Fogna Occidente, Preda
Africa, Luce Eritrea
https://youtu.be/TGeFkn_nPJs link
dell’incontro con la Comunità eritrea di Milano in occasione della
presentazione del docufilm “Eritrea, una
stella nella notte dell’Africa”
Mollare tutto?
Qualche volta mi è capitato di
pensare all’espatrio. Via da questo rottame di paese che, dopo i guizzi di
Rinascimento, Risorgimento, Resistenza anti-nazifascista e ‘68, brevi sussulti
di vita nella morta gora del conformismo, opportunismo, servilismo,
trasformismo, familismo, clientelismo, il tutto avvolto e protetto dal
clericalismo, che dalla caduta di Roma, anzi, da Giuliano l’Apostata in poi, ci
ha fatto attori unicamente di servo encomio e codardo oltraggio. Ma poi
inciampavo in qualche verso di Alighieri o Montale, in qualche operetta morale
di Leopardi, in un inno di Manzoni, in una lettera di Gramsci, in una pagina di
Fenoglio o Calvino, in una cronaca della
Repubblica Romana, nel monumento dei bersaglieri a Porta Pia che celebra la disintegrazione
del potere temporale della Chiesa, in una foto di Mario Lupo (uno dei tanti
martiri di Lotta Continua di cui sono stato compagno e amico), dei compagni
sardi che ogni giorno si rompono le corna di muflone contro le basi Nato, di
chi soffoca tra trivelle e si dà da fare per estirparle… e mi vergognavo di
quel pensiero di fuga. E così sono rimasto. Anche se quel pensiero torna ad
insinuarsi tutte le volte in cui collera e disgusto arrivano al diapason e si
uniscono in un groppo che fa sempre più fatica ad andar giù.
Uteri in affitto, bambini a disposizione
Come in questi giorni, dove le
nefandezze si succedono a ritmo accelerato e si uniscono in un percorso da
galleria degli orrori. Le sciagurate unioni “arcobaleno”, dove la
mercificazione e manipolazione dell’indifeso bambino si esaltano in un egoismo
parossistico e nichilista. Madri che non
lo saranno mai perché di loro è stata fatta merce generica da banco, il figlio
glie l’hanno pagato e glielo possono estirpare impunemente; figli che non
avranno mai una madre, ma solo padri chiusi nella sterile gabbia unisex, per un
modello di vita che li priva dell’incontro-scontro con l’altro genere, soffio
vitale, condizione per la pienezza della maturità e del proprio ruolo nella
missione assegnataci dal cosmo: la continuazione della specie. Cose rispetto
alle quali la deriva genetica, morale e politica della tarda Bisanzio, o il
suicidio di massa dei lemming, sono un rigoglio di vitalismo ed evoluzione.
La fogna ai ratti: tana liberi tutti
Virginia Raggi può fare tutte le
sventatezze che vuole, Grillo può sparare bislaccherie altamente inopportune,
Di Maio può collocare la Svezia in Oceania, la Lombardi può fanculare amici e
colleghi nella Giunta romana quanto vuole, ma nessuno sarà mai così abietto
come ogni componente della classe dirigente destra-sinistra italiana, europea,
atlantica. Un’ élite antropofaga la cui tanto declamata innovazione tecnologica
ha l’unico scopo di decerebrarci per scarnificarci. Dove la destra è mafia, vampirismo, lordume
etico e i miserandi detriti di una sinistra spiaggiata sulla riva della propria
inane autoreferenzialità, se non della subalterna complicità con gli
antropofagi, la rincorre. Qui una magistratura esemplificata dal “Porto delle
Nebbie” romano lancia ciambelle di salvataggio ai delinquenti togliendo le
indagini a chi li ha scoperti (il NOE dei carabinieri a cui era stato
affiancato, depotenziandolo,il Corpo Forestale), affidandoli ai produttori di nebbia (quelli comandati dai
“fedeli nei secoli” che i delinquenti li hanno messi sull’avviso), strappando
inchieste a tribunali non fidati, mandando in pensione procuratori
disobbedienti e prorogando quelli allineati. Parliamo del regime Consip-Renzi. Quello
detto “della Malavita”, di Giolitti, al confronto era un governo di monaci
trappisti.
Stesso discorso per gli Usa, dove
una classe politica, primatista storica di genocidi e devastazioni sociali e
ambientali rifiutata dal voto, utilizza gli strumenti creati a propria immagine
e somiglianza, servizi segreti, giudici, media, pseudosinistre-criptofascisti,
banditi finanziari, squadroni della morte, per neutralizzare come da abitudine
consolidata (Lincoln, Garfield, Guiteau, Kennedy) chi esce dal seminato del
campo circoscritto dalla Cupola. Dai tempi di Eisenhower presidenti, segretari
di Stato e parlamentari hanno brigato
con esponenti del Cremlino, raggiungendo con Eltsin addirittura un munifico
partenariato. E, a parte gli interessi travestiti (vested interests) personali o di consorteria, se ne avvantaggiava
la pace. Molto più di quando questi stessi personaggi brigavano e istigavano
con i ceffi del terrorismo di Stato o privato, da Al Qaida a Pinochet,
dall’Isis all’Arabia Saudita, da Gladio a Papadopulos, dai Fratelli Musulmani a
Napolitano.
La Cia traccia il solco, Obama lo difende
Oggi, svaporata la minaccia del comunismo,
rivelatosi il terrorismo islamico apprendista dello stregone Cia-Mossad, si
ricupera l’orso russo in salsa putiniana, si monta una del tutto artificiale ma
parossistica russofobia e si addebita al presidente e ai ministri non conformi
, opportunamente e criminalmente spiati dal predecessore, i più legittimi e
quindi, nella post-verità, nefandi, contatti con interlocutori russi, come
l’ambasciatore a Washington, diplomaticamente qualificato di “spia e
reclutatore di spie”. Contatti assolutamente naturali, auspicabili e proficui, come
lo è ogni dialogo che allontani conflagrazioni. Come è d’uso da tempo, ma come,
nel consolidarsi degli schieramenti e nel prospettarsi l’ora fatale della
scontro finale, s’è perso ogni tentativo di mistificazione, le sedicenti
sinistre la fanno da mosche cocchiere. “Il manifesto”, per dirne una, in
perfetta sintonia con i talmudisti del New York Times e gli sguatteri dello
Stato Profondo nel Washington Post o nella
CNN, svolge il compito con un paginone di finta recensione letteraria sui nuovi
poeti russi. Invettiva anti-Putin significativamente sovrastata dalla fotona di
due soldati russi gay che, slinguazzandosi, uniti alle ormai epiche Pussy Riot,
rappresenterebbero quella società civile, liberatasi dalla zavorra
eterosessuale, di cui si spera, prima che occorra l’atomica, che possa rovesciare
il regime che si è messo di traverso ai neocon-liberal. Segue, nell’articolo, un
concentrato di nequizie putiniane al limite del grottesco, rastrellato dalle
più luride Fake News dei media sopra
citati.
Per una Cuba che se ne va, c’è un’Eritrea che arriva
A noi, che già siamo messi
malissimo di nostro, dagli Stati Uniti, fatta salva gente come Steinbeck, Fitzgerald, Scorsese, Eastwood,
Johnny Cash, quelli del rock, Malcolm X, Muhammad Ali e loro affini, dagli
Stati Uniti-Stato non è venuto che male, con un accelerazione senza precedenti
nella fase Bush-Clinton-Bush-Obama-Cia. Una criminalità organizzata senza
precedenti, sorretta dai signori della guerra e dai sociocidi della Silicon
Valley, roba che se Trump ne volesse uguagliare il tasso delinquenziale, si dovrà
dare da fare assai. Ecco, se fino a ieri pensavo che ricollocarsi in un paese
dell’ALBA, in Latinoamerica, ci avrebbe garantito una prospettiva di vita degna
e forse addirittura di vittoria, oggi vedendo come sta scivolando via Cuba e
sono sotto tiro Venezuela e gli altri popoli in via di riscatto, tocca guardare
altrove. Tipo Eritrea. Che ha pure un buon clima.
Dell’Africa si parla poco perché
le si cerca di fare tutto il male possibile. E pensare che noi, Italia, siamo
la piattaforma di lancio per tutte le aggressioni in atto, o programmate. Dell’Eritrea
alcuni, sempre quelli che fanno da eco allo sbattere di sciabole di
Cia-Pentagono-FMI, parlano molto e male perché, dopo lo squartamento della
Libia, è forse l’ultimo angolo del Continente dove si percorre una strada con
più fiori che spine, più frumento che gramigna, e su cui non sono ancora
riusciti a passare né gli artigli delle multinazionali, nè i carri armati
dell’Impero. Non mi rimanesse che poco tempo per tentare di mettere un po’ di
sale sulla coda degli antropofagi e per divertirmi a contribuire con i
“populisti” a tirar fuori il mio paese dal servo encomio a Usa e UE, ci andrei
pure a stare in Eritrea. Salvo sentire dal bassotto Ernesto se il trasloco gli
sta bene.
Intanto, col nostro lavoro
filmato sull’Eritrea, vado frequentando quel che in Italia abbiamo di eritreo.
La diaspora antica, scampata al genocidio etiopico, perpetrato tra il 1960 e il
1991 con armi Usa e poi, in forza di ignoranza e pregiudizio, con quelle
sovietiche e cubane. E poi quella recente, di ricongiungimento famigliare,
studio, ricerca di una prospettiva che le sanzioni e lo stato di non guerra-non
pace, imposto dagli ascari etiopi dell’Impero negano in patria, per quanti
sforzi da sola riesca a fare. Vi ritrovo, a Bologna, a Milano, ovunque si
raccolga questa straordinariamente coesa comunità, venuta in Italia
aspettandosi di riscuotere, in termini di accoglienza e considerazione, un
minimo del credito accumulato in sessant’anni di colonialismo, quanto avevamo
trovato di valori perduti in Eritrea. Quei tasselli del mosaico di una civiltà
che fino a qualche decennio fa era ancora anche nostra, specie nel Sud. E che
si è spostata sempre più a Sud, ma oltre il mare.
Per la Maturità liceale passata,
mio padre mi regalò lo Zigolo Guzzi, una motociclettina due tempi, fedele come
un bassotto e che mi legò alle due ruote per la vita. Ci girai l’intera Europa
e l’Italia, senza autostrade, sparpagliata tra monti, piani e borghi, da Genova
a Capo Passero. Strana creatura, il piccolo centauro rosso che serpeggiava tra
i costumi settecenteschi delle donne di Nicastro (oggi, chissà perché, Lamezia
Terme), le gagliarde sopravvivenze greco-arcaiche dei discendenti di Pitagora,
le colonne di Selinunte frequentate dalle pecore, i pescatori ancora verghiani di
Padron ‘Ntoni. In un giro di un mese avrò dormito in qualche casolare
abbandonato non più di mezza dozzina di volte. Succedeva che, vedendomi sul
muretto col panino in bocca, accanto allo Zigolo, la signora affacciata al primo
piano mi chiamasse su a mangiare la pastasciutta insieme ai bambini. E, alla
sera, a occupare un letto. Forse è così ancora oggi, a presentarsi diciottenne,
con i segni dell’amore per Sicilia e siciliani sulle labbra e su uno Zigolo.
Il nostro Sud si è spostato in Eritrea
E’ la disponibilità e l’interesse
per quel che li circonda e li incontra, greci, arabi, normanni, da cui nasce la
loro gioia di vivere, a dispetto di tutto. E’ così in gran parte del Sud del
mondo. Tra gli arabi, che all’Occidente risultano ostici anche per questo, e in
Africa, almeno nei paesi da noi non contaminati come l’Eritrea che, anche per
questo, subisce calunnie, sanzioni e aggressioni. Parlando di quelli che
conosco meglio. Basterebbe, per capirlo, un Elias Amarè, grande intellettuale,
prestigioso rappresentante del suo paese, che molla tutto, il lavoro, gli
amici, i riposi e gli impegni, perfino la moglie negli Usa, per sbattersi con
noi, assediato dalle nostre esigenze e impazienze, per tutta l’Eritrea, quella
di fuori e quella di dentro, per farci entrare nel suo corpo e nella sua anima.
Senza perdere un attimo il sorriso, l’affettuoso scambio di sfottò, l’intesa
sempre più profonda. Suscita odio vedere che altri sanno ancora volersi bene,
si godono la vita in comunità e, come diceva Vittorio Arrigoni, restano umani !
Dopo Bologna, Milano. La comunità
più numerosa. Passo per Piazza del Duomo e trovo palme, quasi fosse un anticipo
di Africa. Non mi pare che stiano male. Sullo sfondo sta un palazzo che
assomiglia a quelli più belli di Asmara. Più ci accostiamo all’Africa e meno a Bruxelles o
New York, è meglio ci va, ci andrebbe. L’unica macchia, indelebile però, è che
quell’oasi verde è marchiata Starbucks, la multinazionale del
caffè-pozzanghera, la McDonald’s del caffè, venuta a umiliare la nobilissima
storia dei nostri, dei veri, caffè. Quelli che ad Asmara sono vivi e vegeti e
si chiamano Bar Tre Stelle o Bar Impero. E niente Starbucks o McDonald’s. E i
centri commerciali non sono orridi silenziatori e appiattitori sociali, ma
mercati dei mille colori e mille dialoghi nell’ombra dei portici o sotto il
sole.
Bologna, ascoltando l’inno eritreo
Sono arrivati a centinaia, una
delle comunità immigrate più folte che abbiamo, a incontrare Sandra e me per
vedere il nostro film “Eritrea, una
stella nella notte dell’Africa”. Tra le tante, è anche la comunità più
legata al suo paese, a cui resta fedele, di cui sa la verità, a cui offre
sostegno. Comunità che è riuscita nel miracolo dell’intelligenza e della
cultura di stare tra noi, in armonia, condividendo spazi e modi, senza la tanto
celebrata, ma tanto colonialistica, “assimilazione”, mantenendosi coesa, fedele
a se stessa e alla patria. Diversa da quella cinese, chiusa, separata, ombrosa,
con un sottobosco invisibile di schiavi, straripante di misterioso contante che
tutto compra e tutto omologa nell’indistinto, che sradica storia, virtù
antiche, identità, in un nulla che non è né cinese, né italiano.
Oggi degli eritrei immigrati ci
sono la seconda e terza generazione, spesso nate qua. Ci vorrebbe una maggiore
frequentazione tra i figli e nipoti che hanno subito l’oppressione coloniale,
ma anche lo stimolo alla modernità, e i figli e nipoti che l’hanno imposte.
Oggi il loro destino è diventato comune e i secondi hanno tutto da guadagnare a
conoscere la verità dei primi. Come ha capito la Casa Rossa di Milano, un’isola
di dinamismo politico e corretta informazione, che ha visto un centinaio di
italiani vedere e ascoltare l’Eritrea in fotogrammi e parole. Segno confortante
che, dopotutto, l’Eritrea non è così lontana dagli occhi, e quindi dal cuore,
come, con le note di Sergio Endrigo, denunciamo nell’ultima canzone del film.
Abbiamo suggerito un ponte che
superi le distanze, tutte mentali e politiche. Architetti e urbanisti italiani, eredi dei grandi che negli anni ’20 e
‘30 hanno costruito le magnifiche città
eritree in stile liberty, eclettico e poi razionalista, si adoperino e adoperino
le istituzioni per assistere il governo eritreo a salvaguardare questo
patrimonio senza uguali, che l’Unicef vorrebbe a luglio proclamare “patrimonio dell’umanità”.
E’ il minimo che possiamo fare per un paese al quale ci lega un cordone
ombelicale che ci fa reciprocamente genitore e figlio. Lo abbiamo fatto
seccare, quel cordone. A rinsanguarlo, a rifarci passare il flusso delle nostre
vite, ci guadagniamo soprattutto noi.
Africa, la preda
Addestratori Usa di truppe africane
Non c’è paese, dei 53 africani, salvo
l’Eritrea, dove gli Usa non abbiano una presenza militare di qualche forma, o
di intelligence, nemmeno quelle mascherate da Ong umanitarie, tipo USAID e
succursali spionistiche e destabilizzanti varie. Degli Stati Uniti, con grande
accelerazione sotto la coppia sinergica delle guerre, Obama-Clinton, si impone
essenzialmente il pugno militare. Con un nuovo comando per il continente,
AFRICOM, voluto dal presidente caro ai colonialisti di sinistra e destra e,
visto il perdurante rifiuto dei governi africani, determinato a suo tempo da
Muhammar Gheddafi, è installato da noi, a Napoli, una specie di Hub per il Sud,
reso possibile dall’obbedienza della complice marca imperiale. Il ruolo di
supporto alla militarizzazione Usa dell’Africa si avvale anche della base
Ederle di Vicenza, dove sono installate le truppe di intervento rapido dell’US
Army Africa. Tutte cose che, come le 90
atomiche a Ghedi e Aviano pronte all’uso, violano la nostra costituzione.
Penetrata in Africa facendosi
strada, tra le macerie della Libia, tra due pilastri della sovranità e
indipendenza non ancora minati, Algeria e l’Egitto riscattatosi dalla quinta
colonna coloniale dei Fratelli Musulmani, la Nato, che ama millantarsi
“comunità internazionale”, ha affidato al revanscismo francese il recupero del
Sahel e dell’Africa sub sahariana: Mali, Niger, Ciad, RCA. Allo scopo ha infiltrato nella regione tra
Africa mediterranea e Golfo di Guinea i mercenari collaudati in Medioriente,
l’Isis, che, oscurando la resistenza nazionale genuina di popolazioni come i
Tuareg, forniscono il pretesto per la riconquista.
Per appropriarsi del petrolio
sudanese le grandi potenze, con il supporto di Israele e del Vaticano
attraverso i padri comboniani (Zanotelli), hanno istigato, armato e finanziato
al Sud movimenti secessionisti su base etnico-confessionale, riuscendo a
mutilare il paese e provandoci ora con la regione del Darfur. Intanto il Sud è
dalla sua nascita, 2011, uno Stato fallito in preda alla malnutrizione e a
feroci conflitti intertribali con opposti sponsor miranti alle fonti
energetiche. Carestie imperversano nello Yemen sotto attacco Usa-saudita, nella
Nigeria devastata dalla quinta colonna jihadista Boko Haram, in Somalia dove si
succedono regimi fantocci sostenuti, contro la resistenza degli Shabaab, dai
raid Usa e da una spedizione dell’Unione Africana, Afrisom, che si rende
colpevole di innumerevoli atrocità e prevaricazioni, e in Etiopia dove un
regime dispotico consente la cessione di terre a India, Arabia Saudita, Cina,
le Grandi Opere idroelettriche delle multinazionali, anche italiane, e la
conseguente deportazione e decimazione di intere popolazioni. La tragedia del
Congo, insanguinato, disarticolato dagli interessi collidenti delle
multinazionali occidentali e dei rispettivi signori della guerra locali, dura
fin dall’assassinio del suo liberatore Patrice Lumumba, nel 1961. Gli
antropofagi coloniali non si accontentano dei 20 milioni di congolesi trucidati
da Leopoldo del Belgio, un olocausto ad oggi insuperato, checché se ne dica.
Patrice
Lumumba
Discorsi non dissimili si possono
fare per Kenya, Uganda, gli Stati del cono Sud, come Tanzania e Mozambico, la
cui decolonizzazione è stata ottenuta da forze rivoluzionarie che molto
promettevano e poco hanno mantenuto. Promesse mancate anche quelle del Sud
Africa, dove Nelson Mandela non ha saputo accompagnare la fine dell’apartheid
con quella dello sfruttamento di classe e con una rivoluzione sociale che
riscattasse davvero la popolazione nera. In questi e in tutti gli altri paesi
dell’Africa la pressione militare Usa e Nato e i ricatti della potenza
economica occidentale hanno installato classi dirigenti omologhe e subalterne
ai modelli neoliberisti, formalmente democratiche grazie a un multipartitismo
fasullo che esclude le masse popolari e si regge su clientelismo, corruzione e
supporto militare americano. Un supporto militare del quale costantemente il
Pentagono chiede il rafforzamento, anche per contrastare con la forza il
contributo allo sviluppo che a molti paesi africani viene dagli investimenti e
dalle infrastrutture fornite da Cina e Russia.
Eritrea, un’eccellenza
In questo quadro diventa evidente
la condizione di isolamento continentale e, contemporaneamente, di eccellenza
anticoloniale dell’Eritrea, libera dai condizionamenti e ricatti di organismi
imperialisti come le forze armate e l’intelligence Usa e Nato, il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e i vari trattati-capestro di
libero scambio con cui l’Occidente perpetua le sue predazioni. In questo
contesto è quasi miracoloso aver mantenuto la sovranità, l’indipendenza, la
coesione sociale in presenza di molteplici etnie e confessioni e, miracolo
vero, aver raggiunto l’autosufficienza alimentare ed essersi posti al riparo,
con geniali opere idrauliche e un fenomenale sviluppo agricolo, dalle carestie
che devastano periodicamente il continente.
Milano
Eritrei e italiani un cammino comune
Con i suoi storici e un tempo
profondi legami con l’Eritrea, l’Italia avrebbe ogni titolo e ogni opportunità
per rapporti di intensa collaborazione con un paese dalla tante risorse.
Collaborazione accessibilissima, ma che è ostacolata sul piano politico,
culturale, psicologico, dalla virulenta campagna di calunnie e falsità che le
potenze neocoloniali conducono contro una nazione, appetibile anche perchè
collocata nella posizione strategicamente più cruciale tra Oriente e Occidente,
Sud e Nord, che non si piega ai loro diktat. Campagna supinamente ripresa anche
da ambienti politici e istituzionali di un’Italia che avrebbe ben altro obbligo
di affrontare il suo debito verso l’ex-colonia. E ancora una volta le sedicenti
sinistre a far da mosche cocchiere al colonialismo. I giovani eritrei d’Italia e d’Europa, quelli
venuti in anni recenti o nati qui, possono dare un grande contributo a lacerare
il tessuto di menzogne con cui si tenta
di strangolare il loro paese. Per questo la difesa della tradizionale coesione
interna della comunità, delle sue usanze e tradizioni, non basta più. Occorre
uscire allo scoperto, incontrarsi con il paese ospitante, frequentarne i
giovani, i movimenti politici, culturali, sociali, che nell’Eritrea possono vedere
un modello, un fratello e una luce. Una stella nella notte dell’Africa. E di
tutto l’Occidente.
Milano
Bologna
4 commenti:
Caro Fulvio,
grazie per questo lavoro ricchissimo di spunti di riflessione e di ricordi autobiografici. Ricordi che ci calano in un passato troppo remoto per un popolo italiano con la memoria sempre troppo corta. Un passato dove la maggioranza delle persone lavorava o in fabbrica, o in campagna, e dove i concetti marxiani di alienazione, straniamento, reificazione, li viveva sulla propria pelle, li sentiva magari da qualcuno a un dibattito o in sezione, o tramite letture autodidatte, e li faceva propri. E se qualcuno, allora, avesse detto: "Ma no, funziona così. Io ti insemino, tu mi "covi l'uovo" per nove mesi, poi me lo dai e per il disturbo ci aggiustiamo", avrebbero subito intuito la fregatura: la riduzione del corpo femminile a oggetto, a macchina sforna-figli, la reificazione della donna, la sua meccanizzazione e l'alienazione, come in fabbrica, di processi vitali dalla sua vita stessa. A chi poi replicasse "e se uno volesse farlo su base volontaria?", risponderebbero: "fai prima un figlio e poi vedi se te ne separeresti mai "su base volontaria"". Il popolo d'Israele "consacrava" il primogenito a Javhé, ma non lo metteva abramiticamente su un altare e lo sgozzava. Riprendo questo mito perché, a volte, certi sentimenti, certi rapporti "di sangue", si diceva sempre in quel passato remoto, nessuno avrebbe mai pensato di doverli tutelare per legge da capitalisti che, rotta ogni barriera tradizionalmente eretta a loro difesa (ecco il cortocircuito in cui cascano, purtroppo, anche molti compagni, e su cui il manifesto ci marcia), procedono a sfondamenti a tutto campo mercificando e reificando anche le ultime frontiere dell'esistente rimaste libere. In quel passato remoto, il "mito" anzi faceva leva su questi legami di sangue, di cui dava per scontato non solo il bagaglio simbolico, ma anche affettivo totale e totalizzante, per veicolare i propri messaggi, di natura strettamente religiosa. Oggi... "Abramo! Eccomi! Dammi tuo figlio, il tuo unico figlio, Isacco!" Si, però voglio gratis i prossimi che posso ordinare qui a tot, qui a tot, e qui a tot. Li vorrei biondi con gli occhi azzurri: lì li fanno che è un piacere, hanno appena assunto dieci dall'Est della razza migliore. Solo che mi devi dare una mano con le carte perché qui ancora non hanno ancora fatto queste leggi, sono proprio retrogradi". Infine... sempre su base volontaria! Legalizziamo la poligamia! Ti lascio con questa canzone, a questo punto di avanguardia! https://m.youtube.com/watch?v=-aFimeu-4DM
E' tratta da un classico della commedia sovietica, La prigioniera del Caucaso, e cantata da un mito, in tutti i sensi: Jurij Nikulin, attore comico e drammatico, cantante, clown da circo (il circo di Mosca era dedicato a lui, ora non so). "Se fossi sultano / avrei tre mogli / e di tre bellezze / sarei circondato. [...] ma anche le suocere sarebbero tre!"
Un caro saluto.
Paolo
Ciao Fulvio!
Il rapporto di Wikileaks di questa settimana parla, in fondo, di una cosa sconcertante ripresa da pochi. Non tanto il fatto che ci spiano, che la CIA ci spia è un dato assodato, e internet è usata ampiamente in questo senso.
La cosa che fa specie, perché pone in ESTREMO DUBBIO la questione della veridicità delle fonti, è l'attività del Gruppo UMBRAGE. Riporto e poi commento:
The CIA's hand crafted hacking techniques pose a problem for the agency. Each technique it has created forms a "fingerprint" that can be used by forensic investigators to attribute multiple different attacks to the same entity.
This is analogous to finding the same distinctive knife wound on multiple separate murder victims. The unique wounding style creates suspicion that a single murderer is responsible. As soon one murder in the set is solved then the other murders also find likely attribution.
The CIA's Remote Devices Branch's UMBRAGE group collects and maintains a substantial library of attack techniques 'stolen' from malware produced in other states including the Russian Federation.
With UMBRAGE and related projects the CIA cannot only increase its total number of attack types but also misdirect attribution by leaving behind the "fingerprints" of the groups that the attack techniques were stolen from.
UMBRAGE components cover keyloggers, password collection, webcam capture, data destruction, persistence, privilege escalation, stealth, anti-virus (PSP) avoidance and survey techniques.
(https://wikileaks.org/ciav7p1/cms/page_22642800.html)
In sostanza, Fulvio, ci ho messo un po' a capirlo ma: questo gruppo COPIA E IMITA LE "IMPRONTE" LASCIATE NORMALMENTE DA ALTRI HACKER (guarda caso russi!) per attività diversive dietro cui lasciare proprio quelle impronte clonate e copiate. Di chi è il marchio di fabbrica di questa intrusione? dei russi. Quindi, son stati i russi.
Ogni altro commento è superfluo...
un caro saluto.
Paolo
Ciao Fulvio .
A proposito dell'intervento di Paolo,sempre preziosissimo per le informazioni su Siria,Russia ed Ucraina,una sola osservazione.
Fa riferimento a categorie marxiane e capitalisti ,che pero' non rispecchiano piu' la situazione attuale.Magari la coppia che COMPRA un figlio (inutile girarci intorno con termini possibilmente inglesi , di questo si tratta)e' composta da un impiegato e un contadino . Oppure da un operaio e un parrucchiere .Ormai quei comportamenti che un tempo erano appannaggio di un "alto" ceto,incurante e strafottente nei confronti di chi viveva al di fuori del suo mondo dorato ,si sono allargati .A chi ?A TUTTI,indistintamente.Il capitalismo ha vinto perche' per essere stronzi e' sufficiente avere fatto una vacanza in piu' dell'altro,avere un televisore piu' grande,un'auto con 50 cc di cilindrata in piu'.
Il capitalista 2.0 e' anche l'operaio della Piaggio che va a ballare al Twiga e che spende tutti i suoi soldi per la camicia bianca e per il tavolo,tanto vive coi genitori .cosi' come le impiegate che lasciano la y10 elefantino a un km dal locale e arrancano appollaiate sui tacchi delle loro scarpine di Cenerentola.
Questi sono i "capitalisti" 2.0,pronti a scannare il padre per un videogioco o a comprare un bambino ad una disgraziata se il compagno ha una paturnia e diventa isterico.
E ci credo ti viene voglia di andare in Eritrea,me la fai venire anche a me.
Luca
Caro Luca,
hai perfettamente ragione. Attenzione, soltanto, a non mettere insieme il piano ideologico di un certo modo di intendere i consumi con quello, altrettanto ideologico, di vedere un'estensione pressoché illimitata alla sfera del mercato, della compravendita. Sono due piani molto vicini ma, al contempo, ben distinti e necessariamente distanti. Parto dal primo: vengo da un quartiere dove c'erano famiglie che tenevano i figli a pane e cipolla per andare in giro col bmw. Nel mio quartiere c'erano persino "paninari" in salsa bronx che andavano in giro con una bellissima felpa con l'aquilotto e sotto "Emporio", lasciando da parte il cognome dello stilista milanese. Era un bel quartierino, non c'è che dire... Ora, se tizio e caio del mio quartiere decidono di comprare un bambino, e cacciano centomila euro per farlo, e per farlo si indebitano fino al midollo, rubando la pensione ai rispettivi vecchi, solo per apparire quello che non sono, non c'è che dire... siamo sul solco di un dejavu che ho imparato a conoscere dalla fine dei Settanta. Oltre ai beni di lusso esclusivi, il mercato capitalistico genera imitazioni di beni di lusso che arrivano finalmente al popolino che altro non aspettava. Ogni tanto, al gabinetto, mi trovo una bellissima rivista lasciata dalla consorte, che ti mette il vestito da 1000 euri da una parte e la "copia" da grande magazzino da 100 dall'altra: io poi unisco i puntini col container cinese che è appena arrivato a Voltri di quel marchio e che mi trovo a sdoganare col prezzo unitario di 40 dollari... e penso alla doppia fregatura, ma questo è un altro discorso ancora, e non occorre scomodare il barbone di Treviri per questo! :-)
Dove invece lo scomodo, e penso che mantenga intatta la sua vitalità, è nella critica a questa progressiva estensione dei meccanismi capitalistici di mercato a sfere finora "vergini". Parafrasando Jorge e la sua giagulatoria finale nel nome della rosa "E' possibile ridere di tutto, persino di Dio?", sembra quasi che ormai sia possibile comprare e vendere tutto: uomini, pezzi di uomini, funzioni di uomini, geni di uomini; tutto carne da macello, tutto ha un prezzo. Per farlo, è occorso "alienare", "estraniare" e infine "reificare", rendere "oggetto", una parte del corpo. Quando il buon Petri faceva dire al Volonté in catena di montaggio "un pezzo, un culo, un pezzo, un culo", forniva proprio l'esemplificazione di questo concetto. Il marxismo un operaio lo capiva al volo per questo, anche se aveva la quinta elementare. Oggi, il lavoro, anche il mio di passacarte, non è più "un pezzo, un culo, un pezzo, un culo": meglio, lo è, ma mascherato da un'ideologia più sottile, fatta di "lavoro di squadra", di "miglioramento continuo", di "vendere per vivere" (l'ultima in questo senso, è quando han cercato di convincermi, a un "corso", che il bebé che piange vuole vendere qualcosa!): capisci? tutto, dal pianto di un bebé a una gravidanza, da un concepimento a una morte, secondo questi padroni 2.0 mascherati da liberali-liberisti-libertari... è mercato, è mercificazione. Hanno fatto passare per battaglie di libertà l'affossamento di paletti tradizionali che, almeno in alcuni settori vitali, avevano imposto fino ad allora logiche diverse da quelle di prezzo e profitto. In questo senso Marx, specialmente quello dei Grundisse, è molto attuale.
Un caro saluto.
Paolo
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