Guardarsi l’ombelico è pratica divertente e ricorrente. E come penetrare in un buco nero. Tutto quello che sta attorno sparisce. Piedi per camminare, braccia per manovrare, occhi per vedere, orecchie per udire, organi preziosi per andare e venire, accogliere e rispedire. Soprattutto svanisce il cervello senza il quale neanche l’ombelico avrebbe senso e verrebbe alimentato.
Dipingere sull’aria farebbe sfigurare qualsiasi avanguardia concettuale, di quelle che lanciano secchiate colorate sulla tela, di quegli altri che esibiscono una pecora in agonia da fame. Però basterebbe un refolo, o una pioggiarellina estiva a far svaporare l’opera. Per lasciare traccia della propria creatività e trasmetterla all’osservatore, conviene dipingere su un fondo. E’ il fondo, la tela, la tavola, la porcellana, a tenere insieme gli elementi apposti, a evidenziarli, a trattenerli, a collegarli, a dargli un senso compiuto.Trattasi di metafore.
Assemblee
Mi è occorso di partecipare domenica a un paio di assemblee della sinistra che si divincola per risorgere e di quella che, più o meno, continua ad agitare le pinne sul bagnasciuga. Chi c’era sa di che parlo. Gli altri indovinino. Quanto alla prima, si sono sentire parole chiare su dove siamo e chi siamo e chi non siamo, appropriatamente si è parlato di quei delinquenti fascisti di P2 ormai al potere (aggiungerei: insieme ai nipotini di Toto Riina e Provenzano, sotto perenne tutela Usa), di tutta lo sconcio cialtroname che marcia sui nostri corpi e sul nostro territorio al comando del guitto-mannaro con al guinzaglio il guitto-coniglio. Di lavoro, scuola, Alitalia, diritti conculcati, sindacati confederali da scordare e sindacati di base da sostenere. Si è convincentemente chiarito che nulla ci sarà mai da aspettarsi da un PD che ha gli stessi referenti economici e sociali (aggiungerei: internazionali) dei governanti e quindi ne è collaboratore (aggiungerei: un po’ come il rapporto tra il parairacheno Al Maliki e i suoi padrini di Washington). Si è giustamente, ma indulgentemente definita “ debole “ la piattaforma da dame di S.Vincenzo della manifestazione nazionale dell11 ottobre 2008 a Roma, visto che la necessità di un’alternativa netta e strategica al partito bipartisan del guitto-coniglio non viene neanche citata nell’angolino di sinistra in basso.
La seconda, con affluenza pari alla prima di un film con George Clooney, tocca ammetterlo, aveva, tranne le vivificanti intemperanze di un operaio napoletano, l’andamento di una sommessa novena evangelica, con tanti bravi pastori a dirci quello che non va e, come andrebbe meglio se solo quei distrattoni del PD si allontanassero un tantino dai calcagni del guitto-mannaro. Una veneranda maestra ultraottuagenaria ha detto cose buone e belle, peccato che di soppiatto le sia scappato da sotto la gonna il suo memorabile voto per lo sterminio degli afghani. Era la Menaguerra, ovvio. Un’impennata di novità, di volume e fervore s’è avuta da un’oratrice lesbica che, politically very correct, ha sistemato la lotta di genere al posto della lotta di classe e ha fatto rimpiangere tutti di non avere tante più Sarah Palin, Condoleezza Rice, Hillary Clinton, Golda Meir, Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Angela Merkel, Vladimir dell’Isola…
Elettra contro Putin
Annuiva con soddisfazione l’ex-deputata Elettra Deiana, capo-ginocrate del PRC. Solo poche ore prima aveva presentato al Comitato Nazionale del suo partito un ordine del giorno che condannava “l’aggressione russa alla Georgia” (odg respinto). Per sostenere questo, alla faccia dei 1800 osseti massacrati insieme alla loro capitale due giorni prima che i russi intervenissero a stoppare questa nuova pulizia etnica dell’Impero e dei suoi sicari, aveva avuto scambi telefonici con alcuni compagni di tendenza. Con costoro aveva concordato di pronunciare la stessa loro battuta al sangue contro gli imperialisti dello “zar Putin” impegnati nello stupro della vergine signorina Georgia, fidanzata Nato: Bush, McCain, Cheney, Brzezinski, il potenziale presidente “di svolta” Obama, l’ayatollah tritacarne con Croce di ferro e cappuccio bianco Sarah Palin e tante altre brave persone in sintonia con Elettra.
Ah, questa Elettra, sempre la stessa. Era il 2003, vigilia dell’attacco all’Iraq ed Elettra aveva fatto un giretto di 48 ore al centro di Baghdad con una commissione parlamentare. Risolse di comunicare alle plebi, in un cinema di S.Lorenzo, le rivelazioni che aveva tratto da questa approfondita indagine. Maltrattò i suoi 30 minuti sparando una serie di grotteschi, ma dannanti stereotipi su popolo, paese, “regime”. Con trent’anni di Iraq alle spalle, ebbi l’ardire di chiedere la parola per scrostare un po’ di quelle deiezioni dalle sinapsi dei presenti e, a futura memoria, dalle pareti del cinema. Parola che fu accetta a tutti. Salvo che a Elettra che si alzò, si sotterrò in un cappottone fino agli aculei in testa e si allontanò con tutta la sua ginocorte, non senza aver prima lanciato addosso al malcapitato sottoscritto una raffica di onde acustiche che intimavano: “Grimaldi, vaffanculo!” A ognuno i suoi concetti, a ognuno il suo stile. Si compenetrano.
Ma la geopolitica, l’imperialismo?
Ciò che avevano in comune le due assemblee, la prima, mi auguro, per mancanza di tempo (è durata la metà di quell’altra), era un vuoto. Il vuoto del corpo intorno all’ombelico, il vuoto dietro alle raffigurazioni a colore del pittore. In quel vuoto, a mio modesto avviso, avrebbe dovuto esserci una cosa grande proprio come il corpo bucato dall’ombelico, come la tela che raccoglie i colori: la geopolitica e, dentro questa, l’imperialismo con le sue guerre.
C’è un detto francese tout se tien. Se nelle classi tolgono i maestri e ci infilano alunni (salvo quelli di altri colori) manco fossero i detenuti in sovrannumero delle nostre carceri e se riducono le università a mignotte in stracci di Benetton, non è forse perché alla cupola mondiale della criminalità politica organizzata conviene avere sudditi decerebrati e dunque passivizzati nel momento in cui gli si tolgono anche i denti, non solo per mordere, perfino per masticare? Se il fascismo trasuda dalle pareti della nostra casa nazionale come se fosse immersa in una vasca, non è perché il cannibalismo sociale impostato a Chicago e messo in orbita da Reagan-Thatcher a forza di schiaffi o prebende sia stato imposto alle colonie di tutto il dominio imperiale? Se precariato, delocalizzazioni e contaminazioni dell’ambiente minacciano la nostra sopravvivenza fisica, etica e intellettuale, non è perché il sistema è imposto e garantito dall’alto, dall’altissimo e lontanissimo, per opera della Citybank, della BCE, della General Motors, della Monsanto, della Lockheed e dai think tank che impostano l’intero ambaradan? Il costo della vita che fra un po’ farà del famoso ombelico il perimetro della nostra cintura non lo dobbiamo a quelli che fanno sparire il grano da pane per metterci il grano da agro combustibile, a quelli che su uno starnuto di Ahmadi Nejad costruiscono il petrolio da $150, ai borseggiatori della speculazione continentale?
E il vaiolo delle basi Usa su tutto il territorio nazionale e alcune migliaia di militari italiani al soldo dei poteri di cui sopra che vanno girando il mondo sparacchiando ammazzando gente e stuprando paesi, a chi fanno capo se non al Centcom, all’Africacom, al Sudcom, all’Asiacom dei terroristi di Stato Usa? E se i nostrani guitti da gran guignol sbroccassero, chissà, per intossicazione da Viagra o da camomilla, e decidessero di fare la scuola pubblica, gratis e con quanti maestri richiedessero la multiformità del mondo e ll pluralismo libero dei bimbi, assumessero a tempo indeterminato tutti i precari, agganciassero i salari al costo reale della vita, chiudessero anche un solo gabbiotto Usa, richiamassero i mercenari a riciclare la monnezza, spegnessero gli inceneritori, mettessero alle discariche boyscout al posto dei fucilieri, facessero le ronde con i senegalesi, tassassero a sangue rendite, case da 300mila euro in su e successioni, punissero con la chiusura ogni giornale che dicesse le stesse cose di un altro o del governo, mandassero in galera manager e ministri che hanno fatto scendere il valore dell’Alitalia sotto i tacchi dell’ultimo barbone per regalarla ai sodali (come il trio Soros-Draghi-Amato aveva fatto con l’IRI negli anni ’90), coltivassero azalee e carciofi in Val di Susa e raddoppiassero i treni dei pendolari… Finisco perchè il periodo diventa peggio di un piatto di peperoni a sera. Succederebbe che faremmo la fine dell’Iraq. O che la Cia, in carenza di effettivi con l’artiglieria, ci richiamerebbe all’ordine con un fuoco d’artificio Al Qaida da Piazza Venezia a Piazza San Marco da far impallidire il fantasma Osama e i predecessori di Stato che allestirono la stagione da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna.
Emergenze non di regime, nostre
A me pare che non ci sia in molti la piena consapevolezza delle emergenze che ci inchiodano alle pareti come fossimo in quei cilindri rotanti dei lunapark. Emergenza libertà: tutti sospetti, tutti osservati, tutti schedati, i deboli tutti a Bolzaneto, chi mette il naso in piazza se lo vede spiaccicare dal tonfa, elezioni anticostituzionali che codificano il principio dell’eterogenesi dei fini, chi non si adegua peste lo colga (e la peste gira). Emergenza pane che serve a togliersi dai piedi gente di troppo per un pianeta da quattro paperoni, a obnubilarci al punto di farci la guerra tra noi. Sta arrivando uno tsunami mondiale, in particolare su repubbliche delle banane come la nostra, al confronto del quale il default argentino del 2001 (50% della popolazione alla fame) parrà la bancarotta di un bottegaio. Per evitare contraccolpi alle loro puttanate e ruberie, si attrezzano tipo Gestapo e IDF (Israeli Defence Force). Emergenza sovranità. Questa è l’emergenza di cui nessuno pare voglia parlare. Ci hanno messo del loro anche tutte quelle cornacchie che hanno inneggiato – facendo scompisciare i capi degli Stati Nazione grossi – alla fine dello Stato Nazione (e intanto hanno lubrificato la strada ai distruttori degli Stati Nazione piccoli e perfino a quelli plurinazionali) e al campanile municipale, più vicino al “basso” (per il solluchero di Bossi). Ma i partigiani col fazzoletto rosso e la bandiera tricolore si rivoltano nella tomba: uno Stato Nazione, che per loro avrebbe dovuto essere uno Stato Nazione Sociale, regalato gratis alla destra. Sovranità nazionale a sinistra è diventata una parolaccia e un esercizio retrò, e anche sospetto, la sua difesa contro prevaricatori esterni (che sono poi quelli che tengono in piedi ideologia e palazzo dello Stato borghese, capitalista, ladro, assassino, cattolico, magari di polizia e, come occorre allo Stato imperialista, ben frantumato in federalismo o peggio).
Ma come, siamo una colonia né più né meno che la Cisgiordania e, come Abu Mazen, il governo e i suoi sgherri lavorano per il re di Prussia. Siamo costellati dai bubboni mortiferi delle basi Usa che spurgano veleni sul territorio e stragisti sul mondo; dal 1945 non un battito di palpebra è stato fatto dalla nostra classe dirigente senza l’input, l’ordine, l’occhiolino, del padrone a stelle e strisce e del suo braccio armato mafioso.Tranne la miracolosa eruzione del ’68 e dopo, non c’è stato giorno della nostra vita che non abbia visto sorgere e tramontare il sole su comando dei padroni d’oltreoceano. Il dato è incontrovertibile: non si muove foglia che lo Stato imperialista, Leviatano più che mai, non voglia. E allora prima di buttar via lo Stato Nazione – che, tra l’altro, dimostra in America Latina e altrove di essere ancora un bel baluardo - prima di estinguerlo nel comunismo futuro, prima di rinunciare acchè sia lo Stato del proletariato allargato, tocca difenderlo. L’internazionalismo proletario è stato una bella cosa in Spagna, a Cuba, in Vietnam, in Palestina. Oggi è appena un buon sentimento e se non fa riferimento al tuo di Stato, prima trincea contro l’imperialismo, scade in demagogia da corteo. Sovranità è la parola di tutti coloro che sono impegnati nella liberazione dei popoli latinoamericani. Sovranità significa tagliare i fili che fanno ballare i burattini locali dal burattinaio esterno. Senza il motore dell’antimperialismo e della sovranità recuperata, camminano poco le lotte locali, s’è visto. Piccolo non è affatto bello. E’ una truffa, un disarmo unilaterale. Come la nonviolenza. Difatti vanno di pari passo. Sulla scacchiera dell’imperialismo le pedine di ogni colore si muovono secondo le regole e gli spazi della scacchiera. Quando ti tolgono la sovranità sei scacco matto. E’ la scacchiera che tocca rovesciare. Non facciamo i provinciali. E non diciamo, caro Paolo Ferrero, che a Vicenza stanno “raddoppiando” la base americana. Lasciamolo dire a Veltrusconi, La Russa e al commissario governativo Paolo Costa, quello del Mose caro a Rossanda. Ne stanno facendo un’altra, più grossa, più assassina e ce ne fanno complici tutti quanti. Noi dovremmo riflettere sul motto “Patria o muerte” che ha mosso e muove mezzo miliardo di latinoamericani e tanti altri. E anche i nostri partigiani.
Dipingere sull’aria farebbe sfigurare qualsiasi avanguardia concettuale, di quelle che lanciano secchiate colorate sulla tela, di quegli altri che esibiscono una pecora in agonia da fame. Però basterebbe un refolo, o una pioggiarellina estiva a far svaporare l’opera. Per lasciare traccia della propria creatività e trasmetterla all’osservatore, conviene dipingere su un fondo. E’ il fondo, la tela, la tavola, la porcellana, a tenere insieme gli elementi apposti, a evidenziarli, a trattenerli, a collegarli, a dargli un senso compiuto.Trattasi di metafore.
Assemblee
Mi è occorso di partecipare domenica a un paio di assemblee della sinistra che si divincola per risorgere e di quella che, più o meno, continua ad agitare le pinne sul bagnasciuga. Chi c’era sa di che parlo. Gli altri indovinino. Quanto alla prima, si sono sentire parole chiare su dove siamo e chi siamo e chi non siamo, appropriatamente si è parlato di quei delinquenti fascisti di P2 ormai al potere (aggiungerei: insieme ai nipotini di Toto Riina e Provenzano, sotto perenne tutela Usa), di tutta lo sconcio cialtroname che marcia sui nostri corpi e sul nostro territorio al comando del guitto-mannaro con al guinzaglio il guitto-coniglio. Di lavoro, scuola, Alitalia, diritti conculcati, sindacati confederali da scordare e sindacati di base da sostenere. Si è convincentemente chiarito che nulla ci sarà mai da aspettarsi da un PD che ha gli stessi referenti economici e sociali (aggiungerei: internazionali) dei governanti e quindi ne è collaboratore (aggiungerei: un po’ come il rapporto tra il parairacheno Al Maliki e i suoi padrini di Washington). Si è giustamente, ma indulgentemente definita “ debole “ la piattaforma da dame di S.Vincenzo della manifestazione nazionale dell11 ottobre 2008 a Roma, visto che la necessità di un’alternativa netta e strategica al partito bipartisan del guitto-coniglio non viene neanche citata nell’angolino di sinistra in basso.
La seconda, con affluenza pari alla prima di un film con George Clooney, tocca ammetterlo, aveva, tranne le vivificanti intemperanze di un operaio napoletano, l’andamento di una sommessa novena evangelica, con tanti bravi pastori a dirci quello che non va e, come andrebbe meglio se solo quei distrattoni del PD si allontanassero un tantino dai calcagni del guitto-mannaro. Una veneranda maestra ultraottuagenaria ha detto cose buone e belle, peccato che di soppiatto le sia scappato da sotto la gonna il suo memorabile voto per lo sterminio degli afghani. Era la Menaguerra, ovvio. Un’impennata di novità, di volume e fervore s’è avuta da un’oratrice lesbica che, politically very correct, ha sistemato la lotta di genere al posto della lotta di classe e ha fatto rimpiangere tutti di non avere tante più Sarah Palin, Condoleezza Rice, Hillary Clinton, Golda Meir, Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Angela Merkel, Vladimir dell’Isola…
Elettra contro Putin
Annuiva con soddisfazione l’ex-deputata Elettra Deiana, capo-ginocrate del PRC. Solo poche ore prima aveva presentato al Comitato Nazionale del suo partito un ordine del giorno che condannava “l’aggressione russa alla Georgia” (odg respinto). Per sostenere questo, alla faccia dei 1800 osseti massacrati insieme alla loro capitale due giorni prima che i russi intervenissero a stoppare questa nuova pulizia etnica dell’Impero e dei suoi sicari, aveva avuto scambi telefonici con alcuni compagni di tendenza. Con costoro aveva concordato di pronunciare la stessa loro battuta al sangue contro gli imperialisti dello “zar Putin” impegnati nello stupro della vergine signorina Georgia, fidanzata Nato: Bush, McCain, Cheney, Brzezinski, il potenziale presidente “di svolta” Obama, l’ayatollah tritacarne con Croce di ferro e cappuccio bianco Sarah Palin e tante altre brave persone in sintonia con Elettra.
Ah, questa Elettra, sempre la stessa. Era il 2003, vigilia dell’attacco all’Iraq ed Elettra aveva fatto un giretto di 48 ore al centro di Baghdad con una commissione parlamentare. Risolse di comunicare alle plebi, in un cinema di S.Lorenzo, le rivelazioni che aveva tratto da questa approfondita indagine. Maltrattò i suoi 30 minuti sparando una serie di grotteschi, ma dannanti stereotipi su popolo, paese, “regime”. Con trent’anni di Iraq alle spalle, ebbi l’ardire di chiedere la parola per scrostare un po’ di quelle deiezioni dalle sinapsi dei presenti e, a futura memoria, dalle pareti del cinema. Parola che fu accetta a tutti. Salvo che a Elettra che si alzò, si sotterrò in un cappottone fino agli aculei in testa e si allontanò con tutta la sua ginocorte, non senza aver prima lanciato addosso al malcapitato sottoscritto una raffica di onde acustiche che intimavano: “Grimaldi, vaffanculo!” A ognuno i suoi concetti, a ognuno il suo stile. Si compenetrano.
Ma la geopolitica, l’imperialismo?
Ciò che avevano in comune le due assemblee, la prima, mi auguro, per mancanza di tempo (è durata la metà di quell’altra), era un vuoto. Il vuoto del corpo intorno all’ombelico, il vuoto dietro alle raffigurazioni a colore del pittore. In quel vuoto, a mio modesto avviso, avrebbe dovuto esserci una cosa grande proprio come il corpo bucato dall’ombelico, come la tela che raccoglie i colori: la geopolitica e, dentro questa, l’imperialismo con le sue guerre.
C’è un detto francese tout se tien. Se nelle classi tolgono i maestri e ci infilano alunni (salvo quelli di altri colori) manco fossero i detenuti in sovrannumero delle nostre carceri e se riducono le università a mignotte in stracci di Benetton, non è forse perché alla cupola mondiale della criminalità politica organizzata conviene avere sudditi decerebrati e dunque passivizzati nel momento in cui gli si tolgono anche i denti, non solo per mordere, perfino per masticare? Se il fascismo trasuda dalle pareti della nostra casa nazionale come se fosse immersa in una vasca, non è perché il cannibalismo sociale impostato a Chicago e messo in orbita da Reagan-Thatcher a forza di schiaffi o prebende sia stato imposto alle colonie di tutto il dominio imperiale? Se precariato, delocalizzazioni e contaminazioni dell’ambiente minacciano la nostra sopravvivenza fisica, etica e intellettuale, non è perché il sistema è imposto e garantito dall’alto, dall’altissimo e lontanissimo, per opera della Citybank, della BCE, della General Motors, della Monsanto, della Lockheed e dai think tank che impostano l’intero ambaradan? Il costo della vita che fra un po’ farà del famoso ombelico il perimetro della nostra cintura non lo dobbiamo a quelli che fanno sparire il grano da pane per metterci il grano da agro combustibile, a quelli che su uno starnuto di Ahmadi Nejad costruiscono il petrolio da $150, ai borseggiatori della speculazione continentale?
E il vaiolo delle basi Usa su tutto il territorio nazionale e alcune migliaia di militari italiani al soldo dei poteri di cui sopra che vanno girando il mondo sparacchiando ammazzando gente e stuprando paesi, a chi fanno capo se non al Centcom, all’Africacom, al Sudcom, all’Asiacom dei terroristi di Stato Usa? E se i nostrani guitti da gran guignol sbroccassero, chissà, per intossicazione da Viagra o da camomilla, e decidessero di fare la scuola pubblica, gratis e con quanti maestri richiedessero la multiformità del mondo e ll pluralismo libero dei bimbi, assumessero a tempo indeterminato tutti i precari, agganciassero i salari al costo reale della vita, chiudessero anche un solo gabbiotto Usa, richiamassero i mercenari a riciclare la monnezza, spegnessero gli inceneritori, mettessero alle discariche boyscout al posto dei fucilieri, facessero le ronde con i senegalesi, tassassero a sangue rendite, case da 300mila euro in su e successioni, punissero con la chiusura ogni giornale che dicesse le stesse cose di un altro o del governo, mandassero in galera manager e ministri che hanno fatto scendere il valore dell’Alitalia sotto i tacchi dell’ultimo barbone per regalarla ai sodali (come il trio Soros-Draghi-Amato aveva fatto con l’IRI negli anni ’90), coltivassero azalee e carciofi in Val di Susa e raddoppiassero i treni dei pendolari… Finisco perchè il periodo diventa peggio di un piatto di peperoni a sera. Succederebbe che faremmo la fine dell’Iraq. O che la Cia, in carenza di effettivi con l’artiglieria, ci richiamerebbe all’ordine con un fuoco d’artificio Al Qaida da Piazza Venezia a Piazza San Marco da far impallidire il fantasma Osama e i predecessori di Stato che allestirono la stagione da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna.
Emergenze non di regime, nostre
A me pare che non ci sia in molti la piena consapevolezza delle emergenze che ci inchiodano alle pareti come fossimo in quei cilindri rotanti dei lunapark. Emergenza libertà: tutti sospetti, tutti osservati, tutti schedati, i deboli tutti a Bolzaneto, chi mette il naso in piazza se lo vede spiaccicare dal tonfa, elezioni anticostituzionali che codificano il principio dell’eterogenesi dei fini, chi non si adegua peste lo colga (e la peste gira). Emergenza pane che serve a togliersi dai piedi gente di troppo per un pianeta da quattro paperoni, a obnubilarci al punto di farci la guerra tra noi. Sta arrivando uno tsunami mondiale, in particolare su repubbliche delle banane come la nostra, al confronto del quale il default argentino del 2001 (50% della popolazione alla fame) parrà la bancarotta di un bottegaio. Per evitare contraccolpi alle loro puttanate e ruberie, si attrezzano tipo Gestapo e IDF (Israeli Defence Force). Emergenza sovranità. Questa è l’emergenza di cui nessuno pare voglia parlare. Ci hanno messo del loro anche tutte quelle cornacchie che hanno inneggiato – facendo scompisciare i capi degli Stati Nazione grossi – alla fine dello Stato Nazione (e intanto hanno lubrificato la strada ai distruttori degli Stati Nazione piccoli e perfino a quelli plurinazionali) e al campanile municipale, più vicino al “basso” (per il solluchero di Bossi). Ma i partigiani col fazzoletto rosso e la bandiera tricolore si rivoltano nella tomba: uno Stato Nazione, che per loro avrebbe dovuto essere uno Stato Nazione Sociale, regalato gratis alla destra. Sovranità nazionale a sinistra è diventata una parolaccia e un esercizio retrò, e anche sospetto, la sua difesa contro prevaricatori esterni (che sono poi quelli che tengono in piedi ideologia e palazzo dello Stato borghese, capitalista, ladro, assassino, cattolico, magari di polizia e, come occorre allo Stato imperialista, ben frantumato in federalismo o peggio).
Ma come, siamo una colonia né più né meno che la Cisgiordania e, come Abu Mazen, il governo e i suoi sgherri lavorano per il re di Prussia. Siamo costellati dai bubboni mortiferi delle basi Usa che spurgano veleni sul territorio e stragisti sul mondo; dal 1945 non un battito di palpebra è stato fatto dalla nostra classe dirigente senza l’input, l’ordine, l’occhiolino, del padrone a stelle e strisce e del suo braccio armato mafioso.Tranne la miracolosa eruzione del ’68 e dopo, non c’è stato giorno della nostra vita che non abbia visto sorgere e tramontare il sole su comando dei padroni d’oltreoceano. Il dato è incontrovertibile: non si muove foglia che lo Stato imperialista, Leviatano più che mai, non voglia. E allora prima di buttar via lo Stato Nazione – che, tra l’altro, dimostra in America Latina e altrove di essere ancora un bel baluardo - prima di estinguerlo nel comunismo futuro, prima di rinunciare acchè sia lo Stato del proletariato allargato, tocca difenderlo. L’internazionalismo proletario è stato una bella cosa in Spagna, a Cuba, in Vietnam, in Palestina. Oggi è appena un buon sentimento e se non fa riferimento al tuo di Stato, prima trincea contro l’imperialismo, scade in demagogia da corteo. Sovranità è la parola di tutti coloro che sono impegnati nella liberazione dei popoli latinoamericani. Sovranità significa tagliare i fili che fanno ballare i burattini locali dal burattinaio esterno. Senza il motore dell’antimperialismo e della sovranità recuperata, camminano poco le lotte locali, s’è visto. Piccolo non è affatto bello. E’ una truffa, un disarmo unilaterale. Come la nonviolenza. Difatti vanno di pari passo. Sulla scacchiera dell’imperialismo le pedine di ogni colore si muovono secondo le regole e gli spazi della scacchiera. Quando ti tolgono la sovranità sei scacco matto. E’ la scacchiera che tocca rovesciare. Non facciamo i provinciali. E non diciamo, caro Paolo Ferrero, che a Vicenza stanno “raddoppiando” la base americana. Lasciamolo dire a Veltrusconi, La Russa e al commissario governativo Paolo Costa, quello del Mose caro a Rossanda. Ne stanno facendo un’altra, più grossa, più assassina e ce ne fanno complici tutti quanti. Noi dovremmo riflettere sul motto “Patria o muerte” che ha mosso e muove mezzo miliardo di latinoamericani e tanti altri. E anche i nostri partigiani.
1 commento:
Grazie davvero Fulvio...
Intanto per quanto scrivi e per come lo scrivi e poi per i links di informazione alternativa....
Indispensabili direi...
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