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Fantastici: hanno messo in crisi il mondo della rapina e della
prevaricazione, dello sfruttamento e dell’ipocrisia, senza colpo ferire, senza
provocare una sola vittima. Ma è su di essi che si avventano, con il loro
armamentario di punizione, morte e devastazione, senza neanche provare a mettersi a un tavolo a
praticare la reietta e obsoleta soluzione della diplomazia, quelli che tengono lo
strascico sotto il quale lo Stato-mostro seppellisce a decine di migliaia vite
giuste.
Già perché quella degli Huthi non è una storia, una guerra di
liberazione e di indipendenza, partita ieri. Qui ci si libera dall’incombenza
sgradevole di riconoscere dignità politica e legittimazione popolare a gente
strana, oscura (pure di pelle), che è meglio far passare per ribelli,
sottintendendo che sono elementi irregolari, anche parecchio terroristici (come
sancisce inevitabilmente il Dipartimento di Stato) e come tali non
istituzionali, fuori dall’ambito di uno Stato come è giusto concepirlo.
Non è solo strutturale e volontarissima ignoranza delle salmerie
mediatiche atlantiste, oggi tutte su di giri alla prospettiva che si vada a
rompere la testa a questi trogloditi che si sono azzardati a interferire nel
Mar Rosso con la nostra libertà di commerciare, rapinare, spogliare e, a Gaza,
massacrare.
Gli Huthi, la crème de la crème dello Yemen, paese più povero del
mondo arabo, ma anche più antico, fiero, irriducibile nella difesa
dell’identità e della ricerca della libertà. Li ho conosciuti. Ci ho vissuto
per quasi due anni. Sono stato e sono loro amico. Sono in tanti che a questo
popolo non perdonano di stare seduto sul più strategico passaggio delle cose
che fanno la ricchezza dei ricchi e la povertà dei poveri: Stretto di Bab el
Mandeb e Mar Rosso, crocevia tra sud e nord, est e ovest, cordone ombelico del
capitalismo delle nostre parti.
Da quando li conosco combattono contro chi cerca di mettergli l’anfibio
in faccia: sauditi soprattutto, Emirati, ISIS e, a dirigere le operazioni,
ovviamente, l’anglosfera: prima i britannici e poi anche gli statunitensi.
Avendo noi incorporato, almeno dal 1945, lo spirito, il ruolo, i compiti della
servitù di palazzo, ci riesce difficile immaginare che gli yemeniti siano un
fatto a sè, conscio di sé, padrone di sé. Da noi la testa di chi ci dice cosa
succede sta così bassa da vedere solo coglioni. Gli riesce difficile concepire
teste tenute alte. Condizione che imbarazza e allora ecco che un popolo che
l’indipendenza se l’è conquistata a morsi deve essere ridotto a terminale
dell’Iran, ganglio secondario della testa dell’Asse del Male.
Ma facciamo un passo di lato e diciamo due cose sui presunti commissari
politici degli Huthi. In effetti c’eravamo un po’ stancati di veder fare agli
israeliani e americani quello che cazzo gli pare, terrorizzando e assassinando
di qua e di là, a volte sventolando il gagliardetto dell’ISIS, e le vittime
promettere sacrosante e terrificanti ritorsioni senza che poi nulla di
altrettanto grosso succeda. Va bene il senso di responsabilità, evitiamo le
escalation, distinguiamoci da Netaniahu, ma, uffa, c’è un limite a tutto.
Stavolta il contrappasso c’è stato. A la guerre comme à la guerre!
Quelli attaccano, sabotano, sanzionano, fanno rivoluzioni colorate e armate, ammazzano
scienziati e commettono stragi come l’altro giorno a Kerman. dove si ricordava
l’assassino Trump e il martire Soleimani, si risponde solo con promesse di una
qualche futuribile pariglia?
I 27 missili tirati da Tehran contro chi all’Iran, ai fratelli siriani
in Siria, agli amici iracheni, non cessa da decenni di prospettare la fine del
loro mondo, predando, opprimendo, uccidendo, sono fonte di soddisfazione per i
giusti da quelle parti e per coloro che nella guerra dei ricchi contro i poveri
si ritrovano dalla parte sbagliata. Hanno centrato e disintegrato a Irbil,
feudo curdo-iracheno di un fantoccio Mossad-CIA come Massud Barzani, la
centrale operativa dell’intelligence e del terrorismo Mossad. A due passi dal
consolato USA, ovviamente. Per la
maggiore soddisfazione, ovviamente, delle Forze di Mobilitazione Popolare
dell’Iraq che, dopo aver debellato i mercenari ISIS degli USA a Mosul, ora
puntano a far sloggiare i residui occupanti statunitensi.
Perché Irbil? La ricordate la più recente delle “rivoluzioni colorate”
in Iran? Dato come la pensa il popolo
iraniano che, dai tempi del dittatore imperiale Pahlevi, conosce bene amici e
nemici, fallita anch’essa. Come quella che, anni prima, con l’ottimo presidente
Ahmadinejad, amico di Ugo Chavez, avevo potuto testimoniare nei miei giri per
il paese de “La vita è bella” (vedi il docufilm “Target Iran”), Anche
allora scatenata con l’artificio della “giovane con poco velo brutalizzata
dagli sgherri degli ayatollah”
Ebbene quello che, tra veli messi bene o messi male, non ci ha detto
nessuno, è che non di colori rivoluzionari si trattava, bensì di terrorismo
puro e duro. Ed era a Irbil che si convogliavano dall’Iran, si addestravano,
pagavano e armavano, milizie curde poi spedite a Tehran a difendere il velo
delle donne sparando alle forze di sicurezza, incendiando e devastando.
Dal che si capiscono la ragione e la traiettoria di quegli 11 missili
finiti in testa al Mossad a Irbil (anche a nome di qualcuno a Gaza).
Torniamo un attimo a Sanaa, impareggiabile, fiabesca capitale dello
Yemen riconquistato e strappato ai maneggi USA-sauditi, insofferenti a che il
Mar Rosso e i traffici mondiali si svolgano sotto i mirini degli Huthi e che
quelli diretti a coltivare il tumore sionista possano addirittura esserne impediti.
Nella seconda metà del secolo scorso, fattasi per me, militante di Lotta
Continua e direttore del suo quotidiano, pesante l’aria post ’68, ho avuto
l’occasione di fare il corrispondente per una catena editoriale
arabo-britannica di Londra, “The Middle East”,. proprio da Sanaa. Lo Yemen,
spaccato in due dagli inglesi, irriducibile Stato canaglia, dopo inenarrabili
sevizie coloniali alla popolazione ricalcitrante, era diviso tra una parte Sud,
Aden, marxista, e una parte nord, nazionalista nasseriana, Sanaa. Quest’ultima
aveva per presidente un poeta e patriota, Ibrahim Al Hamdi, col quale passai in
amicizia parecchie belle serate. I sauditi, risentiti delle pretese di
autodeterminazione di Hamdi, organizzarono un colpo di Stato con tale brutalone
generale Ahmad Al Ghashmi. Costui si liberò di tutte le fisime yemenite di
sovranità e indipendenza e, pure, degli amici di Al Hamdi, me compreso,
dichiarato persona non grata.
Ora lo Yemen ha alle spalle una ventina d’anni di guerra di liberazione.
Dal 2015, USA, UK, sauditi ed emiratini, con occasionale concorso dell’ISIS,
maciullano di bombe il paese. Non è servito a piegare gli yemeniti. E allora,
sollecitati anche dai molto saggi cinesi, i sauditi hanno smesso di fare a
botte con l’Iran e, per ricaduta, in Yemen è arrivata la pace e la giustizia.
E l’onore di essere in
prima linea a difendere i palestinesi. Costi quel che costi, cocciuti e liberi
come sempre. Un fantoccio saudita-occidentale dopo l’altro, Ali Abdallah Saleh,
Abd Rabbih Mansur al-Hadi, è stato fatto saltare. Al Hadi se
ne sta rintanato nella roccaforte del Sud ad Aden e non conta una paglia. I
ribelli Ansarallah sono i partigiani dello Yemen. E ora lo governano. Il loro
Pertini si chiama Mohammed Ali Al Huthi, ha 45 anni. Non basterà il terrorismo
bombarolo occidentale, con in su la prora la Meloni con lo schioppo, a farli
sparire. Tanto più che, su 8 miliardi di umani, quanti pensate che li guardino
con simpatia?
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