“Il
Mossad è un’organizzazione criminale con la licenza” (Tamir
Pardo, ex-capo del Mossad)
Attentato, com’è andata davvero
Tra le tante versioni che circolano, quello più attendibile in base a fonti non interessate è esemplificata nella mappa. Per certo non è credibile la fesseria di una mitragliatrice automatica, su un mezzo poi fatto saltare in aria. Operazione in grande stile, invece, con la partecipazione di 62 persone delle quali 12 in azione armata. 1) Il convoglio dello scienziato di tre vetture blindate entra nella rotonda da cui si arriva alla cittadina di Asbard. 2) Salta per aria un’autobomba che abbatte un traliccio, provoca un blackout nell’area e colpisce la vettura di coda. 3) Un’auto Hyundai Santa Fè con 4 passeggeri, quattro motociclette e due cecchini, è appostata al lato opposto. Da qui si apre il fuoco dopo l’esplosione che ha bloccato le macchine.4) Uno del commando trascina Fakhrizadeh dalla macchina e lo finisce sulla strada, dove, infatti, resta una larga pozza di sangue.
Perché il governo di Ahmed Rouhani parla di un’operazione
assai meno complessa? Perché si tratta di occultare l’inefficienza dei servizi
di sicurezza a protezione dello scienziato, denunciata anche dagli ambienti
militari, e l’impressionante grado di infiltrazione di elementi nemici e di
collaborazionismo interno. Una debolezza che contrassegna l’intero mandato dell’attuale
presidente, espressione, dopo gli anni di Ahmadinejad e nonostante i tentativi
di contrasto dei cosiddetti “radicali”, o “conservatori”, di quelli che in
Occidente vengono magnificati come “”moderati”. Come spesso succede, la
divisione di classe si traduce in divisione geopolitica: da una parte il
popolo, antimperialista e per la sua sovranità, dall’altra l’élite, propensa
alla consociazione nel segno del mercato senza confini.
Non c’è, oggi, terrorismo che non sia di Stato
In ogni caso, lo abbiamo imparato in Siria, Libia, Iraq, e
ora di nuovo in Nagorno Karabakh, anche se non agisce in prima persona, ma
utilizza contractors sotto varie bandiere, il terrorismo è sempre di Stato. E
oggi le guerre le fa fare ai terroristi. Le sue centrali operative non si
trovano mai lontane dalle capitali di Stati occidentali. Per quanto la loro propaganda,
ricorrendo alla tecnica del bue e dell’asino, si affanni a farle comparire,
puri ologrammi, in quelle di Stati orientali. Tipo “L’Iran è il massimo diffusore
del terrorismo”.
Netaniahu: facciamolo fare a Trump
L’attacco turco-azero-israeliano, con innesco e contributo,
precede, non casualmente, ma in una studiata strategia, l’iniziativa di mettere
le cose in Medioriente, Eurasia e tutt’intorno alla Russia, davanti al fatto
compiuto. Poi, la grottesca affermazione che agenti del Mossad avrebbero ucciso
un capo di Al Qaida a Tehran, doveva collegare la loro creatura terrorista a
quel paese, creando il presupposto diffamatorio per un’escalation.Sempre puntando
al Caucaso, direzione Mosca, c’è infatti da disintegrare lo scoglio persiano. Magari
prima che Joe Biden si installi nella Casa Bianca e debba, lui, iniziare un’altra
guerra, dopo quelle in atto, tutte lanciate dai suoi padrini di oggi.
Il presidente Trump aveva provato, anche con certi regali,
tipo la capitale a Gerusalemme, ad attenuare le pressioni di Israele e della
sua rappresentanza obamian-neocon perchè muovesse guerra all’Iran, ritirandosi
dal trattato nucleare e moltiplicando le sanzioni. Contemporaneamente riduceva
il proprio contingente in Siria e sospendeva l’attivazione delle bande
jihadiste in Siria e Iraq, a suo tempo messe in campo da Obama e dagli alleati
turchi e del Golfo. C’era anche l’Egitto, del fidato Fratello Musulmano Morsi,
prima che, con Al Sisi, si schierasse con Damasco, addirittura con proprie truppe
(il che contribuisce a spiegare la virulenza anti-egiziana, col pretesto
Regeni, del “manifesto”, di tutta la stampa atlantico-sionista, di Roberto Fico
e altri virgulti del Deep State).
Mancano meno di due mesi all’investitura di un presidente, minus
habens quanto Bush Jr, cui si può far fare quel che si vuole. Ricattabile
quanto l’altro e portato alla vittoria dalle più sporche elezioni mai viste
negli USA che, pure, ne ha pratica storica, in casa e fuori. Far fare al
predecessore il botto grosso che tolga di mezzo l’ultimo baluardo
antimperialista nella regione tra Golfo Persico, Caucaso e Cina, è il piano
emerso nell’incontro a tre, semisegreto ma fatto intendere, tra Pompeo,
Netaniahu e Bin Salman in Arabia Saudita. Piano da far partire con l’attentato al capo
degli scienziati nucleari iraniani e comandante delle Guardie della Rivoluzione,
Mohsen Fakhrizadeh.
Pompeo, l’infiltrato neocon alla corte del re
Se ne è compiaciuto Pompeo, meno Trump. Comprensibilmente
così, se si pensa che il Segretario di Stato, da sempre un falco di guerra, è
stato subìto da Trump, come altri ministri, per tenersi buoni gli avversari del
governo profondo. Si ricordi il suo costante sabotaggio dei tentativi di dialogo
nei confronti di Russia, Nordcorea, Libia, del disimpegno dall’Europa e altri
nodi geopolitici. Una vera serpe in seno.
E’ dai tempi di Khomeini e, soprattutto da quelli del
migliore presidente che la rivoluzione islamica abbia prodotto, il
modernizzatore e coerentemente antimperialista Mahmud Ahmadinejad, che il paese
più aggressivo del Medioriente, unico dotato di armi nucleari, spasima per aggredire quello meno aggressivo e
senza armamenti atomici. Laico, uomo non solo del popolo, di cui ha favorito il
confronto con l’alta borghesia occidentalizzante (quella di Rouhani), grande
amico di Hugo Chavez (se ne ricorda il pianto alla morte del “Comandante”), Ahmadinejad
ha favorito il superamento di certi arcaismi del costume, la libertà delle
espressioni culturali (il grande cinema iraniano), ha tenuto la barra dritta,
pur sotto sanzioni, su una politica di sovranità nazionale, anche in campo
nucleare. Impegnato nella difesa della Siria, del Libano, dell’Iraq, l’Iran non
poteva non guadagnare una grande autorità politica e morale nella regione e,
quindi, diventare la bestia nera di Israele.
Quello nucleare era il settore dello sviluppo iraniano
indirizzato all’uso civile e medico e all’elettrificazione, che nemmeno l’Agenzia
Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), nei suoi momenti meno subalterni
agli USA, con le sue libere ispezioni ai siti di ricerca nucleare, ha saputo
denunciare come indirizzato alla bomba.
Il bue (nucleare) all’asino
Mentre accusava di dittatura islamica e di violazione dei
diritti umani l’Iran, Netaniahu era l’amico che sterminava i palestinesi di
Gaza, faceva saltare le case in Cisgiordania, sottraeva terre ai territori
palestinesi e li cementava con insediamenti illegali; corrompeva l’Autorità
Nazionale Palestinese con l’eterno collaborazionista Abu Abbas; proclamando “Israele
Stato degli Ebrei”, escludeva dalla comunità il 20% della popolazione, gli
arabi d’Israele. Accusava l’Iran di volersi fare la bomba atomica, mentre nei
suoi arsenali deteneva da 200 a 400 ordigni nucleari e in mare ormeggiavano
sommergibili atomici con armamenti nucleari, estratti dai sensi di colpa dei
tedeschi
Rimaneva l’altra accusa di Netaniahu. Quella indimostrata e
indimostrabile, per assenza di oggetto, di un Iran sponsor del terrorismo
internazionale, fedelmente rispapagallata dai media con l’osso in bocca sotto
al tavolo. Che vale quella a Saddam di albergare armi di distruzione di massa e
di avere partecipato agli attentati dell’11 settembre, o l’altra ai russi di eliminare
oppositori col veleno, o di aver invaso l’Ucraina. Il metodo del bue che dà del
cornuto all’asino è, almeno da Pearl Harbor, pratica corrente del terrorismo di
Stato. Che, nella sua stanca e grossolana ripetitività, risulterebbe ridicola,
non fosse per gli schiamazzi ottundenti dei gazzettieri.
Terrorismo, mandanti e sicari MEK
Ho girato buona parte dell’Iran verso la fine del secondo
mandato di Mahmud Ahmadinejad (2009-2013). Il suo Iran era cosa del tutto
diversa da quello del prima e del dopo. A dispetto delle sanzioni, un paese in
piedi, determinato, ospitale, tollerante, fiero nella resistenza. E soprattutto
socialmente equo.
Non c’è città o borgo, da Tehran a Shiraz, da Isfahan e
Persepoli e Mashhad, che non sia stato ferito nella vita e nei beni dal
terrorismo sponsorizzato da Israele e Usa ed eseguito dai sicari dei Mujaheddin
del Popolo (Mek). Abbiamo incontrato decine di famiglie a cui da attentati
terroristici erano stati sottratti inermi e innocenti amici o parenti. Il MEK è
una setta di fuorusciti che si dicono marxisti-islamisti, coltivata e armata da
Washington, prima rifugiata in Iraq e da lì cacciata, poi a Parigi, tutelata da
Sarkozy e, infine, dotata dai protettori statunitensi di una base in Albania.
Da quel paese, confortevole ambiente per ogni tipo di criminalità, opera nell’ìmpunità.
Di solito il loro era un terrorismo stragista che colpiva a casaccio, per
seminare terrore e sfiducia. Gli assassinii mirati, più difficili e complessi, venivano
con ogni probabilità eseguiti da coloro che li avevano massicciamente praticati
contro palestinesi.
Mohsen Fakhrizadeh e Kassem Soleimani
Fakhrizadeh non è l ‘ultimo degli scienziati del cui
assassinio si vanta a bassa voce il Mossad e che, in ogni caso, va fatto
risalire a Israele e USA, sia che sia stato compiuto da propri agenti, o da
sicari del MEK. Una provocazione sanguinosa del gangsterismo israeloamericano a
spese di un personaggio di altissimo profilo, impegnato nello sviluppo di un
paese isolato e sotto micidiali sanzioni. Segue quella contro il generale,
Qassem Soleimani, assassinato da un drone statunitense a Baghdad. Qui si
trattava di impedire che al governo di Tehran arrivasse un altro Ahmadinejad,
come l’aria che tirava in Iran lasciava presagire, e di punire chi aveva
sconfitto i mercenari dell’ISIS.
Prima del capo degli scienziati iraniani, erano stati
uccisi in attentati, perlopiù con la tecnica delle raffiche da motocicletta,
altre eccellenze della ricerca, come Masud Alimohammadi, Majid Shahariari,
Darius Rezaeinejad, Mostafa Roshan.
In nessuno di questi casi, si trattava di colpire un
programma che puntasse all’armamento atomico. L’obiettivo era piuttosto di
colpire la vena giugulare dello sviluppo scientifico, tecnologico ed economico
di un giovane, grande e militarmente forte paese, elemento centrale di
un’intesa antimperialista mondiale, forte alleato di Cina e Russia, ostacolo
alla globalizzazione neoliberista, all’accerchiamento della Russia e alla
creazione del Nuovo Medioriente made in Israele, Turchia, Nato e USA.
L’obiettivo ultimo e come arrivarci: soft o
hard? Cuba o Siria?
Cosa ci si ripromette da un’operazione terroristica così
clamorosa? Di caricare sulle spalle di un presidente in uscita l’ottava di
quelle guerre per la quale alla cosca di Bush e Obama non ci sono stati né il
tempo, né l’occasione, né il favore degli alleati europei e dell’opinione
pubblica statunitense e internazionale, dopo le sette condotte da loro e ultimamente
addirittura affidate a terzi. Iniziare un’altra guerra? Meglio farla lanciare a
Trump. Che se la veda lui con i pacifisti. Questo è sicuramente l’intento di
Israele che, da sempre, persegue lo scontro diretto e conta, anche con i suoi
delegati nell’establishment statunitense (intelligence, apparato
militar-industriale), oggi in grande spolvero, di arrivarci sfruttando la transizione
a Washington.
Biden, un autentico disabile mentale, non conta niente.
Però dietro ha il partito democratico con le sue variegate componenti. Quella
obamiana, quella dell’accordo nucleare del 2015, con cui Washington ottenne da
Rouhani una specie di resa economico-industriale. In cambio, l’Iran sarebbe
stato liberato delle sanzioni. Sanzioni feroci, arrivate addirittura a impedirgli
di acquistare medicinali per i suoi malati oncologici. Obama aveva traccheggiato
sulla guerra, ritenendo che sarebbe stata più efficace e meno costosa la
tecnica, già collaudata con successo a Cuba, ma poi bloccata. L’approccio soft
dell’infiltrazione, dell’addomesticamento, dell’illusione della convivenza,
magari, nel caso di Cuba, agevolata dai flirt col papa. Con gli strumenti della
manipolazione propagandistica e della promessa economica, che avrebbero
favorito il consenso sociale e, dunque, l’indebolimento della resistenza.
A provocazione risposta, a risposta guerra?
Chi non se lo può permettere è Netaniahu. Un Iran in fiamme
svierebbe l’attenzione dai suoi processi e, forse, sventerebbe le condanne e l’uscita
dal proscenio politico. Quello che gli occorrerebbe, per far funzionare la
trappola, è una risposta iraniana di almeno pari impatto. Ali Khamenei, la
vecchia guida suprema che, insieme alle Guardie della Rivoluzione, rappresenta
la parte più viva del popolo iraniano, ha detto: “Calma. A tempo debito”.
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