavano bandiere jugoslave, li avessero colpiti e ne avessero stracciato i vessilli.

Sotto la foto di Slobo ora scorrono sullo schermo immagini di gente che porta fiori ai suoi ritratti. “E tu onor di pianti Ettore avrai, ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato…” Donne, uomini, vecchi e giovani serbi. Gente qualunque. Sono tanti, sempre di più. Mi ricordano un mesto e forte corteo di contadini e operai, di ex-partigiani e donne, in una ricorrenza lontana della morte di Tito. Furono aggrediti e sprangati da giovinastri scesi da Radio B-92. Vecchi operai coperti di sangue…”e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane”.Era un rigido autunno di qualche anno fa. I soliti pochi, non ligi, non vili, ancora una volta con un’inadeguata ma fedelissima rappresentanza serba, ci riunimmo davanti alla prigione-fortezza di Scheveningen. Ci dissero che di là, oltre il fossato e alle muraglie di bugnato, il carcerato poteva udirci. Centocinquanta combattenti contro la menzogna si misero a lanciare messaggi d’affetto urlando:”Slobo-Slobo”! Fino a quando energumeni olandesi in nere uniformi non c’imposero di tacere. Guai a trasmettere ulteriore coraggio, quello che ti viene quando scampi all’abbandono, a chi già aveva svergognato uno dopo l’altro i suoi accusatori mercenari, aveva costretto alla ritirata testimoni tanto grotteschi quanto istruiti per la bisogna. Pur di impedire che l’accusa al presidente jugoslavo gli franasse addosso, ai giudici e ai governanti Nato, facendo riemergere i mai considerati crimini Nato e lo spettro delle riparazioni dovute al popolo serbo, il tribunale dell’Aja, il giudice Meron e la pseudoprocuratrice Del Ponte (che chiamava la signora degli eccidi, Madeleine Albright, “madre del tribunale”) abbandonarono ogni parvenza di legalità, di etica giudiziaria e di umanità nei confronti del detenuto. Contro la sua volontà e contro il diritto gli imposero avvocati d’ufficio con i quali ci si rifiuta di parlare, di cui i tuoi testimoni non si possono fidare, che non ti riferiscono fatti rilevanti e che, con un conflitto d’interesse di fronte al quale impallidisce anche quello del malvivente nostrano, erano stati scelti tra i tuoi giudici! Nessuna autorità del diritto internazionale ha avuto mai da obiettare contro aberrazioni come queste, come la detenzione per cinque anni di un uomo affetto da ipertensione gravissima, l’imposizione di ritmi di udienza da stroncare un rinoceronte, l’espansione illimitata degli spazi e testimoni d’accusa e la riduzione a pochissimo di quelli della difesa (non per nulla Slobodan è stato fatto morire prima che fosse costretto a testimoniare il da lui citato criminale di guerra Bill Clinton, seguito poi dai succedanei D’Alema, Blair, Chirac e affini), la negazione di terapie richieste e l’obbligo a quelle non volute.

Milosevic, nel silenzio del sistema legale e di quello mediatico, fu rinchiuso in una vergine di Norimberga giudiziaria. Cionondimeno riusciva, passo dopo passo, a far emergere il vero volto, euro-americano, delle guerre balcaniche, dei massacri, delle pulizie etniche. Bisognava fermarlo. Lo si è fermato quando già aveva vinto e il Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia era a tutti gli effetti destinato alla discarica della storia. Nelle ore prima di quella foto sul televisore, Slobo mi aveva raccontato un gran pezzo della vita sua e del suo paese. Un discorso la cui architettura erano fatti, date, citazioni. Ne uscivano i protagonisti della vicenda nelle dimensioni e con i profili che la storia conferma e confermerà: le ipocrisie dei negoziatori alleati e i trucchi di Rambouillet, le mille diffamazioni di una sistema imperialista che, essendo gestito da criminali, si era convertito in coacervo di Stati criminali, l’utilizzo di mafie e quinte colonne contro il governo democratico, l’ininterrotto uso dei termini “dittatore” e “despota”, le bugie sui famigliari: Mira Markovic che diventa “Lady Macbeth”, secondo un’iconografia classica degli stregoni della guerra psicologica, la stessa delle varie “Lady Antrace” o “Lady Veleno” irachene; la piccola boutique del figlio Marko che diventa la satrapica catena di negozi di un puttaniere che, in pieno bombardamento, si permette addirittura di costruire un parco giochi per bambini, magari per attenuare il trauma delle atrocità Nato… Ma anche il racconto della propria vicenda come barriera contro la spinta verso l’abisso di qualcosa che andava ben oltre la Jugoslavia. Slobo aveva parlato con voce piana, senza alterarsi, con qualche virata verso l’ironia, con qualche momento accorato. Poi la foto e ci siamo salutati, noi con la sensazione fredda di un qualcosa di terribilmente inesorabile, lui certo con la stessa consapevolezza, ma senza aggravarci dandocela ad intendere.

Curiosamente, tra i tagli di luce che dagli alberi neri piovevano sul viale, come fossimo davanti al banco di un “Tre palle un soldo” mi sfilavano nella mente le facce dei politici che accompagnano la stagione del nostro sconforto: pagliacci, imbonitori, trucidi, idioti, perversi, voraci, ottusi, volgari, osceni. Milosevic, alle nostre spalle nell’arco del portico, ci salutava con la mano. Strana inversione : noi partivamo, ma restavamo; lui era fermo lì, ma capimmo che sapeva di essere lui ad andar via, a lungo. Quell’intervista, oggettivamente storica, la portai all’allora mio giornale, “Liberazione”, quello di Bertinotti. L’omologa del capo, Rina Gagliardi, la rifiutò con la seguente motivazione, di chiaro tenore democratico e professionale: “Mica ci possiamo appiattire sulle posizioni di un Milosevic!”. E già, “il macellaio dei Balcani”… Passai l’intervista a gratis al maggiore quotidiano italiano, “Corriere della Sera”, che ovviamente la pubblicò. A proposito di ignavia. Ne hanno espresso uno tsunami i capi e capetti del movimento, sia quelli che si erano squali-ficati a Sarajevo, cattopacifisti, sindacalisti, disobbedienti imbroglioni o imbrogliati, missionari, ambiguoni ed infiltrati travestiti da non-violenti, sia gli antimperialisti. Antimperialisti finchè si vuole, ma rettificare le infamie su Milosevic e schierarsi dalla parte di questo autentico combattente antimperialista, beh, sarebbe imbarazzante, magari pericoloso. Ne avete ascoltato in questi giorni il silenzio da sordomuti? Niente giornata della memoria per la Serbia, per Milosevic. Slobo, pochi giorni prima, aveva detto ad amici che non si sarebbe arreso a nessuno, se non alla morte. Ha mantenuto la sua promessa e, come aveva denunciato gli assassini del suo paese e gli iniziatori di una guerra globale contro l’umanità, prima di essere ucciso aveva additato i suoi boia e i loro fini.



Ma che la morte lo abbia sconfitto è tanto poco vero quanto lo fu nel caso del Che. Gli ignavi di allora furono confusi, i bugiardi smascherati, i vili svergognati, i criminali puniti, o quanto meno condannati dagli uomini. E il Che vinse in Bolivia. Quarant'anni più tardi, ma vinse. Così sarà, a tempo debito. Qualche serbo c’è ancora. Rispondendo alla domanda in televisione su cosa pensasse di Slobodan Milosevic, il calciatore Sinisa Mihailovic, quello del “target” sotto la maglia, ha detto, senza un filo di esitazione e con decisione irrevocabile, “*E’ il mio presidente!*” Vorrei poter dire la stessa cosa anch’io. La dico.

sabato 20 marzo 2010

ONORE A SLOBO! VERGOGNA E DISONORE AI CORIFEI DEGLI ASSASSINI.







Scritto in morte di Slobodan Milosevic, nell’anniversario del crimine Nato, il 14/3/06, e ribadito con maggiore forza oggi che il silenzio dell'omertà cerca di occultare gli infami della "sinistra" che si "adeguarono".






Ho tra le mie foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan Milosevic. Siamo a casa sua, la residenza di Stato del presidente della Jugoslavia, ormai “Piccola Jugoslavia”, sulla collina di Dedinje in vista del Danubio ed è il 27 marzo 2001. Fuori dalla villa, amici e militanti del Partito Socialista contengono una piccola folla che sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito più che da un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di un’organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, “Otpor”, finanziata ed addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e del narcotraffico George Soros per questa e tutte le successive "rivoluzioni clorate", arancione, rosa, o verdi che fossero.


Tre giorni più tardi queste bande e i loro padrini internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato e, qualche mese dopo, consegnato per 30 milioni di dollari, trenta denari, agli sgherri di un tribunale-farsa istituito all’Aja dal governo Usa con la firma del notaio Kofi Annan ed affidato a fiduciari, rinnegati dell’ordine giudiziario, come le “procuratrici” Louise Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il capomafia e Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi del suo paese da colpire: raffinerie, industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole, ospedali, gente: 10.000 vittime per 78 giorni di intervento umanitario contro una totalmente inventata “pulizia etnica” in Kosovo. Con sulla torre di controllo, in primissima fila, Massimo D’Alema (non pago del bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi: “E’ giusto espandere la democrazia anche con la forza”).


Guardo quella foto mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini falso-vere di una logora propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio nevroticamente sincopato, di una corifea di tutti gli “interventi umanitari”, Giovanna Botteri del Tg3. Una che ricordiamo stracciarsi le vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini sventrati e di turbe in stracci messe a fuoco, che si trattasse della Jugoslavia, o dell’Iraq, con pari dedizione saprofita. Segue un'altra stampella delle ragioni per l’ “intervento umanitario”, Ennio Remondino, che, riconfermandosi gabbamondo da tavolino con le tre carte, con supponenza elargisce e mescola “il despota Milosevic”, “il presidente democratico Djindjic”, i cattivi bombardamenti Nato e i cattivissimi nazionalisti serbi.


Intanto mi premono sullo stomaco, forse un po’ come quell’ultimo pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne l’esito vittorioso sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche, passate e presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici e vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la sepoltura di un nobile paese. Il dolore per la morte da assassinio di quest’ uomo, senza retorica figura da tragedia greca, si mescola con rabbia, indignazione, ripugnanza e ne viene quasi temperato.Non mi riferisco alla grande stampa della borghesia, dall’Unità a Libero, da Ferrara a Mieli. Fetecchie da “macellaio dei Balcani”, o ”Hitlerosevic”. Chissenefrega, quelle sono le voci del padrone, fanno il loro mestiere di ruffiani. La loro dimensione è la menzogna strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che servono e, sempre più spesso, sono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza dall’altra parte della trincea. Non c’è scandalo. La collera e il disprezzo sono tutti per coloro che, dicendosi a sinistra, per la pace e per gli oppressi, pretendono di elargirci verità e che, facendo slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè inermi e non-violente) i paradigmi dei carnefici e strategicamente questi puntellano e agevolano.
A costo di scandalizzare coloro che, in buonafede, si sono fatti passivamente intossicare dalle menzogne finalizzate a distruggere la Jugoslavia e il suo cuore, la Serbia, estendo le mie valutazioni e la mia solidarietà anche a Radovan Karadzic, oggi imputato moralmente e politicamente vittorioso al “tribunale” dei genocidi USA-UE all’Aja, e a Ratko Mladic, cui auguro una vita libera e un riscatto dalle infamie che gli sono state attribuite. Sono stati due eroici difensori della Jugoslavia sovrana e antimperialista, dell’integrità della Serbia, della resistenza alla Nato. Quanto a Sebrenica, che nella versione destra-sinistra ha gli stessi attributi di verità dell’attentato Sion-Usa dell’11 settembre, delle armi di distruzione di massa irachene, dei curdi gassati da Saddam, dell’ Al Qaida inventato e gestito da Bush e Obama, di tutte le “rivoluzioni colorate”, del “terrorismo islamico”, del Berlusconi vessillifero di amore, basta andare a leggersi in rete le documentazioni che hanno disintegrato la colossale menzogna. Una menzogna che ha solo uno scopo: demonizzare i serbi ed evitare che un giorno i responsabili di questo nazionicidio vengano chiamati a risponderne con sacrosante riparazioni e con la condanna al massimo della pena

lunedì 15 marzo 2010

BLOODY SUNDAY
















Cari interlocutori, per un po' sarò lontano da questo arnese. Ci rileggeremo fra una decina di giorni, quando cercherò di raccontarvi qualcosa sulle recenti "elezioni" irachene, quella tragicommedia che da destra e da sinistra vi è stata rappresentata come il "trionfo della democrazia" e il "consolidamento della pace" nel paese che invece continua a essere il più martoriato e resistente del mondo.
Intanto vi saluto con queste foto che ho scattato a Derry, Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972, Bloody Sunday, Domenica di Sangue.
Giorni fa nelle Marche un gruppo di ragazzi ha organizzato iniziative pubbliche ad Ancona e all'università di Civitanova con la proiezione di un documentario su Bloody Sunday e un mio intervento. Ne ammiro la capacità di memoria.
Ero stato l'unico giornalista straniero sul posto. Anzi, insieme a un fotografo francese, l'unico reporter in assoluto. Era il giorno, da tempo annunciato, di una grande marcia dal quartiere alto, Creggan, al cuore del ghetto cattolico-repubblicano, Bogside. La manifestazione, alla quale avrebbero dovuto poi parlare i massimi esponenti della lotta nordirlandese, coronava quattro anni di movimento per i diritti civili di una comunità che i colonialisti britannici e i loro oligarchi protestanti unionisti locali avevano da sempre escluso da ogni partecipazione al governo di questo pezzo di isola irlandese, sottratto da Londra all'unità nazionale. Una comunità priva di diritti, in condizioni sociali abiette, ferocemente discriminata e repressa.
La stampa britannica e internazionale, accorsa in massa per l'evento, era stata bloccata dalle truppe britanniche fuori dal ghetto. Il francese e io eravamo dentro perchè, giornalisti squattrinati, freelance (scrivevo per "Giorni Vie Nuove", "ABC" e "Lotta Continua"), ci eravamo fatti ospitare nelle case del ghetto. E questo gli inglesi non avevano previsto.
Ventimila persone, quasi tutta la popolazione del ghetto, uscite dalle loro casette "matchbox-houses", tipo scatola di fiammiferi, sfilano dalle alture di Creggan. In basso, alla svolta verso Bogside provano, con proteste e qualche sassata, a infrangere la barriera posta dai soldati per impedire a metà dei cittadini di Derry di frequentare la propria città. La risposta sono idranti di acqua colorata e un uragano di gas. Il corteo gira a destra verso la piazza centrale di Bogside. Io mi trovo in coda. Sono circa le 16 quando un rombo annuncia l'irruzione di blindati britannici. La gente, temendo per esperienza il peggio, cioè una gragnuola di bastonate, inizia a fuggire verso la piazza. Fotografo i blindati che si aprono e sputano enormi insetti neri, con le maschere antigas e in mano un fucile da caccia agli elefanti, la carabina Sterling. Paracadutisti del primo battaglione, truppe d'elite. Alcuni corrono appresso ai manifestanti, altri mettono giù il ginocchio e mirano. Inizia una sparatoria che durerà un'eterna mezz'ora. Alla fine 14 civili uccisi, perlopiù con proiettili nella schiena, decine di feriti. Un militare si accorge che vado fotografando e registrando i suoni, mi passa accanto un fischio e schegge schizzano dal muro. Salgo al primo piano di un palazzo per fotografare dall'alto. Riprendo i killer che si accaniscono su ragazzi aggrovigliati feriti per terra. Li finiscono. Anche allora un parà si accorge di me alla finestra e mi tira tre colpi. Ho ancora la foto con i tre buchi nel vetro.
La radio dell'esercito intima di arrestarmi "a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo". Brutto annuncio, me lo comunicano i ragazzi di Bogside e mi portano in una casa nascosta in fondo al quartiere. Si tratta di salvare il materiale audivisivo che avrebbe raccontato al mondo cosa l'esercito di sua maestà aveva perpetrato a Derry. Alle 17 il generale comandante degli stragisti annuncia al TG che i parà hanno dovuto difendersi da cecchini dell'Ira sui tetti e che due di loro erano rimasti feriti. Neanche un alito sui 14 assassinati a freddo. Non c'è mai stata l'ombra di un cecchino dell'Ira, nè di un parà ferito. Anzi, i ragazzi dell'Ira avevano disarmato l'unico manifestante che, nella rabbia e disperazione, aveva tirato fuori una pistola.
Quella notte, per fortuna di nebbia, Martin McGuinness, diciottenne capo dell'Ira a Derry, mi sbolognò oltre confine, nella Repubblica, per vie di campagna e con ripetuti cambi di macchina.
Il materiale che documentava i crimine ordinato dal Premier Douglas Hume era salvo. Uscì nelle prime edizioni dei giornali e il frastuono degli spari (tutti di carabina Sterling britannica) e delle urla dei disperati e dei morenti si diffuse dalla televisione irlandese in tutto il mondo.
Quanto a me, capii allora come funzionano il potere e i suoi media. Oggi, 38 anni dopo, all'ingresso di Bogside una gigantografia della mia foto che ritrae Padre Daly che cerca di portare in salvo, sotto le pallottole, il sedicenne Jack Duddy moribondo, ucciso per primo, dice al visitatore che Derry non si arrende e che il potere capitalista è per sua intrinseca natura assassino.

mercoledì 10 marzo 2010

IL BERLUSCHELETRO NELL'ARMADIO Di NAPOLISCONI







Se si presenta una causa e tu sai nel profondo che è giusta, ma rifiuti di difenderla, in quel momento incominci a morire. Non ho mai visto tante cadaveri che vanno in giro parlando di giustizia.(Mumia Abu JamalLa fiducia dell'inocente è lo strumento più redditizio del bugiardo.(Stephen King)La tirannia del principe in un'oligarchia non è dannosa al benessere pubblico quanto l'apatia del cittadino in una democrazia.(Charles de Montesquieu
In calce a questo pezzo trovate due riproduzioni di contributi che ritengo valga la pena prendere in considerazione. Il primo è un appello a firmare contro l’aggressione USraeliana all’Iran, sul quale personalmente sono d’accordo, anche se avrei gradito un riferimento all’olocausto inflitto all’Iraq, nonché alle responsabilità dell’Iran, allora alleato degli Usa, in quell’olocausto.
L’operazione di Greenpeace, bravissimi ed efficaci come sempre, serva da esempio ai vari sonnecchiosi e ciarlieri oppositori dell’attuale regime, comunisti e non, per capire come anche in quattro gatti, ma con volontà e fantasia, si possano infliggere colpi a questo concorso di banditi. Comunque, tra tanti chiacchieroni e convegnisti di comunisti disuniti o uniti, vada un plauso all’esempio del “fare” offerto dai ragazzi di Rifondazione Comunista intervenuti con due tendopoli e cucine da campo nella catastrofe bertolasiana, allestita per sfruttare a dovere la prevedibile e prevista catastrofe sismica. Il loro lungo e intelligente lavoro ha sicuramente contribuito alla coscienza politica e all’esemplare mobilitazione del popolo aquilano dei carretti. Nessuno meglio di tutti costoro ha inciso nel bubbone dell’intervento di regime.

Il capo dello Stato, osannato per motivi tutti suoi dal guitto mannaro alla testa dell’orda cavernicola eversiva, ma ahinoi circonfuso di indulgente tenerezza anche dalla turba di sconnessi corifei di “sinistra”, non spunta dal nulla quando viene eletto presidente della Repubblica. Degno germoglio della mala pianta togliattiana, escrescenza saprofita della borghesia impegnata a recuperare col capitalismo da pseudodemocrazia anglosassone ciò che aveva perso col fascismo in rotta, ha guidato, dagli esordi fino alla disintegrazione sotto le macerie di tangentopoli, l’estremismo collaborazionista della destra del PCI, detta dei “Miglioristi”. Un gramignoso sottobosco ladrone nelle crepe del postribolo craxista, premiato per la sua funzione di stampella sinistra al progetto totalitar-mafioso di alcuni ceffi della Provvidenza, da Craxi a Berlusconi. Per assaporare tutto il gusto dell’abiezione tardo-piccista della masnada migliorista e, di conseguenza, per non farsi abbindolare da una qualsiasi Ida Dominijanni della truppa pretoriana mediatica di Giorgio Napolitano (“Il manifesto”), ecco qualche estratto dalla loro (della masnada e di Napolitano) rivista “il Moderno”. Periodico di famigliari e sodali, al massimo 500 copie vendute, tenuto in coma vigile dalla pubblicità Fininvest durante gli anni ’80. Quelli del Grande Balzo in avanti di mafia, massoneria, fascismo postmoderno, ormai padroni della polis. “Il moderno” ne lastricava gli angiporti.

Letto questo, ci vuole la dabbenaggine, o la bulimia entrista, degli eunuchi scaturiti dalle malformazioni genetiche della sinistra italostronza, per dare addosso a un Di Pietro (non datemi del dipietrista, vi supplico, trattasi di contingenze) quando denuncia del garante della Costituzione il tip-tap ballato con gli anfibi sul lavoro, firmando la legge contro l’articolo 18 (che, scomparso il diritto alla giurisdizione, vuol dire la fine del diritto a tutti i diritti); sulla legge uguale per tutti, firmando ogni flatulenza autoimmunizzante del guitto mannaro, fino al decreto che trasforma l’autogol in rete all’avversario; sul rifiuto della guerra, firmando ed esaltando l’irruzione di tagliagole col tricolore nella pace, nella vita, nella libertà degli altri. Certo, “in difesa della pace, della democrazia e (più sommesso) degli interessi italiani” .

La rivoluzione Berlusconi è di gran lunga la più importante, cui ancora qualcuno si ostina a non portare il rispetto che merita per essere stato il principale agente di modernizzazione, nelle aziende, nelle agenzie, nei media concorrenti. Una rivoluzione che ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere, oltre a una cultura pubblicitaria nuova, mille strutture e capacità produttive (“Il Moderno” febbraio 1986, p.115).

Il Moderno” napolitanesco vivacchia ancora per un po’ la sua stentata vita di bollettino della Fininvest (con la quale, in amorosa comunità d’intenti, il subcomandante Gianni Cervetti frequenta ambienti moscoviti, proprio come il compagno rossissimo Cossutta combina affarucci con Berlusconi: gli estremi si infettano), fino a quando la corrente non viene stritolata da Mani Pulite. Avrà poi la soddisfazione di vedere il suo cadavere rianimato in zombie da uno stuolo di epigoni: Occhetto, D’Alema, Fassino, Veltroni, Finocchiaro, Bertinotti, Bersani. C’è un mio gentile commentatore che si inalbera per il mio precedente post : “Mica l’ha fatto il PD il golpe (del decreto salva-imbroglioni elettorali)! “. Amico mio candidissimo, ma chi è che fa da comico e chi da spalla? E sono molto diverse le funzioni? Lo scopo comune non è far ridere? E quando un PD allestisce una manifestazione – finalmente! – contro il decereto salvabrogli, un obbrobrio che, di fronte alla rivolta popolare, proprio non si poteva permettere di trascurare, e quando simultaneamente insiste nella venerazione e legittimazione di colui che in tale decreto ha insufflato potere esecutivo fuorilegge, lo scopo finale non è tanto di farci ridere, ma di restare con i pantaloni sulle caviglie, quindi alla mercé, quindi inutili, quindi complici. Pali della rapina, se non altro.

Intanto D’Alema e Violante - coppia nerissima, ma anche campionessa del patetico, che rincorre il guitto mannaro come l’eterna maglia nera Malabrocca si affannava lontano dietro al dopato primo in classifica - stavano brigando nel sottoscala di Palazzo Chigi per offrire ai taffaziani PDL di Lazio e Lombardia una via d’uscita, anzi di rientro. Alla faccia delle regole e dello sconcio giuridico della retroattività. Berlusconi non li ha neanche visti. Si è stropicciato le scarpe sullo zerbino portogli da quelli ed è asceso al Qurinale con un decreto tutto suo. E di Napolitano. Di Vittorio Emanuele Napolitano che, trovatosi di fronte un capo squadrista che sbraitava: “Ti rivolto contro la piazza”, ha travolto ogni remora legalitaria (magari non sua, del popolo tumultuante) ed ha firmato. Così l’omologo predecessore, quando, con gli unni in camicia nera alle porte di Roma, firmò la nomina di Benito Mussolini a capo del governo. E corse per liberarsi al gabinetto. Al successore è bastata la minaccia. Se il guitto mannaro mette le bombe alle mura difensive della Costituzione, il neo-Savoia gli accende la miccia mentre il PD lo nasconde tra i fumogeni: “Il presidente Napolitano continua ad operare con grande equilibrio e garanzia per tutto il paese”, così l’umorista La Torre, uomo di panza di D’Alema, quello dei pizzini al PDL Bocchino, confondendo la garanzia per il guitto mannaro e la sua muta con quella per il paese. O forse identificando il paese con la muta del guitto mannaro. Valentino Parlato ha definito “un’idiozia” l’impeachment del capo dello Stato e, una volta di più, il sostantivo gli è rimbalzato addosso. Per Clinton e Nixon c’era voluto molto meno. Dice una parola definitiva e sanzionatoria Luigi De Magistris, il migliore dei nostri rappresentanti politici, anche per il suo indefesso impegno per i palestinesi: “Napolitano sta avallando l’attuazione del Piano di Rinascita ideato da Gelli (e dalla Cia) e oggi realizzato dal premier piduista Berlusconi”. L’evidenza dimostra che lo faceva fin dal tempo dei suoi “miglioristi”.

Addio suffragio universale
Con questa gente non si vota più. Non si vincerà mai più nessuna elezione importante. L’abbrivio è stato progressivo, a partire dalla liste di candidati blindate dai rispettivi caudilli, fino alla legge elettorale che assegna la maggioranza assoluta al primo arrivato, fosse anche rimasto al 18%. Per cui il mio voto vale una cacchetta di mosca rispetto al tuo. Senza calcolare l’impossibilità per le masse più vaste di farsi un’opinione scevra da lavaggi del cervello da parte di un sistema mediatico interamente alleato o aggregato alla criminalità politica organizzata. Ma poi c’è stato l’esempio della più Grande Democrazia del Mondo, con due elezioni successive del coglionazzo dell’11 settembre, George Bush, palesemente falsate grazie alle manipolazioni della Diebold, società informatica agli ordini dei golpisti Usa. E vuoi che i vassalli non seguano il modello, anche perchè dotato di mezzi e tritolo per far saltare qualsiasi assetto democratico di qualsiasi paese da tenere al guinzaglio? In Messico il narcorappresentante Usa Calderon ha prevalso sul socialdemocratico onesto Obrador grazie allo spostamento manu militari di un milione di voti. In Honduras un presidente legittimo è stato sostituito, con elezioni alla baionetta e agli squadroni della morte israeliani, cui partecipò il 30% della popolazione, dal fantoccio Usa Pepe Lobo. In Afghanistan gli sgherri del narcoburattino Karzai hanno riempito le schede che un popolo in rivolta rifiutava in massa. In Iraq, una prima volta, 2005, le elezioni sono state vinte dai pulitori etnici sciti grazie a vagonate di schede votate in arrivo dall’Iran, con oltre metà della popolazione rimasta a casa; e, una seconda, l’altro giorno, la cui correttezza e valenza “altamente democratica” (meno del 50% di votanti e brogli a gogò) poteva essere avvallata solo da collusi con l’occupazione e con i banditi al governo di obbedienza Usa-iraniana, tipo Feltri, Giuliana Sgrena e Hillary Clinton (sulle elezioni irachene torneremo con post apposito).

Per vanificare l’ultima elezione regolare verificatasi nello spazio a dominio occidentale, “democratico”, quella del 2006 in Palestina, è successo il cataclisma. che si sa. L'hanno fatta pagare costruendo l'Auschwitz di Gaza. E anche sullo spoglio delle schede nelle elezioni che ci hanno ripropinato il guitto mannaro e aperto la strada al fascismo postmoderno, ci sarebbe da dire tutto il nondetto, o appena fugacemente sussurrato, dagli “sconfitti”. Ricordate il casino delle notte dello spoglio al Viminale, che si ferma a metà e riprende dopo ore e l’irruzione del povero Fassino? Con questa accozzaglia si ladri, corrotti, banditi, al potere di controllo sul conteggio e sul tragitto delle schede, anche al di là della forza condizionante del monopolio mediatico, nessuna elezione sarà mai più vinta da oppositori veraci. Del resto il suffragio universale, ce lo scordiamo, è pianticella di recente piantumazione, strappata, da forze che oggi ci sognamo, a una giungla parassita che non ha mai dismesso la strategia di rivincita. Chi sfoltisce a forza di guerre di sterminio, sociali e belliche, un’umanità renitente o considerata in esubero, non ha certamente il minimo scrupolo a sfoltire qualsiasi voce, anche elettorale, che non risulti sinergica al vampirismo del capitale. Così, alla vigilia delle elezioni, hanno eliminato perfino un’informazione da cui poteva trasparire qualche motivo per non insistere a leccare il culo alla cosca reggente. Doveva essere sostituita da “tribune politiche” nelle cui grottesche sceneggiate si sarebbero dovuti poter esprimere anche soggetti e soggettini che alitassero concettuzzi vagamente diversi. Le avete viste voi le “tribune”? Ci ha pensato Maroni: a due settimane dal voto del 28 marzo non ha ancora fornito l’elenco dei partiti che possono accedere alle tribune. Finito il tripudio ingannevole delle elezioni in democrazia capitalista, tocca pensare ad altro.

Di presidente in presidente, di picciotto in capomafia. Per oltre un anno dall’inizio di una presidenza dalle origini wallstreetiane e pentagonali, “il manifesto” ha fatto un tifo prima scomposto, poi condito da perplessità, per “l’uomo del cambio” Obama. Ida Dominjianni stragorgeggiava di una “nuova era”. Ancora giorni fa reclutava quella canaglia ipocrita tra le “forze mondiali di sinistra”. Mariuccia Ciotta dava dell’”angelo” alla furia di guerra Clinton. C’ è voluto un ripensamento tardivo e pudico, a catena di crimini avviati fin dal primo giorno, che però, pilatescamente, “il manifesto” non ha fatto in prima persona, ma assegnandone l’onere a una citazione, quella del giornalista Usa Chris Hedges: “Obama mente in modo altrettanto vile, se non altrettanto crudele, di Bush”. E giù un rosario di infamie: ha compiuto un salvataggio miliardario dei farabutti bancari colpevoli della crisi con la cacciata in strada di milioni di lavoratori innocenti e inermi, con il più massiccio trasferimento di ricchezza verso l’alto di tutta la storia Usa; ha confermato e allargato lo Stato di polizia interno attraverso intercettazioni e sorveglianza ad libitum, senza mandato giudiziario, di cittadini dei quali ha autorizzato l’esecuzione extragiudiziale sulla base del sospetto; non ha ritirato le truppe dall’Iraq e ha allargato l’aggressione militare dall’Afghanistan al Pakistan alla Somalia allo Yemen, condotta con armi più sofisticate (missili stragisti Hellfire e droni) per lo sterminio di civili, di donne e bambini; avallando la tremenda farsa dell’11/9, ha rilanciato e potenziato la guerra infinita e universale a un “terrorismo islamico” che è tutto di invenzione Usa, o viene applicato, complice “il manifesto” e Co., a qualsiasi forza di resistenza, di libertà, di giustizia; dopo averne promesso il ritiro, ha ripreso e potenziato in Europa lo scudo missilistico da primo colpo; non ha chiuso Guantanamo, non ha fermato le torture, non ha ripristinato con l’habeas corpus i diritti fondamentali. Ha allestito un colpo di Stato fascista in Honduras e va preparando avventure militari contro i paesi progressisti dell’America Latina. Ha occupato militarmente Haiti, ritardando ad arte gli aiuti, perchè scomparissero alcune centinaia di migliaia di poveri e lasciassero il posto a villaggi turistici e multinazionali. Ha fornito ogni sostegno ai genocidi israeliani, compresa la loro foia di guerra all’Iran, e riattivato gli squadroni della morte, detti delle “operazioni speciali”, nell’universo mondo. Sta cacciando in gola a 40 milioni di statunitensi derelitti una legge sanitaria che regala centinaia di miliardi di dollari ai cannibali delle assicurazioni private. Ha sancito, con il sabotaggio del vertice climatico di Copenhagen, l’accelerazione della corsa verso la distruzione della vita come la conosciamo noi. Da ambientalista conclamato, ha messo a rischio il pianeta intero obbedendo all’ennesima lobby del necroprofitto rilanciando le centrali nucleari. Che poi produrranno quelle scorie ineliminabili, utilizzate al meglio dagli assassini di massa delle armi all’uranio. Merita senza alcun dubbio il premio Nobel di “Primo terrorista del mondo”.

Conclude Chris Hedges, che non è neanche comunista, e forse per questo non ha inibizioni: “La timidezza della sinistra espone la sua viltà, la sua mancanza di nerbo morale e la sua crescente impotenza politica. E peggio il danno arrecato da questa sinistra, di quello causato da Obama.” Che altro dire all’amico che mi ha rimbrottato : “Non è stato il PD a fare il golpe”? Già e anche il papa, quello degli abbracci riabilitanti ai predatori della politica e della protezione civile, quello sul quale la corsivista del “manifesto” Adriana Zarri si commuove “perché ama i gatti”, forse non ha inchiappettato e seviziato bambini. Lo hanno fatto le “mele marce” che tracimano, oltreché dal Duomo di Ratisbona, da ogni singolo covo di preti, frati e suore nel mondo e cui, appropriatamente, piduisti, fascisti postmoderni e chierici vogliono affidare l’educazione e la formazione delle nuove generazioni. In parallelo con la Gelmini. Tutti o sodomizzati, o decerebrati. Che votiamo a fa’.



Per aderire a questo appello scrivere a
giulemanidalliran@alice.it

Fermare l’aggressione all’Iran!
Denuclearizzare l’intero Medio Oriente!
Porre fine all’assedio di Gaza e al martirio del popolo palestinese!

Sin da quando G.W. Bush definì l’Iran uno “Stato canaglia” è in corso contro questo paese dalla storia plurimillenaria e il suo governo una brutale campagna di demonizzazione; una campagna fondata sulla menzogna che con tutta evidenza serve a spianare la strada all’aggressione militare. Tutti ricordiamo come fu preparata la guerra all’Iraq. Mentre le sanzioni e l’embargo provocavano mezzo milione di morti (anzitutto bambini, a causa dell’assenza di medicinali, latte e beni di prima necessità), l’Iraq era accusato di accumulare “armi di distruzione di massa”. Come dimenticare la grande messa in scena con cui Colin Powell, per giustificare quella che sarà la più grande carneficina dopo il Vietnam, giunse a ingannare l’assemblea dell’ONU mostrando la famigerata “pistola fumante”?
Gli Stati Uniti, che difendono la loro supremazia mondiale con migliaia e migliaia di testate nucleari e la più imponente macchina bellica di tutti i tempi, giustificano le terribili sanzioni da imporre all’Iran e l’eventuale attacco militare con l’argomento secondo cui la Repubblica islamica cercherebbe di dotarsi della bomba atomica per poter attaccare Israele. L’accusa è sdegnosamente respinta da Tehran, e comunque ancora una volta la Casa Bianca usa due pesi e due misure. E’ infatti noto che Israele possiede centinaia di testate nucleari, buona parte delle quali puntate sull’Iran e ognuna delle quali potrebbe radere al suolo Tehran.

I nemici dichiarati dell’Iran (anzitutto Israele e Stati Uniti, a cui si accoda l’Unione Europea), nel tentativo di ingannare l’opinione pubblica e compattare il loro fronte interno, indossano la solita maschera, quella di paladini della libertà, della democrazia e della non-violenza. In particolare, essi contestano al governo di Tehran la dura repressione delle proteste. I sottoscritti non amano né le dittature, né la sospensione dei diritti di libertà, ovunque questo avvenga, ma prima di dare lezioni di democrazia i nemici dell’Iran dovrebbero porre fine allo Stato d’assedio e alla minaccia militare a cui sottopongono questo paese, visto che la guerra, come la storia insegna, è il più grave ostacolo alla libertà. In ogni caso, non possono ergersi a campioni dei diritti dell’uomo quegli stessi paesi, le cui truppe compiono massacri in Afghanistan o in Palestina, che sostengono colpi di stato per rovesciare governi ostili (Honduras), che non esitano a ricorrere agli attentati terroristici o all’«eliminazione mirata» di esponenti politici o scienziati considerati pericolosi.
Mentre si aggravano i pericoli di guerra esprimiamo il nostro sdegno per le affermazioni rilasciate da Berlusconi nel corso del suo viaggio in Israele. Non solo egli ha giustificato i massacri indiscriminati contro i palestinesi di Gaza, non solo ha difeso l’idea razzista e segregazionista di Israele quale stato puramente ebraico (con la sostanziale esclusione della popolazione araba dal godimento dei diritti politici). Calpestando i sentimenti di pace del popolo italiano e danneggiando gli stessi interessi nazionali, Berlusconi ha assicurato agli israeliani che l’Italia interromperà le relazioni economiche con l’Iran e sosterrà in ogni sede la richiesta di durissime sanzioni. In altre parole Berlusconi ha dato man forte ai falchi israeliani, i quali sono pronti, una volta ottenuto il semaforo verde da Obama, a rovesciare sull’Iran un devastante bombardamento, senza escludere il ricorso all’arma atomica.

Occorre fermare l’escalation anti-iraniana e smantellare l’arsenale atomico israeliano per denuclearizzare il Medio oriente.
L’assedio israeliano di Gaza deve finire ed il popolo palestinese deve vedere finalmente riconosciuti i suoi diritti.

PRIMI FIRMATARI
- Domenico Losurdo – Università di Urbino
- Gianni Vattimo – Filosofo e parlamentare europeo
- Danilo Zolo – Università di Firenze
- Margherita Hack – Astrofisica
- Lucio Manisco – Giornalista, già parlamentare europeo
- Marino Badiale – Università di Torino
- Aldo Bernardini – Università di Teramo
- Giovanni Bacciardi – Università di Firenze
- Enzo Apicella - Designer, Londra
- Fernando Rossi - ex senatore, Per il Bene Comune
- Sergio Cararo - Rivista Contropiano
- Maurizio Fratta - Coordinatore Rivoluzione Democratica
- Fausto Sorini - Redazione de l'Ernesto
- Leonardo Mazzei – Campo Antimperialista
- Alessandro Leoni - Cpn Prc
- Riccardo Filesi - Comunisti Uniti Lazio
- Miriam Pellegrini - Partigiana di Giustizia e Libertà
- Andrea Catone - Direttore de l'Ernesto
- Spartaco Ferri - Partigiano della Divisione Garibaldi
- Andrea Fioretti - Comunisti Uniti del Lazio
- Fabio Marcelli - Vicesegretario Ass. Internazionale Giuristi Democratici
- Mary Rizzo Palestine Think tank
- Andrea Torre - Ist. Naz. Storia del Mov. di Liberazione in Italia
- Vladimiro Giacché – Economista
- Costanzo Preve – Filosofo, Torino
- Carlo Fabretti - Matematico, Accademia della Scienze New York
- Michela Maffezzoni - Fondazione Cipriani, Cremona
- Walter Ceccotti - Coord. naz. l'Ernesto
- Francesco Rozza - Coord. naz. l'Ernesto
- Enrico Sodacci - Presidente Sumud
- Maria Grazia Da Costa - Campo Antimperialista
- Gualtiero Alunni - Cpn Prc
- Ugo Giannangeli – Avvocato, Milano
- Urbano Boscoscuro - Cpn Prc
- Paolo Simonelli - Cpn Prc
- Giuseppe Pelazza – Avvocato, Milano
- Moreno Pasquinelli – Campo Antimperialista
- Hamza Roberto Piccardo – Direttore www.islam-online.it
- Tusio De Iuliis – Presidente “Passage to the South.org”
- Nuccia Pelazza – Insegnante, Milano
- Stefania Campetti - Archeologa
- Carlo Oliva – Pubblicista
- Gabriella Solaro – Resp. archivio Ist. Naz. Storia del Mov. di Liberazione in Italia
- Giuseppe Zambon – Editore
- Vainer Burani – Avvocato, Reggio Emilia
- Cesare Allara – Com. Sol. con il Popolo Palestinese, Torino
- Umar Andrea Lazzaro – Amministratore www.islam.forumup
- Sergio Starace – Colletivo Iqbal Masih, Lecce
- Antonio Stacchiotti – L.u.p.o. Osimo (Ancona)
- Gian Marco Martignoni – Segreteria provinciale Cgil, Varese
- Ascanio Bernardeschi – Prc Volterra (PI)
- Fausto Schiavetto – Soccorso Popolare, Padova
- Elvio Arancio - Resp. esteri Per il Bene Comune
- Aldo Zanchetta – Lucca
- Marina Minicucci - Giornalista
- John Catalinotto - IAC (USA)
- Paola Redaelli - Redazione "Italia Contemporanea"
- Corrado Bertani - Operatore culturale
- Stefano Franchi - Prc Bologna
- Marco Trapassi - Direttivo prov. Prc Parma
- Sergio Ricaldone - Comitato Mondiale Partigiani della Pace
- Luciano Giannoni - Segreteria prov. Pdci Livorno
- Alexander Hoebel - Università di Napoli
- Mirco Solero - Coord. naz. l'Ernesto
- Pio De Angelis - Coord. naz. l'Ernesto
- Mauro Gemma - Direttore l'Ernesto online
- Stefano G. Azzarà - Università di Urbino
- Manuela Ausilio - Comunisti Uniti Lazio
- Luca Minghinelli - Campo Antimperialista
- Massimo Maccagno - Campo Antimperialista
- Antonio Mazzeo - Giornalista
- Aurelio Fabiani - Casa Rossa, Spoleto
- Miguel Urbano - Scrittore
- Enrico Mascelloni - Critico d’arte, Roma

Per firmare l'appello scrivere a
giulemanidalliran@alice.it

DA GREENPEACEBLITZ ALLA CENTRALE DI MONTALTO DI CASTRO. ALLE 13 IL LIVE DALLA RAINBOW Ciao Fulvio , siamo in azione a Montalto di Castro! Alle luci dell´alba i nostri attivisti hanno occupato il tetto della fabbrica della vecchia centrale nucleare, bloccata dal referendum del 1987. Ora un 'urlo nucleare' di 150 metri quadrati ricopre il tetto, accompagnato dalla scritta "Emergenza nucleare". Segui l'azione in direttaNon è finita qui. Tra pochissime ore, alle 13, appena al largo della centrale, sulla nostra nave Rainbow Warrior si esibiranno in un live gli "Artisti contro il nucleare": Adriano Bono & Torpedo Sound Machine, 99 Posse, Leo Pari, Piotta e Punkreas canteranno per la prima volta dal vivo il singolo "No al nucleare". Partecipa anche tu all’evento online. Segui lo streaming in diretta sul nostro sito: http://t.contactlab.it/c/2000836/370/4001997/1956 Il nucleare è una scelta sciagurata per l’Italia e una pericolosa perdita di tempo. Tornare al nucleare significa perdere oltre dieci anni per ritrovarsi poi con centrali obsolete e pericolose. E sprecare l’opportunità di investire nelle vere soluzioni per l’indipendenza energetica e per il clima: rinnovabili ed efficienza. Tocca adesso ai candidati alla guida delle regioni prendere subito una posizione chiara contro il nucleare, altrimenti dopo le elezioni verranno imbavagliati e costretti ad accettare le decisioni del governo. Intanto su Nuclear Lifestyle continua a girare il contatore delle firme contro il nucleare. Siamo più di 64mila! Grande successo anche per la nostra Nuclear Hotline: al numero verde gratuito 800.864.884 centinaia di cittadini hanno già chiamato per lasciare ai candidati i propri messaggi contro il nucleare.
Saluti e a presto!
Andrea Lepore Responsabile Campagna Nucleare

PS: Come saprai, Greenpeace è indipendente e realizza le sue campagne solo grazie all’aiuto di singole persone come te. Diventa un sostenitore di Greenpeace! Sostieni questa e altre campagne in difesa del pianeta.