Negli
ultimi 10 giorni di marzo, violato, come è suo costume storico, ogni accordo di
tregua, di cessate il fuoco, di transazione, con stermini in Libano, Siria,
Cisgiordania, 1000 assassinati nella sola Gaza, di cui 322 bambini, di cui si
sa quanto siano privilegiati dai cecchini dello Stato infanticida. 15 medici,
infermieri, operatori umanitari in manifesta attività di soccorso uccisi a
freddo, gettati in una fossa comune. 209 giornalisti uccisi, spesso assieme a
moglie, figli, tutta la famiglia.
Nel
calcolo di “Lancet” 150.000 vittime, al 99% civili, in maggioranza donne e
bambini, uccisi da missili, bombe, droni, fame, sete, epidemie, sepolti sotto
macerie. 2 milioni e passa di sopravvissuti avviati all’esodo “volontario”,
nell’agghiacciante ipocrisia dei genocidari volontari che prospettano la
vivisezione di Gaza con sua progressiva frammentazione in campi di
concentramento sotto totale controllo dell’IDF. Grandi manifestazioni in
Israele, ma mai contro questo. I kapò dei lager d’antan si ritrovano superati
in classifica.
Tutto
questo sulla base di un suprematismo autoassegnatosi e sacralizzato da un
manuale autoredatto, ma attribuito a un autocreato dio in esclusiva e corroborato
da un vittimismo, affatto simile a quello che altre comunità potrebbero
assegnarsi, ma che si pretende unico nello spazio e nel tempo. Vittimismo
vantato per sé, quando semmai era quello che aveva investito generazioni
precedenti e ormai lontane. Vittimismo, oggi oscenamente strumentale, di una
comunità religiosa fattasi imperialista e giudice dell’umano e del non umano. Quest’ultimo,
dunque, in eccesso sul pianeta Terra.
Tra
aggressioni poi subite e controffensive tentate e fallite, quella che era
stata, nel segno del riscatto nazionale panarabo, una coalizione di
protagonisti di quel processo, vedeva l’assottigliarsi dei suoi ranghi.
Rimanevano in campo, sostenuti dallo schieramento socialista, Siria, Iraq,
Egitto, parzialmente Libia e Sudan. Tutti gli altri, comprese le petromonarchie
del Golfo, l’Algeria, il Marocco, il Libano, la Giordania, si limitavano a
fornire condivisione negli interventi diplomatici, propagandistici, nelle
votazioni dell’ONU. Emerse anche un attore non statuale, o, data la sua
importante presenza parlamentare e al governo a Beirut, semi-statuale: gli
Hezbollah, stupefacenti vincitori dell’unica guerra persa da Israele.
Già
nel 1982, seconda invasione del Libano (Sabra e Shatila, il massacro allestito
dal generale Sharon, poi premier), mirata a bloccare la rivoluzione delle forze
progressiste palestino-libanesi, sostenute da armamenti e intelligence siriani,
ebbi l’occasione di esserne cronista. Israele riuscì a costringere l’OLP di
Arafat a lasciare il suo quartier generale di Beirut e a trasferirsi a Tunisi,
ma simultaneamente dovette assistere alla nascita di una nuova forza di
contrasto, ben più radicata tra le masse libanesi, gli Hezbollah. E furono i
militanti del “Partito di Dio” a costringere Israele a porre fine, nel 2000,
all’occupazione.
In
quei giorni visitai Khiyam, cittadina libanese sul confine con la Galilea
occupata ed ebbi conferma in che cosa consistesse la fama del conclamato dai
capi di Stato Maggiore israeliani “Esercito più morale del mondo”. A Khiyam
Israele aveva allestito un carcere per prigionieri. L’ho visitato assieme a un
gruppo di giornalisti europei. Celle di un metro per tre, totalmente al buio,
prive di aperture e, poi, una specie di scatoloni di 1 metro per 1, in cui erano
costretti a raggomitolarsi per giorni coloro che erano stati ritenuti meritevoli
di punizione. In piena osservazione della convenzione di Ginevra sul
trattamento dei prigionieri.
Che
poi ho potuto vedere ribadita nel corso di “Piombo Fuso”, l’invasione del 2009.
Significativo il metodo, messo in atto a Gaza, di civili catturati dall’IDF:
venivano ammanettati, legati sui cofani dei blindati, o messi in testa a
pattuglie, usati come scudi contro eventuali trappole esplosive o cecchini.
Pratiche oggi esaltate nella soluzione finale portata avanti Gaza e in
Cisgiordania.
Tornando
al Libano, in queste ore ancora una volta vittima di bombardamenti pesanti su
tutto il territorio, nel 2006 avevo assistito alla cacciata del “più potente
esercito della regione”. Nel giro di poche settimane di combattimento, dopo la
battaglia persa di Bint Jbeil, Israele fu costretto a ritirarsi oltre confine,
per quanto a costo della distruzione a forza di bombe del gioiello storico
Beirut e dello sterminio della popolazione del Sud del Libano.
Anche
allora, oltre che dai rifornimenti dalla Siria e, ora anche, dall’Iran, la
resistenza palestinese e araba godeva, se non altro, delle espressioni di
appoggio e di condanna di Israele da parte dei singoli Stati arabi e,
collettivamente, della Lega Araba. Nel 2003, a Baghdad occupata dagli USA e con
Saddam in fuga, al mio rientro in taxi verso Amman incrociai un pullmino del
ministero per gli Affari Palestinesi del governo di Saddam. Prendendo insieme
un caffè nel posto di ristoro lungo la strada, dai due conducenti, dipendenti
di quel ministero, appresi che stavano trasportando i denari del programma di
aiuti alle vittime della repressione in Israele: 10mila dollari per
un’abitazione demolita, 20.000 per un congiunto ucciso. E il loro governo non
c’era più.
Il
sostegno dei governi arabi alla resistenza armata palestinese, con mobilitazioni
popolari autorizzate, anzi sollecitate, nelle varie fasi dei dirottamenti di
aerei, attentati suicidi, operazioni dai paesi vicini, intifade, si era
mantenuto più o meno vivo, più o meno formale o sostanziale (perlomeno in
termini finanziari) a seconda dei regimi.
La
svolta si annunciò nel 1970. Nella primavera di quell’anno, con lo scopo di
trarne un’esperienza viva e diretta, ero entrato in un’unità militante del
Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP), con quartier
generale ad Amman, capitale della Giordania. Allora quell’organizzazione, come
anche il Fronte Popolare (PFLP), aveva assunto una dimensione internazionalista,
di segno marxista-leninista, che prevedeva la partecipazione di combattenti di
vari paesi. Mi ritrovai con egiziani, francesi, britannici.
Tutto
questo ebbe fine lo stesso anno, con Settembre Nero. Re Hussein, richiamato all’ordine
dai padrini britannici, espulse tutte le forze della Resistenza e decimò –
20.000 morti – parte della popolazione palestinese rifugiatasi in Giordania dai
tempi della Nakba e poi della guerra del 1967. Scampammo in tempo.
A
rappresentare in termini tanto evidenti, quanto insospettati di tale portata,
la fine di ogni sostanziale fiancheggiamento della causa palestinese da parte
degli attori statali arabi, fino al limite, e oltre, della consonanza con
quanto Israele va facendo oggi, è ora venuto l’episodio del Netaniahu-Qatargate.
Due stretti collaboratori del premier Netaniahu, Jonathan Urich ed Eli
Feldstein, funzionari del governo esecutore del genocidio palestinese,
operavano per conto della monarchia degli Al Thani del Qatar e ne venivano
retribuiti. La faccenda, con tutti suoi oscurissimi retroscena, coinvolge lo
stesso premier. I reati ipotizzati dalla magistratura, da cui Netaniahu,
colpito da pesanti imputazioni di corruzione, cerca di sottrarsi da anni,
sarebbero ancora corruzione, frode, riciclaggio e abuso d’ufficio.
Qualcuno
di questa intesa resterà sbalordito. Ma evidentemente ne implica altre anche di
più vasta portata, esplicitate, appunto, dalla progressiva e sempre più
precipitosa involuzione degli Stati arabi sopravvissuti all’eliminazione di
quelli impegnati nella militanza antisionista e antimperialista. Ma sono
rilevanti i segnali che l’hanno preceduta.
Siamo
alle condizioni nelle quali ha potuto maturare il silenzio-consenso dei
presidenti e monarchi arabi alla suprema manifestazione israeliana di
colonialismo genocida. La Russia, impegnata in Ucraina contro una strategia
imperialista che non nasconde l’intenzione di farla fuori, subìto il tracollo
della Siria, ha da tempo limitato il suo ruolo all’alleanza, questa sì
strategica, con l’Iran e a rapporti discretamente amicali con Egitto e Algeria.
La Cina si astrae sistematicamente da ogni conflittualità e promuove per altre
vie la sua visione dei rapporti tra le nazioni. Peraltro con notevole successo.
Tranne tra gli stupidi, come il nostro.
Dove si vede come tutto sia, alla resa dei conti, lotta
di classe.
Il venir meno di quel riferimento politico e, a suo tempo
anche materiale, ha di fatto infiacchito la disponibilità delle masse arabe a
mobilitarsi per la Palestina e contro le incursioni imperialiste. E, parlando
di masse, ci si deve anche rendere conto che queste c’erano ed erano coscienti
e attive, solo nella misura in cui si trattasse di cittadini di Stati dotati di
dignità, giustizia sociale e indipendenza. E di Stati in cui le persone contavano
qualcosa anche per le dimensioni della loro presenza e non erano oggetto di
ricatti alla permanenza e alla sussistenza.
Nelle monarchie del Golfo, decisive nel contesto di cui
parliamo, di masse autoctone ce ne sono poche. Di popolo yemenita, omaniano,
libanese, si può dire. Per sceiccati come il Qatar, gli Emirati, Bahrein,
Kuweit, molto meno. Politicamente parlando, nel senso di attori partecipi dello
Stato, ci si deve limitare alle famiglie reali e immediati dintorni
clientelari.
Lì le masse sono i soldi. Lo Stato è un clan aristocratico
di alcune migliaia di persone che hanno in mano il teatro con tutte le sue
strutture e sceneggiature e, ovviamente, i burattini. Tutti sudditi, più spesso
schiavi (come gli operai dei Mondiali nel Qatar, per tacere della cui strage
abbiamo avuto il Qatargate e la corruzione di una discreta cosca di eurocrati).
Gente che al minimo rintocco di voce pro palestinese, o di voce in assoluto, si
ritrova su un vascello con la prua ridiretta in Bangladesh, Sri Lanka,
Pakistan. Nella migliore delle ipotesi.
In prima linea resta l’Egitto di Al Sisi, con 100 milioni e
passa di cittadini, in parte affamati, ma che sarebbero irritati se il governo strizzasse
l’occhio a Israele. E si sa cosa combinano gli egiziani quando s’incazzano. Potrebbero
esplodere più di quanto abbiano fatto a Piazza Tahrir, o di quando cacciarono, con
una rivoluzione di massa poi risoltasi in golpe militare, il presidente
Fratello Musulmano, Mohammed Morsi, uno che chiudeva il valico di Rafah con
Gaza, bruciava le chiese cristiano-copte, proibiva gli scioperi, imponeva la
Sharìa, era caro all’Occidente e poi si vendicò allestendo una campagna di
attentati terroristici nel Sinai e contro alti gradi del nuovo Stato, molto
gradita a Tel Aviv
E all’Egitto cui dobbiamo esercito e colonne di carri armati
schierati nel Sinai a fronteggiare Israele, l’espulsione dei suoi abitanti e il
piano di ricostruzione di Gaza con dentro i palestinesi e addirittura Hamas.
Piano che la Lega Araba, in omaggio al buon look, ha approvato e che è l’unica
zeppa finora messa alle ruspe di Trump e Netaniahu, impegnati a bersi il
cocktail sulla splendida riviera di Gaza depurata.
Se poi anche domani il Cairo, con questi o altri dirigenti,
dovesse partecipare alla festa della riconciliazione con lo Stato fuorilegge
sionista, saremo pronti a rivedere la valutazione.
Fratellanza Musulmana, cacciata da Egitto e Tunisia,
regnante nei due paesi più doppio-e triplo-giochisti della regione, Turchia e
Qatar e attiva in Giordania e Marocco, intima di Londra, dove venne alla luce.
E’ tornata protagonista e sarà interessante scoprire cosa succede quando due
energumeni, compari nell’ eliminazione di un comune rivale, o nello svuotamento
di un caveau, si ritrovano a discutere della spartizione del bottino. Parliamo
di Turchia e Israele, massime potenze militari della regione.
Scontro inevitabile, seppure forse diluito nel tempo, data
l’appartenenza allo stesso schieramento geopolitico, ma con alterazioni certe
della mappa del Medioriente. Un anticipo lo abbiamo visto a inizio aprile.
Ankara, d’accordo con i suoi virgulti Al Qaida installati a Damasco, prende
possesso della massima base aerea siriana, la T4, a Tiyas, per installarvi
aeronautica e apparati di difesa antiaerea. Vi vorrebbe collocare anche
l’avanzatissimo sistema antiaereo S-400, incautamente fornitole dai Mosca. Israele,
che a dispetto di una lunga, per quanto mascherata, partnership col
neo-ottomano, non può non considerare tale presenza militare turca una minaccia.
E reagisce. La T4 viene bombardata, le piste e strutture sono danneggiate.
Si apre un nuovo capitolo. Come suole, da 1000 anni a questa
parte, a detrimento degli arabi.
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