Sinistre burlesque e media a disposizione
Con tutti i tumulti, le
sollevazioni, i casini che succedono in giro per il mondo, dal Sudan
all’Algeria, da Haiti al Kazakistan, da Hong Kong all’Albania e in decine di
altri posti, diventa sempre più difficile non prendere cantonate nelle analisi
e distinguere il piombo dall’oro. Qualche criterio è relativamente affidabile.
Quando il cattolico unanimismo destre in ghingheri e pseudo-sinistre in
putrefazione sostiene un movimento di contestazione al governo ci sono buone
ragioni per ritenerlo “rivoluzione colorata” mirante al regime change in un paese che non si allinea a ordini e strategie
imperiali e globali. Quando il paese in questione si colloca storicamente fuori
dal contesto Nato, nelle sue espressioni euro-atlantica, latinoamericana,
araba, africana, c’è di nuovo motivo per giungere alla medesima conclusione,
viste le pratiche sovversive impiegate dal consorzio anglosassone nel corso dei
secoli in casi di non ottemperanza ai suoi interessi e diktat. Infine, e
stavolta probanti, sono le caratteristiche formali, iconografiche, sociali,
sloganistiche, tecniche, organizzative, di protagonisti e di contenuti, di
sostegno esterno, come pedissequamente si ripetono di movimento in movimento, a
partire dagli esordi in Serbia con Otpor, la Ong di tutte le Ong.
Le mie rivoluzioni colorate
Personalmente mi pregio di aver
avuto qualche esperienza diretta di classica “rivoluzione colorata” gestita da
un mix di ingenui, disperati, rivoluzionari della pippa e grandissimi figli di buona donna, formati,
istruiti, equipaggiati e finanziati come si deve e elevati nell’olimpo dei
contestatori democratici dalle presstitute dei media, con più accanimento
addirittura da quelli della pseudo sinistra. Senza quelle ai colorati verrebbe
a mancare la maschera d’ossigeno. Da Belgrado a Caracas, da Tripoli a Damasco
ho visto attuare, in assoluta analogia, gli insegnamenti del padre di queste
sollevazioni dette pacifiche, Gene Sharp, esordiente a Tien An Men, e del suo
strumento prediletto: Otpor.
Due giganti dell’Africa che non chinano il capo
I due paesi sui quali si sono
avventate in queste settimane le turbe indigene, infiltrate e manipolate dagli
amici del giaguaro della rivincita coloniale, sostenute con occhiuta passione
dai jihadisti mediatici dei diritti umani e della democrazia, li ho frequentati
con simpatia e reciproco affetto: Algeria e Sudan. Nel Sudan capitai molte
volte in transito verso l’allora rivoluzionaria e oggi fedifraga Eritrea. Lo
girai in lungo e in largo, ne conobbi due capi di Stato. Visitai il Sud, Darfur
e Kordofan, le regioni sulle quali, dopo
essersi mangiati il Sud petrolifero e cattolico, gli stessi dirittoumanisti
Usa, UK, Nato, Vaticano, Israele, di ogni rivoluzione colorata contro qualche
“dittatore”, così qualificato a dispetto di elezioni regolari, concentravano i
loro appetiti. Nel Darfur, regione desertificata dal cambiamento climatico
nostro, agricoltori stanziali e allevatori nomadi di bestiame si disputavano le
residue risorse idriche. Conflitto a bassa intensità che lo divenne di alta
grazie alle ingerenze delle solite Ong umanitarie che all’estero proiettavano
uno scontro tra poveri contadini e feroci milizie governative dette Janjaweed.
Operazioni analoghe si prospettavano per Nubia e Kordofan, ma per ora solo la
secessione del Sud, ovviamente ora annegato nel sangue dalle rivalità tribali e
rispettivi sponsor petrolieri, gli è riuscita. Adesso tocca al Sudan. da
spartirsi nella sua interezza.
Dell’Algeria ricordo un meravigliosa
festival della Gioventù e degli Studenti
cui convennero migliaia di giovani da tutti i continenti, sempre
all’insegna del non allineamento e dell’antimperialismo. In tutti i due casi, i
popoli attraversati e conosciuti mi hanno lasciato un’impronta di civiltà,
umanità, generosità, passione patriottica, maturità intellettuale, coscienza
antimperialista. Se misurati con i parametri che vanno per la maggiore
nell’Occidente delle glorie capitaliste ed esportatrici di civiltà col ferro,
col fuoco e con il liberalismo multinazionale, i governi di questi due più
grandi paesi del Continente non superano la soglia del 5 su 10 per le
organizzazioni transnazionali e del 2 su 10 dei media d’avanguardia, destri,
sinistri e trotzkisti criptodestri che siano. E sicuramente anche ognuno di
noi, come del resto, la parte in buonafede dei protestatari, avrebbe qualcosa
da ridire se ci riferiamo al mondo platonico delle idee e trascuriamo le
deformazioni subite nei secoli del colonialismo e il retaggio tribale
millenario. E visto anche che, come nell’Egitto di Mubaraq, qualche buona
ragione serpeggiava tra i manifestanti, prima che si inserissero Soros, la NED,
la Cia e compagnia complottante. Resta
in ogni caso, dal punto di vista politico e geopolitico, una norma
irrinunciabile: meglio un governo anticolonialista e antimperialista, buono o
cattivo che sia, di un governo succube o fantoccio del
colonialismo-imperialismo, comunque la peggiore delle fetenzie per la sua gente.
“Il manifesto” inverte il principio e sappiamo cos’è.
Mali, Ciad, Niger, RCA e tutto il
Sahel sono sotto la ferula degli scarponi, dei terroristi lì seminati, dei militari
e delle imprese estrattive francesi. La Libia è stata sistemata da tutti noi. Solo l’Egitto, nell’area, è sfuggito
fortunosamente al cappio dei Fratelli musulmani (ma non al loro terrorismo).
Sudan e Algeria figurano ora sulla lista delle priorità africane. Hanno colpe
gravissime: non si sono mai schierati con le guerre occidentali di liberazione degli arabi , trattengono
buoni rapporti con Cina e Russia e, in una forma o nell’altra, insistono a
inalberare il vessillo dell’autodeterminazione.
Sudan, peccato
mortale: non aver condiviso l’assalto a Iraq, Libia, Siria
Dopo una secolare, feroce e
predatoria occupazione dei britannici, il
Sudan guadagna l’indipendenza formale nel 1956. Seguono alcuni regimi militari
proconsolari sotto egida di Londra e poi, nel vento dal panarabismo
antimperialista e di tendenza socialista, il nasseriano generale Jafar Nimeiry
prende il potere e lo tiene fino al 1986 quando, nel contesto di una forte
crisi economica, arriva l’ennesimo protetto di Londra, l’islamista conservatore
e filoccidentale Sadiq al Mahdi. Tutto bene per l’Occidente finchè, nel 1989,
ancora con un sollevamento e successivo colpo di Stato, prende il potere un
altro generale, stavolta islamista, Omar al Bashir, che riporta il paese sulla
traiettoria anticolonialista e perciò viene bombardato e sanzionato da Obama.
La vendetta si consuma nel 2011, quando una guerra civile dalle centinaia di
migliaia di morti, corona le cospirazioni di missionari cattolici, Israele e
Usa e porta alla secessione del Sud, nuovo Stato fantoccio dell’Occidente.
Inevitabile l’esito di una guerra tribale per il controllo dei giacimenti che
dura da allora e ha fatto del Sud Sudan uno Stato fallito, se non per il
contrabbando degli idrocarburi. All’occidente va bene così.
Con particolare fervore si dedicano
al movimento di protesta, spuntato in Sudan nell’aprile scorso, che, ottenuta
la rimozione del vecchio al Bashir, ora contesta il processo di transizione
voluto dai militari per mantenere in piedi le istituzioni e arrivare in tempi ragionevoli a un governo di
riconciliazione. Il movimento non ci sta e vuole imporre subito un governo di civili
a prescindere da elezioni. Soffiano sul fuoco da noi due giornali che si
definiscono altri, il “manifesto” e il “Fatto Quotidiano” , l’uno nel segno di
una politica estera che resta ancorata a quella dell’adorata Hillary Clinton, l’altro
intrecciato a ogni prevaricazione imperialista. Ovviamente, nel deprecare il “malgoverno”
e la crisi economica del paese, nessuno accenna al sabotaggio delle solite,
micidiali sanzioni occidentali. La chiave d’interpretazione è applicata al Venezuela.
Algeria, peccato mortale: la vittoria sul colonialismo
Dell’Algeria sappiamo qualcosa di più.
Più vicina geograficamente, ma anche socialmente (tanti immigrati) e
politicamente, in virtù dell’esemplare, lunghissima lotta di popolo per cacciare i dominatori francesi, dal 1954
al 1962, e liberarsi di uno dei più sanguinari dominii coloniali di tutti i tempi.
Lotta che ha innescato molte altre rivoluzioni anticoloniali e che è stata
degnamente celebrata dal film di Pontecorvo “La Battaglia di Algeri”. Governata
dall’indipendenza del 1962 ad oggi dalla forza che ne aveva guidato la lotta,
il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), a partire dai due padri della patria,
Ben Bella e Boumedienne, l’Algeria, incomparabilmente più libera ed emancipata
di altri regimi del Sud del mondo, è rimasta fino ad oggi sotto un governo, sì,
civile, ma fortemente condizionata dai militari. Come in altri paesi usciti dal
sottosviluppo, i militari costituiscono l’unica forza unificante nazionale, in
grado, a seconda dei casi, di opporsi o di sottomettersi al revanscismo dell’antica
potenza coloniale. Nella fattispecie dell’Algeria, seppure con un sistema
istituzionale che è andato sclerotizzandosi e corrompendosi, il governo è riuscito
a sbaragliare due tentativi coloniali di regime change. Negli ’90 quello dei
Fratelli Musulmani, eterna quinta colonna del neocolonialismo e, per tutto l’arco
dell’indipendenza, la sovversione filofrancese della minoranza berbera. Cara al
“manifesto” e agli altri “liberaldemocratici” quanto i curdi amerikkkani di
Siria.
Africa del Nord: arrivano Gene Sharp e Otpor
In entrambi i paesi, entrambi con
strati di società tra i più evoluti della regione, ma ora percorsi dai fermenti
del processo di destabilizzazione teorizzato
de Gene Sharp e messo in atto ovunque dagli specialisti serbi di Otpo, sono evidentissimi
i segni rivelatori di una cospirazione colorata. Un’ organizzazione
perfettamente pianificata, con tendopoli di tende nuovissime spuntate da chissà
dove, rifornimenti di vettovaglie e mezzi di comunicazione, trasporti da tutto
il paese, una sloganistica e iconografia (immancabile il pugno di Otpor nelle
sue varie soluzioni grafiche) curiosamente uniforme e uguale di paese in paese,
un’attivazione sincronizzata e massiccia dei social media, ridiffusi in tutto l’Occidente.
Atteggiamenti vantati pacifici all’inizio, con un tasso crescente di
provocazioni nei confronti delle forze dello Stato, polizia e militari, con
tanto di cecchini che tirano sia sui manifestanti che sulle forze dell’ordine, per
poter poi denunciare repressioni che, al di là della realtà, nei media diventano
subito “il bagno di sangue del dittatore”. L’obiettivo è l’azzeramento totale
delle basi istituzionali del paese, costituzione compresa, il collasso
economico e il conseguente caos. Ovviamente imputato al “regime”. Plastica
rappresentazione ne è stata Maidan a
Kiev.
Sia in Sudan che in Algeria i
manifestanti utilizzano le stesse modalità di mobilitazione e comunicazione. In
Sudan, tolto di scena dai militari Omar el Bashir, per trent’anni al potere, a
dispetto dei bombardamenti di Obama e delle trame che hanno portato via al
paese la parte afro-cattolica zeppa di petrolio e altre risorse, l’organismo
dei manifestanti, “Forze per la libertà e il Cambiamento” (FCC), ha occupato
per due mesi il piazzale antistante la sede dell’esercito, ora del Consiglio
Militare di Transizione (MTC). Incoraggiato dall’espulsione del Sudan dall’Unione
Africana, ente dopo la caduta di Gheddafi a disposizione di ogni diktat
interventista occidentale, il FCC ha interrotto ogni dialogo finalizzato a
concordare un periodo di transizione di alcuni mesi per arrivare a un potere
diviso tra civili (tra i quali sono presenti i redivivi Fratelli Musulmani) e
militari, esigendo un impossibile passaggio immediato a un governo interamente
di civili. Un governo dettato dalla sedizione.
Nello stallo è intervenuta a fianco
dei rivoltosi un’organizzazione armata clandestina, Il “Movimento di
Liberazione del Popolo Sudanese-Nord” (SPLM-N), spezzone di quel SPLM comandato
da un generale sudanese passato agli ordini della Cia, John Garang, che
condusse la guerriglia culminata con la secessione del Sudan del Sud. Inevitabile,
forse, la risposta dell’MTC, con lo
sgombero violento del piazzale, definito covo di criminali, spacciatori e prostitute
(cosa accertata anche a Tien An Men). I media occidentali , che denunciano il
triplo delle vittime rispetto al dato delle autorità, e il papa si aspettavano
forse l’intervento dell’Esercito della Salvezza. Del resto, pur registrata la
vittoria nel Sud, il Vaticano ha di che lamentarsi del Sudan. Fino alle
nazionalizzazioni di Nimeiry, i missionari comboniani (quelli di Zanotelli)
avevano controllo e gestione del sistema sanitario e dell’apparato scolastico
del paese. Con Nimeiry si è passati ai laici e, con Bashir, agli islamici.
Dopo il Sud, altri cinque regioni da spartirsi tra i revenants
Quello a cui dovrebbe portare la
rivolta sudanese è un vecchio progetto formulato dagli anglosassoni e da
Israele fin dai giorni dell’indipendenza. Dopo la separazione del Sud, quelle
del Darfur, del Kordofan, della Nubia e del Nilo Blu, la divisione del grande
paese multietnico e multi confessionale in cinque frammenti. Irrinunciabili
sono, per i globalisti del neocolonialismo, i tesori del Sudan che controlla il
tratto più lungo del Nilo. In primis petrolio, acqua, agricoltura. O il paese
si stabilizza nelle condizioni attuali, con dalla sua Russia, Cina e gli arabi
anti-Fratelli Musulmani. O entrano in campo anche militarmente gli ispiratori
della rivolta, Usa, Nato, Qatar e Turchia. Male che vada, il caos di lunga
durata.
Seppure parecchio attenuata, la
mobilitazione di massa algerina dura da marzo. Con esattamente le stesse
caratteristiche di quella del Sudan e dei suoi precedenti. L’obiettivo
iniziale, condivisibile da chiunque, di un alt al quinto mandato del presidente
Bouteflika, sopravvissuto della generazione rivoluzionaria, ma ridotto all’incapacità
fisica e politica da anni, è stato subito recepito dai capi delle Forze Armate.
A Bouteflika è stato imposta la rinuncia e nei confronti dei manifestanti,
guidati dai partiti e sindacati d’opposizione, con in prima fila le formazioni
della Kabila (berberi), le istituzioni hanno mantenuto, a dispetto delle bufale
dei media, un atteggiamento di eccezionale moderazione. Con in mano il potere effettivo,
quello insostituibile dell’unico apparato in grado di sostenere l’unità del
paese e opporsi a manovre esterne, il capo di Stato Maggiore Gaid Salah, e il
presidente ad interim Bensalah, già presidente del Senato e quindi titolare
legittimo della carica, hanno ripetutamente proposto ai manifestanti libere
elezioni presidenziali. Prima per il 4 luglio e successivamente, vista l’inspiegabile
rifiuto di coloro che rivendicano maggiore democrazia, in altra data. Ma chi
guida la rivolta non ne vuole sapere. Tutto subito ai civili è nient’altro che
l’opzione colpo di Stato.
Tra i manifestanti, visibilmente omologhi alle altre rivoluzioni
colorate, e le Ong dei “diritti umani”, spuntate come funghi e attivissime
(tanto che si è proceduto all’arresto di alcune di dichiarata matrice estera),
appare preferita l’opzione di un sempre più intenso scontro con le istituzioni
e il dettato costituzionale, a elezioni del cui esito non hanno affatto
certezza. E già questo, oltre ai sempre ricorrenti paraphernalia e gadgetistica
di Otpor ci chiarisce le forze in campo.
Le conclusioni sono le stesse che
valgono per il Sudan e, in questa fase, anche per Hong Kong e per il
Kazakistan, dove un vecchio arnese della delinquenza finanziaria, bancarottiere
inseguito da procure di vari paesi, il noto Ablyazov, marito della presunta
martire di Alfano, Shalabayeva, prova a dirigere da Parigi una
microcrivoluzione colorata dopo che il nuovo presidente aveva vinto le elezioni
con oltre il 70%. Strati ansiosi di neoliberismo e di forte accentuazione delle
disuguaglianze sociali a proprio favore, grazie al turbo capitalismo marca Usa
e UE, sono mandate allo sbaraglio dal concorso di multinazionali bulimiche e livellatori
della globalizzazione. Dato che il pretesto dei diritti umani non è credibile
in chi né è il massimo violatore, ecco che i pretesti veri sono, oltre all’eterno
dittatore, i buoni rapporti di questi paesi con Russia e Cina. La cui Via della
Seta e Organizzazione di Cooperazione di
Shanghai hanno allargato il raggio d’azione e risultano assolutamente
detestabili ai globalisti dell’unica potenza mondiale. Quella “eccezionale”.
5 commenti:
Proprio stasera il Tg3 ha celebrato in pompa magna l'occupazione NATO del Kosovo. Tutti i protagonisti da Clinton a Clark alla Albright erano oggi presenti in piazza a Pristina a rivendicare l'intervento umanitario. Quando si è trattato di parlare dei problemi del narcostato, hanno solo accennato alle tensioni tra albanesi e serbi...
Ieri sera vedendo Italia-Bosnia sono tornato a chiedermi come sarebbero andati gli ultimi Europei e Mondiali con una nazionale Yugoslava. A partire da quel famigerato Euro 92 dove non gli fu permesso di partecipare per soli motivi politici (la Yugoslavia ridotta a Serbia e Montenegro non era nemmeno in guerra). Chissà se sarebbero riusciti a vincere qualcosa, contando i tanti talenti sfornati dalle 6 federazioni. E i tanti che hanno fatto le fortune di altre nazionali (vero Svizzera?).
Il mio primo pensiero a vedere la nazionale della Bosnia è il seguente : a distanza di venti e più anni dalla dolorosa guerra, mi sembra di rilevare una sorta di riconciliazione de facto fra le varie componenti, nonostante le persecuzioni unilaterali del TPI e la narrativa occidentale sui "crimini serbi" con tanto di retorica su Srebenica. Ed il fatto che sono riusciti a costruire una nazionale di calcio compatta di buon livello e che non mi sembra utilizzi eventi sportivi per propaganda revanscista, cosa ripetuta invece dalla "nazionale" del Kosovo rigorosamente albanese e dalla stessa Albania (da ricordarsi la provocazione della bandiera con la "Grande Albania" fatta volare proprio sopra lo stadio di Belgrado e i segni brffardi dell'Aquila fatta dagli Svizzeri figli di Albanesi in faccia ai giocatori serbi durante i passati mondiali) mi fa vedere con simpatia questa squadra molto più di quanto si possa vedere il suo passato secessionista. Può darsi la storia farà giustizia della distruzione ai danni di una nazione e dei suoi popoli.
@alex1 anni fa Euronews aveva riportato la notizia che i veterani di guerra croati e bosnacci avevano messo in comune i soldi per aiutare i loro ex nemici serbi, a cui il governo centrale aveva appena generosamente revocato i sussidi proprio all'arrivo dell'inverno.
Tornando al calcio, ricordo un'altra nazionale con una storia simile: l'Iraq. Nonostante il "Divide et Impera" alimentato dagli occupanti a stelle e strisce, Sciti, Sunniti e Curdi riuscirono a compattarsi e a vincere la Coppa d'Asia 2007 (dopo il 4° posto ad Atene 2004), facendo felice una popolazione martoriata da anni di massacri umanitari.
Altra piccola curiosità calcistica: ho notato che in tutti gli sport di squadra la nazionale di Israele è semrpe affiliata alla Confederazione Europea. Nel calcio, paradossalmente, in origine era affiliata all'AFC e riuscì pure a vincere la terza edizione della neonata Coppa d'Asia, mentre la loro squadra più titolata, il Maccabi Tel Aviv, alzò due Coppe dei Campioni d'Asia. Nel 1973 furono buttati fuori grazie alle pressioni dei paesi arabi e rimasero nel limbo, disputando le qualificazioni mondiali come membri provvisori di OFC e UEFA finchè non vennero ammessi da quest'ultima nel 1994.
7 dicembre 1941 Mossa...d: simulato attacco giapponese a flotta USA a Pearl Harbor, nelle Hawaii che divennero il 50° stato degli USA SOLO il 21 agosto 1959 ben 18 anni dopo il “fattaccio”.
Gli Stati Uniti sono stati in guerra il 93% del tempo, dalla loro creazione nel 1776, vale a dire 222 dei 239 anni della loro esistenza . Gli anni di pace sono stati solo 21 dal 1776.
Nel 1915, fu l’affondamento del “Lusitania”, da parte di un sottomarino tedesco, a dare inizio alla crisi tra Stati Uniti e Germania, che permise ai primi di entrare nel conflitto mondiale.
Pare che gli americani abbiano fatto sapere di nascosto ai tedeschi che sul “Lusitania” viaggiava un importante carico di armamenti destinato all’Inghilterra. In questo modo, sarebbero riusciti a provocare l’attacco da parte del sottomarino tedesco che affondò la nave, sulla quale viaggiava anche un centinaio di cittadini americani. La “cosa” è moolto, moolto plausibile...
Adesso ci rifanno con l'Iran. Domanda che ci fanno le navi USA in mari così distanti da casa loro? Sempre in mezzo a complottar...non lo dico solo io, lo dicono anche i Negri...Alberto. E' la solita mossa...d, cui non crede più nessuno. Tana per gli armageddonnari !
I pugni "OPTOR" sono pugni destri, maldestri...come quelli che pubblicava la defunta "liberazione" cui sempre telefonavo per farlo notare. Poteva anche essere una foto insipientemente stampata all'inverso neh...a testa di Canide [bella espressione da me copiata].
In relazione al ventesimo anniversario della occupazione (leggasi "liberazione") del Kosovo mi piace ricordare un articolo, non ricordo se del "Manifesto" o di "Liberazione" di alcuni anni fa, il quale raccontava, al ritiro delle truppe yugoslave, mai veramente sconfitte sul campo, di un contemporaneo pogrom ai danni della comunità Rom. Non ne ho sentito più parlare, solo un onesto reportage di qualche anno fa su Rai 3 (penso Report), il quale parlava di sporadiche violenze da parte di alcuni estremisti albanesi in Kosovo. Trasmissione subito accusata di "faziosità" ma efficace a mostrare lo stato di miseria e distruzione di quella regione.
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