Byoblu/Mondocane 3/22. In onda domenica 21,30. Repliche, salvo imprevisti, lunedì 9.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 9.00
Cosa
ci occulta la bolsa retorica che ci ha intossicato in occasione del 25 aprile e
del 1.maggio? Forse non tanto l’abbandono, la violazione, il tradimento di
tutto ciò che queste date erano state chiamate a ricordare e proiettare, quanto
il futuro a cui ci sollecitano. Ne siamo in gran parte consapevoli. Lo dimostra
il significato che vi hanno dato gli studenti del mondo nelle strade e nelle
università. I demagoghi e imbroglioni delle alte sfere, i corifei e sicofanti
della bassa forza, ce l’hanno messa tutta, con trombe e corone, inni stazzonati
e sepolcri imbiancati, a oscurare l’unica bandiera che, nella contingenza, ha
celebrato il senso universale di quelle due date. La bandiera che sta quissù,
nel titolo e che svetta in cima alla guerra mondiale che nessuno si aspettava,
quella di liberazione.
Un
nuovo ’68? Popoli come quelli che gridavano Giap-Giap-Ho Ci Minh e marciavano
per schiantarci? Sono terrorizzati. Il ricordo di un decennio nel corso del
quale una generazione in quasi tutto l’Occidente ha messo in forse la
prosecuzione delle gerarchie abusive e dello sfruttamento nelle sue infinite
forme, alimenta la ferocia di un establishment in tutte le sue espressioni:
politiche, accademiche, militari, mediatiche. Si espellono, ostracizzano,
bastonano, gassano, criminalizzano studenti e docenti che protestano
pacificamente contro il genocidio di un popolo. Hanno capito che quel genocidio
è un modello che, all’occorrenza, non avrà limiti di applicazione.
Si
sono risolti, i poteri supremi, a uscire addirittura dai loro recessi tenebrosi
e a mostrarsi alla vista. Con le minacce dei Rothschild, cofondatori e perenni
finanziatori dell’abominio fuorilegge e guerrafondaio sionista, all’Università
La Sapienza (“Perderete il grading se rinunciate alla collaborazione con
Israele”), intese a impedire che l’ateneo segua l’esempio di altri e ceda alla
richiesta studentesca di annullare gli accordi militari con Israele, si è
capito quale è la posta in gioco. Come forse soltanto s’era capito al passaggio
dalla civiltà polifonica classica ai monoteismi teocratici, o alla vigilia
della Seconda Guerra Mondiale, o, ancora, al lancio delle prime bombe atomiche
sull’umanità, sentiamo di trovarci alla soglia di qualcosa che determinerà i
destini del mondo.
Un
culto di morte pervade in misura parossistica gli intenti e i comportamenti di
una civiltà al collasso e che cerca scampo nell’alienazione tecnocratica e nel
killeraggio di massa. 35 milioni sono i morti che dal 1945 gli Stati Uniti,
frequentemente con il concorso di governi mercenari, nemici interni dei propri
popoli, hanno provocato con le proprie scorribande militari dal 1945 a oggi. E
non si calcolano le vittime, infinitamente più numerose, del sistema economico
e sociale imposto dal capitalimperialismo là dove ha potuto far prevalere i
suoi strumenti extra-militari: sfruttamento, oppressione, debito,
manipolazione, fame, miseria.
La
sollevazione del popolo più debole e isolato del mondo, generosità, eroismo,
giustizia, a fronte di un genocidio perpetuato nei decenni e ora perseguito
come soluzione finale, ha lacerato il velo di Maia tessuto dagli
evangelizzatori dell’apocalisse intorno all’inversione dei valori di vero e
falso, giusto e ingiusto, vita e morte.
La
rivoluzione palestinese, da noi per decenni placidamente ridotta a pietismo e
assistenzialismo nei confronti di vittime dal destino segnato, ha rimesso in
questione ogni cosa. E ne ha stabilito i termini. Da un lato, con il mostro
tricefalo USA-UE-SION, i governi, i media, le polizie e i teppisti sionisti di
complemento, che affiancano le operazioni genocide in atto in Palestina,
sollecitate ad estendersi per non soccombere, sull’ultima spiaggia di un’epoca
in agonia. Arma estrema e totale: la violenza illimitata. Dall’altro, noi. E,
davanti a noi, una generazione che ha dato al suo futuro e a quello degli
esseri umani i colori della Palestina.
Chiamando
polizia e forze militarizzate a intervenire, con incontrollata brutalità, contro l’accampamento nonviolento di studenti
e docenti, la presidente della Columbia University di New York, Minouche Shafik, ha dato vita a un movimento di portata nazionale e
transnazionale. La rivolta è in atto in oltre 40 campus.
La
scelta è facile ed è d’obbligo, se si crede alla vita. Intesa come vita. E
siamo fortunati che, a costoro, la Storia non ha insegnato niente.
Nello
specifico attuale, la nequizia disperata degli antiumani del profitto arriva al
punto di scaricare la colpa dell’olocausto su chi ha provato, dal 7 ottobre, a
porvi fine. Tutti, da Blinken all’ultimo tergiculo politico-mediatico, a
proclamare l’irriducibilità insensata di Hamas che non accetta la “generosa
offerta” di un occupante tanto ben disposto da intimare: in ogni caso entreremo
a Rafah. Cioè, che accettiate, o no, lo scambio tra gli ostaggi in vostra mano
con gli ostaggi nella nostra, noi continueremo a massacrare il vostro popolo.
Quello che si ostina a non morire di fame. A Gaza come in Cisgiordania. Ottimo
affare. Hanno la faccia peggio del culo.
Stanno
mettendo posti di blocco tutt’intorno a Rafah. Le donne e i bambini che ci
arriveranno saranno lasciati uscire, sempre che prima non li squarti qualche
bomba o fucilata. Coloro che restano verranno considerati tutti terroristi e
abbattuti. Per chi sopravvive c’è la salvezza: essere convogliati sul molo
galleggiante costruito da Biden su input di Netaniahu e venire dispersi ai
quattro venti del pianeta.
Come
dovrà succedere ai poveri, ai non potenti del mondo: tutti coloro che non si
chiamano Rothschild, o non ne sono la servitù. I giovani dei campus hanno
capito tutto questo. Per questo alla CNN li chiamano “Camicie brune”.
Naturalmente è sempre la solita lotta di classe.
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