venerdì 4 maggio 2012

GALGENHUMOR. Ovvero: non ci resta che ridere




Avete reso potenti i vostri governanti, gli avete dato guardie. E ora piangete sotto la dura ferula dello schiavismo. (Solone, 638-558 A.C.)
Bisogna capire che tutte le battaglie sono condotte a livello inconscio, prima che siano iniziate a livello conscio. La struttura del potere vuole farci credere che le uniche opzioni poissibili siano quelle che essa ci presenta. Sappiamo che ciò non è vero e perciò dobbiamo ridefinire il terreno dello scontro. Ovviamente si tratta di un conflitto di ordini del giorno e di visioni mondiali. (Teresa Stover)
Finchè il popolo non si cura di esercitare la sua libertà, coloro che ci vogliono tiraneggiare lo faranno. I tiranni sono attivi e scatenati e, nel nome di qualsiasi dio, religioso o altro, si impegnano a porre catene su uomini che dormono. (Voltaire, 1694-1778)
A volte la gente ha un credo di base che è molto forte. Quando gli si presenta una prova che agisce contro tale credo, la nuova evidenza non viene accettata. Creerebbe una sensazione di estremo disagio, chiamata dissonanza cognitiva. E siccome è così importante proteggere la convinzione di base, la gente razionalizzerà, ignorerà e perfino negherà qualsiasi cosa che non si adatta a questa convinzione di fondo. (Frantz Fanon)

I tedeschi, la cui lingua meglio di altre sa dare parole alle sfaccettature di un stesso concetto e perciò ha reso possibile la più grande delle filosofie, hanno un termine che più efficace non si può: Galgenhumor, umorismo da forca. Il dizionario Sansoni lo traduce, inadeguatamente, con “allegria dei disperati”, perdendone la grande forza dello sberleffo, perfino al boia. Non di allegria si tratta, ma di sputo in faccia. Rifiuto fino all’estremo di ogni sottommissione e affermazione invincibile della propria libertà. I nostri tempi ce ne offrono occasioni a josa. Si dicerva un tempo: una risata li seppellirà.



Alla primatista del bene la massima onorificenza USA per meriti civili.
Nel 1996, davanti a un ululante auditorio universitario e poi davanti alle compiaciute telecamere di “Sixty Minutes”, richiesta di una sua valutazione sul milione e mezzo di civili iracheni uccisi dall’embargo, di cui mezzo milione bambini, l’allora ambasciatrice Usa all’ONU, dichiarò che “di quel prezzo ne valeva la pena”. Sostenendo il “nuovo metodo di guerra”, che priva e nega ogni mezzo di sostentamento della vita, assicurò: “Preserverà le prossime generazioni dalla maledizione della guerra”. Coerentemente, da Segretario di Stato e poi consulente di Bush, mise in pratica l’assunto uccidendo in Serbia e Iraq altri milioni di persone, con la solita quota di bambini. Stavolta, oltrechè con l’embargo, con missili, uranio, bombe a grappolo. Il Galgenhumor eplode al ricordo che, esule da Praga a Londra dal 1939 al ’45, recitò da bambina in un documentario sulle sofferenze patite in guerra dai bambini. Il Galgenhumor si diffonde tra i milioni di bimbi nati deformi grazie all’uranio, grazie alla nomina della signora alla carica di Presidente della Commissione per il Riscatto dei Poveri nel Programma ONU per lo Sviluppo Umano. Il Galgenhumor tocca il sublime con la consegna al soggetto, nel 2006, del Premio Europa Esseri Umani, e finisce con lo svettare nell’iperuranio con la consegna da Obama della Medaglia Presidenziale della Libertà 2012, per i suoi sforzi per portare la pace in Medioriente, ridurre la diffusione delle armi nucleari e per il suo annoso ruolo di campione della democrazia e dei diritti umani in tutto il mondo. Traggono conforto  le 500mila vedove e i milioni di orfani iracheni dalla promessa di Albright che “c’è un posto speciale nell’inferno per donne che non aiutano altre donne”. Plaudono le ginocrate del “manifesto”, che definirono Hillary Clinton “un angelo” e si stracciano le vesti per le zoccole che succhiavano sperma e dobloni al Papi, o per la Circe che in cambio di diamanti faceva carne di porco dei padani. In inferno c’è attesa. Da noi, speranza.




Un Albright italiano
Giuliano Amato, sotto l’onest’uomo Craxi  vicepresidente e  primo degli immarcescibili tesorieri da furto con destrezza, torna agli onori della banda dei tromboni con coccarda BCE. Da Presidente del Consiglio 1992-1993, pone in opera il piano George Soros-Mafia finanzcapitalista, elaborato con Mario Draghi sul panfilo della Regina “Britannia”, per la svendita a privati nazionali ed esteri, a prezzi stracciati, ottenuti grazie all’attacco alla lira dello stesso Soros, del patrimonio pubblico degli italiani. Luminare di economia, ripetutamente ministro e primo ministro per il completamento dell’esproprio con vasellina socialista di quanto i nostri padri avevano lasciato a noi e alle future generazioni, confratello della cosca di “tecnici” della rottamazione installati con colpo di Stato da un superpartes che ridicolizza il Galiani di Milan-Juventus, è stato da questa incaricato di mettersi a capo dei soldi pubblici ai partiti. Laureato in questa disciplina dal partito-ladro per eccellenza di Bettino e Cicchitto, armato di pensione da 32mila euro al mese, gestirà quella che gli analfabeti in cravatta chiamano spending review (“revisione delle spese”, per i vernacolari) dei finanziamenti al Pantagruele decafronte partitocratico. Protagonista, sotto la maschera dell’apoliticità tecnica, utilizzata come il passamontagna dai banditi, negli ultimi trent’anni del trasferimento del potere decisionale dalla sfera politica a quella economica dell’attuale delinquentocrazia, è sicuramente uno dei più reazionari figuri espressi dal sottobosco intellettuale italiano. Non per nulla dal PSI è passato nel PD. Mentre la trimurti ABC (per i poster: Alfano-Bersani-Casini), pratica di autosodomizzazioni, s’inchinava al tecnico dei tecnici, Grillo, che, sul Colle, è definito demagogo dell’antipolitica dal primatista Guinness della fuffa demagogica antipolitica, ma che al ronzio universale del bla bla nazionale di solito oppone contenuti e dati, buoni o cattivi che siano, ha precisato: “E come buttare un fiammifero acceso in un pagliaio. Il Galgenhumor, stavolta, è della salma di Hammamet sfuggita alla forca, quanto meno metaforica. Pare cher da quelle parti si sia aggirato l’esorcista Monti e abbia intimato: “Esci da quel corpo!”. Né è scaturito Giuliano Amato.    


Tutti giù per terra!
Avendo svolazzato, girando a vuoto contro il sistema per mezzo lustro, girotondini, viola, arancioni, hanno risolto che era tempo di riporre le ossa nell’alveo dell’esistente. A Firenze, mosca cocchiera “il manifesto” e alcuni grilli parlanti sfuggiti al martello di Pinocchio, i nuovissimi della Terza Età hanno dato vita alla svolta epocale del Nuovo Soggetto Politico. Con l’impeto di un faticoso risveglio dal letargo, gli ibernati delle buone maniere alla Giustizia e Libertà hanno assaporato la vivificante brezza del marasma da putrefazione sparso dai morti viventi partitici che, anche loro, stanno ricombinando le membra disseccate per un nuovo assalto a quel che resta del peninsulare anfibio italico. E’ all inclusive, questo Partito dei Garbati. Tutto, beinteso, fuorché un “Nuovo Partitino della Sinistra”, ce ne guardi Iddio. Che venghino, signore e signori, c’è posto per tutti: precari, garantiti, ricettori di bonus milionari, bancari e banchieri, caporali e ammiragli, donne che aiutano altre donne, chierici e iconoclasti, bassotti e altotti. Raccomandano, come rileva un rinsavito Asor Rosa, che non si faccia sconveniente cenno all’obsoleto antagonismo capitale-lavoro. Allo sproposito dell’abolizione della proprietà privata si sostituisca la placida condivisione di “beni comuni”, compresa la villa di Arcore e l’Oasi del WWF. Nella qual definizione pare entrino, seppure innominati, interventi umanitari, magari con qualche F35 in meno e qualche ONG e banca etica in più, democrazia e diritti umani da esportazione, Nato e Bruxelles. Ma, soprattutto le negriane indistinte “moltitudini”, i campanili municipali prediletti dai fustigastori dello Stato nazionale, miracolosamente riscattati dal basso. Asor Rosa denuncia di quegli enti locali “vicini alla gente”, l’ormai ontologica funzione di organizzazione dal basso della corruzione, dall’abusivismo e dal clientelismo nazionali? Qualcuno ha notato che, a volte, il pesce puzza anche dalla pinna caudale? Tranquilli, basta dire dal basso e, alla Ugo Mattei, “orizzontale”, e nessun sindaco darà mai più una lottizzazione in mano alla ‘ndrangheta, o una cartolarizzazione in mano a Passera. Una società divisa in classi, nella quale quella microscopica in alto marcia a scarponi chiodati su quelle oceaniche di sotto? Non si dicano spropositi. Basta essere perbene. Garbati, appunto. E lasciar scorrere il flusso dei beni comuni onde traghetti gli eleganti e rispettosi gentiluomini che, anatema!, non rompono vetrine di McDonalds (bene comune?), all’imminente scadenza elettorale. Prima di tutto, con il feto ancora da sfornare, il nome! Che diamine, sennò cosa ci mettiamo sulla scheda elettorale? E se Fornero può chiamarsi “ministra del welfare”, perché mai dei ragazzi di Benedetto Croce non dovrebbero chiamarsi “Alba”? Quando ha sentito “Alba”, il sol dell’avvenire ha fatto marcia indietro. Sghignazzando. Galgenhumor.

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Ratzinger mentre contamina Cuba
Ingresso a pagamento
Lo riferisce il New York Times: la salvezza eterna è di nuovo alla portata di mano. Anzi, di borsa. Non siamo forse nell’era dei privilegi da stroncare a chi, offensivo nei confronti dello Zeitgeist della modernità globalizzata si incaponisce sulla monotonia del posto fisso e sull’alienazione della vacanza non in gruppo su panfilo? Nonché della meritocrazia di chi si compra la laurea a Tirana e rimedia dividendi e bonus da spremitura di contratti a progetto e falcidie sociale per delocalizzazione? Torna alla grande un benemerito strumento dell’ordine sociale, lo schiavismo. In compenso, però, le porte del paradiso si riaprono, l’indulgenza plenaria è risuscitata. Basta mettere mano al portafoglio, tanto siamo in tanti ad averlo tracimante. Sotto l’uragano dell’indignazione mondiale guidata da Martin Lutero, nel 1567 la Chiesa Cattolica Romana bandì la pratica di vendere indulgenze a chi la gratificava di guiderdone. A sistemare gli altri, ma in Terra, pensavano i gabellieri e, in caso di riottosità, i roghi dell’Inquisizione. Don Rodrigo pagava e svettava tra i cherubini. Gli squattrinati Renzo e Lucia, a dispetto di Manzoni, per aver mancato di rispetto a Don Abbondio rischiavano di bruciare in forni crematori ultraterreni. Quelli che ne avrebbero poi ispirati altri, sempre tra i Gott mit uns. Secondo il Times, il papa avrebbe discretamente reintrodotto il concetto che una donazione monetaria non avrebbe mancato di guadagnarti un’indulgenza: “Contributi caritatevoli, certo combinati con altre azioni degne, possono aiutare a ottenerla”. E si possono perfino comprare indulgenze per i propri cari già defunti, lubrificandone il duro selciato dal purgatorio all’estasi eterna. Perché la Chiesa avrebbe restaurato quello che per  Lutero era orrendo mercimonio?  La crisi globale che rosicchia perfino le dorate e diamantate vesti del pontefice? Figuriamoci! “Perché nel mondo c’è peccato”, ha detto un vescovo di Brooklyn. Questo papa che regge bordone agli sfracellatori dei suoi stessi fedeli in Libia e Siria, una ne fa e cento ne pensa. Dalla sua ristrettezza, oltre all’8 x mille desginato o non designato, oltre all’esenzione dell’IMU grazie alla madonnina nell’atrio della pensione e cinque stelle, ora ha avuto un lieve sostentamento anche dai cittadini toscani che, attraverso Comune, Provincia, Regione, gli pagano la miseria di mezzo milione di euro per il viaggetto pastorale, turistapromotore, da Piazza S. Pietro ad Arezzo. Non vorremmo che, come le decine di vittime della delinquentocrazia, fosse costretto a qualche gesto disperato.


 Terroristi con vittima
Brucia, Al Qaida, brucia
Terry Jones, pastore della Florida, a proposito di Zeigeist, lo aspira a pieni polmoni da pire fumanti. L’ha fatto un’altra volta e sta sempre lì, con tanto di comunità di fedeli plaudenti, di autorità giudiziarie e politiche voltate dall’altra parte, di Obama che ghigna. L’aveva già fatto il 20 marzo scorso: un bel falò in chiesa e il Corano finì incenerito. Subito dopo finirono incenerite per rappresaglia anche due dozzine di persone in Afghanistan. Ma questo stava nei calcoli. Del pastore, dei fedeli, delle autorità e di Obama. Infatti Terry Jones l’ha potuto rifare, senza che nessuno, tranne qualche Occupy, invocasse le vigenti leggi contro l’odio razziale. Il Patriot Act mica protegge il Corano, o gli islamici. Anzi! L’ha fatta anche meglio: stavolta, oltre al Corano – il libro sul quale i liberatori dell’Afghanistan pisciano quando non c’è sotto mano qualche Taliban ammazzato – ha dato fuoco all’effige del Profeta. Fiamme che nuovamente si estenderanno al mondo musulmano e provocheranno altre stragi di spendibili mercenari occidentali.
  

Grande è il Galgenhumor che ne è suscitato, se si pensa che altro che eterogenesi dei fini! Omogenesi! Il meccanismo, da Bush a Obama, è sempre quello: satanizziamo, perseguitiamo, massacriamo un po’ di islamici, offendiamone i simboli, sbertucciamone le credenze, calpestiamone i territori, stupriamone le donne, dronizziamone i bimbetti. Dalla loro cosmica incazzatura estraiamo una nutrita armata di invasati, li riempiamo di droghe e dollari e gli spieghiamo che è tutta colpa di laici, tipo Saddam, Milosevic, Gheddafi, Assad, o di apostati sciti, quali gli alawiti siriani, gli Hezbollah,  gli iraniani. Gli promettiamo emirati, califfati, sharìa e moltitudini da sgozzare e ne facciamo la fanteria Nato contro questi rigurgiti del diavolo.


Paul Conroy, giornalista del Sunday Times e agente del MI6 con i capi di Al Qaida in Libia
Tout se tien, dai finti Al Qaida e autentici agenti di regime dell’11 settembre, al buon pastore piromane e al suo socio Abdelhakim Beladj, fondatore di Al Qaida in Libia, governatore Nato di Tripoli, capospedizione Al Qaida in Siria. E mettiamoci pure, nel rosario di Santa Provocazione prega per noi, gli infiltrati Al Qaida della Nato nel Sahel, che dovrebbero sputtanare la legittima rivolta di popolazioni escluse, come i Tuareg, islamisti e cristiani che si fanno a fette in Nigeria, l’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda che ha legittimato l’intervento delle forze speciali Usa, tutto l’armamentario dell’Africom USA, finalmente innestato in Africa. Ora che la difesa dell’unità e sovranità africana, garantita da Gheddaf, è stata liquidata. Tutto questo attua il famigerato piano israeliano di Oded Yinon, assunto dal governo nel 1982, di frazionare gli Stati africani e mediorientali per linee etnico-tribale-confessionali. Curdi, drusi, sunniti, sciti, hausa, ibo, berberi, arabi, neri, bianchi…    Qui il Galgenhumor è tutto di noialtri dietrologi, complottisti, teorici della cospirazione.



SuzanneNossel 
Qui sopra, l’affascinante immagine delle neofiduciaria dei necrofori Usa. Suzanne Nossel, ovviamente correligionaria di Netaniahu, nel novembre scorso è stata nominata nuovo capo di Amnesty International, organizzazione per la difesa dei diritti umani nel mondo. Nel 2009, con per principale Hillary-la belva-Clinton, la pacifista mondiale numero uno era Vice-assistente Segretaria di Stato. Veniva da Human Rights Watch, la consorella dirittoumanista sostenuta dal bandito della speculazione finanziaria internazionale, George Soros, destabilizzatore della Jugoslavia, dei paesi dell’Est europeo, degli Stati arabi, promotore con la National Endowment for Democracy (vetrina Cia), delle rivoluzioni colorate nei paesi da squartare. Ancora prima, è stata Vicepresidente per la Strategia e le Operazioni del Wall Street Journal, house organ della criminalità organizzata finanziaria. E’ stata assistente di Richard Holbrooke, ambasciatore Usa all’ONU, dopo che costui aveva dato il meglio di sé nel distruggere Jugoslavia e Serbia e nel facilitare l’assassinio di Slobodan Milosevic. Appena poco più trentenne, alla luce delle atrocità commesse dai suoi datori di lavoro in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, mondo, ha tutte le qualifiche di sfruttare i “diritti umani” a beneficio del genocidio imperialista. Ha esordito lanciandosi a capofitto contro il presidente siriano Assad. Recentemente ha rimediato, piegatasi all’evidenza accettata addirittura dagli osservatori della Lega araba e da moltissimi media, esprimendo reprimende ai “ribelli” siriani, “autori anch’essi di crimini e sevizie”. La toppa doveva coprire le sue informazioni false sulla Siria al Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra, successivamente smentite, allo scopo di giustificare un voto del Consiglio di Sicurezza per l’intervento in Siria. Poco da rimediare c’era, per una di Amnesty, corresponsabile con infinite balle dell’annientamento di quel paese, del suo popolo, del suo leader. A pensare alle mille volte in cui “il manifesto” e compari citano, avallando, Amnesty International, c’è da sganasciarsi di Galgenhumor.


Risuscita l’eroina arancione e dagli allo zar del KGB
Occhio all’Ucraina. E’ all’abbrivio una nuova rivoluzione colorata. Rovesciata quella precedente da un popolo non decerebrato dalla National Endowment for Democracy e analoghi istituti Usa per il rincoglionimento dei paesi disobbedienti, riguadagnata la sovranità con la vittoria della sinistra di Victor Yanukovic, l’Ucraina riottosa delenda est. E a chi affidare il compito di capopopolo? La scelta è d’obbligo e collaudata. Criminali, narcotrafficanti, ladri, assassini, truffatori, grassatori, vendipatria, sotto ricatto in ogni caso: Thaci in Kosovo, Karzai in Afghanistan, Al Maliki in Iraq, Jalil in Libia, Calderon in Messico, Porfirio Lobo nell’Honduras golpizzato, Santos in Colombia, in Italia sappiamo chi….In Ucraina non poteva che essere, dal carcere, la bionda Yulia Tymoshenko. Una la cui fedina penale farebbe  invidiare quella di Belrusconi. Le qualifiche? Sette anni di carcere per malversazioni e creste sulle forniture di gas russo. Nel 2001 processata insieme al marito per evasione fiscale e falsificazione di documenti. In Russia viene indagata per corruzione di militari. Figura dal 2004 sulla lista dei latitanti di Interpol. Insomma, da quando si agita sulla scena ucraina sfugge all’annientamento giuridico e politico facendosi sicaria delle cospirazioni antinazionali dell’imperialismo. L’occasione l’hanno fornita gli europei di calcio 2012, condivisi con la Polonia. Come in Gran Bretagna i prossimi giochi olimpici sono la facciata festante dietro alla quale il regime di Cameron, con missili sui tetti, misurazioni biometriche, droni, allestisce repressione e sorveglianza totali, così in Ucraina il pallone offre il destro per un travaso di sangue e di dollari alle turbe tymoshenkiane abbagliate dalla prospettiva di bagordi da libero mercato. Così, come Aung Saan Su Khy, apripista della Exxon e di Monsanto, Julia è incoronata nuova martire della libertà. Un’altra era la Politovskaja, giornalista uccisa con tanto di processo in Russia dei responsabili, impagabile e pagatissima corrispondente del circuito radio Cia Radio Liberty e Radio Free Europe. Allo squillo – Julia libera! - della zannutissima paladina dei proletari, ovunque essi si trovino, anche in Ucraina, Angela Merkel, ha istantaneamernte risposto la fanfara dei giornalisti di razza delle democrazie occidentali. A Kiev, per gli Europei, non ci andiamo, no, no,. no. Commosso e entusiasta Alemanno calerà una gigantografia dal Campidoglio. Immancabili nel concerto, Paola Concia, PD, ospite cocca di Bruno Vespa e del “manifesto”, insieme all’affine Franco Grillini. Prova provata che qualificare di categoria politica gli omosessuali si corrono rischi tanto inusitati quanto prevedibili. Il/la plurivalente (politicamente parlando) Luxuria docet.
Tymoshenko sugli altari imperialvaticani, Putin  tra i demoniacci dell’ultimo girone. Basta sentire un Gad Lerner con la bava alla bocca, cantoniere del treno blindato Nato per Mosca, quando inveisce contro Putin “soffocatore di ogni libertà”. Quando mai gli si può perdonare di aver rimesso in piedi la Russia dopo il saccheggio sociale e l’annichilmento politico dello sbronzone ladro Eltsin, proconsole delle mafie transcontinentali! Come tollerare il confronto con le libere manifestazioni di una minoranza russa, avida di democrazia come la offre il dronista Obama, in cui non si sono mai viste le brutalità e sevizie che gli sbirri delle democrazie infliggono agli Occupy di Oakland e New York, ai terremotati dell’Aquila, ai salvatori della patria di Valdisusa? Come sopportare lo scacco inflitto ai manipolatori delle elezioni in Occidente e nei paesi clienti da elezioni russe in cui telecamere per ogni dove controllano fin la pulizia delle unghie dei votanti? Insostenibile la liquidazione in Russia degli oligarchi ladroni, burattini della Cia, e le misure che sollevano milioni di cittadini dalla povertà, quando, dalle nostre parti, i cannibali della finanza inanellano teorie di suicidi da sfoltimeno malthusiano. Vero Astrit Dakli, russologo del “manifesto”, albanese dalla paranoica slavofobia che ogni giorno mette il suo sanpietrino sulla strada dell’assalto militare alla Russia?



C’è poi un altro paragone dal quale, però, l’universo mediatico destra-sinistra rifugge come dalla peste. Si inneggia nientemeno che alla fronte Hollande del Giano bifronte neoliberista, perché minaccia di limare un po’ la volgare unghiona del mignolo del gaglioffo Cia-Mossad, Sarkozy, pur perseguendone, in sintonia Nato, il recupero colonialista a forza di sterminio di popoli. Il Bersanendola gallico è visto come colui che riaprirà le bare ai vampiri sinistri, disseccati sia dalle croci che preferiscono essere brandite da terminator più decisi, sia dall’astinenza da plasma elettorale. Il confronto stavolta è con l’America Latina. Si fa sprofondare nell’oceano il messaggio di vita che arriva dall’altro emisfero, non fosse mai che ridicolizzasse gli inani pigolii critici rivolti ai golpisti nostrani da chi si dice rappresentante dei lavoratori. Volete sentire cosa combinano rappresentanti dei lavoratori, neppure tanto bolscevichi, di là dall’Atlantico? Cristina Kirchner accelera la marcia dell’Argentina via dal morso delle multinazionali, nazionalizzando la petrolifera YPF, in mano alla spagnola Repsol, che, rubando per conto dei padroni iberici, costringeva il paese fornitore a importare idrocarburi a prezzi da cravattaro. In Bolivia, mandando di traverso le zanne di elefante al cialtrone reale e massacratore di pachidermi, Juan Carlos, pure Evo Morales riconsegna al popolo i beni rapinati dai precedenti regimi corrotti e dipendenti. La Rete Elettrica Internazionale, posseduta al 99% dall’ennesima multinazionale spagnola, è stata nazionalizzata. Investendo appena 5 milioni all’anno, aveva fornito ai boliviani un servizio pessimo a prezzi esorbitanti. Negli anni precedenti Morales aveva già nazionalizzato tre compagnie petrolifere, la compagnia telefonica Entel, filiale di Telecom Italia, una rete di trasporto di idrocarburi, 4 imprese elettriche e la compagnia Air BP.


Ma il colpo più grosso l’ha fatto il solito Hugo Chavez. Ai regimi occidentali che strangolano la capra che gli dà il latte ha mostrato come si fa a rimettere in piedi il gregge. Al termine di una consultazione  capillare di lavoratori, che ha prodotto 19mila proposte dai diversi settori, ha promulgato la nuova legge sul lavoro. Cose inenarrabili, da disintegrare ogni cellula metastasica del pensiero unico: orario di lavoro ridotto da 44 a 40 ore settimanali, ferie di maternità aumentate a 6 mesi e mezzo, eliminazione del lavoro subappaltato ai privati, liquidazione e pensione calcolati sull’ultimo salario moltiplicato per gli anni di servizio, con salario retrodatato al 1997 per tutti coloro che furono vittime della riforma neoliberista di quell’anno. Lavoratori reintegrati da giudice in concorso con i sindacati se licenziati senza giusta causa e, in alternativa, liquidazione doppia. Posto di lavoro garantito alle nuove coppie che non potranno essere licenziate, neanche per giusta causa, fino almeno a due anni dopo la nascita di un figlio. Pare il riarrotolamento di quel maledetto filo rosso che da noi unisce la macelleria sociale e la resa dei sindacati e delle sinistre dall’abolizione della scala mobile a quella dell’articolo 18. Sono paesi che crescono al ritmo del 7-10%, ma a crescere è il benessere dei cittadini, non quello dei satrapi della Goldman Sachs. Andassimo tutti in Venezuela? No, facessimo tutti come in Venezuela!

Bertinotti tra le pellicce
Chiudo riproponendo una Berti Horro Picture Show come raccontata da un arguto cronista. Si parla dell’ometto in cashmere che ha distrutto il comunismo in Italia, oggi star del trivio da visoni delle sorelle Fendi.

Fausto Bertinotti horror picture show
Una delle sorelle Fendi, le stiliste, chiama l'ex presidente della Camera a recitare Thomas Eliot sul palco di un teatro romano. Come scenografia: maxi confezioni di dispositivi vaginali, nudi femminili e maschili, fiamme e pianeti. Una perfomance non gradita ai liceali romani del Socrate che questa mattina lo hanno contestato
Apvile è il mese più cvudele / geneva lillà dalla tevva movta / mescola memovia e desidevio / stimola le sopite vadici con la pioggia pvimavevile”. Undici erre in una sola strofa. Bertinottiassorbe la trappola con stile. La moglie, signora Lella, è tutta un fremito. Sul palco, Fausto recitaT. S. Eliot. Portaocchiali al collo. Maglione turchese. Al centro dell’antico mercato ebraico del pesce, elegante latifondo della Fondazione Alda Fendi, ecco “Transiti di venere” di Raffaele Curi. Mezz’ora di feti, montagne, nuvole, confezioni di dispositivi vaginali, fiamme, pianeti, canzoni diYoko Ono ed Enya, spose sfiorate dall’annunciazione e harakiri proiettati a tutta parete. Lo chiamano sperimentalismo, somiglia al “casino organizzato” dell’ex operaio siderurgico Eugenio Fascetti e per celebrarlo, a un passo dal Circo Massimo, si sono accalcati in 400.
Fiere e domatori, vecchi amici e neofiti. Un’istantanea a metà tra l’ultima assemblea del Partito socialista e i Cafonal di Dagospia. Mario D’Urso e Adriano Aragozzini, Salvo Nastasi e Umberto Croppi, Ritanna Armeni e Carlo Rossella che ieri commosso, sul Foglio, denunciava ancora un certo turbamento: “Fausto Bertinotti attore. E che attore!”. Intorno all’alta società del Presidente di Medusa e tramontata la voce impostata di un anonimo che avverte, come a corte: “Si prega di spegnere i telefonini e non di far uso di flash” un altro film. Trentenni sgomenti, imbucati di ogni età, turisti per caso dell’arte senza esborso che da un decennio è il manifesto della minore delle sorelle Fendi.

Alda vendette il marchio, incassò una cifretta vicina al
 miliardo di euro e decise di restituire. Se la chiami mecenate si offende: “Mi sento una missionaria, un piccolo granello di sabbia, una folle sana di mente e intenti, cui il mondo non mercificato e corrotto inizia a dare ragione. Non esiste nulla di più gratificante che vivere e nutrirsi d’arte. Voglio che con me ne godano tutti”. E così sia. Al lato della rappresentazione (sic) vestiti come buttafuori di un qualunque Studio 54 fuori latitudine, sostano una dozzina di imitatori di Will Smith allevati a glamour e palestra. Gessato, camicia spalancata, Persol, vistosi orologi al polso. Restano immobili, mentre alle loro spalle, lo scorrere del tempo (c’è la metafora!) è una sabbia che cade inesorabile dall’alto e le immagini (e le scritte) si rincorrono sul muro. “Il settimo sigillo”. Con Bergman non ti sbagli mai.

Poi, ancora. Un ex campione di basket Nba sopravvissuto alla fame (Abdul Jeelani) interpreta Cristo. Con la corona, la posa sofferta e tutto il resto. Un ragazzo vestito come un tennista degli anni 30 e una bucolica fanciulla che lo insegue ballano su una schermaglia amorosa. Altra scritta sul muro. 2, 176 Kelvin. L’unità di misura seguita da due ragazzi in succinto costume da bagno accompagnati da lazzi e battute irriferibili su altre misure: “Ahò, ma è eccitato, è barzottissimo” e riprovazione disgustata della claque. Al cambio di scena, i due innamorati di prima si ritrovano nudi ai lati della sala. Si osservano, mentre il pubblico li divora.
 Ammirazione per la splendida ragazza che non muove un muscolo. Una sfinge.

Alla fine, timidissimi applausi e fuga collettiva.
 Raffaele Curi, il sosia di Mal dei Primitives, l’autore di “Transiti d’amore” che da ragazzo fu Ernesto nel Giardino dei Finzi Contini di De Sica, in età matura ha imparato a far di conto, l’allestimento a casa Fendi non è una novità. Lei è pazza di lui, lui ricambia (come dargli torto) sentitamente. Ogni anno, con titoli pretenziosi, ma alati per le sue creazioni (“Sfiorerai il mio destino come una farfalla”) o vezzosi menu natalizi (quello del “clochard” da degustare ascoltando The Fun Powder Plot di Wild Beasts o in alternativa la “salsa del figlio del podestà”) Curi si spende e fa spendere agli altri. Quando non lavora con Pupi Avati o non affitta appartamenti in via Giulia a Guido Bertolaso trovando a fine locazione cumuli di bollette: “Ero felicissimo: ho pensato che fosse una persona affidabile. Ma non sono mai riuscito a contattarlo per farmi firmare il contratto, non l’ho mai visto in faccia” dà vita a spaventose messe in scena. A Everest di ridicolo involontario. In cima, una volta scalata la vetta, la ricompensa. Lo squittio delle dame impegnate a tener desti i mariti: “Ma, caro, non sbadigliare, è me-ra-vi-glio-so” e sorridere ragazzi più cinici e grevi: “È il vero appuntamento trash di Roma” o anche, nella versione meno ecumenica: “Non ci si crede. Non ho più parole. Soltanto parolacce”.

La Fendi è generosa.
 Magnanima. Finanzia molti ambiti artistici, sogna di scoprire un Andy Warhol, ma si accontenta delle opere di Curi. Si immedesima in Peggy Guggenheim indossando enormi lenti nere, sfama le mandrie che occupano lo splendido palazzo aperto al dopo “Transiti di venere” offrendo come dice Rossella un “delizioso panaché” in faccia al Foro Traiano che a Roma, per semplificare, si risolve in birra e gazzosa. Tra i vassoi si commenta. Non sono concetti gentili, ma spruzzi di ingratitudine. Inganni. Opinioni. Forse Curi è un genio, “Transiti di Venere” un capolavoro e l’arte contemporanea tutta, un immenso speaker’s corner appaltato a chi è più rapido. Furbo. Dialettico. Chi sale sul ceppo per primo vince. E Curi, dall’angolo Fendi, continua a parlare senza che nessuno si azzardi a interromperne il flusso di coscienza.

Una performance però, quella dell’ex leader di Rifondazione comunista, che non è piaciuta agli studenti del
 liceo Socrate di Roma, dove Bertinotti si è presentato stamattina per un dibattuto incontro. Alcuni ragazzi gli hanno contestato la vicinanza a certo bel mondo romano.

di Malcom Pagani
Da Il Fatto Quotidiano del 19 aprile 2012, aggiornato da redazione web alle 15,30

Da Il Fatto Quotidiano del 19 aprile 2012, aggiornato da redazione web alle 15,30

2 commenti:

alex1 ha detto...

Che dire...mi sembra ci sia poco da aggiungere. Sul Manifesto c'e' un apprezzamento per Morales sulla sue nazionalizzazioni, ma niente su quelle fatte da Chavez, evidentemente troppo scomodo per i "democraticamente corretti". Meglio per loro tifare Hollande contro il destrorso Sarkozi. Trovo giusto aver ricordato il saccheggio del patrimonio pubblico compiuto dal governo Amato circa vent'anni fa, che oltre a svalutare la Lira approvo' una delle piu' pesanti manovre finanziarie del tempo (mi sembra90000 miliardi di Lire ai danni di lavoratori e pensionati) con abolizione della scala mobile ed tagli che cambiarono drasticamente il tenore di vita di tanti di noi.

Alessandro

Anonimo ha detto...

Chavez ha anche confermato l’aumento del 32,25% del salario minimo per 4 milioni di lavoratori, il salario più alto in tutta l’America Latina. Ometto i link, le notizie si trovano facilmente. Inoltre nella nuova Legge sul Lavoro sono previsti anche due giorni consecutivi di riposo settimanale per il lavoratore.

«Sono felice di poter contare su un intero popolo, sulla classe operaia, su milioni di venezuelane e venezuelani che sono sempre più coscienti di quel che stiamo vivendo». (http://mobile.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20120501/manip2pg/08/manip2pz/321988/).

Nel frattempo:

La nostra “sinistra” si estenua, perfeziona il proprio suicidio, abbandona al suicidio le vittime del capitalismo finanziario e apre politicamente la strada ai “mercati”, farfugliando che la lotta di classe è obsoleta. Concetto rozzissimo (ottimo per le moltitudini) difeso come un vero dogma alla messa per Marco Doria sindaco di Genova, Gad Lerner e Giuliano Pisapia officianti; tutti pazzi per la “democrazia partecipativa”. I volti soavi ed estatici dei nonviolentissimi adoratori obamizzati si convertono in grinte paranoiche sbavanti, fanatiche, rabbiose, quando il malcapitato sottoscritto (con consistente rischio di linciaggio morale per gli anni a seguire), scegliendo personalmente un campione sulla base della propria antica conoscenza dell’ambiente, azzarda interviste flash esprimendo critiche alla sognante vaghezza dei programmi e alla loro distanza siderale dalla tragica realtà sociale e politica globale-locale che un sindaco dovrebbe conoscere meglio di un ministro.

“Che cazzo mi frega di quello che succede, che so, in Brasile?”, è il commento da bifolco che un ben assestato funzionario di sinistra ha applicato alle mie domande sull’assenza di internazionalismo nelle visioni del compìto candidato. Indescrivibile la bufera isterica democratica che segue quando faccio notare, appellandomi al politically correct, che la ‘ndrangheta non ha niente di brasiliano e il cemento lo stende sulle nostre coste senza resistenze (per non approfondire) da parte degli illuminati amministratori, che gli Ecuadoriani che popolano Genova stanno tornando a casa alla faccia dell’integrazione perché Correa li convince (loro ricordano le bellezze del loro Paese e sono delusi, sono informati e non hanno nessuna voglia di festeggiare il macello sociale, visto che la fame la conoscono bene), che buona parte dei presenti (anche se non lo manifesta pubblicamente) ha sicuramente paura di perdere il lavoro, la pensione, la salute e il futuro dei figli per effetto diretto della lotta di classe.

Non sapevo ancora di Chavez, meno male, avrebbero chiamato la Digos.